Prospettive assistenziali, n. 62, aprile - giugno 1983
RAPPORTO
CENSIS:
La spesa per l'assistenza - negli ultimi anni - non si è gonfiata e non
può essere additata, quindi, come causa del dissesto della finanza pubblica. Lo sostiene il Censis
nel suo autorevole rapporto sulla situazione sociale del paese per il 1982 (1)
che dedica al problema un intero capitolo, con cenni di
estremo interesse anche al «nodo» irrisolto della riforma assistenziale.
La spesa sociale, sottolinea anzi il Censis, è insufficiente rispetto alle esigenze del paese e
agli standards occidentali ed in ulteriore fase di
contenimento negli anni in corso rispetto al Prodotto interno lordo (Pil). E ancora: «Se si inizia
da dati estremamente aggregati, emerge subito con estrema chiarezza un primo
elemento che smentisce un ricorrente luogo comune secondo il quale la spesa
sociale ed assistenziale si sarebbe dilatata oltre misura, diventando di fatto
incontrollabile (...). Si può senz'altro affermare che, in termini reali, in questo ultimo settore si sia verificato addirittura un calo
della spesa». Altre considerazioni
interessanti - si è detto - sono quelle relative all'esigenza
di riforma del settore assistenziale, alla necessità di una legge quadro che
affronti tra l'altro anche il nodo delle IPAB (Istituzioni pubbliche di
assistenza e beneficenza): «La trasformazione in Enti morali di buona parte
delle IPAB precedentemente destinate al trasferimento
ai Comuni - osserva il Censis - comporta che circa
6.000 istituti di ricovero, che gestiscono circa il 40 per cento dei ricoveri
in Italia, diventino istituto di diritto privato, e sfuggano alla pubblicizzazione».
Dal rapporto Censis riportiamo integralmente i
paragrafi: «Il
nodo legislativo della riforma e l'evoluzione organizzativa del settore»; «Il personale dei servizi socio-assistenziali».
Il nodo legislativo
della riforma e l'evoluzione organizzativa del settore
Il passaggio agli Enti locali
delle funzioni assistenziali precedentemente gestite
centralmente attraverso il Dpr 616 del 1977, che
anticipava alcuni elementi
della riforma del
settore, sembrava dover aprire a livello nazionale una fase decisiva di
ripensamento e di dibattito sui bisogni sociali e sulle modalità e i contenuti
delle risposte da darvi. A cinque anni dall'emanazione del decreto e senza che sia stata ancora approvata la legge quadro nazionale, il
dibattito appare arenato su rigide contrapposizioni tra le forze politiche, mentre
la riorganizzazione funzionale del settore avanza a passi troppo lenti.
Anche l'attenzione complessiva
nei confronti dei nodi sempre più urgenti dei bisogni sociali sembra in forte
calo nell'attuale congiuntura, mentre si fa strada una
sfiducia sempre più marcata nelle possibilità di ridare efficienza e credibilità
al sistema assistenziale che permane pervaso da vecchie e nuove
contraddizioni.
Tra le vecchie non va dimenticato che la spesa sociale è insufficiente
rispetto alle esigenze del paese e agli standards
occidentali ed in ulteriore fase di contenimento negli
anni in corso rispetto al Prodotto Interno Lordo. È poi ancora oggi fortemente
impegnata dalle spese di tipo previdenziale, che da sempre prevalgono
sull'erogazione dei servizi. Se a ciò si aggiunge l'aumento negli ultimi anni
della quota dei trasferimenti alle imprese, che consistono in buona parte in
contributi per la spesa corrente, risulta evidente il
carattere prevalentemente assistenziale della spesa sociale italiana, che
funziona sia secondo modelli antichi e ormai consolidati, sia con forme nuove,
come il garantismo nei confronti della forza lavoro stabilizzata.
