Prospettive assistenziali, n. 64, ottobre - dicembre 1983
OPERATORI DI UNA CASA DI RIPOSO SOTTO PROCESSO: LA
SENTENZA DI MESTRE
C'era
una volta il «paese dei celestini». L'arcipelago poco conosciuto degli
istituti-lager per minori che solo una intensa
campagna di sensibilizzazione e di denuncia da parte delle organizzazioni più
sensibili ai diritti dell'infanzia ha consentito di far emergere e, almeno in
parte, di superare.
Ora,
i «celestini» hanno cambiato età. Ma la realtà
drammatica di violenze, di sevizie, il clima continuo di terrore e di minaccia
nei confronti degli «assistiti» resta immutato. La stampa quotidiana nazionale
ha riferito ampiamente negli ultimi tempi di situazioni gravi, drammatiche che
investono anziani ospiti di case di riposo: veri e propri istituti o
reparti-lager dove persone indifese (spesso non più autosufficienti) vengono
sottoposte a violenze inaudite.
La
sentenza che pubblichiamo è relativa al processo agli
infermieri del reparto uomini non autosufficienti dell'ospizio «Villa Lucia» di
Mestre. Emerge una realtà raccapricciante: l'accusa a incaricati di pubblico servizio è di lesioni, violenza
privata, violenza carnale, estorsione e minacce. Fatti allucinanti che - pur
documentati e riconosciuti come reato dai giudici - muovono ad incredulità: come è possibile, ad esempio, bastonare vecchi indifesi,
abusarne con un clima di vero e proprio terrore, prendersi gioco di loro
spaventandoli a morte con il «gioco» della estrema unzione.
Ma altre osservazioni sorgono
spontanee. Perché la lunga catena di incredibili
accuse ha preso corpo e credibilità solo dopo anni di sorda incubazione? E dov'erano - in questo come in tanti altri casi emersi
negli ultimi tempi - le autorità preposte al controllo ed alla vigilanza? Che cosa hanno fatto i sindacati e
soprattutto le rappresentanze interne all'istituto?
TESTO DELLA SENTENZA
Il Tribunale civile e penale di
Venezia (Sezione 1ª) composto dei Sigg.
Dr. Gianfranco Candiani, Presidente; Dr. Carmelo Sgroi, Giudice Estensore; D.ssa Maria Vessichelli,
Giudice; ha pronunciato la seguente sentenza nella causa penale a procedimento
sommario contro Cerato Adriano, nato Enego (VI),
24.2.1954, res. Chirignago, via
Piemonte n. 1; Gomirato Luigino, nato Mirano
8.9.1952, res. Mestre, via C. Nigra
n. 6; Meneghel Lino, nato Marcon
27.7.1939, res. Favaro V.to,
via Altinia 116/F; Mulachié Vittorio, nato Venezia 17.10.1937, res. Mestre, via del Gazzato n. 24; Memo
Daniele, nato Venezia 16.7.1948, res. Favaro V.to, via Bagaron
n. 16; Maso Giancarlo, nato Pianiga 22.4.1950, res.
Mestre, via Borsi n. 22; Checchin Arnaldo, nato Venezia 12.9.1939, res. Mestre, via Terraglietto n. 33; Zanetti Cesarino, nato Venezia 14.2.1935, res. Favaro
V.to, via Del Cortivo n. 11; Cabbia Bruno, nato
Martel lago 2.8.1949, res. Mestre, via
Fapanni n. 73; Arrestati il 4.6.1982; in libertà
provvisoria il 22.10.1982; Trevisan Aldo, nato
Venezia 1.12.1925, res. Mestre, via
Montenero n. 68; Ugo Mariella, nata Noale 17.5.1961, res. Moniego di
Noale, via Feltrin n. 144/2; Cremasco Maria Rosa, nata Martellago
7.9.1945, res. Martellago, via
Roma 63/A (Maerne); Favaretto
Anna Maria, nata Martellago
31.8. 1945, res. Martellago, via
Verdi n. 26; Marchiori Elisa, nata Mestre 22.11.1947,
res. Mestre, via Nervesa n.
11; Mogno Morena, nata Mirano 24.6. 1959, res. Martellago, via Boschi n. 20; Stevanato Maria, nata Salzano 13.10.1928, res. Spinea, via Modigliani n. 13; Zannini Annamaria, nata Venezia,
23.3.1947, res. Chirignago, via
Castel Tesino n. 8;
imputati:
A) Checchin
Arnaldo, Cerato Adriano, Gomirato Luigino, Meneghel Lino, Maso Giancarlo, Mulacchié
Vittorio, Zanetti Cesarino: del reato di cui agli
articoli 110, 81 cpv., 61 n.
1, n. 5 e n. 9, 582 Codice Penale, perché, in concorso tra loro, con più azioni
esecutive del medesimo disegno criminoso, abusando dei poteri e violando i
doveri inerenti alla funzione esercitata nella loro qualità di infermieri e
addetti presso la Casa di Riposo, agendo per motivi abbietti, percuotevano violentemente
anziani degenti non potuti esattamente individuare; cagionando loro lesioni
lievi; con l'aggravante di aver approfittato della minorata difesa delle
vittime; Mestre, reato continuato sino al marzo 1982;
B) Maso Giancarlo, Cabbia Bruno, Gomirato Luigino, Checchin Arnaldo: del reato di cui agli articoli 81 cpv., 61 n. 1, n. 5 e n. 9, 582
Codice Penale perché, con più azioni esecutive del medesimo disegno
criminoso, abusando dei poteri e violando i doveri inerenti alla funzione
esercitata nella loro qualità di infermieri e addetti alla Casa di Riposo di
Mestre, agendo per motivi abbietti, cagionavano lesioni lievi rispettivamente
Maso in danno di De Pieri Piero; Cabbia
e Gomirato in danno di Fontanella Mario, Checchin in danno di Battiston
Landolfo; con l'aggravante, di aver approfittato della minorata difesa delle
vittime; Mestre, sino al febbraio-marzo 1982;
C) Cerato Adriano, Gomirato Luigino: del reato di cui agli articoli 582, 110,
61 n. 1, n. 5 e n. 9 Codice Penale perché, in concorso tra loro, abusando dei
poteri e violando i doveri inerenti alla funzione esercitata nella loro qualità
di infermieri e addetti presso la Casa di Riposo,
agendo per motivi abbietti e futili, cagionavano a Marte Cataldo
lesioni personali giudicate guaribili in giorni otto; con l'aggravante di aver
approfittato della minorata difesa dell'anziano paziente; Mestre il 19-20
maggio 1981;
D) Stralcio;
E) Memo Daniele, Gomirato
Luigino, Mulachié Vittorio: del reato di cui agli
articoli 110, 81 cpv., 61 n.
5 e n. 9, 519 C.P. perché, in concorso tra loro, con più azioni esecutive del
medesimo disegno criminoso, abusando dei poteri e violando i doveri inerenti
alla funzione esercitata nella loro qualità di infermieri e addetti presso la
Casa di Riposo, con violenza e minaccia di violente percosse in caso di
rifiuto, costringevano Truccolo Antonio a
congiungersi carnalmente con essi, con l'aggravante di avere approfittato della
minorata difesa dell'anziano degente; Mestre sino al 31 dicembre 1982;
F) Gabbia Bruno e Gomirato Luigino: del reato di cui agli articoli 110, 61 n.
1, n. 5 e n. 9, 605 Codice Penale, perché, in concorso tra loro, abusando dei
poteri e violando i doveri inerenti alla funzione esercitata nella loro qualità
di infermieri e addetti alla Casa di Riposo, agendo
per motivi futili e abbietti, privavano Fontanella Mario della libertà
personale legandolo al letto ove era degente, con l'aggravante di avere
approfittato della minorata difesa della vittima; Mestre, giorno non potuto
precisare tra il luglio 1981 e il marzo 1982;
G) Cerato Adriano e Checchin Arnaldo: del reato di cui agli articoli 110, 61
n. 1, n. 5 e n. 9, 610 Cadice Penale perché, in concorso tra loro, abusando
dei poteri e violando i doveri inerenti alla funzione esercitata nella loro
qualità di infermieri e addetti presso la Casa di
Riposo, agendo per motivi abbietti, con minaccia di percosse e gravi
ritorsioni, costringevano Truccolo Antonio a chiedere
l'elemosina all'interno del reparto, ove si trovava ricoverato; con
l'aggravante di avere approfittato della minorata difesa dell'anziano paziente;
Mestre, epoca anteriore prossima al 31 dicembre 1982;
N) Gomirato
Luigino, Mulachié Vittorio, Maso Giancarlo: del reato
di cui agli articoli 110, 81 cpv.,
61 n. 1, n. 2, n. 5 e n. 9, 610 Codice Penale perché, in concorso tra loro, con
più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, abusando dei poteri e
violando i doveri inerenti alla funzione esercitata nella loro qualità di
infermieri e addetti presso la Casa di Riposa, agendo per motivi abbietti e
allo scopo di occultare i reati di cui alle altre imputazioni loro ascritte,
con minaccia di percosse e ritorsioni, costringevano Voltan
Tullio a tollerare i misfatti da essi perpetrati in danno di altri pazienti e a
non rivelarli alla Direzione ed alle Autorità; con l'aggravante di avere
approfittato della minorata difesa dell'anziano degente; Mestre sino marzo
1982;
I) Cerato Adriano, Gomirato Luigino, Meneghal Lino, Mulachié Vittorio, Memo Daniele, Maso Giancarlo, Checchin Arnaldo, Zanetti
Cesarino, Cabbia Bruno: del reato di cui agli
articoli 110, 572 Codice Penale perché, in concorso tra loro, attuando le
condotte descritte ai capi tutti che precedono maltrattavano gli anziani
degenti della Casa di Riposo ad essi affidati per
ragioni di cura; Mestre, sino al marzo 1982;
L) Trevisan
Aldo, Ugo Mariella: del reato di cui agli articoli 110, 61 n. 5 e n. 9, 629
Codice Penale perché, in concorso tra loro abusando dei poteri e violando i
doveri inerenti alla loro qualità di infermieri presso
la Casa di Riposo, costringevano con minacce di violenza e percorse, Biasutti Vittorio a corrispondere a loro indebitamente la
somma di L. 1.000 per il servizio di assistenza e
pulizia praticatogli. Con l'aggravante di avere approfittato
della minorata difesa dell'anziano degente; Mestre, 24 marzo 1982;
M) Zanetti
Cesarino, Mulachié Vittorio, Maso Giancarlo, Meneghel Lino: del reato di cui agli articoli 110, 81 cpv., 61 n. 1, n. 2 e n. 9, 336
Codice Penale perché, in concorso tra loro, con più azioni esecutive del
medesimo disegno criminoso, abusando dei poteri e violando i doveri inerenti
alla funzione esercitata nella loro qualità di infermieri e addetti presso la
Casa di Riposo, agendo per motivi abbietti e allo scopo di occultare i reati di
cui alle altre imputazioni, usavano minaccia di percosse e di altre gravi
ritorsioni nei confronti di Zanchettin Ornella,
infermiera incaricata di pubblico servizio allo scopo di costringerla ad
omettere atti del proprio ufficio e cioè a trascurare i pazienti e a tacere
alle competenti Autorità i fatti di cui era venuta a conoscenza; Mestre sino al
marzo 1982;
N) Maso Giancarlo, Mulachié Vittorio: del reato di cui agli articoli 110, 81 cpv., 61 n. 1, n. 2 e n. 9, 336
Codice Penale perché, in concorso tra loro, con più azioni esecutive del
medesimo disegno criminoso, abusando dei poteri e violando i doveri inerenti
alla funzione nella loro qualità di infermieri o addetti presso la Casa di
Riposo, agendo per motivi abbietti, ed allo scopo di occultare i reati di cui
alle altre imputazioni, esercitavano minacce di percosse e di gravi ritorsioni
nei confronti di Listo Maria, infermiera incaricata di
pubblico servizio allo scopo di costringerla ad omettere atti del proprio
ufficio e cioè a trascurare i pazienti e a tacere alle competenti Autorità i
fatti di cui era venuta a conoscenza; Mestre sino al marzo 1982;
O) Cremasco
Maria Rosa, Favaretto Annamaria, Merchiori Elisa, Mogno Morena, Stevanato Maria, Zaniti Annamaria: del
reato di cui agli articoli 110, 61 n. 1 e n. 9, 328 Codice Penale perché, in concorso tra loro, in più di cinque persone, agendo
per motivi futili e con violazione dei doveri inerenti alla funzione di
assistenza dovuta ai degenti, nella loro qualità di infermiere e addette
presso la Casa di Riposo, omettevano l'atto del proprio ufficio di prestare
soccorso ed assistenza ad una anziana degente (non potuta individuare) la quale
caduta accidentalmente a terra, si trovava fisicamente impossibilitata a rialzarsi;
Mestre il 21 agosto 1981;
P) Stralcio;
O) Mulachié
Vittorio: del reato di cui agli artt. 610-61 n. 1/5/9
C.P. perché, abusando dei poteri e violando i doveri inerenti alla funzione
esercitata nella sua qualità di infermiere addetto
alla Casa di Riposo di Mestre, con violenza consistita nel sottrarre
all'anziano degente Griggi Vittorio gli strumenti
terapeutici ed i farmaci applicatigli a seguito di prescrizione medica,
costringeva il medesimo Griggi Vittorio a tollerare
l'arbitraria interruzione della essenziale terapia in corso. Con
l'aggravante di aver agito per motivi abbietti e futili approfittando della
minorata difesa del paziente; Mestre 9.5.1982;
R) Memo Daniele:
del reato di cui all'art. 527 C.P. perché all'interno della Casa di Riposo di Mestre e quindi in luogo aperto al pubblico, esibiva a Manente Cristina il membro in erezione; Mestre,
circa metà aprile 1982;
S) Memo Daniele: del reato di cui
all'art. 521 C.P. perché, mediante palpeggiamenti ed aggressione fisica,
compiva atti di libidine violenti in danno di Zanchettin
Ornella; Mestre, seconda metà di aprile 1982;
T) Maso Giancarlo: del reato di cui
all'art. 521 C.P. perché, abbracciando e baciando Parpagiofa
Nerina contro la di lei volontà e resistenza, compiva
sulla medesima atti di libidine violenti; Mestre,
marzo 1982;
U) Maso Giancarlo: del reato di cui
agli artt. 61 n. 5/9 - 521 C.P. perché, abusando dei
poteri e violando i doveri inerenti alla funzione esercitata in
qualità di infermiere presso la Casa di Riposo di Mestre, manipolando il
pene di un anziano emiplegico, compiva sullo stesso atti di libidine violenta.
