Prospettive assistenziali, n. 63, luglio - settembre 1983
Editoriale
DIRITTI DEI CITTADINI: RUOLO DEI
SERVIZI PUBBLICI E PRIVATI E DEL VOLONTARIATO
«I servizi pubblici sono burocratizzati, spersonalizzati
e costosi». «I servizi privati sono più adeguati alle esigenze delle persone».
«Solo con il volontariato si possono animare gli interventi sociali e renderli meno
costosi».
Questi ed
altri slogan dei mass-media sono utilizzati per rilanciare i servizi privati e
per valorizzare il volontariato che svolge compiti gestionali
(non quello con scopi promozionali).
In sostanza,
i gruppi dominanti vogliono far credere ai cittadini sprovveduti che tutti i
mali discendono dalla esagerata espansione degli interventi
pubblici, dai costi eccessivi di detti interventi e dalla loro scarsa
efficacia ed efficienza. La propaganda mette, quindi, in rilievo le carenze del settore pubblico e tace su quelle del settore
privato.
Nessuno può
certo mettere in dubbio gli assurdi privilegi esistenti nel campo della
previdenza: pensioni date a titolo assistenziale anche
ai benestanti; baby-pensioni elargite a persone giovani; invalidità concesse
a cittadini in piena efficienza fisica. Inoltre, è sempre più esteso il fenomeno
del doppio lavoro e del lavoro nero, con relativa evasione da parte di imprenditori e lavoratori degli oneri previdenziali e
delle tasse.
Nel campo
dell'assistenza, invece, come è arcinoto, i bisogni
primari da soddisfare sono ancora enormi sul piano
quantitativo, oltre che su quello qualitativo.
La spesa
sociale della pubblica amministrazione rispetto al prodotto
lordo per il periodo dal 1975 al 1981 è rimasta invariata per la sanità (5,7 -
5,8); è aumentata nel campo previdenziale da 13,3 a 15,7; è diminuita nel
settore assistenziale da 1,6 a 1,4
(1). Al riguardo sono ancora più significative le percentuali di spesa del 1981 rispetto alle
entrate correnti della pubblica amministrazione: sanità 14,8; previdenza 40;
assistenza 3,5! (2).
* * *
Quale è, dunque, il vero significato del crescente
battage pubblicitario? È il tentativo di far credere alla gente che certi
diritti (alla casa, alla salute, alla non emarginazione, ecc.) non possono - per adesso e chissà per quanto tempo - essere
soddisfatti e che - giocoforza - bisogna accontentarsi di quel che vorranno
fare i servizi privati ed il volontariato.
Noi restiamo
fermamente dell'idea, invece, che è lo Stato che - nelle sue diverse
articolazioni - deve farsi carico delle risposte a questi diritti. La garanzia
pubblica, cioè il riconoscimento giuridico del diritto alle prestazioni, non può che essere data da un ente pubblico.
Mentre per i cittadini esiste il diritto di esigere
dallo Stato (direttamente o attraverso i suoi organi territoriali) una
determinata prestazione e di rivendicarne l'usufruibilità,
nessun dovere hanno invece gli enti privati nei confronti delle persone che si
trovano in stato di bisogno.
È infatti evidente che - e ciò avviene in tutti i paesi del
mondo, qualsiasi sia il tipo di partito o di regime al potere - i cittadini
possono rivendicare i loro diritti alla salute, alla istruzione, alle
prestazioni assistenziali, alla assistenza solo di fronte ad un ente pubblico.
Anzi, l'allargamento dei propri diritti impone che lo Stato li riconosca.
Il
pluralismo, la libertà di assistenza privata non
possono rappresentare un alibi per il disimpegno pubblico o ridurre il compito
prioritario dello Stato di «rimuovere
gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e
l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana»
(art. 3 della Costituzione).