Un secondo aspetto è quello della
rimozione. Nonostante i processi di presa di coscienza che hanno percorso il
paese negli ultimi 15 anni rispetto alle esigenze e
ai problemi delle categorie più svantaggiate sul piano dei bisogni sociali
(handicappati, orfani, anziani, ecc.), permangono nel corpo sociale livelli
elevati di rimozione rispetto agli aspetti più scomodi e sgradevoli dell'emarginazione
vecchia e nuova (si pensi alle nuove categorie dei tossicodipendenti e dei devianti).
Gli interventi sono di
conseguenza spesso carenti o rifuggono, là dove esistono, da soluzioni razionali e in grado di
sfruttare le risorse insite nella società civile, muovendosi in un'ottica che
oscilla tra la monetizzazione di bisogni anche gravi,
e compresi nella fascia delle esigenze minime di base della popolazione, e
l'istituzionalizzazione dell'utente in strutture che lo enucleano ed isolano
completamente dall'ambiente di provenienza.
Tra le contraddizioni di vecchia
data va infine considerato che il nostro sistema assistenziale
è ancora oggi caratterizzato in molte realtà da inefficienza e discrezionalità
tali da scoraggiare dal servirsene. Si arriva così all'assurdo di forme diffuse
di duplicazione di servizi di base e di creazione di un mercato parallelo cui si
rivolgono coloro che non riescono ad ottenere
dall'assistenza pubblica le prestazioni richieste, o non sono soddisfatti
degli standards offerti.
Per quanto riguarda le
contraddizioni di tipo nuovo, lo sviluppo economico e il diffondersi di una
cultura di tipo industriale hanno determinato anche in
Italia una progressiva crescita e burocratizzazione del sistema assistenziale,
che ne hanno sempre più accentuato i caratteri di separazione tra utenza e
apparato, di delega, di settorializzazione e
standardizzazione esasperate dei bisogni e delle risposte ai bisogni, di
spersonalizzazione dei rapporti e dei problemi.
Il nodo di
fondo della crisi del sistema assistenziale italiano sta proprio
nell'incapacità di un sistema rigido e poco agile di rispondere ai bisogni di
una società post-industriale, che si presentano sempre più articolati,
individualizzati, intrecciati. Di una società che reclama partecipazione e
coinvolgimento nella gestione dei propri problemi e di quelli del proprio ambiente, personalizzazione delle risposte e
possibilità di scelta tra offerte di vario tipo, livello e tendenza, flessibilità
e attenzione alle situazioni di emarginazione nel loro complesso, qualità della
vita più elevata e risposta a bisogni sempre più sofisticati.
Di fronte ad una realtà assistenziale che ha bisogno di recuperare rapidamente funzionalità,
efficienza e professionalità e di arrivare accanto alla razionalizzazione
dell'esistente all'individuazione di nuove chiavi di flessibilità e di
articolazione, il dibattito parlamentare sulla legge quadro appare
bloccato su livelli di conflittualità ideologica, centrati sulla
contrapposizione pubblico-privato, e su quelle che logicamente ne derivano:
ricovero - servizi alternativi, risposte per le categorie - approccio globalizzante, mentre a ben vedere la realtà sociale pone
problemi che attraversano trasversalmente i binomi e le contrapposizioni e
chiedono sia al «pubblico» che al «privato» la capacità di andare al di là dei
vecchi schemi e di concepire forme nuove, sia istituzionali che alternative, di
servizio ai portatori di particolari bisogni sociali.
L'approvazione nel febbraio di questo anno in
sede di Commissione Parlamentare di alcuni emendamenti al Testo Unico in discussione, che autorizzano la trasformazione in Enti Morali di buona parte delle IPAB precedentemente destinate al trasferimento ai Comuni, è l'ultimo atto dello scontro. Esso comporta che circa 6.000 istituti di ricovero, che gestiscono circa il 40% dei ricoveri in Italia, diventino istituti di diritto privato, e sfuggano alla pubblicizzazione
che, con il trasferimento ai Comuni, era
stata prefigurata e preparata a seguito del DPR 616.