Con l'aggravante di aver approfittato della minorata difesa
della vittima; Mestre, aprile 1982;
V) Maso Giancarlo: del reato di cui
agli artt. 527 C.P. perché, nella circostanza di cui
al capo che precede, esibiva a Zanchettin Ornella i
propri genitali.
*
* *
In esito all'odierno pubblico ed orale
dibattimento, svoltosi in presenza degli imputati
Cerato Adriano, Gomirato Luigino, Meneghel Lino, Mulachié
Vittorio, Memo Daniele, Maso Giancarlo, Checchin
Arnaldo, Zanetti Cesarino, Cabbia
Bruno, Trevisan Aldo, Ugo Mariella, Zannini Annamaria e in
contumacia degli imputati Cremasco Maria Rosa, Favaretto Annamaria, Marchiori Elisa, Mogno Morena, Stevanato Maria; sentiti gli imputti presenti, la difesa, il P.M.,
questo Tribunale osserva:
FATTO E SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
In data 29.5.1981, Caridi Concetta presentava presso la Sezione dei
Carabinieri di Mestre un esposto-querela contro ignoti, nel quale denunziava
che la mattina del 20.5.1981, recatasi ad assistere il
proprio marito Marte Cataldo, ricoverato - quale persona non
autosufficiente - presso la Casa di riposo di Via Spalti 1 in Mestre, aveva trovato il coniuge che, nel lamentarsi di
un forte dolore al fianco sinistro, tale da provocargli vomito, dichiarava,
piangendo, che «era stato l'infermiere»; la Caridi
precisava nella denunzia che il marito era stato quindi visitato dal medico
del suddetto istituto, dottor Ardigò Alessandro; e
che era la seconda volta che trovava il consorte in quelle condizioni. A sua volta il medico suddetto, con referto in data 22.5.1981, notiziava il Commissariato di P.S. circa l'episodio,
descrivendo gli accertamenti medici da lui compiuti sul Marte, e dichiarando
altresì che la Caridi gli aveva riferito che un
altro degente della Casa di riposo - di cui la donna non aveva fatto il nome -
aveva visto il Marte «accapigliarsi e darsele» con un infermiere dell'Istituto,
nella notte tra il 19 ed il 20 maggio 1981. In data 24.8.81 poi, Basso
Giuseppina, figlia di altra ospite della Casa di
riposo, denunziava agli organismi direttivi dell'Ente un altro episodio,
avvenuto il 21.8 precedente: la donna riferiva che, mentre si trovava nella
stanza dove era ricoverata la propria madre, aveva sentito suonare il
campanello di richiamo del personale e, subito dopo, una voce chiedere
l'intervento di un'infermiera, reiteratamente; aveva quindi visto una anziana
degente che bussava alla porta della cucina dell'Istituto, richiedendo
l'intervento di alcune infermiere colà presenti, per aiutare una degente
caduta; la donna otteneva peraltro per risposta l'invito a non preoccuparsi;
la Basso si era perciò recata presso la stanza da cui proveniva l'allarme, e
qui aveva visto una donna anziana per terra; era ritornata presso le
infermiere, in cucina, sollecitandole all'intervento; ma una di queste l'aveva
invitata a esporre le sue lamentele al personale medico. Oltre a tale episodio di omissione di assistenza, la Basso formulava
altri rilievi, tutti facenti riferimento ad una generale trascuratezza e
disattenzione da parte del personale infermieristico nei confronti degli
anziani ospiti della Casa di riposo. Tale esposto veniva
trasmesso, dagli Organi di Gestione dell'istituto, all'Autorità giudiziaria. A
seguito di tali sollecitazioni e denunzie, veniva
avviata indagine da parte del Nucleo di P.G. della Compagnia CC di Mestre,
sulle circostanze lamentate; a seguito della quale emergevano diversi episodi
di carattere violento operati da personale dell'istituto sia verso anziani
degenti che contro taluni dipendenti.
In sede di indagini, infatti,
venivano sentiti Ardigò Alessandro, Voltan Tullio, Listo Maria, Zanchettin Ornella e Tegon
Bruno; il primo precisava di aver riscontrato, all'esame medico svolto sul
degente Marte in data 28.8 una ecchimosi di natura traumatica, giudicata
guaribile (a posteriori) in otto giorni. Il secondo - degente - riferiva agli
agenti che il 30.12.81 un gruppo di infermieri
dell'istituto, tra cui nominava Mulachié Vittorio,
aveva circondato il letto di un ospite ricoverata nella sua stessa stanza, Truccolo Antonio, inscenando una finta benedizione a
seguito della quale il degente subiva un violento shock (Truccolo,
decedeva circa venti giorni dopo tale fatto); che, in altri momenti, aveva
visto Memo Daniele e Gomirato Luigino, dipendenti
della Casa di riposo, praticare rapporti sessuali col Truccolo
il quale, sotto minaccia, doveva subirli; che, inoltre, i già detti Gomirato e Mulachié minacciavano
il dichiarante per indurlo al silenzio sui fatti di cui era testimone. Voltan aggiungeva infine che i degenti
Marte, Reni e Fontanella - tutti non autosufficienti - erano stati picchiati
dal personale infermieristico. La Listo - infermiera - afferma di aver
constatato di persona durante il servizio da lei prestato nel reparto
infermeria uomini della Casa di riposo, una reiterata condotta violenta da
parte di alcuni infermieri addetti al medesimo reparto
- i già detti Mulachié, Gomirato
e Memo, nonché Checchin
Arnaldo, Cerato Adriano, Meneghel Lino, Maso
Giancarlo e Zanetti Cesarino
- in danno degli assistiti, tale da aver creato all'interno dell'Istituto un
clima di pesante intimidazione, sostenuto attraverso l'esercizio di minacce
contro il personale - anche contro di lei, in particolare ad opera di Maso e di
Mulachié; la Listo aggiungeva di sapere che, per
svolgere le prestazioni dovute verso i ricoverati, alcuni degli infermieri si
facevano pagare. Zanchettin Ornella - infermiera -
premesso il clima generale esistente nel reparto infermeria uomini, nutrito
da manifestazioni di violenza pressoché quotidiane, esponeva diversi episodi
specifici, quali: la «benedizione» al degente Truccolo
già detta; costrizioni in danno dello stesso Truccolo
a chiedere l'elemosina, da parte di Cerato e Checchin
(come riferitole dall'assistita); minacce - finalizzate al silenzio - da parte
di Gomirato e Maso, contro il Voltan,
in relazione a quanto questi aveva potuto constatare
quale compagno di stanza del Truccolo; violente
percosse del Maso contro l'anziano De Pieri, e di
altro infermiere, Cabbia Bruno, contro il degente
Fontanella; un episodio di contenzione, con il legamento al letto dello stesso
Fontanella da parte di Cabbia e Gomirato;
un passaggio di denaro da un degente al dipendente Trevisan
Aldo, motivato dall'assistito come corrispettivo di una prestazione. La Zanchettin aggiungeva di essere stata più volte minacciata
di pestaggi da parte degli infermieri Zanetti, Maso,
Mulachié, Paggin e Meneghel, ogni qualvolta ella li
sollecitava ad un contegno professionalmente corretto. Sempre nel corso delle
indagini di P.G., era
sentito il ricoverato Biasutti Vittorio, che
illustrava come - specie da quando egli non era più autosufficiente - fosse
necessario versare delle somme di denaro per ottenere le necessarie
prestazioni assistenziali degli addetti al reparto; lo stesso esponeva inoltre
di aver udito il Mulachié rivolgersi ad un paziente
in gravi condizioni di salute, con la frase: «ti faccio guarire se mi fai
portare a letto tua figlia»; di aver constatato fatti di «sciacallaggio»,
quali asportazioni di beni e valori ogni qualvolta un degente decedeva;
descriveva la situazione generale del reparto in termini di estrema
sopraffazione verso gli anziani, con l'esercizio di scherzi di cattivo gusto,
di angherie e con omissioni di assistenza; dichiarava infine di essere stato
costretto, in data 24.3.82, a consegnare mille lire agli inservienti Trevisan Aldo e Ugo Mariella, dopo aver ricevuto il
servizio di un bagno, per evitare che i suddetti gli usassero violenza. Erano acquisite informazioni testimoniali anche da parte
dell'infermiera Parpagiola Nerina, che riferiva - per
diretta constatazione - delle percosse, esercitate con il prendere a calci,
date dal Checchin all'anziano Battistoni;
dichiarava di aver saputo, all'interno dell'Istituto, della sottoposizione del
degente Truccolo ad attività sessuali; riferiva -
quale testimone della circostanza - di aver sentito lo Zanetti
minacciare l'infermiera Zanchettin di «buttarla
dalla finestra», dopo essere stato richiamato da quest'ultima.
