Prospettive assistenziali, n. 64, ottobre - dicembre 1983
L'ASSOCIAZIONISMO
FRA INVALIDI: PROBLEMI E PROSPETTIVE DEGLI ANNI '80
GIANNI SELLERI
L'associazione fra invalidi mostra
qualche segno di trasformazione e di evoluzione. In
un periodo di cinici e brutali attacchi ai diritti degli handicappati, le
loro associazioni riescono, dopo decenni di contrapposizioni e di
disarticolazione, a trovare unità operativa attraverso forme parziali di coordinamento
e di collegamento, sia a livello locale e regionale,
sia sul piano nazionale.
Le aggregazioni
avvengono o per difendere i diritti acquisiti o per ottenere genericamente un
maggior peso contrattuale, soprattutto nell'ambito delle autonomie locali. Non
c'è stato ancora fra le associazioni un vero confronto
culturale e politico; la premessa di ogni impegno unitario è sempre che «ciascuno
conservi la propria identità» (il che significa il proprio potere) e soprattutto
non c'è stato ancora nessun accordo su obiettivi politici e sociali generali
con riferimento alla realtà e al destino dei portatori di handicaps.
Restano divergenze e radicali
differenziazioni sulla valutazione dei bisogni e quindi delle soluzioni
necessarie.
L'ambivalenza di
fondo consiste nella alternanza fra le prospettive dell'integrazione
sociale e quelle dei l'assistenzialismo: alcuni chiedono l'attuazione dei
diritti costituzionali (dignità, istruzione, lavoro, partecipazione) per essere
uguali, altri invece accentuano, sottolineano e moltiplicano la loro diversità
e le loro dîfficoltà per ottenere assistenza, facilitazioni, privilegi e risarcimenti.
Vi è un ciclico riproporsi ora di istanze egualitarie
e partecipative, ora di richieste protettive e di tutela.
È da questa incertezza
di fondo che scaturiscono confusi atteggiamenti culturali e normativi. È per questa irrisolta ambiguità che tornano ad essere possibili,
sia pure in forma più sofisticata, i progetti e le intenzioni dell'esclusione.
Per capire meglio la situazione
attuale e per indicare qualche obiettivo essenziale è necessaria una breve
analisi storica dei movimenti fra e per handicappati (1).
I modelli più antichi sono
costituiti dalle congregazioni di carità e dalle
istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza. Queste organizzazioni traggono origine dai principi e dall'ordinamento della beneficenza pubblica, così come fu
definita dalla legge Crispi del 1890. Gli scopi di
quel provvedimento erano sostanzialmente: 1. la
tutela dell'ordine pubblico; 2. la repressione dell'accattonaggio;
3. la cura e la rieducazione (questo termine esprime
un giudizio morale) dei poveri abili e inabili; 4. la
centralizzazione del controllo amministrativo (attraverso le prefetture e il
ministero dell'interno) e la pubblicizzazione «formale»
dell'assistenza.
Negli anni successivi alla prima
guerra mondiale si costituirono le associazioni delle categorie dei mutilati,
degli ex combattenti, dei reduci, ecc., che fondavano
il loro diritto all'assistenza non tanto dallo stato di bisogno quanto dal
fatto di avere «ben meritato dalla patria».
È dal combinarsi degli scopi e delle
modalità di funzionamento di questi due archetipi
(IPAB e invalidi di guerra) che si definiscono le caratteristiche delle
«associazioni storiche».
L'evoluzione della legislazione assistenziale durante il periodo fascista si ispira al
corporativismo, alla tutela della popolazione (maternità, infanzia), alla
costituzione di enti pubblici autarchici e al potenziamento dell'assistenza
privata ed ecclesiastica, con compiti di supplenza. Infine si giunge, per scopi
prevalentemente sanitari, all'individuazione degli handicappati per categorie
giuridiche e nosologiche: ciechi, sordomuti, tubercolotici, encefalitici,
luetici, ecc.
La libertà di associazione
e l'organizzazione pluralistica dell'assistenza, indicata dall'articolo 38
della Costituzione, ha favorito poi una straordinaria moltiplicazione di enti
e di associazioni: invalidi del lavoro, per servizio, vittime civili di guerra,
profughi, invalidi civili (questa categoria racchiude numerosi sottogruppi,
poliomielitici, spastici, distrofici, subnormali ...).
Infatti dopo che nel 1954 i ciechi civili
ottennero la concessione di un assegno a vita e la istituzione di un proprio
ente, si verificò una sorte di reazione a catena fra tutti gli altri gruppi di
handicappati, la cui azione si sviluppò sostanzialmente su due direttrici
alternative: conseguire, con manifestazioni di protesta, prestazioni
economiche e riconoscimento giuridico, oppure attuare servizi assistenziali e
sanitari di emergenza finanziati, per convenzione, dallo Stato.