Mentre dunque ci si scontra per
conquistare o mantenere la gestione di fette sempre più grandi di servizi, non
ci si rende conto che il rapporto tra pubblico e privato non si pone più in
questi termini, ma deve vedere il pubblico capace di definire il quadro
complessivo di riferimento e di gestire i servizi di base con efficienza e
professionalità, ed il privato volto per la sua agilità e per il suo ruolo non
istituzionale a rispondere ai bisogni più nuovi e sofisticati
che la società esprime, nel quadro delle linee di intervento pubblicamente
definite e prevedendo forme articolate di partecipazione dell'utenza alla
spesa.
La miopia rispetto ai problemi della partecipazione
privata alla realizzazione di forme adeguate di assistenza sociale emerge anche dalla formulazione data all'articolo
relativo al volontariato nel testo in discussione al Parlamento (art. 13), secondo il quale le possibilità di utilizzazione dell'apparato volontario dei cittadini vengono limitate alle «associazioni» e
alle «altre istituzioni di volontariato» escludendo quindi
i singoli individui o le famiglie dal novero dei possibili
contributi della società al sistema dei servizi locali.
Anche su altre questioni il Testo
Unico risulta carente o fuorviante rispetto ai
problemi della sistemazione del settore.
1) Non si fa ad esempio alcuno
sforzo di definizione dei servizi sociali e dei settori di intervento,
lasciando alla programmazione periodica governativa e regionale, e quindi
rimandando, l'impegno di chiarire le scelte rispetto alle tipologie di
servizi.
2) Deferisce tutta l'assistenza
al Ministero della Sanità, sia per quanto riguarda le funzioni dello Stato,
sia per le funzioni di consulenza al governo da espletare
da parte del Consiglio Nazionale della Sanità e dei servizi Sociali, non
considerando il problema della salvaguardia di una cultura specifica di
settore e della autonomia dei servizi sociali rispetto a quelli sanitari, pur
nel necessario coordinamento.
Anche questo importante
aspetto viene affidato alle Regioni che devono assicurare «l'autonomia
tecnico-funzionale dei servizi sociali, nonché la distinzione contabile della
gestione dei servizi sociali».
3) Non opera una scelta rispetto agli organi di gestione da proporre ai servizi sociali a
livello locale, che possono essere, secondo il dettato della legge, i comuni singoli o
associati o «gli organismi di decentramento comunale».
4) Non affronta il nodo del personale, della sua
formazione, del suo ruolo giuridico e delle categorie
professionali, rimandando a momento successivo «la determinazione dei profili
professionali degli operatori sociali» e delegando nuovamente alle Regioni il
finanziamento dei piani per la formazione e l'aggiornamento del personale.
5) Rimanda anche la questione della definizione degli indici e degli standards
per la ripartizione dei finanziamenti, affidandone l'elaborazione al Consiglio
Nazionale della Sanità e dei Servizi Sociali.
Anche se, superando lo scoglio dello scontro sulle
IPAB e sul ruolo delle istituzioni private nel campo dei servizi sociali, si
arrivasse all'approvazione di questa legge quadro, sarebbero ancora molte le
questioni di fondo lasciate irrisolte.
Va inoltre considerata la mancata attuazione degli
altri atti normativi previsti per la definizione del
funzionamento della macchina pubblica, in particolare quella relativa alla
finanza e alle autonomie locali, per capire come la situazione a livello
nazionale sia determinata dalla mancanza di orientamenti e indirizzi certi, sia
sul versante della razionalizzazione ed efficientizzazione
dei servizi di base sia ancor più su quello della individuazione di nuove
risposte per i nuovi bisogni emergenti.
Sul versante regionale per contro la realtà degli
interventi è caratterizzata da un ventaglio di
situazioni differenti tra loro per stato di avanzamento dei progetti e per
indirizzo, che vanno dalla gestione dei servizi da parte dei Comuni secondo
le categorie di assistibili e le modalità precedenti al DPR 616, fino alla
realizzazione di ogni intervento da parte delle Unità Sanitarie Locali. Queste
a loro volta lavorano in alcuni casi in stretta collaborazione con i comuni o
le associazioni di comuni, mentre in altri stanno
mostrando la tendenza a diventare organismi prevalentemente autonomi e
separati.