A tali prime acquisizioni seguivano ulteriori
indagini, dalle quali emergevano altre circostanze, che qui di seguito si
espongono sinteticamente: un episodio di negligenza riguardo l'immediato
soccorso di un paziente, Rui Evaristo, colto da
malore in data 2.5.82 alle 16,30 e deceduto nello stesso giorno alle 20,15; una
arbitraria interruzione della terapia condotta sul degente Griggi,
sottoposto a fleboclisi, da parte del Mulachié, il
quale - in data 9.5.82 - senza motivo staccava l'apparecchiatura, gettando i
flaconi che ancora dovevano essere assunti dal Griggi,
nella spazzatura; su tale punto, erano acquisite la relazione inviata dal Sanitario
dell'Istituto, dottor Levio Poloni, nonché le
dichiarazioni della Zanchettin, dell'infermiere De
Rossi Giancarlo e di Numeni Lodovica, moglie di un
assistito e presente al fatto; venivano altresì sequestrati i flaconi sia
quelli utilizzati che quelli ancora pieni. Era acquisito un verbale di riunione
- datato 27.4.82 - della Commissione di Gestione
dell'Ente, sede nella quale l'infermiera Parpagiola
riferiva che il Memo, poco tempo prima, si era rivolto ad altra dipendente, Manente Cristina, sbottonandosi i pantaloni e mostrandole
il membro in erezione; che, nel marzo 1982, la stessa Parpagiola
era stata baciata con violenza da Maso Giancarlo, durante la svolgimento del
servizio in Istituto; mentre la Zanchettin riferiva
che il Maso praticava «manipolazioni» del pene di un anziano emiplegico, e -
da lei richiamato a diverso contegno - le aveva mostrato i genitali; e che il
Memo l'aveva provocata dinanzi ad ospiti dell'Istituto e a un collega di
lavoro, profferendo parole e compiendo gesti osceni e «tentando di metterle le
mani addosso». Stanti le emergenze fin qui dette, ed
identificati in Gomirato Luigino e Cerato Adriano gli
addetti al turno di servizio della notte 19-20.5.1981 - per l'episodio di
percosse contro Marte - e in Cremasco Maria Rosa, Favaretto Anna Maria, Marchiori Elisa, Mogno Morena, Stevanato Maria, Zannini Annamaria le
infermiere implicate nell'episodio dell'anziana caduta e non soccorsa, veniva
esercitata azione penale nei confronti di Cerato, Gomirato,
Meneghel, Mulachié, Memo,
Maso, Checchin, Zanetti, Cabbia, Trevisan, Ugo, nonché nei
confronti delle infermiere sopra citate, in relazione alle imputazioni quali
rispettivamente ascritte ai capi da A) a M) di cui al fg.
83 (si precisa sin da ora che non si farà qui riferimento alle imputazioni ai
capi D) e P) dell'originaria contestazione essendo i
correlativi addebiti oggetto di provvedimento di stralcio dal presente
procedimento, vedi fg. 164 P.M.).
Le imputazioni erano contestate con
ordine di cattura nr. 122/82 dell'1.6.82, nei
confronti dei primi nove imputati sopra elencati; questi venivano
arrestati in data 4.6.82. Gli imputati tutti rendevano interrogatorio al
Magistrato, sia in relazione agli addebiti formulati a carico di ciascuno di
essi negli strumenti di contestazione, che in relazione a quelli
successivamente contestati in sede di interrogatorio, poi confluiti nei capi da
N) a V) dell'odierna imputazione. Assunto difensivo assolutamente comune
riguardante l'addebito di maltrattamenti (capo I) era il
negare di aver praticato violenza nei confronti degli assistiti nell'ambito del
servizio da loro espletato nel reparto infermeria uomini. In particolare, poi,
sugli specifici episodi emersi dalle indagini, Checchin
dichiarava di non aver mai percosso il Rattistoni, e
descriveva comunque questi come persona «difficile»;
contestava di aver costretto il Truccolo ad
elemosinare, precisando che semmai qualche volta egli e Cerato commissionavano
al degente delle piccole incombenze (fg. 1 P.M.); Mulachié negava sia la finta benedizione che,
conseguentemente, di aver minacciato il Voltan, e
respingeva le accuse di minacce e pressioni verso le colleghe Zanchettin e Listo; sull'episodio del Griggi,
ammetteva di aver interrotto la terapia al degente, spiegando tale gesto con
l'assenza di precise disposizioni scritte circa la metodologia da seguire nel
caso concreto; Zanetti ammetteva di aver pronunziato
la frase «ti butto dalla finestra» diretta alla Zanchettin,
collocandola nel contesto di uno screzio con la collega, quale risposta ad un
atteggiamento insistente della donna; Memo respingeva gli addebiti delle
violenze sessuali contro Truccolo e del gesto
esibizionistico verso la Manente, minimizzando poi le
aggressioni verbali ed i gesti osceni lamentati dalla Zanchettin,
come «apprezzamenti» derivati dall'abbigliamento «provocatorio» di costei; Gomirato negava recisamente le percosse contro i degenti
Fontanella e Marte nonché l'attività sessuale diretta verso il Truccolo e le minacce al Voltan;
sull'episodio di legatura al letto del Fontanella, che a lui risultava in
quanto riportato nei rapporti giornalieri, affermava la sua assenza nella
circostanza; in un secondo momento precisava (fg. 13
P.M.) di aver confuso tale fatto con un altro analogo, ma che, comunque, egli intervenne assieme a Cabba
contenendo l'anziano con un lenzuolo posto attorno al torace, a causa dello
stato di estrema agitazione del Fontanella; Meneghel
negava l'addebito di minaccia contro la Zanchettin;
Maso formulava asserzioni negative per ciascuno degli episodi contestati
(percosse al De Pieri, minacce al Voltan,
alla Listo e alla Zanchettin); ammetteva di aver
baciato la Parpagiola, ma solo come scherzo, in
periodo di carnevale; per tale gesto si era comunque scusato con la donna;
spiegava le manipolazioni dei genitali come normale pratica igienica sui
pazienti; affermava altresì di aver chiarito con la Zanchettin
la presunta esibizione dei propri organi; Cabbia spiegava,
con le stesse argomentazioni di Gomirato, il fatto
della legatura del Fontanella; Cerato esponeva di non aver mai malmenato o
costretto alcuno a fare una qualsiasi attività senza consenso. In generale
tutti i prevenuti, poi, tendevano ad evidenziare la difficoltà del compito da
loro svolto, derivante sia dal quotidiano contatto con persone anziane spesso
non disponibili e di difficile controllo, sia da carenze
materiali e di personale all'interno dell'Istituto; così che in tale quadro un
certo grado di coazione si rendeva necessario per il controllo delle situazioni
maggiormente pericolose, cagionate dai degenti, alcuni dei quali spesso
ubriachi o comunque alterati nel comportamento. Erano altresì interrogati il Trevisan e la Ugo - sul compenso
per servizi al Biasutti, che negavano essere stato
prestato o richiesto - nonché le sei infermiere riferite nell'esposto della
Basso, circa il mancato soccorso all'anziana caduta per terra - sul che in
particolare dichiaravano che la Cremasco e la Favaretto si erano attivate al seguito del richiamo,
incrociando la denunziante, mentre questa si recava a chiedere aiuto, sulla
porta della cucina. Nel corso dell'istruttoria sommaria, venivano
poi escussi quali testi il M.llo dei C.C. Mereu - che aveva raccolto le prime deposizioni
testimoniali su tutta la vicenda -, i degenti De Rossi e Voltan
(che si soffermavano in particolare sugli episodi a carattere sessuale relativi
al Truccolo, e sui cosiddetti «scherzi» operati su
questi); la dott.sa Alì Rita, medico della Casa di
riposo; la Parpagiola - che specificava in dettaglio
diversi episodi, quali quello di Checchin che dava
calci a Battistoni, quello del bacio a lei dato, e
gli scontri tra Zanetti e la Zanchettin;
la Listo - la quale, oltre ad ampliare il contenuto di quanto già riferito in
sede di indagini di P.G. sulla condotta violenta di un gruppo di infermieri,
esponeva quanto sapeva riguardo al Truccolo come oggetto
di violenze o «libertà» di carattere sessuale, precisando inoltre di essere
stata spesso minacciata per il suo contegno non remissivo di fronte a tali
fatti; Zanchettin Ornella - che aggiungeva nuove
circostanze, quali quella del Maso che trascinava un ospite (De Pieri) facendogli poi sbattere la testa contro uno stipite
e quella di Zanetti che colpiva con uno zoccolo le
articolazioni di un altro degente (Pennesi), per
«raddrizzarne gli arti». Rendevano inoltre deposizioni testimoniali il Brig. Brasson, gli anziani Reni, Franchini, Sciandra, Battistoni, Fontanella, Biasutti,
Beatrice, Milani, De Franceschi,
nonché la Caridi - moglie di
Marte Cataldo -, Sciandra Vera - moglie
dell'assistito sopraddetto -, Basso Giuseppina, i medici Levio Poloni e Alessandro Ardigò, i dipendenti dell'Istituto Lazzarin,
Manente, Paggin, Rigo,
Francesco Doriguzzi, il direttore dell'Istituto Tegon, Scarpa Velia - figlia di un degente -; ciascuno dei
suddetti riferiva sia di quanto direttamente percepito, sia di quanto
costituiva notizia corrente nell'Istituto; i degenti in particolare fornivano
vari elementi rivelatori dello stato di soggezione in cui versavano rispetto
alle aggressioni esercitate dal gruppo di imputati detenuti (si rinvia qui, per
brevità espositiva, alle relative verbalizzazioni - fg. da 47 a 80 P.M. - precisando che il contenuto di esse
sarà ripreso in parte motiva). All'esito della sommaria istruttoria -
stralciate, come s'è detto, le posizioni di alcuni
imputati, per episodi di maggiore complessità sul piano probatorio - gli
imputati Cerato, Gomirato, Meneghel,
Mulachié, Memo, Maso, Checchin,
Zanetti e Cabbia (in stato
di detenzione) e Trevisan, Ugo, Cremasco,
Favaretto, Marchiori, Mogno, Stevanato, Zannini erano stati tratti al giudizio di questo Tribunale
per rispondere di tutti i reati loro rispettivamente ascritti quali articolati
nei capi di imputazione da A) a V) riprodotti in epigrafe della sentenza. Al
dibattimento (udienza 20.10.82 si costituiscono preliminarmente parti civili,
nei confronti degli imputati, il Presidente dell'Istituto L.
Andrioli in rappresentanza della Casa di riposo, nonché il Comune di Venezia - attraverso i procuratori
speciali avv.ti Franchini e Gidoni, ex art. 22 c.p.p.; veniva dichiarata la contumacia delle imputate Cremasco, Favaretto, Marchiori, Mogno e Stevanato, ritualmente citate e
non comparse. Si procedeva quindi all'istruttoria
dibattimentale con l'interrogatorio degli imputati presenti; questi ribadivano
in sostanza quanto già espresso in sede istruttoria dinanzi al P.M.; si dava lettura degli interrogatori delle imputate,
contumaci, e successivamente venivano escussi i testi già ricordati sopra, che
mantenevano ferme le proprie rispettive proposizioni circa tutta la serie di
circostanze emerse nel corso del processo. Inoltre i testi, non persone offese,
allargavano il contenuto delle dichiarazioni al più
generale «stato» dell'istituzione assistenziale nel periodo interessante il
procedimento penale: così il Presidente ed il Direttore Amministrativo
dell'Ente esponevano l'inutile esperimento di soluzioni interne amministrative,
pure sollecitate da svariate segnalazioni di parenti degli assistiti e degli
stessi dipendenti, dato il clima di reticenza diffuso all'interno della Casa
di riposo (gli addetti o i terzi che si lamentavano preferivano infatti restare
anonimi). Le infermiere Zanchettin e Listo rendevano
ampia descrizione di numerosi episodi di violenza, confermandoli anche dopo le
contrarie allegazioni rese dagli imputati di volta in
volta chiamati in causa e illustravano la situazione del reparto come dominata
da uno stato di sopraffazione e terrore dei degenti; di tale situazione
puntualizzavano singoli fatti da loro direttamente percepiti. Si procedeva
quindi all'assunzione delle testimonianze di alcuni
degenti intrasportabili, presso l'istituto, a norma degli artt.
453 e segg. c.c.p. (ud. 22.10.1982); erano acquisite ulteriori testimonianze richieste dalla difesa. Quindi, esaurita
l'istruttoria dibattimentale, e concessa la libertà provvisoria agli imputati
detenuti, rappresentanti delle parti civili e del P.M. e difesa degli imputati
formulavano le rispettive conclusioni, riprodotte
analiticamente nel verbale (ud. 23 e 24.11.1982).