Ciò non
toglie, ovviamente, che uno spazio - più o meno ampio,
a seconda della linea politica praticata - sia attribuito ai privati, restando
beninteso fermo che:
- o il cittadino si rivolge all'ente privato e corrisponde il
corrispettivo concordato (si tratta, in sostanza, di una forma di contratto);
- o il
corrispettivo è versato dalla mano pubblica ed, in questo caso, lo Stato deve
pretendere giustamente di accertare se la prestazione è dovuta o meno (cioè, se corrisponde ad un diritto del cittadino) e come
viene attuata.
Altro
equivoco da chiarire è quello che identifica l'assistenza privata con il solo
tradizionale intervento del ricovero in istituto. Occorre chiedersi, invece,
quale ruolo possano avere le libere attività assistenziali
extra-ricovero e se non occorre, innanzitutto, prevedere uno spazio adeguato
ai cittadini che intendono svolgere attività di intervento diretto, collocando
la propria opera nell'ambito dei servizi pubblici. Già oggi, in
alcune zone del nostro paese, vi sono iniziative gestite da privati:
l'assistenza domiciliare rivolta, in particolare, ad anziani, handicappati e
minori con famiglie in difficoltà; le comunità alloggio; ecc.
Inoltre, va
attuata una distinzione corretta tra il volontariato e l'intervento dei privati
in campo assistenziale: due realtà che non vanno
confuse. Oggi, il fenomeno nuovo ed importante che sta emergendo è proprio il
volontariato svolto da singole persone e da nuclei familiari. Una esperienza che va incoraggiata, sollecitata,
appoggiata, perché sembra l'unica in grado di coprire gli spazi che l'ente
pubblico non può raggiungere o non è opportuno che raggiunga. Ma, parlare di
volontariato significa ovviamente riferirsi a quell'impegno
promozionale e/o di assistenza diretta garantito dai
singoli, dalle famiglie, dai gruppi con il solo rimborso delle spese vive
sostenute; non all'intervento di privati che gestiscono strutture o servizi
assistenziali e per i quali ricevono compensi sotto varie forme.
Fondamentale
resta, comunque, e giova ripeterlo, il riconoscimento
giuridico del diritto alle prestazioni, che deve essere assunto dallo Stato.
Inoltre, per quanto riguarda il settore dell'emarginazione sociale, un
cambiamento vero e profondo si ottiene soltanto se, accanto alle prestazioni assistenziali nei confronti delle persone non
in grado di provvedere a se stesse, si attuano interventi di prevenzione del
bisogno. È evidente, come abbiamo più volte scritto, che la piena occupazione,
salari adeguati, pensioni sufficienti, cure tempestive, ecc. consentono alle
persone una ampia autonomia di vita.
Per quanto
riguarda gli handicappati, la riduzione del numero
degli assistiti e dei ricoverati in istituto è stata raggiunta soprattutto con
l'inserimento prescolastico e scolastico, con interventi riabilitativi, con il
collocamento al lavoro, con l'assegnazione di case idonee: tutti interventi che
sono stati possibili quando lo Stato ha riconosciuto questi diritti agli
handicappati.
Va ricordato
ai denigratori del pubblico ed ai fautori del privato che, salvo qualche caso
più unico che raro, le scuole private - laiche o religiose - non hanno attuato
inserimenti di handicappati, soprattutto quelli psichici. Inoltre, non va
dimenticato che i più gravi maltrattamenti a bambini e fanciulli
indifesi sono stati inflitti in istituti privati (3). Purtroppo,
questa situazione si è solo ridotta e non è ancora scomparsa (4).
* * *
Data la vistosa carenza di interventi pubblici e l'impossibilità
strutturale del settore privato a riconoscere agli handicappati il diritto alla
salute, alla casa, alla scuola, alla formazione professionale, ecc., non
stupisce che nel tranello del battage pubblicitario sia caduta l'ANFFAS
(Associazione nazionale famiglie fanciulli e adulti subnormali), l'organizzazione
che tutela gli insufficienti mentali, compresi quelli non autosufficienti.