(omissis)
Il rallentamento della
spesa socio-assistenziale
L'elemento di maggiore evidenza per chi si occupa di
indagare la realtà della spesa socioassistenziale, è
l'estrema difficoltà di poter giungere a valori complessivi che diano
realmente il polso di come il comparto si vada evolvendo e ciò per due motivi
di fondo:
- la mancata definizione di cosa esattamente si intenda per attività socio-assistenziale, con una precisa
demarcazione tra questa e altre forme di assistenza (specialmente quella
sanitaria);
- l'eterogeneità delle fonti di spesa, spesso non
chiaramente identificabili.
Pur con questi limiti si può tuttavia tentare di delineare un primo quadro, necessariamente non esaustivo, di
come tale spesa si sia evoluta negli ultimi anni.
Se si inizia da dati estremamente aggregati emerge subito con
estrema chiarezza un primo elemento che smentisce un ricorrente luogo comune secondo il quale la spesa sociale ed assistenziale
si sarebbe dilatata oltre misura, diventando
di fatto incontrollabile.
Se si prende infatti in
esame il quinquennio 1976-1980 e l'evoluzione intervenuta in tale periodo
nella spesa sociale (comprensiva di previdenza, sanità ed assistenza) si
osserva che:
- la spesa complessiva passa dai 35.389 miliardi del
1976 ai 76.867 miliardi del 1980 con un incremento percentuale pari al 117%;
- lo stesso incremento calcolato su valori di spesa
depurati dall'incidenza dell'inflazione e quindi reale è però di gran lunga inferiore, e risulta pari a + 4,1%;
- i settori di spesa si evolvono in modo differenziato:
il trend più rapido è quello della spesa previdenziale
(+ 125%) seguito dall'assistenza sanitaria (+ 109%) ed infine dall'assistenza
(+ 86%); si può senz'altro affermare che,
in termini reali, in quest'ultimo settore si sia verificato
addirittura un calo della spesa.
Un'analisi più attenta della composizione interna
della spesa sociale consente di rilevare come, nel medesimo arco
di tempo, a fronte di un aumento di peso della spesa previdenziale (che
passa dal 62,5% del totale al 64,8%) vi è una progressiva perdita di peso
della spesa sanitaria (dal 28,8% al 27,8%) e di quella assistenziale (dall'8,7%
al 7,4%).
Tutto ciò conferma che il settore dell'assistenza si
è evoluto in modo diverso dagli altri comparti della spesa sociale ed anzi
abbia fatto registrare una sostanziale stasi con qualche sintomo di involuzione (2).
Il rapporto tra spesa sociale e
prodotto interno lordo (P.I.L.) dimostra tra il 1975
ed il 1981 tendenze simili a quelle fin qui evidenziate (v. tab. 1). Tale
rapporto passa infatti dal 20,6% al 22,9%. In questo
quadro di riferimento la stessa spesa socio-assistenziale subisce una lieve
contrazione e passa dall'1,6% all'1,4%.
Di un certo interesse può risultare un esame dell'andamento della spesa articolato per
livelli; più in particolare l'esame va condotto su quattro livelli: Stato,
Regioni, Province e Comuni.
Per quanto riguarda
l'amministrazione centrale dello Stato si hanno dati
solamente fino al 1979. Tra il 1971 ed il 1979 i pagamenti relativi
alla spesa socio-assistenziale passano da 246,2 a 457,2 miliardi di
lire correnti con un incremento percentuale dell'85,7%. Se si trasformano tali
dati in lire 1970 attraverso opportuni indici di deflazione, la spesa è
valutabile in 234,5 miliardi nel 1971 ed in 143,2 miliardi nel 1979: è così
palese che ci si trova di fronte ad un sensibile decremento
dell'impegno statale, misurabile in un - 38,9%. Tale dato
va però correttamente interpretato: in parte il decremento è certo dovuto a una
riduzione in senso assoluto della spesa, ma molto più consistente è il
decremento dovuto allo spostamento dei centri di spesa dovuto ai decreti di
trasferimento delle funzioni alle Regioni a seguito del D.P.R. n. 616/77.