MOTIVI DELLA DECISIONE
È da formulare, come necessaria
premessa del giudizio sulle singole posizioni degli imputati in
relazione a ciascuno degli addebiti loro mossi, una serie di
considerazioni, inerenti in via generale al quadro probatorio che si trova a
fare da supporto all'ipotesi accusatoria complessivamente considerata; è
evidente infatti come quest'ultima trovi il suo punto
focale nella imputazione - capo I) dell'epigrafe - di maltrattamenti, e come
tutta la serie di addebiti riferiti a fatti specifici trovi il suo elemento di
confluenza nella condotta relativa a tale reato, quale comportamento che da un
lato trova i suoi punti di maggiore «emergenza» in condotte autonomamente
qualificabili sul piano della responsabilità, secondo i comuni criteri del
concorso di reati, e, dall'altro, fa da raccordo a
tutta la «costellazione» di singoli episodi risultanti dal complesso delle
acquisizioni probatorie (considerazione valevole, ovviamente, per gli imputati
contemporaneamente del reato di maltrattamenti e di altre ipotesi criminose).
Tale interdipendenza sostanziale deriva dalla considerazione dell'ambito e
dell'oggetto di indagine penale nel caso specifico,
riguardante un comportamento di tipo vessatorio, violento, mortificante nei
confronti degli assistiti, sviluppato - e reiterato - da un nucleo di persone
nell'ambito del reparto infermeria uomini della Casa di riposo, in un arco di
tempo individuato nel periodo estate '81 - estate '82; comportamento -
qualificato come maltrattamenti ex art. 572 c.p. - emerso sulla base del
complesso, unitariamente considerato, delle deposizioni testimoniali, ognuna
delle quali vale a fornire un frammento dell'intera situazione.
Tale premessa è necessaria da un
lato per spiegare la metodologia del giudizio che segue, nel quale dapprima
saranno esaminate le diverse specifiche imputazioni sulla
base di un criterio logico di precedenza degli addebiti in danno dei
degenti; seguiranno le fattispecie aventi come parti offese alcune dipendenti
(le stesse che hanno fornito elementi decisivi di accusa pubblicizzando gli
episodi verificatisi nel reparto); infine, si incentrerà l'analisi sul reato -
chiave del processo.
Sotto altro profilo, le considerazioni sopra espresse - sintetizzabili nella
individuazione di un clima diffuso creatosi all'interno dell'Istituto
assistenziale, definibile in termini di prepotenza e intimidazione alimentate nel
tempo dalla ripetizione di episodi di violenze e minaccia - implicano un
rilievo di estrema importanza ai fini della valutazione critica degli elementi
di accusa rispetto a quelli a discarico; posto infatti che il maggiore dato di
prova è fornito da alcune deposizioni testimoniali, rese dalle infermiere Zanchettin, Listo, Parpagiola
(testimonianze supportate poi, in varia misura, dalle dichiarazioni fornite
da altri dipendenti, da personale amministrativo e medico dell'Ente, da
parenti dei degenti e da questi ultimi), e rilevato inoltre che il complesso
delle dichiarazioni accusatorie si è accresciuto nel corso del processo,
deriva, da tali dati di fatto, una valutazione di estrema attendibilità delle
citate testimonianze; ciò sia perché esse sono state formulate, in origine,
risolvendo il generale silenzio sui fatti, affrontando l'isolamento
psicologico e la intuibile scomodità che da tali prese di posizione all'interno
dell'ambiente lavorativo derivava alle persone in tal modo espostesi (e in
effetti sottoposte a diverse pressioni: sono frequenti i riferimenti a
tentativi di tacitare le dipendenti stesse); sia perché la puntualità e
l'ampliamento delle notizie fornite, talvolta anche in diretto contraddittorio
con gli imputati, avvalora la credibilità di tali deposizioni sul piano della
coerenza e della tenuta dell'accusa (non si è infatti presentato il caso, non
infrequente in procedimenti del genere, di un ridimensionamento dei fatti);
sia perché, infine, tali dati testimoniali provengono da personale impegnato -
con «direzione» professionale ovviamente opposta - nel medesimo reparto e nelle
medesime incombenze degli attuali imputati.
Corollario di tutto questo è che
assolutamente marginali, ed ininfluenti sul piano della personale responsabilità
penale, risultano le argomentazioni difensive
incentrate su lamentate carenze strutturali della Casa di riposo, per
l'elementare ma decisiva considerazione che, nello stesso tempo e nella stessa
realtà materiale, altro personale ha correttamente svolto il proprio compito
assistenziale; e d'altronde la valenza culturale e ideale dei fatti, quale
emerge dalle modalità con cui gli episodi si sono svolti, si pone talmente in
contraddizione con qualsiasi possibile riferimento alla funzione di assistenza,
che non si può in alcun modo configurare una relazione tra le condotte tenute
dai prevenuti coi problemi delle carenze istituzionali, o, se si vuole,
dell'ancora più generale problema degli anziani; in nessun modo l'essersi
svolti i fatti oggetto di giudizio all'interno di una istituzione richiedente
particolare impegno ed attenzione, può costituire giustificazione di condotte
che, comunque siano viste, non rappresentano solo un eccesso - pur sempre
correlato alla funzione - ma si pongono, sempre, in contrasto e al di là della
professione svolta.
Ultima argomentazione da premettere
in via generale è quella relativa al valore - sul
piano della prova - che, in tale contesto, assumono le deposizioni rese dai
degenti dell'istituto - perciò da persone soggette, per definizione, a una
supremazia istituzionale da parte di coloro che sono in grado di soddisfarne le
esigenze e i bisogni, anche i più immediati (si consideri il rilevante numero
di cosiddetti «non autosufficienti»). Tali dichiarazioni da un lato apportano
diretto sostegno e riscontro alle allegazioni dei testi non degenti,
dall'altro illuminano il significato obiettivo e sostanziale delle attività
commesse in loro danno; si afferma qui, una volta per tutte,
che le testimonianze delle parti offese risultano generalmente credibili
(nonostante ogni contrario assunto degli imputati, tendenti a svalorizzare, per ragioni di salute, caratteriali,
comportamentali etc. la ragionevolezza delle dichiarazioni stesse) data anche
la diretta percezione dei contenuto di esse da parte del Tribunale - in particolare,
in sede di esame a domicilio ex art. 453 c.p.c. - e
considerata la provenienza di tali informazioni da persone descritte dai
sanitari dell'istituto in genere orientate e lucide, cosicché non si può
seriamente formulare un qualche dubbio di eccessività delle doglianze o di
percezione abnorme dei fatti da parte degli ospiti.
Tutto quanto sin qui esposto viene premesso all'analisi degli specifici addebiti per
economia del discorso, dandosi comunque per richiamate tali premesse in
occasione di ogni singola analisi del materiale probatorio, relativo a ciascun
capo di imputazione.
Passando ora all'esame specifico
delle imputazioni, queste si esaminano raggruppando nell'ordine dapprima
quelle sub A), B), C), E), F), G), H), O) e U), in quanto attinenti a episodi in danno dei degenti, e poi quelle sub M), N), R),
S), T) e V), riguardanti ipotesi in danno del personale dell'istituto, per
passare quindi al giudizio sul reato al capo I); da ultimi si analizzeranno i
reati sub L) e O).
CAPO A)
L'imputazione si riferisce ad una
serie di gesti violenti operati da Checchin, Cerato, Gomirato, Meneghel, Maso, Mulachié, Zanetti contro vari
degenti dell'istituto, non individuati nominativamente;
si tratta degli episodi emersi già in sede di indagini di P.G. a seguito della
detenzione della teste Listo (fg. 120), e poi
specificati sia dinanzi al P.M. (fg. 41) che al
dibattimento (fg. 5 ud.
21.10.82) dalla stessa Listo, laddove questa dichiara di aver visto gli
imputati colpire, con pugni, gli assistiti; in tale capo rientra altresì
l'episodio di Zanetti che colpisce con lo zoccolo
l'ospite Pennesi (Zanchettin
fg. 45 P.M.), nonché quello
risultante dalla nota interna del dottor Poloni
relativa a Gomirato (fg. 43
P.M.), il quale ha percosso con pugni l'anziano Milani, dopo avergli coperto il volto con un lenzuolo; vi
rientrano, inoltre, il riferimento alle deliberate percosse esercitate su
anziani, formulato dal teste Biasutti (fg. 55 P.M.), e l'episodio, a carico di Meneghel,
dei calci in danno del Bolla (teste Listo al dibattimento).
Il complesso della
istruttoria ha quindi permesso l'individuazione di talune delle parti
offese, e ha puntualizzato le modalità delle condotte violente praticate da
alcuni degli infermieri in discorso.
Tale addebito, peraltro, si
prospetta - rispetto alla contestazione - diversamente qualificabile quanto al
titolo di reato; per tutti i fatti rientranti in tale capo di
imputazione, riferito originariamente al reato di lesioni lievi, manca
una qualsiasi verifica della sussistenza degli eventi tipici dell'illecito
ascritto, e non è quindi possibile configurare l'integrazione del reato di
lesioni, senza un riscontro, medico o testimoniale, di produzione di malattie
o di traumi, conseguenti alle condotte violente praticate dai prevenuti sulle
persone degli anziani via via individuate nel corso
dell'istruttoria (per quelli non individuati, poi., l'impossibilità di
qualificazione del reato come lesione ò in sé, mancando qui l'identificazione
propria dell'oggetto materiale - persona fisica).
Le condotte violente poste in essere, pertanto, vanno qualificate come percosse,
ex art. 581 c.p., sussistendo di tale ultima
fattispecie penale l'elemento positivo - la condotta del malmenare e
dell'esercitare violenza fisica - e l'elemento negativo - la non produzione di
malattia (questo, se non nella realtà, comunque sul piano della prova).
L'imputazione in parola, pertanto,
confluisce nel giudizio sul reato di maltrattamenti al capo I), sulla base dei
principi dell'assorbimento di fattispecie a diverse
estensioni, e ricordato come la costante giurisprudenza di legittimità escluda
il concorso tra le incriminazioni degli artt. 572 e
581 c.p. (cfr. Cass. Sez.
6ª 20.4.77, Meale, Mass. Dec.
Pen. 77 nr. 136983), costituendo la singola percossa
una modalità di estrinsecazione del maltrattare
penalmente sanzionario, considerata la maggiore
ampiezza di oggettività giuridica del reato più grave - tale da comprendere
certamente violazioni dei bene integrità personale - nonché valutato il dato
testuale della norma dell'art. 581 cpv c.p., con la riserva ivi contenuta. Si
aggiunga, infine, che - come si vedrà in seguito - le condotte violente poste
in essere risultano sorrette dall'elemento psicologico tipico dei delitto al
capo I, piuttosto che dalla volontà di produrre traumi, isolatamente
considerati, sui singoli degenti; se quindi pacificamente ipotesi di lesioni
lievi non volute rientrano nella previsione del reato di maltrattamenti (per
tutte Cass. Sez. 6ª, 5.4.74, Bubnich,
in Giust. Pen. 75, II, 56), a maggior ragione
condotte violente non produttive di lesioni ricadono nell'ambito sanzionato dal
reato da ultimo citato.
CAPO B)
Tale imputazione raggruppa tre
distinti episodi:
1) La circostanza riferita dalla
teste Zanchettin (fg. 121
P.G.), dell'infermiere Checchin che, intorno al
maggio '81 (la teste infatti colloca il fatto
all'inizio del suo servizio, che data 2 maggio 1981), percuote con violenza
l'ospite Battistoni; circostanza confermata da vari e
precisi riscontri testimoniali, quali: Parpagiola (fg. 137 P.G.,
39 P.M.) - che afferma di aver visto il Checchin dare
dei calci all'anziano - Franceschi (fg. 77 P.M.) - assolutamente conforme alla precedente - e
Listo (fg. 7 ud. 21.10.82),
più volte constatante «de visu» il Checchin colpire col taglio della mano sul collo, e con
calci alle gambe, l'ospite Battistoni (e sempre
perché questi «entrava in cucina»).