È questo il periodo delle «marce del
dolore» da una parte e della creazione di una vasta rete di istituti,
di ospizi e di «centri di riabilitazione» dall'altra.
Dal punto di vista organizzativo e
funzionale si può osservare che nella stragrande maggioranza delle
associazioni di invalidi rifluiscono i principi
fondamentali della «beneficenza pubblica», quali la presa in carico totale degli aderenti (tutela, rappresentanza,
assistenza materiale e morale), il paternalismo, la contaminazione di motivazioni
giuridiche ed etiche e soprattutto una implicita sfiducia nelle capacità degli
handicappati di gestire in proprio la loro emancipazione.
Tutte le associazioni si definirono
per categorie giuridiche, anziché per
scopi che sono indifferenziati: assistere, curare,
rappresentare, ciascuno secondo la specificità della causa o della natura
dell'handicap.
Si può anzitutto rilevare la
distorsione concettuale che sta alla base della definizione di categoria,
quando questa assume come motivo di affiliazione o di
appartenenza al gruppo un handicap fisico o psichico o sensoriale e quando i leaders finiscono per fare del proprio stigma una «professione».
È evidente che finché le
associazioni di invalidi sono o restano dei movimenti
di promozione sociale, di sensibilizzazione pubblica o di pressione politica,
esse rientrano in una logica democraticamente corretta e sociologicamente
motivata; ma quando questi gruppi costituiscono un insieme di «compagni di
sofferenza», cui si deve necessariamente appartenere perché ci si identifica
come diversi rispetto all'ambiente sociale, allora il gruppo stesso diventa uno
strumento di esclusione e di autosegregazione.
In definitiva il chiedere privilegi,
particolari forme di tutela e di protezione, una specifica configurazione
giuridica, significa per gli invalidi accettare e
confermare gli stereotipi della devianza e della separazione e la negazione
della propria dignità e uguaglianza.
Il presupposto sociologico è
costituito da un pregiudizio di incapacità e di inferiorità
attribuite ai portatori di handicaps, per cui da una
parte si definiscono bisogni specifici e differenziati, e quindi diritti
particolari, e dall'altra si prevedono strumenti e istituzioni giuridiche di
tutela e di rappresentanza, ritenendo che i soggetti non possano gestire un
discorso politico e sociale autonomo. Quindi fra gli handicappati e
l'esigibilità dei loro diritti si costituisce sempre un mediatore burocratico
(spesso per delega e nomina dello Stato), che ha il compito di proteggere gli
interessi «materiali e morali», che sono ritenuti diversi
da quelli di altri cittadini e che quindi rafforzano l'emarginazione e la
passività.
Le associazioni storiche di
handicappati sono state poi causa di molte distorsioni
del nostro sistema socio-assistenziale e hanno svolto un ruolo di conservazione
culturale, ritardando la politica delle riforme e della sicurezza sociale,
intesa come universalismo e uguaglianza delle prestazioni.
Alla fine degli anni sessanta,
contestualmente alla polemica contro le istituzioni totali (manicomiali e di ricovero
assistenziale) e contro gli enti «inutili», si afferma
la convinzione che la malattia e l'handicap sono effetto di disfunzioni sociali
ed economiche. In questo quadro gli interventi per gli handicappati non sono
più o soltanto per la riabilitazione (in senso medico e terapeutico) ma per
l'integrazione sociale.
Gli handicappati hanno diritto non
soltanto alle cure e al mantenimento, ma anche all'istruzione, alla formazione
professionale, al lavoro, alla partecipazione, alla
vita sociale, politica ed economica.
Stabilire l'uguaglianza degli
handicappati e considerare í loro problemi nel quadro dei
diritti e dei doveri costituzionali ha rappresentato l'elemento di
scardinamento dell'impostazione dell'associazionismo storico ed ha instaurato
dinamiche evolutive fortemente positive.
La discussione politica e culturale
non si è esaurita nella affermazione della
soggettività dei diritti (allo studio, al lavoro, al benessere) quanto
piuttosto sulle modalità di attuazione: istruzione, ma non nelle scuole speciali; lavoro, ma non nei laboratori protetti; riabilitazione, ma non in contesti separati...
Il punto di arrivo
di questo processo è costituito dal decentramento istituzionale, dal trasferimento
delle funzioni statali in materia di assistenza e di sanità, dalla
privatizzazione degli enti pubblici di categoria e dalla formazione, sia pure
con molte lacune di una legislazione di sicurezza sociale in cui sono stati
compresi anche i bisogni e i diritti dei portatori di handicaps.