Sempre con riferimento alla
spesa statale è interessante evidenziare come essa si
suddivide nei vari anni tra i diversi settori di intervento (v. tab. 2).
L'esame dei dati evidenzia che se si escludono le «altre categorie», che
costantemente dal 1977 in poi assorbono la maggior
parte della spesa:
- una quota
costantemente elevata è destinata agli interventi aventi come oggetto
il diritto allo studio;
- una forte riduzione del peso
percentuale (dal 15,2% del 1971 al 3,7% del 1979) si riscontra nel settore handicappati (3);
- oscillante è l'impegno in tema
di calamità naturali con una punta massima del 5,5% nel 1977;
- col 1978 cessano i contributi
ad enti vari come effetto dei trasferimenti di funzioni alle Regioni;
- mentre una consistente quota
della spesa del 1979 viene destinata alla tutela materno-infantile (28,7%).
Tabella 1 - Quanto costa il «Welfare State»
(Spesa
sociale erogata dalla Pubblica Amministrazione)
Voci di spesa 1975 1976 1977
1978 1979 1980 1981
Percentuali rispetto al prodotto lordo interno
Sanità 5,7 5,6 5,6
5,7 6,0 5,7 5,8
Previdenza 13,3 13,3 13,1 14,2 14,1 14,1 15,7
Assistenza 1,6 1,6 1,5 1,5 1,4 1,3 1,4
Totale spesa sociale 20,6 20,5 20,1 21,3 21,5 21,1 22,9
Percentuali rispetto alle entrate correnti della Pubblica
Amministrazione
Sanità 17,8 16,6 15,9 15,5 16,6 15,0 14,8
Previdenza 41,7 39,4 37,5 38,7 38,6 37,0 40,0
Assistenza 5,0 4,6 4,3 4,0 3,9 3,4 3,5
Totale spesa sociale 64,5 60,7 57,7 58,2 59,1 55,4 58,3
Fonte:
elaborazione Censis su
dati Istat.
Tabella 2 - Amministrazione centrale
dello Stato: spesa socio-assistenziale per settori
omogenei di intervento (Valori percentuali)
Settori 1971 1977 1978 1979
Tutela materno-infantile
- 1,1 - 28,7
Contributi Enti vari 14,5 15,6 13,3 -
Emigrati 0,4 0,3 0,4 0,3
Handicappati 15,2 6,0 4,3 3,7
Calamità naturali 1,2 5,5 0,9 1,1
Diritto allo studio 15,4 15,0 10,4 12,9
Altre categorie 36,2 56,5 70,7 53,3
Fonte: elaborazione Censis
su dati del Ministero del Tesoro.
Il panorama descritto evidenzia
un fatto essenziale e cioè come gran parte della
responsabilità di spesa nel settore socio-assistenziale non sia più di
competenza dell'amministrazione centrale ma dipenda da decisioni prese a
livello decentrato.
Per quanto attiene alla spesa
sostenuta da Regioni, Province e Comuni si dispone di
dati aggiornati al 1981 che si riferiscono però alla spesa aggregata e
riferita in modo generico al «campo sociale».
Mancano così elementi specifici
di riferimento ai singoli settori di spesa. Va comunque
tenuto presente che una parte predominante è dovuta alla spesa sanitaria.
Tra il 1978 ed il 1981 i valori
complessivi di spesa di Regioni ed enti locali passano da 10.107 a 27.688
miliardi di lire correnti con un incremento percentuale del 173,9%; va tenuto
presente che tale percentuale, di per sé elevata, va in realtà considerata con
cautela per almeno due motivi: il primo è che si riferisce appunto a valori correnti e quindi relativamente «falsati» dal
fattore inflazione, il secondo è che l'aumento, consistente anche in termini
reali non corrisponde a un aumento dell'offerta dei servizi, ma più semplicemente
all'assunzione da parte di questi enti di responsabilità di spesa prima
accentrate a livello di amministrazione statale.