Per tale fatto va ripetuto il
discorso svolto sopra sub A), mancando anche qui un
elemento di accertamento delle conseguenze fisiche eventualmente prodotte
dalla condotta del Checchin; mentre, per converso,
laddove vi è un riscontro obiettivo di eventi traumatici sull'ospite
(ecchimosi sul torace riscontrate dalla dott.ssa Alì in data 23.8.81, fig. 65 P.M.) manca la riferibilità specifica all'imputato.
Il titolo del reato relativo a quest'ultimo va perciò
qualificato come di percosse, e analogamente a quanto sopra detto, il giudizio
correlativo rientra nell'indagine sul reato di maltrattamenti al capo I).
2) Secondo episodio isolabile nel
capo B) in esame attiene agli imputati Cabbia e Gomirato Luigino, e riguarda le lesioni ecchimotiche
riscontrate, sul viso del degente Fontanella, dall'infermiera
Zanchettin in data 12.1.1982 (fg.
45 P.M.), in concomitanza con il fatto della contenzione del medesimo ospite -
fatto che è oggetto di autonomo addebito al capo F), a
carico degli stessi imputati; qui viene positivamente e direttamente
riscontrato un preciso dato traumatico, certamente qualificabile come lesione
(indifferentemente lieve o lievissima, stante comunque la procedibilità di
ufficio ex artt. 582 cpv., 577 nr. 4 c.p., derivante dall'aggravante del nr.
1) art. 61 c.p., della cui
sussistenza si tratterà più avanti); e chiaro elemento di riferibilità
agli imputati sopra citati consiste nella concomitanza della produzione di
tali lesioni con l'attività di legatura dell'anziano - che è pacifica, e
ammessa dagli stessi Cabbia e Gomirato;
inoltre, il giudizio che qui va fatto mantiene la propria autonomia rispetto
alla distinta analisi sulla liceità o meno della coartazione operata sul
Fontanella.
Dunque validi elementi di accusa emergono dalla presumibile attribuibilità
di condotte violente ai prevenuti in occasione della coercizione del
Fontanella, e tali da procurare a questi l'ecchimosi poi constatata
sull'ospite dalla Zanchettin; peraltro, rispetto a
tale elemento di prova, si trovano in contrasto altri dati, e precisamente
quanto risulta dai rapporti di consegna acquisiti agli atti, nei quali sono
annotate giornalmente le operazioni svolte dagli addetti, e gli episodi più
importanti verificatisi nel reparto: dal rapporto relativo al giorno 11 gennaio
1982, immediatamente precedente il giorno della «legatura» (vedi fgg. 102 e 107 rapporti), risulta
annotato - a firma dell'assistente Cimarosto - che,
«il Fontanella è caduto dal letto»; e, più in generale, l'anziano in parola
risulta spesso presente nei citati rapporti (vedi per esempio consegna
settembre 81) dove viene descritto come il frequente stato di agitazione ed
ebbrezza alcoolica, tale da necessitare la somministrazione
di calmanti; circostanze che trovano qualificata conferma nella descrizione
del degente quale fatta dal sanitario dr. Ardigò al
dibattimento (fg. 35 ud.
20.10.82).
In tale quadro l'elemento di accusa è controbilanciato da fonti di dubbio, relative
alla possibilità dell'autoproduzione di lesioni da
parte del Fontanella, e quindi alla verificabilità del rapporto causale tra
gli addebiti di violenza e l'evento traumatico riscontrato sull'ospite, nesso
che risulta incerto, non potendosi escludere una concorrente evenienza
materiale causativa delle lesioni, alla luce dello «stato» di agitazione del
Fontanella, così come è assunto dagli imputati - i quali hanno rispettivamente
riferito che antecedentemente al loro intervento sull'anziano, questi si era
accapigliato con altri ospiti dell'Istituto (Gomirato),
ovvero che Fontanella si era procurato le lesioni a seguito di caduta accidentale
(Cabbia); si cfr. anche la deposizione dell'ausiliaria Ceccato,
sul comportamento del Fontanella (ud. 22.10.82).
In tale situazione probatoria, nella
quale gli elementi indizianti non risultano integrati
da riscontri concordanti, e, correlativamente, le
tesi difensive, seppure non inattendibili del tutto, sono in parte
contraddittorie tra loro, si impone il proscioglimento degli imputati, con la
formula dubitativa.
3) Terzo ed ultimo episodio
contenuto nei Capo B) riguarda la condotta di Maso in
danno di De Pieri, quale descritta dalla teste Zanchettin (fgg. 121 P.G., 45 P.M.), che vide
l'imputato, in occasione di un bagno all'ospite, prendere questi per le spalle
e trascinarlo, facendogli quindi sbattere la testa contro lo stipite della
porta; la medesima teste constatò poi le visibili conseguenze del gesto sul De
Pieri (un ematoma nella zona periorbitale).
La circostanza è confermata «in toto», e arricchita di puntualizzazioni
sulle concrete modalità dell'azione, dalla teste al dibattimento (fg. 40 ud. 20.10.82), e ribadita
anche successivamente alla contestazione del Maso (fg. 43 dibatt.).
Quest'ultimo espone l'accidentalità dell'urto, ma tale tesi è smentita dal particolare estremamente
preciso riferito in udienza dalla Zanchettin, che
vide Maso «piegare la testa» dell'ospite per procurargli l'urto sullo stipite:
il che è avvalorato dalla particolare dinamica del fatto, dato che il Maso e
De Pieri procedevano retrocedendo, l'uno dietro
l'altro, ed era quindi necessaria una forzatura della posizione del degente per
procurare lo scontro.
Sussistono per tale imputazione gli
elementi tutti per l'affermazione di responsabilità del Maso:
l'intenzionalità è palese nella modalità del gesto, l'evento traumatico è
acclarato dalla formazione della ecchimosi.
Tale reato (commesso intorno al
maggio '81) è fuori dell'ambito di operatività
dell'amnistia concessa con il D.P.R. 744/81, stante la contestazione
dell'aggravante del nr. 9) dell'art. 61 c.p., ex art. 3 lett. C) D.P.R.
citato: aggravante che è evidentemente riscontrabile - in questo come in tutti
gli altri capi di imputazione nei quali è contestata - dato che la condotta
dell'imputato si è svolta in palese contrasto con il corretto metodo di
esercizio della propria professione, costituente servizio pubblico (e perciò
con violazione dei doveri istituzionali ad essa inerenti) nonché approfittando
della posizione di supremazia rivestita nei confronti dei degenti (e perciò
con abuso dei poteri collegati al servizio).
Né l'ipotesi criminosa, anche
qualificando, in assenza di certezza probatoria circa la durata e i postumi del
trauma, le lesioni come lievissime, risulta
procedibile a querela, data l'aggravante del nr. 1)
art. 61 c.p.
Va, su tale punto, affermata decisamente la sussistenza dell'ipotesi circostanziata
contestata: ricordando l'insegnamento della giurisprudenza del S.C. sul
contenuto e sul significato dell'«abiezione» penalmente valutabile, consistente
in ragioni del comportamento delittuoso tali da suscitare reazioni di disprezzo
nella generalità delle persone, sulla base dei valori etici minimi diffusi
nella società civile, non è chi non veda l'estrema gratuità e assoluta ingiustificabilità della pratica di violenza su persone
anziane e sicuramente tanto più deboli e vulnerabili in quanto ospitate
all'interno di una istituzione cd. totale (dove cioè si svolge l'intera
espressione della personalità e l'intero tratto della vita delle persone),
senza che queste abbiano alcun rapporto o legame stabile con l'esterno, e
perciò oltremodo suscettibili di violazioni profonde, e non comprensibili,
della dignità più elementare, proprio ad opera di chi - come il personale
addetto all'istituto - è in definitiva nella disponibilità di gran parte dei
bisogni degli anziani assistiti.
Non si tratta cioè
di avere solo trascurato il corretto servizio della professione, oppure di aver
tenuto comportamenti più o meno «inurbani» o «scortesi» - secondo un certo
standard comportamentale purtroppo frequente nell'ambito di istituzioni del
genere considerato - bensì di essersi accaniti con le persone utenti del
servizio assistenziale; non è certo questa la sede per scandagliare fino in
fondo le ragioni ultime di tale condotta, né un'analisi del genere
risulterebbe utile per il giudizio penale; conta, qui, l'obiettivo effetto e la
reale valenza della condotta; in tal senso, l'esercizio delle violenze in
discorso si pone in irrimediabile conflitto con le più diffuse valutazioni
circa il rispetto della dignità della persona, la tutela della salute, il riguardo
per l'età senile.
Quale che sia l'origine (il motivo)
dell'aver preso ad oggetto e bersaglio di sopraffazione le persone dialetticamente costituenti i soggetti «passivi» della
funzione assistenziale, motivo che può essere
diversamente letto in talune emergenze processuali - puro e semplice «odio»,
cosi Checchin (fg. 45 .M.),
ovvero sorta di scaricamento delle difficoltà della professione sulle persone
rappresentanti causa immediata di quelle stesse difficoltà - è fuori di dubbio
il senso di ripulsa che un comportamento del genere produce su un qualsiasi
osservatore dei fatti.
Sussiste perciò l'aggravante ex nr. 1) art. 61 c.p. contestata, in questo come negli altri
capi di imputazione dove ricorre; in particolare per
ciò che concerne il punto 2) che precede, sempre sub B), il che comporta la già
detta pronunzia in merito anziché una declaratoria sulla procedibilità.
Sussiste, infine, la circostanza del
nr. 5) art. 61 c.p., della minorata difesa della vittima, a cagione delle
condizioni di senilità e di particolare debolezza del De Pieri,
come pure degli altri ospiti, specie i non autosufficienti; e, come pendant,
dell'approfondimento consapevole di tali diminuite capacità di reazione e
difesa degli anziani, da parte dei prevenuti (anche qui il discorso va esteso,
oltre che al Capo B) in esame, a tutti gli altri addebiti a danno di
assistiti).
Per il fatto in danno del De Pieri va quindi dichiarata la responsabilità penale di
Maso Giancarlo.
CAPO C)
L'imputazione attiene alle lesioni
patite da Marte Cataldo; è l'episodio-origine del procedimento penale, esposto
in denunzia dalla moglie dell'assistito, Caridi
Concetta (fg. 114 P.G.).
Per tale fatto - verificatosi la
notte tra il 19 e il 20 maggio 1981 - risultano i
seguenti elementi a conforto dell'accusa: innanzi tutto, sul piano della
materialità delle lesioni, la denunzia della Caridi,
la quale riferisce di avere riscontrato sul Marte un ematoma al fianco
sinistro, due giorni dopo che la stessa donna, recatasi ad assistere il marito,
lo aveva trovato, dolorante e piangente, lamentarsi di un forte dolore sul
medesimo fianco; nonché l'accertamento medico - datato 22 maggio '81 - a firma
del dr. Ardigò (fgg.
115-116 P.G.), e la successiva deposizione dello stesso sanitario, sia in sede di indagine di P.G. (fg. 123) che
dinanzi al P.M. (fg. 60): in tale ultima sede, in
particolare, egli precisa la verosimile origine traumatica degli esiti
constatati sulla persona di Marte (non autosufficiente).
La Caridi,
poi (fg. 10 ud. 21.10.82),
precisa di aver lasciato il marito, la mattina stessa dell'episodio,
tranquillo e in buone condizioni, e di aver notato la comparsa del segno
ecchimotico due giorni dopo (cioè il 22 maggio 1981).
