Prospettive assistenziali, n. 62, aprile - giugno 1983

 

 

Specchio nero

 

 

L'ANFFAS DI MILANO NEMICA DEGLI HANDICAPPATI

 

Torino, 4 agosto 1982. I giornali escono con ti­toli cubitali: un handicappato, Z. Cesarino (si sa gli handicappati sono degli eterni bambini) ha ucciso il giorno prima la zia che lo aveva affiliato.

È un ragazzo gravissimo e pericolosissimo. Il giudice chiede al Cottolengo di ricoverarlo, ma dopo pochi giorni viene dimesso: le suore non ce la fanno a tenerlo.

Il ragazzo viene poi accolto in una comunità alloggio della Provincia di Torino, ma la notizia non viene pubblicata. È ovvio che i servizi pub­blici non devono mai funzionare.

Il 24 agosto, quando ci sarebbe stato il tempo per riflettere sul problema e per verificare le informazioni dei giornali, il Centro studi e pub­bliche relazioni dell'ANFFAS di Milano pubblica nella rubrica del Corriere della Sera, che da tem­po cura in esclusiva, una notizia del tutto infon­data: « ... Ma c'è un altro tipo di istituzione sotto accusa: il manicomio criminale, dove finisce l'in­dividuo, infermo di mente, ritenuto socialmente pericoloso perché ha commesso un reato. È la conferma di una scelta sbagliata: si preferisce punire e isolare dopo, piuttosto che intervenire prima curando ed assistendo il deviante, il mala­to di mente o l'insufficiente mentale grave vio­lento. È il caso di Cesarino, handicappato men­tale di 16 anni, accusato di aver soffocato la zia che l'ospitava in un appartamento di Torino. Ora potrebbe venir rinchiuso in un manicomio crimi­nale. L'ultima parola per la sua destinazione spet­ta comunque al Ministero di grazia e giustizia. La tragedia ha sempre un suo lato grottesco: Ce­sarino, respinto dalla famiglia e dalla società (passò i primi quattro anni di vita al Cottolengo per non guastare i fratelli sani, come sostengono i genitori), verrà "curato e punito" dopo, insieme a malfattori di ogni risma. Così la beffa sarà dop­pia. Basta leggere i resoconti dei giornali per rendersi conto dello stato di cose: assenza com­pleta di servizi (anche in una città come Torino), deresponsabilizzazione della famiglia e della pub­blica amministrazione».

Nella stessa rubrica dell'ANFFAS, Alfredo Ro­bledo, sostituto procuratore della Repubblica di Monza, senza minimamente curarsi di accertare come stiano le cose, lancia accuse assurde: Ce­sare (anzi Cesarino) è un malato mentale, è un assassino (1).

L'Unione per la lotta contro l'emarginazione sociale in data 6 settembre 1982 invia la presente lettera alla redazione della rubrica «Handicap e società»: «L'ANFFAS di Milano non ha certo dato un aiuto a Cesare Zilioli di 16 anni, accusato di aver ucciso la zia che l'aveva affiliato.

Infatti nell'artícolo "Troppe tragedie negli isti­tuti", Cesare viene definito insufficiente mentale grave violento. Quali sono gli elementi in base ai quali l'ANFFAS lo definisce in questo modo? Per­ché Cesare è accusato di omicidio? Secondo l'ANFFAS la presunzione di innocenza non ri­guarda anche gli handicappati? Analoghe rifles­sioni valgono anche per quanto ha scritto Alfre­do Robledo. A Cesare tutte le colpe: viene ad­dirittura bollato come malato mentale; nessun dubbio viene sollevato in merito alla partecipazio­ne del ragazzo all'omicidio, ammesso che di omi­cidio si tratti. La zia ovviamente è indicata come persona buona, che amava immensamente Cesa­re, che si è sacrificata per il nipote. Da chi hanno avuto queste notizie l'ANFFAS e Robledo?

Numerose sono invece le persone che hanno riferito che la signora Zilioli non voleva assoluta­mente staccarsi dal nipote; gli ha, fra l'altro, sem­pre impedito di frequentare un centro diurno socio-terapeutico.

Operatori del Comune e della Provincia di To­rino hanno inoltre dichiarato che la signora aveva ad essi addirittura vietato di entrare in casa.

Quanto al giudizio dell'ANFFAS "assenza com­pleta di servizi anche in una città come Torino", ciò non è assolutamente vero anche per le pres­sioni esercitate dalle associazioni e dai gruppi aderenti al CSA (Coordinamento sanità e assi­stenza fra i movimenti di base). Le carenze sono ancora notevoli, ma non siamo all'età della pie­tra come in molte zone d'Italia.