Un'analisi più attenta e più
articolata dei dati proposti permette di cogliere
significative differenze tra le modalità di spesa dei diversi enti:
- il soggetto di spesa
predominante è costantemente la Regione (56,5% nel 1978 e 69,8% nel 1981),
mentre decresce il peso di Province (dall'8,0% al
4,1%) e Comuni (dal 35,5% al 26,1%);
- i trends
sono comunque in crescita, seppure in modo
differenziato: + 238% per le Regioni, + 42% per le Province e + 101 % per i
Comuni; in valori reali si può affermare che solo a livello
regionale si ha un reale incremento di spesa, mentre per gli altri enti il trend o è
sostanzialmente piatto (Comuni) oppure segna una contrazione della spesa
(Province);
- se si esamina la composizione
della spesa e dunque la sua articolazione in spesa corrente ed in conto
capitale si osserva infine come in tutti gli anni esaminati sono i Comuni gli
enti più attivi sul piano degli investimenti, cui destinano quote crescenti
della propria spesa (dal 15,8% del 1978 al 29,6% del 1981); per quanto si
riferisce alle Regioni la loro capacità di investimento
è ridotta e in netto calo (dal 6,4% del 1978 al 4,8% del 1981); più complessa
la situazione a livello provinciale: i valori percentuali della spesa in conto
capitale sul totale della spesa sono estremamente oscillanti (si passa da un massimo
dell'8,6% del 1979 all'1% dell'anno successivo), segno anch'esso della posizione
ancora non chiaramente delineata di questo ente nel quadro organizzativo degli
enti locali.
Come già più sopra si avvertiva è
assai difficile ottenere qualsiasi tipo di disaggregazione
dei dati proposti; per il 1979 si può comunque
considerare, per un numero non completo di regioni, la spesa
socio-assistenziale pro-capite (v. tab. 3). È evidente come esistano
differenze macroscopiche tra una realtà territoriale e l'altra; si va dalle
14.549 lire dell'Emilia Romagna alle 1.318 lire del Veneto. Molti motivi
contribuiscono senza dubbio a questo risultato (diversa capacità di spesa,
livello di deleghe agli enti locali, ecc.); resta tuttavia l'esigenza di un chiarimento del quadro degli interventi, dell'articolazione
delle competenze, dei criteri di spesa. Il
settore non pone certo problemi di aggravio della spesa pubblica; il problema di fondo è la «incisività» della spesa
che oggi, dispersa in mille rivoli e non governata da criteri
uniformi su tutto il territorio, rischia fenomeni di dispersione e veri e
propri sprechi. Un chiaro indicatore della relativa confusione esistente in
materia è anche la mancanza della semplice classificazione degli interventi e
la conseguente inesistenza di dati che consentano un
esame approfondito degli stessi.
Tabella 3 - Spesa
socio-assistenziale per abitante 1979 (in lire correnti)
Regione Spesa/abitante
Piemonte 11.244
Lombardia 9.335
Veneto 1.318
Liguria 19.116
Emilia Romagna 14.549
Toscana 6.439
Umbria 10.384
Marche 5.170
Abruzzo 12.128
Molise 14.424
Fonte: elaborazione Censis
su dati regionali.
Il personale dei
servizi socio-assistenziali
La carenza
di dati e spesso la parzialità o addirittura la inattendibilità di quelli
disponibili è caratteristica che si sente ben presente anche per quanto si
riferisce al personale impiegato nei servizi socio-assistenziali. È così che in
questo primo tentativo di render conto della situazione in cui versa il settore
socio-assistenziale ci si dovrà accontentare di un quadro frammentario e, per
molti versi, incompleto.