Sul piano della riferibilità
dell'azione lesiva, gli infermieri di turno la notte tra il 19 e il 20 maggio
sono stati individuati in Cerato Adriano e Gomirato
Luigino; quanto al primo, va integrata l'ammissione resa dallo stesso imputato di essere stato presente la notte in discorso, e di essersi
occupato di Marte (provvedendo a pulirlo e cambiarlo) con le risultanze
suddette; ne discende, per esclusione, l'imputabilità di una condotta
violenta al prevenuto, tale da cagionare lo stato in cui il degente fu trovato
dalla moglie la mattina immediatamente successiva.
Inoltre, l'assunto difensivo del
Cerato é smentito sotto vari profili: da un lato, se è vero che la ecchimosi compare due giorni dopo il trauma, questo è
proprio quanto si è verificato; dall'altro, la giustificazione della pregressa
«lite» tra Marte ed altri ospiti è totalmente svalutata da quanto riferito da
altro ospite - appunto - alla Caridi, e cioè di aver
visto Marte «accappigliarsi con un infermiere», col
quale «se le dava (reciprocamente)» (fg. 116 P.G.).
Concordanti ed univoci, allora, sono
gli elementi di accusa a carico di Cerato, del quale
va affermata la responsabilità in ordine a tale capo d'imputazione; si danno
qui per ripetute le considerazioni già fatte circa l'esclusione dell'operatività
dell'amnistia e circa la procedibilità di ufficio, stante la concomitante
presenza delle aggravanti dei numeri 1), 5) e 9) dell'art. 61 c.p.
Per quanto riguarda Gomirato Luigino, viceversa, è risultata
evidenziata l'estraneità dello stesso, il quale non era materialmente
presente, la notte dell'episodio, nel reparto; l'imputazione a carico del
predetto nasce con ogni probabilità da un errore materiale di individuazione,
originato dal rapporto di P.G. (fg. 112), dove si attribuisce il cognome di Gomirato
a persona di nome Adriano (che è il nome del
coimputato Cerato) e si riferisce - conformemente a quanto è in realtà avvenuto
- della presenza di Gomirato Francesco
in quel turno di notte (come del resto è concordemente assunto dagli odierni
imputati).
La circostanza è confermata dal
teste Gomirato Francesco, al dibattimento (ud. 22.10.82), dove dichiara di essere stato in turno con
Cerato sino al luglio '81; egli avvalora tale affermazione riferendosi
specificamente sia alla notte 19/20 maggio 1981, sia
a un successivo colloquio avuto con la Caridi in
merito alle proteste da questa elevate per lo stato in cui aveva trovato il
marito.
Pertanto, Gomirato
Luigino va assolto dall'imputazione del Capo C) per non aver commesso il
fatto, data la sua accertata assenza al momento dell'episodio.
CAPO E)
L'imputazione di violenza carnale a
carico di Memo, Gomirato e Mulachié
trae origine dalle dichiarazioni di Voltan Tullio,
ospite dell'Istituto (vedi fg. 124 P.G.); il teste,
tra l'altro, riferiva di aver visto i prevenuti suddetti congiungersi carnalmente
con l'assistito Truccolo Antonio, il quale doveva
sottostare alle pulsioni sessuali dei tre, essendo picchiato se non
acconsentiva.
Tale notizia trova, sempre in sede di indagini di P.G., una conferma
- indiretta - nelle allegazioni della dipendente Parpagiola
(fg. 137 P.G.), che descrive come (per lei) «non
nuova» la notizia della sottoposizione del Truccolo
ad atti di libidine e a congiunzioni carnali.
Ulteriori acquisizioni su tali episodi
vengono dall'istruttoria, ad opera della stessa infermiera Parpagiola,
che espone (fg. 39 P.M.) quanto a lei riferito da
altro ospite, Pagin, circa le confidenze da quest'ultimo ricevute dal Truccolo su un rapporto sessuale orale praticato con un
infermiere non meglio precisato; nonché dal Voltan (fg. 36 P.M.), che afferma di aver visto più volte i tre
imputati «andare a letto» col Truccolo; in tale sede
peraltro il teste precisa di non aver mai visto rapporti sessuali veri e
propri.
Ancora,
riferimenti alle attività in parola vengono dal degente De Rossi (fg.
35 P.M.), il quale parla di «scherzi» a carattere
sessuale, ma non è in grado di affermare veri e propri rapporti carnali; e
dalla Listo (fg. 41 P.M.), che descrive gli accenni a
lei fatti dal Truccolo, circa «libertà» che alcuni
infermieri si prendevano con lui.
Tale quadro probatorio si addensa in
sede dibattimentale, ad opera delle dichiarazioni del
De Rossi e del Voltan, acquisite presso la Casa di
riposo: il primo afferma, testualmente, che - in epoca antecedente l'episodio
della messinscena della cerimonia - Cabbia e Memo «se
lo fecero menare» da Truccolo (peraltro «una sola volta»),
mentre Maso e Gomirato furono da lui visti buttarsi
sul letto del Truccolo fingendo di avere con questi
rapporti sessuali.
Il De Rossi, poi, esclude la partecipazione del
Mulachié a tali fatti. Il secondo, dal suo canto,
riferisce che i tre imputati odierni si «strusciavano
nel letto» con il Truccolo, sia insieme tra loro che
singolarmente; e, in tali circostanze, «si toccavano» e «si palpavano»; il
teste aggiunge che in simili evenienze egli si allontanava dalla stanza, per il
disgusto e per la volontà di non essere costretto da fare da spettatore di
simili pratiche; egli non è perciò in grado di riferire quanto poi avvenisse
nella stanza.
A pendant, sul piano difensivo, di
tali elementi, i tre imputati passano, dall'interrogatorio reso al P.M. al
dibattimento, da una negatoria assoluta all'ammissione di avere «scherzato» con
il Truccolo, sulle sue «tendenze» omosessuali (cfr. interrogatori Mulachié e Gomirato ud. 20.10.82); l'imputato Memo, poi, inverte i termini
dell'accusa, e si pone - egli - come oggetto di iniziative
di natura sessuale da parte di Truccolo, per le quali
aveva dovuto «riprenderlo» (fg. 19 ud. 20. 10.82).
Sulla base di tale insieme di elementi di prova,
va preliminarmente compiuta una diversa qualificazione giuridica del reato
addebitato, conformemente alle richieste del rappresentante del P.M. sul
punto.
I riferimenti iniziali che i
testi-degenti fanno alle congiunzioni carnali, infatti, si chiariscono - alla
luce di quanto dagli stessi più dettagliatamente detto nel prosieguo del
processo - nel senso di essere riferimenti atecnici, indicativi di un contegno di natura
esplicitamente sessuale; gli ospiti, cioè, hanno formulato sinteticamente una
condotta, che va ora autonomamente inquadrata sul piano giuridico, in
relazione al mancato accertamento probatorio di quello che è l'elemento
tipizzante del reato dell'art. 519 c.p., cioè l'effettiva
congiunzione carnale; è conseguenziale a tale
precisazione l'inquadramento delle condotte nella fattispecie dell'art. 521 c.p.; e in tal senso si modifica l'imputazione al Capo E).
Ciò premesso, si deve evidenziare
che attività descritte nei termini che sopra si sono testualmente riportati
non sono in alcun modo contenibili - come preteso
dagli imputati - in un ambito, penalmente lecito, di «scherzi» sulle «attitudini»
omosessuali (come le definisce l'imputato Gomirato);
l'ambito nel quale i presunti scherzi sono esercitati attiene, in modo non equivoco,
alla sfera della sessualità; e, in tale ambito, gesti definiti - da testimoni
tanto più attendibili in quanto compagni di stanza del Truccolo
- come «farselo menare» o «palparsi» etc. non pare davvero possano essere
limitati nei termini di giudizio del cattivo gusto o della pesantezza, ma, per
il profilo che qui interessa, rappresentano gesti e attività chiaramente
collegati alla sfera dell'eccitamento - uni o bi-laterale, non importa - il
che, come da giurisprudenza assolutamente dominante, è il dato necessario e sufficiente
alla configurazione del delitto «de quo».
Se oggetto di tutela penale ex art.
521 c.p. è la difesa della libertà sessuale della persona, ogni estrinsecazione
di pulsioni chiaramente sessuali accompagnata da intimidazione o da atteggiamento
comunque atto a coartare l'autodeterminazione del
soggetto passivo, è sufficiente per l'affermazione della sussistenza del reato
(cfr. Cass. Sez. 1ª
25.11.71, Amato, in Mass. Dec. Pen. 72, 531); e
diviene, in tale situazione, indifferente la ragione interna del comportamento,
esternatosi come atto di libidine nel senso sopra detto: è cioè
irrilevante l'intenzione di schernire, umiliare etc. (sent.
cit.), dato che il profilo psicologico del reato
dell'art. 521 c.p. richiede soltanto la consapevolezza di operare atti di
libidine - cioè palesemente indicatori della direzione sessuale - attraverso
modalità di costrizione o induzione.
Se tale è la
struttura e la ratio della norma applicabile, non vi è dubbio che le
manifestazioni, i toccamenti, le manipolazioni - indipendentemente
dall'effettiva potenzialità erotica - accompagnati da modalità costrittive e
intimidatorie (vedi fg. 124 P.G.) esercitati per di più
congiuntamente dai tre su persona in stato di minorazione di libertà, e
rafforzati dall'intimazione al Truccolo a «non
parlare di quanto avevano fatto» (Voltan fg. 1 c/o Casa riposo), perfezionano i requisiti tutti
dell'incriminazione in esame.
Quanto agli assunti difensivi degli
imputati, si espongono due rilievi: 1) che tanto poco credibile - oltre che
poco probabile - risulta l'ipotizzata scherzosità delle condotte, che il Truccolo
ebbe a lamentarsi di esse con persone sulle quali evidentemente faceva
affidamento - così con la Listo, cui disse di essere addirittura «esasperato»
per i «continui dileggi sessuali che era costretto a subire» (fg. 5 ud. 21.10.82; cfr. anche Voltan:
«il Truccolo era visibilmente seccato»); col che è
evidenziato il dissenso pieno del soggetto passivo rispetto a simili attività;
2) che - dato che è stata frequentemente sostenuta, come tesi difensiva,
l'omosessualità della parte offesa - non si capisce proprio come tale dato
possa attenuare o addirittura elidere la responsabilità; la dignità argomentativa di tale difesa equivale ad esempio a
sostenere, in ipotesi di atti di libidine su persone di altro sesso che la
vittima è, appunto, eterosessuale; con ciò ribaltando, in modo singolare -
significativo indice di una «cultura» sottesa del resto all'intera e più ampia
vicenda oggetto del processo - la responsabilità della violazione della
libertà sessuale altrui, con un procedimento di proiezione sul soggetto-oggetto di violenza, imputando a questi - senza
alcuna remora - presunte «provocazioni» e simili.
Per quanto attiene alle singole
posizioni, va infine detto che le persone di Memo e Gomirato
risultano costantemente individuate dai testi d'accusa,
lungo tutto il corso del processo, come gli autori delle attività di libidine
in danno del Truccolo; i predetti imputati vanno
perciò dichiarati responsabili del reato loro ascritto, qualificato come si è
detto; mentre, per quanto riguarda Mulachié, la
partecipazione di quest'ultimo viene esclusa in sede
di deposizione dibattimentale dal De Rossi (contrariamente a quanto dedotto in
istruttoria, fg. 35 P.M.).
Tale affermazione, apportata, a
fronte di una serie di elementi accusatori pari a
quella risultante per gli altri due prevenuti, dallo stesso teste - di rilievo
in quanto compagno di stanza della vittima - introduce un elemento di dubbio (e
bilanciamento tra dati a carico e a difesa) tale da imporre il proscioglimento
di Mulachié dal reato al Capo E), modificato come già
detto, per insufficienza di prove.
CAPO F)
Riguarda l'episodio dell'ospite
Fontanella legato al letto, in data 12.1.82, ad opera
di Cabbia e Gomirato.