I servizi pubblici, poi, in alcuni casi, funzionano meglio di quelli privati. Basti dire che il Cotto­lengo non è stato in grado di tenere Cesare, men­tre la Provincia di Torino sì. Cesare è ricoverato nel reparto per handicappati di C. Giovanni Lan­za 65 e la Provincia di Torino è disponibile a tenerlo fino a quando sarà necessario. Pertanto, salvo diverso avviso del magistrato, Cesare non dovrà andare in un manicomio giudiziario».

L'ANFFAS non pubblica una riga.

Passano i mesi e finalmente sui giornali appare la notizia: «Cesarino Zilioli, il sedicenne handi­cappato accusato di aver ucciso, in un raptus, la madre adottiva, Lucia, di 69 anni, è stato pro­sciolto dalla Procura dei minori» (2).

A questo punto il Presidente dell'ULCES scrive nuovamente all'ANFFAS in questi termini: «Fac­cio seguito alla mia del 6 settembre u.s. da Voi non pubblicata (in base alla libertà e correttezza dell'informazione?) e unisco fotocopia dell'arti­colo apparso su La Stampa del 20 u.s., dal quale risulta il proscioglimento da ogni accusa di Ce­sare Zilioli che Voi avevate bollato come violen­to, malato mentale, assassino. Spero che vor­rete pubblicare almeno la notizia del prosciogli­mento».

Finora l'ANFFAS, che ricordiamo essere l'As­sociazione nazionale famiglie di fanciulli e adul­ti subnormali, non ha sentito il dovere di smen­tire le gravissime accuse mosse a Cesare Zilioli.

 

 

(1) Testo integrale dell'articolo di A. Robledo: «La tra­gica fine di Lucia Zilioli suscita sentimenti di sconcerto, ai amarezza e quasi di rassegnazione di fronte ad avveni­menti non certamente imprevedibili. Rassegnazione ed amarezza perché l'epilogo della vicenda è frutto dell'indif­ferenza con cui la società ha assistito passivamente al quotidiano svolgersi del difficilissimo rapporto fra Cesari­no e la zia. Tuttavia, a una riflessione più consapevole, quel­l'oscuro e immenso amore che li ha legati per 12 lunghi anni non può essere considerato una favola da relegare in un angolo della nostra mente.

È invece una testimonianza vissuta dell'inutilità dell'isti­tuzione totale e della necessità di una presenza attiva della collettività. Se ciò fosse avvenuto, se le polemiche inge­nerose e sterili avessero invece trovato uno sbocco opera­tivo, avremmo oggi con noi non solo la zia Lucia ma anche Cesarino. Ciò che è accaduto ci ricorda una verità elemen­tare spesso negletta: nella cura della "malattia mentale" l'amore per la persona da solo non basta, non si può lasciare un tale carico esclusivamente ai singoli per l'e­vidente ragione che essa affonda le sue radici proprio nell'esistenza stessa della collettività.

C'è un solo modo per rispondere al sacrificio di zia Lu­cia: entrino subito in funzione nuove e agili strutture alter­native alle istituzioni segreganti e in particolare ai mani­comi. Ora Cesarino è di nuovo reietto dalla collettività. Con ogni probabilità gli verrà riconosciuta l'incapacità di inten­dere e di volere e, secondo quanto prevede la legge per il minore "pericoloso", sarà internato in un riformatorio giu­diziario oppure comunque segregato in istituto.

L'esperienza insegna che con questo provvedimento fini­sce l'attenzione dello Stato. Quello Stato che lo ha finora ignorato, lo punirà nell'unico momento in cui gli concede l'attenzione, dimenticandolo ancora subito dopo. Sappiamo anche che la Carta costituzionale sancisce il dovere della solidarietà sociale, dichiara che "nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro com­piti", e più avanti indica "la salute come fondamentale diritto".

Quindi il problema di Cesarino è un problema di tutti noi. Purtroppo si tratta solo di indicazioni programmatiche, e tali rimangono anche dopo più di 30 anni. Non dimentichia­mo Cesarino: stimoliamo l'attenzione nei confronti suoi e di tanti come lui, ognuno a suo modo e nel proprio vivere quotidiano. Contribuiamo a dare diffusa concretezza a quei propositi del Costituente che i poteri dello Stato hanno ignorato e continuano a ignorare. Mettiamo finalmente in crisi i meccanismi di isolamento e repressione dell'istitu­zione totale così malamente concepita».

(2) La Stampa del 20 gennaio 1983.

 

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