Per quanto si
riferisce agli istituti di ricovero (v. tab. 4) non si dispone di
dati globali posteriori al 1976; a questa data i dipendenti di tali strutture erano
92.078 e, rispetto all'anno precedente, avevano subito una contrazione pari al 2,4%. Di questi,
il 53,4% operava in istituti pubblici ed il rimanente 46,6% in strutture private. Se si suddivide invece
tale dato globale per tipologie di istituto si scopre come l'83,7% sia
attivo in istituti che si occupano di una sola categoria di assistiti (minori
normali, ciechi, sordomuti, ecc.), il 21,1%
dipenda da istituti che si occupano di
più categorie di assistiti ed il rimanente 4,2% lavori nelle colonie
permanenti.
Un'analisi più articolata dei
dati evidenzia poi che:
- solo le istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza incrementano, se pure di poco,
il loro personale (+ 0,4%), mentre in netto calo sono tanto gli istituti
dipendenti da enti pubblici quanto gli istituti privati;
- tra le diverse categorie di istituti, solo quelli che si occupano di più categorie
di assistiti registrano un incremento sensibile di occupati (+ 10,0%) mentre
decrescono i dipendenti delle colonie permanenti, ad eccezione di quelle montane
(+ 18,5%) e degli istituti con una sola categoria
di assistiti anche qui con l'eccezione di quelli che si occupano di adulti
inabili e di anziani (+ 0,6%) e quelli
classificati come «altre categorie» (+ 6,8%).
Il complesso di questi dati non
permette certo interpretazioni approfondite, ma, al di là del
fatto macroscopico della diminuzione complessiva del personale che si lega al
trend piatto del finanziamento del settore, interessante è notare due se pure
deboli segni: l'aumento dei dipendenti degli istituti che si occupano di adulti
inabili ed anziani che rappresentano il 38,7% del totale segnala come il problema degli anziani abbia condizionato
l'evolversi delle strutture anche in un periodo di contenimento dei
finanziamenti; l'aumento delle altre categorie, anche se misurato su cifre non
importanti, è un sintomo che nuovi bisogni stanno sviluppandosi cercando una
risposta istituzionale.
Ma il problema del personale
socio-sanitario non è solo un problema di numeri, bensì essenzialmente un
problema di qualità. Chi è, in sostanza, l'operatore socio-sanitario? Il
CENSIS ed il CNPDS hanno condotto, tra il 1981 ed il 1982 un'indagine sugli operatori dei
servizi socio-assistenziali in Lombardia. Tale indagine non è ovviamente rappresentativa di tutta la realtà italiana e
neppure di tutta l'Italia settentrionale, ma molti elementi che da essa
emergono sono, con le debite correzioni, un significativo spaccato dell'attuale
situazione. L'indagine ha evidenziato infatti che:
- è elevato e cresce con gli anni
il tasso di femminilizzazione degli operatori;
- è in atto una progressiva laicizzazione degli stessi. Il personale religioso tende infatti a diminuire progressivamente;
- tende ad elevarsi il livello,
almeno formale, di istruzione;
- i percorsi formativi che
portano alla professione di operatore sociale
presentano due fondamentali caratteristiche:
• in primo luogo sono estremamente diversificati, nel senso che i tipi di scuola
frequentati a livello superiore possono essere, di fatto, i più disparati;
• in secondo luogo presentano
articolazioni a volte complesse, nel senso che spesso si
verifica un fenomeno che si potrebbe definire «sovraccarico di titolo» in
quanto al titolo di scuola superiore si sommano uno o più titoli di corsi professionali
e ciò avviene anche a livello di laurea;
- se si
tocca il problema delle motivazioni si evidenzia come a motivazioni di
carattere umanitario se ne vanno sostituendo, con il ricambio generazionale,
altre di tipo più ideologico-politico; la maggior
parte degli operatori avverte però che la propria figura professionale è in
crisi a causa spesso di una formazione troppo generica e di scarsa esperienza.
In questo caso il fattore generazionale ha un peso rilevante: da un lato si
trovano operatori maturi che si trovano ad avere dei problemi di riconversione
della propria professionalità in relazione al mutato
panorama socio-assistenziale; dall'altro c'è un folto gruppo di operatori
giovani con una preparazione chiaramente falsata rispetto alle esigenze reali,
ma con deboli stimoli a crescere professionalmente;
- il grado di insoddisfazione
nel lavoro è particolarmente elevato e forte la propensione a cambiare lavoro,
specie nei giovani.