La materialità del fatto è pacifica:
emerge dalle dichiarazioni della teste Zanchettin (fgg. 126 P.G., 45 P.M.,
41 ud. 20.10.82) e dalle ammissioni degli imputati - Cabbia afferma infatti di aver
dovuto immobilizzare il Fontanella, che era estremamente agitato, e di aver
richiamato, per farsi aiutare, il collega Gomirato;
entrambi poi legarono il degente, facendogli passare attorno al torace un
lenzuolo, i cui capi vennero quindi annodati sotto il letto.
Il fatto trova altresì puntuale
riscontro nella risultanza documentale costituita dal
rapporto di consegna relativo al giorno 12.1.82 - ore 19/22 - nel quale, sopra
la firma «Cabbia - Gomirato»
risulta l'annotazione «Fontanella ubriaco
al massimo e legato al letto; disturbava tutti e picchiava».
La contenzione in tal modo operata
si è poi protratta sino alla mattina del giorno
seguente (vedasi consegna del 13.1.1982: «Fontanella è ancora
legato»).
In astratto risultano
dunque integrati gli elementi normativi del sequestro di persona: la privazione
della libertà di movimento, protratta per un notevole lasso di tempo (3 ore,
dalle 19 alle 22, ora di passaggio delle consegne dai due imputati ai colleghi
Cuogo e De Rossi); la volontarietà dell'operazione -
è infatti il Cabbia che dapprima assieme alla
dipendente Ceccato tenta di bloccare Fontanella e
poi, chiesto ed ottenuto l'ausilio del Gomirato,
compie assieme a questi la legatura al letto dell'assistito; la lesione del
bene della libertà personale che ne è derivata al Fontanella, mantenuto in
stato di pressoché totale immobilizzazione per tutto il tempo detto.
Peraltro, il fatto risulta scriminato dall'essere
avvenuta la condotta coercitiva nell'ambito dello stato di necessità, previsto
quale giustificazione generale dall'art. 54 c.p.
Si è già accennato più sopra alle
particolari condizioni - frequente ubriachezza ed agitazione
- del Fontanella; e d'altronde una significativa e obiettiva descrizione dello
stato dell'assistito è formulata dal medico dr. Ardigò,
che precisa essere il Fontanella un soggetto affetto
da malattia cronica dovuta all'ingerimento di alcool,
e in frequente stato di eccitazione produttiva di atteggiamenti aggressivi,
tali da imporre la frequente somministrazione di sedativi (cfr.
anche rapporti di consegna, nonché deposizione Reni fg. 2 c/o Casa di riposo).
Date tali premesse, l'argomentazione
difensiva degli imputati, che motivano il loro intervento con la necessità di
impedire gesti pericolosi dei Fontanella, anche in
quella circostanza ubriaco ed aggressivo, risulta avvalorata dalla testimonianza
dell'altra infermiera presente nella circostanza, Ceccato
Donatella: la teste afferma che quel giorno il Fontanella, «ubriaco come al solito»
scagliò contro gli inservienti un comodino, rifiutandosi di sottoporsi all'iniezione
sedativa, e brandì minacciosamente un pezzo di vetro contro i dipendenti.
In tale situazione, valutati
l'atteggiamento dell'ospite, connotato da gesti di violenza, e la resistenza
di costui operata contro gli infermieri, onde opporsi alla loro attività tesa
a ricondurlo alla calma, e valutata la conseguente situazione di pericolosità
che tale atteggiamento e tali gesti violenti comportavano - dal punto di vista
degli agenti - in relazione all'integrità fisica
propria e di terzi, la privazione della libertà motoria (funzionalizzata
alla concreta praticabilità di terapie sedative, e non quindi fine a se stessa)
risulta una condotta necessitata, non essendovi altra scelta, nel caso
concreto, tra il lasciare libero il degente, con conseguente pericolo
certamente grave ed imminente per l'integrità delle persone presenti nel
reparto - stante l'assenza di autocontrollo dell'ospite - e l'effettuare la
contenzione; inoltre tale condotta appare congruamente proporzionata al
pericolo voluto evitare, essendosi protratta per il tempo necessario alla
produzione degli effetti della terapia calmante.
Agli imputati, pertanto, compete
l'applicazione dell'esimente in discorso, non avendo i
medesimi causato il pericolo e data la non esigibilità di diversa
condotta.
Per l'imputazione al Capo F),
pertanto, gli imputati Cabbia e Gomirato
vanno dichiarati non punibili, perché il fatto non costituisce reato, avendo
agito in stato di necessità.
Si precisa che, evidentemente, non è
imputabile ai medesimi la protrazione dello stato di privazione di libertà di
movimento cui è stato soggetto il Fontanella
successivamente alle ore 22, cioè - in ipotesi - oltre l'operatività logica e
temporale dell'esimente dello stato di necessità, dato che a partire da quel
momento il degente era nella disponibilità di altri dipendenti, informati
dell'episodio, e quindi autonomamente comportatisi.
CAPO G)
L'addebito di violenza privata si
fonda sulle dichiarazioni rese dalla Zanchettin, in
sede di atti di P.G., nella
parte in cui afferma che Truccolo era costretto a
chiedere l'elemosina all'interno del reparto, a ciò istigato da Checchin e Cerato (secondo quanto riferito alla teste
dalla parte offesa).
A tale circostanza, poi, fanno
riferimento i testi Voltan (fg.
36 P.M.) e Listo (fg. 41 P.M.); il
primo descrive la situazione in termini di costrizione del Truccolo
ad andare in strada a vendere dei quadri («puzzle») composti dagli ospiti,
sotto pena di percosse, precisando - dato che i fatti non gli constavano per
diretta percezione - che voci correnti attribuivano la coercizione a Gomirato e Mulachié; la seconda
afferma che il Truccolo stesso le disse di essere
costretto a vendere quadri composti dal Cerato.
La Zanchettin,
inoltre, precisa dinanzi al P.M. (fg. 44) che il Truccolo le disse sia di tale costrizione, sia che di tutto ciò erano a conoscenza gli odierni imputati,
sia infine che egli era spesso mandato a elemosinare (senza specificare da
chi).
Ulteriori riferimenti, infine, provengono in
sede dibattimentale dalla Listo (fg. 5 ud. 21.10.82), anche qui senza
specifiche individuazioni nominative degli autori della violenza.
Rispetto alla formulazione iniziale,
quindi, si sono via via intersecati e sovrapposti
diversi elementi di incertezza; e ciò sia per quanto
riguarda le concrete modalità della condotta coercitiva, sia per la
duplicazione degli obiettivi - da un lato, e originariamente, elemosinare,
dall'altro, e successivamente, vendere quadri - sia, soprattutto, per ciò che
concerne l'imputabilità di azioni di coartazione in una qualsiasi delle direzioni
suddette agli odierni imputati.
A carico di questi permangono
elementi indizianti, vale a dire le acquisizioni del rapporto di P.G. e i
riferimenti fatti su di loro dalla Zanchettin;
poiché peraltro gli elementi testimoniali consistono in riferimenti indiretti
- cioè in dichiarazioni rese da Truccolo
ai testi - e considerato che tale materiale non ha trovato puntuale integrazione
nel vaglio dibattimentale, nel senso della riferibilità
delle minacce e costrizioni agli imputati in discorso, questi ultimi -
residuando gli elementi indiziari citati - vanno prosciolti dall'addebito in
esame, per insufficienza di prove sulla commissione dei fatti da parte loro.
CAPO H)
Tale imputazione riguarda le minacce
cui è stato sottoposto l'assistito Voltan da parte
dei prevenuti Gomirato, Mulachié
e Maso, essendo egli testimone oculare di una serie di circostanze (si ricorda
che la parte offesa era compagno di stanza di Truccolo).
In particolare, il riferimento
principale dell'imputazione attiene alla condotta degli infermieri nel momento
immediatamente successivo all'episodio della «finta benedizione» inscenata in
danno di Truccolo (fatto del 30.12.1981),
quando taluni di essi minacciarono Voltan
affinché tacesse sull'accaduto, pena ritorsioni violente.
La denunzia di tali fatti è
mantenuta ferma dal teste, nei suoi contorni oggettivi e nella individuazione
degli autori di esse, in modo costante e fermo lungo
tutto il procedimento (fg. 125 P.G. e «de relato» fg. 126 P.G.; fg.
36 P.M.; fg.
1 Dib. presso Istituto).
Senza ripetere qui le considerazioni
più sopra svolte riguardo il valore delle
testimonianze rese dagli assistiti, si rileva soltanto che l'attendibilità
dell'accusa deriva dalla stretta correlazione tra l'essere il Voltan, nell'ottica degli agenti, un elemento quantomeno
di fastidio, a causa della contiguità fisica con l'anziano Truccolo
(e si è già visto come questi fosse uno dei principali bersagli delle
prevaricazioni diffuse nel reparto) e le denunciate minacce; e come perciò,
nella logica degli stessi agenti, fosse necessario consolidare il clima di
paura e silenzio, «intervenendo» sull'involontario spettatore.
La difesa degli imputati assume
l'assenza dal servizio dei medesimi, il giorno dei fatti; ora - a parte il
rilievo che tale ipotesi di estraneità si basa sulle
presenze ai vari turni risultanti dai rapporti di consegna, i quali
evidentemente però giocano solo nel senso di stabilire appunto le presenze ai
turni, non certo le assenze dei dipendenti -si deve affermare che proprio il
carattere dell'episodio degli «olii santi» impartiti
al Truccolo, con relativa messinscena e
macchinazione, ribalta l'argomento difensivo in un ulteriore dato di accusa; e
proprio la specificità dell'episodio induce a ritenere che tale «scherzo» sia
stato architettato e svolto - e lo stesso vale per le minacce di cui si giudica
- in un tempo extra lavorativo, considerato il numero dei presenti e
l'improbabilità dell'effettuazione di tale «scherzo» nel corso
dell'espletamento del servizio.
Quanto al profilo dell'inquadramento
giuridico del fatto, sussistono gli elementi del reato di violenza privata: la
minaccia innanzi tutto che, «se (Voltan) avesse
parlato, gliene sarebbe venuto del male»; nonché la
specifica direzione di tale minaccia in funzione del silenzio, cioè del tollerare
lo stato di cose - meglio, del continuare a tollerarlo anche in futuro - e di
omettere qualsiasi esternazione di quanto percepito e visto dal teste; a
prevenire la possibilità di conoscenza degli episodi all'interno dell'Istituto,
in sedi e per persone meno influenzabili e sottomesse.
Tanto idonee poi risultano
tali minacce, alla produzione dell'effetto desiderato, da comportare il
rifiuto del Voltan a sottoscrivere dichiarazioni da
lui rese agli Agenti di P.G., per paura che si
verificassero le ritorsioni prospettate (vedi fg.
124, in fine): si veda, sul punto, la deposizione dell'agente verbalizzante,
che chiarisce come le difficoltà del Voltan ad
esternare liberamente quanto da lui saputo, e comunque
il rifiuto di sottoscrizione della deposizione, fossero causate dal timore che
gli infermieri potessero mettere in atto le ritorsioni già dette (fg. 47 P.M.).
È integrata l'ipotesi criminosa di
danno in discorso; sul titolo di concorso nel reato,
emerge, dalla quasi contestualità dell'azione di «tacitazione» con quella - «la cerimonia» - oggetto del
richiesto silenzio, l'unidirezionalità concorrente
dell'intenzione delittuosa.
Circa le aggravanti, si rinvia agli
argomenti già svolti per quelle dei numeri 1), 5) e 9) art. 61 c.p.; l'aggravante teleologica è
in «re ipsa», dato che la violenza è finalizzata
all'omertà - dunque, all'occultamento di altre condotte penalmente qualificate
come illecite.
Per il capo H) va pertanto affermata
la responsabilità degli imputati Gomirato, Mulachié e Maso.
CAPO O)
Riguarda l'interruzione della
terapia praticata all'ospite Griggi, da parte
dell'infermiere Mulachié (episodio del 9.5.1982).