L'impegno per la socializzazione
prevale quindi nettamente sulle soluzioni settoriali e favorisce forme
associative e spontanee, che agiscono al di fuori degli organismi di
rappresentanza legale, con compiti di promozione.
I movimenti per l'integrazione e la assunzione da parte degli enti locali delle funzioni
socio-sanitarie hanno tolto spazio politico e culturale alle associazioni
tradizionali e soprattutto hanno messo in crisi la loro metodologia operativa.
La situazione attuale è comunque inquietante: le associazioni storiche sono state di
recente rifinanziate dallo Stato, i progetti della
socializzazione (soprattutto a livello locale) mostrano la forte caduta di
tensione e di convinzione politica, il modello assistenzialistico
(risarcimento monetario e prestazioni di emergenza) tende a diffondersi quale
unica soluzione.
L'involuzione è aggravata dalla
crisi economica e si registrano a livello legislativo e amministrativo gravi
decisioni:
1. l'indennità
di accompagnamento (legge 18/ 1980), concessa soltanto ai «totalmente inabili»,
si configura come strumento assistenziale, anziché come mezzo per sostenere
l'attività e l'autonomia e induce molti a rinunciare al collocamento al
lavoro;
2. la sentenza
della Corte di Cassazione (30 marzo 1981, n. 478) che ha dichiarato l'inammissibilità
nella scuola pubblica di quegli handicappati genericamente definiti «gravi»;
3. il decreto Aniasi
(25 luglio 1980) che ha definito meccanismi moltiplicatori per l'attribuzione
del grado di invalidità con l'effetto di aumentare il
numero degli invalidi «lievi» e di escludere dalla vita attiva quelli medio-gravi;
4. gli effetti della crisi
economica, le difficoltà di attuazione della riforma
sanitaria che stanno rimettendo in discussione molte conquiste e la sicurezza
sociale che rischia di ritornare ad essere una appendice dell'economia di
mercato e quindi di seguirne il ciclo recessivo;
5. i ripetuti
decreti-legge (gennaio 1983 - settembre 1983) per escludere dalla vita sociale
e produttiva gli handicappati.
Quali potrebbero essere, tenuto
conto delle gravi difficoltà del momento politico ed economico, gli obiettivi
e la funzione dei coordinamenti nazionali o locali fra le associazioni e i
movimenti di base degli invalidi? Certamente la difesa dei diritti acquisiti e
la lotta per contrastare gli atteggiamenti e le forze
che vogliono ricacciare gli handicappati nell'isolamento e nell'emarginazione
fisica e sociale. C'è inoltre una direttrice propositiva con riferimento alla
riforma dell'assistenza, ai temi della formazione e
del collocamento al lavoro, dei servizi personali, delle barriere
architettoniche, della scuola, delle pensioni, ecc.
Ma credo che l'impegno unitario, sia
pure nel pluralismo e nella diversità culturale e ideologica, debba avere un
significato più complessivo: l'obiettivo di ogni
lotta non deve essere soltanto l'assistenza (minimo vitale), e la
riabilitazione (uguaglianza di opportunità), ma soprattutto l'integrazione sociale.
Questa espressione racchiude almeno
quattro riferimenti:
1. Aspetto politico. L'integrazione comporta prestazioni sanitarie ed economiche, istruzione, lavoro, vita di relazione, secondo
un processo che si svolge con le stesse
modalità e gli stessi servizi pubblici di cui usufruiscono tutti i cittadini.
Questo dato essenziale della non specificità
e non settorialità
degli interventi comporta una discussione complessiva su tutte le strutture di
formazione e di socializzazione di cui gli handicappati evidenziano e
anticipano sempre disfunzioni e carenze.
Se la scuola è selettiva, se il sistema
produttivo non rispetta la dignità dell'uomo, se la realtà urbana è
impraticabile, se l'istituto familiare e la vita di relazione sono in crisi, se
tutte queste condizioni sono negative per i cittadini normodotati,
lo saranno in misura ben maggiore per gli handicappati.
In questo senso, discutere e
risolvere i problemi dei l'integrazione significa
creare le condizioni limite, politiche e sociali, di una qualità di vita
migliore per tutti. Le difficoltà e i bisogni dei portatori di handicaps hanno un carattere emancipatorio ed
evolutivo per tutta la società.