Tabella 4 - Personale degli istituti di ricovero
1975 1976 %
A. Totale
istituti 94.390 92.078 - 2,4
di cui:
istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza 35.345 35.499 + 0,4
istituti dipendenti da enti pubblici 14.217 13.664 - 3,9
istituti privati 44.828 42.915 - 4,3
B. Totale colonie permanenti 4.118 3.848 - 6,6
di cui:
montane
676 801 +
18,5
collinari
1.573 1.262 -
19,8
marine e di altro tipo 1.869 1.785 - 4,5
C. Istituti con una sola
categoria di assistiti 80.141 77.084 - 3,8
di cui:
minori normali 32.688 29.976 - 8,3
ciechi
957 691 -
27,8
sordomuti
1.957 1.787 -
11,3
minorati fisici 1.899 1.736 - 8,6
minorati psichici 5.935 5.899 - 0,6
adulti inabili ed anziani 35.405 35.607 + 0,6
altre categorie 1.300 1.388 + 6,8
D. Istituti con più categorie di assistiti 10.131 11.146 +
10,0
Fonte:
elaborazione Censis su dati Istat.
(1) Censis Ricerca, XVI
rapporto/7982 sulla situazione sociale del paese, Franco Angeli Editore,
Roma, 1982.
(2) Già a metà del 1982, la «Relazione economica del paese» rilevava che la spesa sociale in
senso stretto (sanità, previdenza e assistenza) non andava ritenuta come la
principale responsabile degli squilibri della finanza pubblica. «Tra il 1975 e
il 1980 le percentuali rispetto al
prodotto lordo interno della spesa sociale (nel suo complesso e per le singole voci)
si sono mantenute praticamente stazionarie:
intorno al 21%. Solo nel 1981 si è registrato un aumento prossimo ai
due punti percentuali, per l'azione congiunta di più
decisioni adottate in sede politico-parlamentare: aumento degli assegni
familiari, quadrimestralizzazione della scala mobile
sulle pensioni, rivalutazione delle rendite agli invalidi del lavoro. Ancora:
se le percentuali della spesa sociale vengono
calcolate rispetto al totale delle entrate correnti della pubblica
amministrazione, si trova che i rapporti
tendono a diminuire, passando dal 64,5% del
1975 al 58,3% nel 1981. Ciò
sta a indicare che l'aumento della spesa sociale per
la sanità, l'assistenza e la previdenza (lo stesso discorso vale anche
per i consumi collettivi) è stato meno intenso dell'aumento delle entrate
fiscali e parafiscali. Se si conviene che le imposte si pagano
soprattutto per ricevere le prestazioni sociali e i consumi collettivi, ne
segue che la nostra collettività ha pagato un ammontare di
imposte superiore al "valore" delle prestazioni sociali e dei
servizi collettivi (istruzione, giustizia, difesa, ecc.), ricevuto come
contropartita » (cfr. G. Alvaro, «La spesa sociale
non è da buttare», in Il Sole -
24 Ore, 21 luglio
1982, p. 2). La nota è nostra.
(3) Ai problemi
delle persone portatrici di handicaps, il Censis '82 dedica un intero paragrafo (cfr.
Rapporto...,
pp.
438-450). In particolare si sottolinea che «l'accentuazione assistenzialistica
della legislazione ha comportato una generalizzata carenza di servizi di
prevenzione e di diagnosi precoce. Nonostante che si riconosca che
il 44% degli
handicaps sono congeniti (Ministero Sanità) la
prevenzione nel nostro paese, è ancora all'anno zero; gli
interventi in
questo campo, sono frammentari,
episodici, Basti pensare, per
fare un esempio, che i centri di diagnosi
prenatale pubblici
dove si fa gratuitamente l'amniocentesi
non sono più
di 12» (ibidem, p. 441).
La nota è
nostra.
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