Nella
relazione presentata in data 23 aprile 1983 all'Assemblea generale dei
rappresentanti dei soci (5), Luigi Cucari, presidente
nazionale dell'ANFFAS, propugna lo sviluppo della Fondazione ANFFAS (6), la
costituzione di una «mutualità
ANFFAS» che procuri il denaro occorrente
per la fondazione, la celebrazione di una «Giornata
nazionale ANFFAS», la realizzazione di
una scuola superiore per operatori. Tutto ciò viene proposto nella
considerazione che, poiché non ci si deve illudere «che sia lo Stato a
dover provvedere», «noi stessi [i soci
ANFFAS] ci adoperiamo a creare per i nostri figli una base di tranquillità».
Questa linea
è ripresa da Giovanni Tagliapietra (7) nei
seguenti termini: «Di fronte alla inconsistenza,
alla frammentarietà dell'intervento pubblico, i privati si arrangiano da sé,
prima con gli inevitabili limiti della improvvisazione, poi, mano a mano, con
efficacia, rigore, spesso con spirito manageriale».
E, mentre l'ANFFAS
lancia un appello alla mutualità dei propri soci, per raccogliere i fondi necessari
alla fondazione, Salvatore Marino, segretario nazionale dell'associazione (8), non solo
è favorevole alla estesissima privatizzazione delle IPAB
(istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza) contemplata dal testo
predisposto nella scorsa legislatura dalle Commissioni riunite Affari
Costituzionali e Interni della Camera, ma non manifesta preoccupazioni di sorta
per il fatto che per i patrimoni così regalati ai privati non sia nemmeno
previsto alcun vincolo degli stessi a fini assistenziali.
Ora, è vero
che esistono estese realtà in cui il disimpegno o l'indifferenza degli enti
pubblici verso i problemi delle fasce più deboli di popolazione provoca carenze gravi dei servizi e nei servizi (9); disinteresse
che rappresenta in certi casi una vera e propria violazione degli obblighi di
legge vigenti. Ma è anche vero che là dove i movimenti di base hanno esercitato
una costante pressione nei confronti degli amministratori, dove le
associazioni cosiddette « di categoria » hanno saputo e valuto mantenere
stretti legami operativi fra loro sono state realizzate esperienze positive di inserimento a tutti i livelli, garantite o
sostenute dall'ente pubblico; conquiste che - ovviamente - vanno difese,
mantenute e potenziate con l'impegno costante del giorno dopo giorno, ma che
camminano sulla linea della massima integrazione sociale e della lotta contro
l'emarginazione.
Non vorremmo
invece che il riaffiorare di una linea privatistica e
corporativa - e l'iniziativa assunta dall'ANFFAS nazionale deve far riflettere
a nostro avviso più d'una Regione, d'un Ente locale, ponendo seri interrogativi
sulle conseguenze gravi del disimpegno o della mancanza o insufficienza dei
servizi - riportasse la situazione degli handicappati psichici indietro di 20
anni, quando ogni associazione pensava solo a se stessa ed ai propri soci, Vi provvedevano, però, oltretutto, nei ristrettissimi limiti di
denaro disponibile, con strutture riservate esclusivamente ad handicappati,
quasi sempre senza alcun contatto reale con i servizi sociali esterni e, in
generale, con l'ambiente circostante.
Si trattava,
cioè, di interventi di per sé emarginanti, in cui
spesso convivevano soggetti aventi esigenze da soddisfare in modo radicalmente
diverso. Si pensi, ad esempio, agli handicappati psichici che frequentavano i
centri speciali diurni ed oggi inseriti nel lavoro normale.
Ma, al di là della filosofia di fondo che può ispirare gli
interventi (massima socializzazione o massimo isolamento), anche solo sullo
stretto piano economico ci sembra che - oggi - ogni iniziativa « autarchica »
sia destinata prima o poi a fallire. Ad esempio, la spesa relativa
alla istituzione di una comunità-alloggio per otto posti è di 300-400
milioni: per la sua conduzione, nel caso di handicappati psichici non
autosufficienti, occorre prevedere da 250 a 350 milioni l'anno (10).