2. Aspetto sociologico. Se è vero che gli
handicappati in un progetto di socializzazione fanno risaltare le
disfunzionalità dell'organizzazione sociale ed economica per un impegno
politico che conviene a tutti, è anche vero che le loro esigenze e bisogni non
sono eterogenei e straordinari. Le
situazioni di povertà, di inferiorità culturale, di
dipendenza e di isolamento sono comuni a molte fasce della popolazione
sottoprivilegiata, ma sono anche realtà
esistenziali che possono accadere a chiunque e che in una qualche misura
si prospettano nel futuro di tutti.
Questa constatazione si riferisce
alle categorie universali della malattia, della devianza e della vecchiaia, che
dal punto di vista biologico e sociale coincidono per vari aspetti con il
concetto di handicap. Con questa attenzione si può
affermare che la condizione umana degli handicappati non appartiene alla
eccezionalità ma è sovrapponibile a
quella di tutti.
3. Aspetto culturale. Un dato, che spesso sfugge, è costituito dal
fatto che l'integrazione non si esaurisce nella presenza fisica degli handicappati nelle scuole, nelle fabbriche,
nelle attività del tempo libero. Evitare la segregazione in una prospettiva di
tolleranza e di accondiscendenza non annulla il
rischio del rifiuto e della indifferenza.
Integrazione vuol dire relazione,
comunicazione, reciprocità: è il risultato di un impegno di conoscenza fra i
gruppi e le persone.
Non ci può essere integrazione degli
handicappati senza un'azione di educazione sociale,
di consapevolezza e di accettazione vicendevole fra il gruppo «minoritario» e
il gruppo «egemone», in un convergente e contestuale avvicinamento, che non è
soltanto fisico, ma soprattutto psicologico e culturale.
4. Partecipazione. L'integrazione sociale non può essere imposta ma richiede il coinvolgimento e l'adesione dei
cittadini; risulta evidente quindi l'importanza dell'ipotesi politica e
organizzativa della partecipazione.
La linea partecipazionista
che è all'origine del decentramento istituzionale dei servizi socio-sanitari,
che è prevista in tutti gli statuti regionali, che ha
avuto alcune importanti espressioni legislative (decreti delegati della
scuola, circoscrizioni, ecc.), è in crisi. L'ideologia partecipativa, con i
suoi presupposti di pluralismo, di democratizzazione e controllo dei
meccanismi decisionali e di politica del territorio, risulta
soccombente sia rispetto alla logica tradizionale della gestione del potere
politico e amministrativo, sia in rapporto a criteri di «efficienza».
Per quanto riguarda la dimensione politica si può distinguere:
a) la partecipazione per centralità, in base alla quale sono
attori i ceti e le persone che più sono vicine ai
centri di potere;
b) la partecipazione per identificazione, in base alla quale
si partecipa per una adesione spontanea ai valori.
Si può affermare che prevale
nettamente la prima espressione di partecipazione e che di fatto partiti,
sindacati e altri gruppi socio-economici stanno
espropriando ogni spazio partecipativo, soprattutto mediante lo strumento della
nomina o dell'elezione di secondo grado.
La tesi partecipazionista
si scontra inoltre con quella della razionalità espressa dai tecnici e dagli
operatori: ogni proposta o volontà di integrazione
(come acquisizione della uguaglianza), di conflittualità (come proposta
alternativa di vita), è stata di fatto emarginata dai gruppi di potere
istituzionale quando hanno posto il problema delle razionalità delle scelte.
I problemi e i fatti tecnici - si
dice - non possono essere sottoposti ai meccanismi della partecipazione; essa
rimane comunque esclusa dalla definizione degli
obiettivi e si esprime soltanto e non sempre circa le modalità di attuazione.
La dominanza dell'agire razionale rispetto allo scopo sull'agire comunicativo e
simbolico non caratterizza più soltanto la produzione e lo sviluppo economico ma anche il «lavoro sociale».
Ci si può accorgere che si va sempre
più espandendo la convinzione che il problema dell'handicap richiede soltanto
soluzioni razionali ed efficientistiche.
L'handicappato viene sempre più spesso ridotto ad una questione tecnica, competenza di operatori,
di psicologi, di sociologi, di pedagogisti e di burocrati.
Considerare una persona come un problema tecnico significa non soltanto
rinnegare la sua dignità, ma soprattutto sottrarla all'interesse sociale e
alla formazione della volontà democratica.
La crisi della partecipazione
rischia di incentivare sia le spinte involutive, sia
quelle corporative e conflittuali, ma soprattutto compromette l'integrazione
sociale degli handicappati, perché nessun cittadino può essere estraneo a
questo compito di conoscenza e di responsabilità civile.
(1) Cfr., anche: G. SELLERI, «Ruolo delle associazioni di
categoria», in Prospettive assistenziali, n. 15, luglio-settembre 1971, pp. 27-31.
www.fondazionepromozionesociale.it