Attualmente, ad esempio, la Provincia di Torino versa alla
Arciconfraternita dello Spirito Santo (un istituto privato) una retta di 130
mila lire al giorno per ciascun handicappato psichico ricoverato. Le spese,
quindi, sono tali per cui è impensabile - a nostro
avviso - che esse possano essere rette dalla «mutualità».
* * *
Ancora una
volta riteniamo di dover sollecitare una adesione
convinta ed attiva di tutti i gruppi interessati al Coordinamento nazionale fra
le associazioni ed i movimenti di base per i problemi della emarginazione e
dell'handicap.
In
particolare, confidiamo che sia assunta come attività primaria la proposta
fatta dal Coordinamento riguardante l'istituzione, in ciascuna
Unità locale, da parte dei Comuni singoli e associati, per gli
handicappati gravissimi non autosufficienti, del servizio di aiuto domestico,
dell'assistenza economica, della costituzione di almeno un centro-diurno
di 15-20 posti e di almeno una comunità-alloggio con
non oltre 8-10 posti (11).
Per quanto
ci riguarda, abbiamo dato e daremo tutto il nostro appoggio alle lotte dirette
- nello stesso tempo - a fornire una assistenza adeguata
a coloro che non sono in grado di provvedere a se stessi con i propri mezzi o
con quelli dei familiari e a ridurre le cause che provocano il bisogno
assistenziale (12).
(1) Cfr.
«Rapporto Censis 1983: la spesa per l'assistenza non
provoca il dissesto della finanza pubblica», in Prospettive assistenziali, n. 62,
aprile-giugno 1983.
(2) Ibidem.
(3) Cfr. B.
GUIDETTI SERRA e F. SANTANERA, Il paese dei celestini: istituti di assistenza
sotto processo, Einaudi, Torino, 1973.
(4) Cfr.
«Siamo ancora il paese dei celestini», in Prospettive
assistenziali, n. 59, luglio-settembre 1982 e G. Brugnone, «L'Italia è ancora il paese dei celestini», in Prospettive assistenziali,
n. 61, gennaio-marzo 1983.
(5) Cfr. la relazione di L. CUCARI
all'assemblea generale dei rappresentanti dei soci ANFFAS, in Esistenza, n. 2, marzo-aprile 1983.
(6) Cfr. L. DOBROVICH, «Significato e prospettive
della Fondazione ANFFAS - Uno strumento per il futuro», in ANFFAS-Famiglie, n. 3, novembre-dicembre
1982. La Fondazione è stata costituita il 26
gennaio 1982.
(7) G. TAGLIAPIETRA, «La
"lezione" Provincia», ANFFAS-Famiglie,
gennaio-febbraio 1983.
(8) Cfr. S.
MARINO, «Soppressione delle IPAB: quando il cittadino
si arrende allo Stato», in ANFFAS-Famiglie,
n. 1, giugno-luglio 1982.
(9) Un problema, gravissimo, tra i
tanti che possono assillare la famiglia di un bambino od adulto handicappato:
la difficoltà di trovare una idonea struttura in grado di accogliere
definitivamente il figlio quando i genitori non sono più in grado di
provvedervi o vengono a mancare. La carenza di
comunità-alloggio esistente oggi a livello nazionale, costringe ragazzi o
adulti handicappati che magari sono stati positivamente inseriti nella società
per anni ed anni, a rompere improvvisamente ogni rapporto e ad essere
«sistemati» in istituti, anche lontanissimi dal loro luogo di residenza.
(10) Si ipotizza l'acquisto della
struttura per evitare dannose interruzioni del servizio, come può avvenire nei
casi di affitto dei locali.
(11) Cfr. Prospettive assistenziali,
n. 59, luglio-settembre 1982, pp. 53-54.
(12) La Provincia di Torino, accogliendo
le richieste del Coordinamento sanità e assistenza tra i movimenti di base, si
è impegnata a istituire in tutte le unità locali esterne al Comune capoluogo
almeno un centro diurno di 20-25 posti e una comunità alloggio di 8-10 posti
per handicappati psichici.
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