La circostanza emerge (fg. 141 P.G.) in base alla acquisizione
di un rapporto ad uso segnalazione interna, datato 10.5.1982, del sanitario
della Casa di riposo dr. L. Poloni,
nel quale il medico, premesso che il Griggi veniva sottoposto a particolari e indispensabili terapie
per via endovenosa, tramite fleboclisi, comunicava che, nonostante le
prescrizioni stabilite circa la prosecuzione della terapia sul paziente, verso
le ore 13,30 del 9.5.1982 il Mulachié si recava
presso l'assistito e interrompeva la somministrazione medica, staccando l'ago
e giustificando tale condotta di fronte a Numeni
Lodovica - moglie di altro degente e presente nella circostanza - con la
mancanza di ordini circa la sostituzione dei flaconi (mentre, proprio presso
il paziente, si trovavano altri due flaconi da utilizzare).
I flaconi - sia quelli già
utilizzati sia quelli ancora pieni - venivano poi
rinvenuti, dallo stesso Poloni e dalla Zanchettin, dentro un bidone della spazzatura.
Il fatto è poi descritto nei
dettagli sia dalla teste Numeni (fg.
156 P.G.) sia dagli altri dipendenti intervenuti nella circostanza (Zanchettin, De Rossi).
L'imputato, d'altra parte, ammette
di aver tolto le fleboclisi al Griggi e motiva
l'azione ribadendo di non aver ricevuto precise
disposizioni circa l'andamento della terapia. Assunto, questo, che viene nettamente contraddetto dalle precisazioni del dr. Poloni (fg. 54 P.M.), il quale dichiara con certezza che, nel suo studio ed in sua
presenza, l'infermiera Lazzarin dette esplicita
disposizione al Mulachié di sostituire i flaconi
esauriti con quelli «vergini» (posti a tal fine accanto al letto del paziente);
e che, in generale, nelle consegne veniva specificamente indicato il
comportamento da seguire in casi di somministrazioni terapeutiche endovenose.
Tali asserzioni sono ulteriormente
confermate dalla Lazzarin (fg.
61 P.M.) avendo questa chiaramente prescritto al Mulachié di provvedere alle sostituzioni dei flaconi vuoti
con quelli già predisposti per l'uso. Palesemente strumentale è dunque la
giustificazione dell'imputato, tesa a coprire l'incredibile superficialità del
suo comportamento - evidentemente consapevole, se dapprima egli ha per così
dire «inviato» la Listo per staccare l'ago (vedi fg.
156) e poi, sollecitato dalla Numeni, ha pensato di
sbarazzarsi dell'incombenza gettando i flaconi nella spazzatura.
Il fatto risulta
perciò positivamente acclarato, nei termini sopra detti; peraltro la qualificazione
giuridica del capo d'imputazione correlativo non permette un'affermazione di
responsabilità: la condotta configurabile come penalmente illecita non
consiste nel gesto di sottrarre l'ago - al di là della valutabilità
di tale azione come violenza ai sensi dell'art. 610 c.p. - e, come conseguenza
di tale condotta, nel produrre la «tolleranza» coartata dell'interruzione
della terapia da parte del degente.
L'azione di sfilamento dell'ago si
pone in realtà come gesto «neutro», in soluzione di continuità tra un ambito
penalmente irrilevante - prima - e un addebito che, da quel momento in poi,
attiene ad una condotta omissiva: altrimenti detto, la violazione di un
precetto inizia a profilarsi nel momento in cui - nonostante le direttive ricevute
in proposito - l'infermiere trascura volontariamente
di ottemperare a tale compito affidatogli; si consideri anche che l'azione di
stacco degli strumenti medici avviene quando la prima somministrazione del
trattamento é esaurita; in definitiva, quindi, la condotta del togliere o meno
l'ago risulta indifferente in senso penale, posto che non è da tale gesto,
bensì dalla successiva mancata applicazione dei flaconi «vergini» che deriva,
a rigore, l'interruzione della cura.
Non essendo possibile, senza
violazione della relazione tra la sentenza e l'accusa contestata, qualificare
il fatto sotto altri titoli (quale ad es. l'art. 328 c.p.), data la
formulazione della contestazione, e non ravvisandosi
peraltro gli estremi materiali integranti il reato ascritto (la violenza,
ovvero la costrizione a tollerare), Mulachié deve
essere assolto dal reato al capo Q) per insussistenza del fatto.
CAPO U)
Ultima imputazione specifica avente
come parte offesa un assistito, riguarda la circostanza riferita, durante una
riunione della Commissione Direttiva della Casa di
riposo (fg. 161 P.G.) poi oggetto di
rapporto-denuncia, dall'infermiera Zanchettin, che
vide, pochi giorni dopo la sua assunzione, Maso nell'atto di manipolare il
pene di un anziano emiplegico (e, avendolo lei rimproverato, ricevette per
risposta un gesto di carattere osceno; il che è oggetto di autonoma
imputazione al Capo S).
L'addebito si integra,
nel corso dell'istruttoria, con l'esatta individuazione della parte offesa, nella
persona del degente Sciandra, attraverso la . deposizione resa dalla figlia di questi, Sciandra
Vera (fg. 58 P.M.), nonché
attraverso la precisazione in tal senso fornita dalla stessa Zanchettin (che precisa anche la data del fatto, maggio '81
anziché aprile '82 come da originario addebito).
L'infermiera afferma, sia dinanzi al
P.M. che in dibattimento (fg.
41), di aver percepito come non equivoca la modalità del gesto di manipolazione, quale atto masturbatorio;
e, contestato tale significato dal Maso, che deduce di aver compiuto una
comune operazione igienica sul paziente, ribadisce che in quel momento
l'imputato non stava provvedendo alla pulizia dei genitali dell'assistito, in
quanto «teneva in mano una scopa».
Sciandra Vera, poi, esterna le confidenze
ricevute dal padre, che le riferiva che il Maso si
«soffermava» con contatti ai genitali, in occasione dei servizi di pulizia e
cambio di biancheria.
Le allegazioni sopra dette,
concordanti nel senso della sussistenza degli
elementi tipici del reato, sono però in parte contraddette da altri elementi
e considerazioni.
Infatti l'ospite Sciandra,
escusso quale teste presso l'istituto, qualifica sotto un profilo e un
significato diversi le attività di Maso, evidenziando che i «toccamenti» erano
correlati a frasi con carattere di scherno, e di contenuto impudico, ma ad essi
non seguivano - né essi rappresentavano in sé - operazioni di univoco segno sessuale.
Lo stesso ospite, inoltre, supporta
l'assunto difensivo del Maso confermando di essere stato soggetto ad infezioni
all'apparato genitale, per cui necessitava di
particolari pulizie.
In presenza di tali dichiarazioni provenienti
proprio dalla parte offesa, e valutata perciò l'improbabilità che lo stesso Sciandra abbia minimizzato i fatti o taciuto ulteriori
particolari, dato che su altre circostanze non ha esternato remora alcuna (a
maggior ragione, dunque, avrebbe dovuto avvalorare attività compiute proprio in
suo danno), le affermazioni della Zanchettin vanno
valutate criticamente, nel senso della possibilità della percezione di
contenuti diversi e maggiori delle attività di «manipolazione».
Ferme queste nella loro materialità,
varia il significato della condotta alla luce di altri
elementi; che, ad es., il Maso tenesse una scopa in
mano mentre compiva tale attività connota come poco probabile, sul piano della
logica, che l'infermiere potesse svolgere pratiche igieniche; ma d'altro canto
non è obiettivamente individuabile il senso - di dileggio, presumibilmente -
che, anche escludendo l'ipotesi difensiva (l'igiene), l'attività compiuta
rivestiva; e pertanto, seppure pacifico il dato fattuale
del contatto fisico e delle modalità di questo come descritti dalla teste, va
sospeso il giudizio - per non univocità in un senso o in un altro - circa il
valore della condotta, e il correlativo referente penale ipotizzabile
(libidine, oscenità, o altro).
Pertanto, non essendo risolubili i
dati del giudizio, il Maso va prosciolto dall'addebito per
insufficienza di prove (sulla «direzione libidinosa» del gesto
compiuto).
Vanno ora esaminati i Capi di imputazione che presentano in veste di parti offese le
infermiere Zanchettin, Parpagiola,
Listo e Manente.
CAPO M)
L'addebito di violenza ad incaricato
di pubblico servizio ex art. 336 c.p. trae origine dalle minacce di pestaggio (e dall'essere tacciata di «spia») denunciate
dalla Zanchettin come opera di Zanetti,
Mulachié, Maso, Paggin e Meneghel (fg. 126 P.G.).
Uno specifico riscontro iniziale è
fornito dalla Parpagiola, che si trovava presente
allorquando Zanetti minacciò di «buttare fuori dalla finestra» la Zanchettin,
apostrofandola con l'epiteto di «rovina famiglie», per essere stato richiamato
ai suoi doveri.
La stessa parte offesa, successivamente, precisa di essere stata minacciata
pesantemente da Mulachié, Maso e Zanetti;
aggiunge che Meneghel «più che altro sparlava di
lei» ed estromette dall'addebito il Paggin (fg. 44 P.M.); dichiara infine (fg.
39 ud. 20.10.82) di essere stata aggredita dagli
imputati con espressioni quali le già dette «spia», «rovina-famiglie»,
reiteratamente rivoltele nelle più diverse occasioni,
e di aver subito minacce di pestaggio da Zanetti e Mulachié, a seguito delle sollecitazioni che ritenne di
dover fare ai prevenuti, avendoli visti disinteressarsi dell'espletamento delle
loro incombenze.
Conferme circa la pronunzia della
frase sul «buttare fuori dalla finestra» da parte di Zanetti vengono, da ultimo, dal teste Boffelli
presente alla circostanza, nonché, decisivamente, dallo stesso imputato - il
quale peraltro assume un significato di inurbanità, causato da scontri per questioni
di lavoro.
Dati per presupposti i fatti
materiali - per l'ammissione diretta dello Zanetti e,
indirettamente, per la conferma dello stato di tensione con la
Zanchetti formulato dagli altri imputati -
essi vanno diversamente qualificati quanto al titolo giuridico del reato
ravvisabile; ognuna delle espressioni - talune a contenuto minaccioso, talaltre no - va disarticolata da riferimenti finalistici a coercizioni inerenti attività di servizio
della parte offesa, per la semplice ragione che le espressioni in parola sono
l'emergenza di «scontri» sul modo di esercitare la professione, tra gli
imputati e la Zanchettin, e si situano - temporalmente e logicamente - dopo gli interventi e i
richiami rivolti dalla Zanchettin agli infermieri,
affinché questi o svolgessero con cura il loro compito ovvero, quantomeno, non
interferissero in senso impeditivo sul regolare svolgimento
del servizio: tale rapporto di scontro-risposta è presente in ciascuno dei
singoli momenti e fatti nei quali la complessiva imputazione consiste; la Zanchettin stessa, infatti, colloca le minacce di pestaggio
e l'apostrofa di «spia» da parte degli imputati come conseguenza delle
esortazioni da lei formulate; e ricollega gli epiteti - quali quello di
«rovina-famiglie» - e l'atteggiamento intimidatorio a circostanze e contrasti
riguardanti la priorità del servizio ai degenti rispetto ad altre incombenze (fg. 39 dibatt.); altrettanto
vale per l'episodio relativo a Zanetti:
questi le rivolse la frase minacciosa al termine di una discussione, in
presenza di terze persone (Boffelli).
Evidente, allora, che le frasi
incriminate non possono essere poste in rapporto di strumentalità con presunte coazioni esercitate affinché
l'infermiera omettesse qualche adempimento ovvero tacesse circostanze delle
quali era a conoscenza: mentre quest'ultimo
riferimento è esclusa dallo stesso contenuto della testimonianza della Zanchettin, il precedente va invertito, nel senso che
l'attrito parte dall'infermiera, che, postasi in modo critico verso gli
imputati, ne ottiene le risposte che si sono dette.
Le quali ultime, pertanto, integrano
sul piano oggettivo altra fattispecie, cioè quella
dell'art. 341 c.p. - nell'ipotesi aggravata, ex cpv. stesso articolo, dall'uso
di minaccia - dato il contenuto, lesivo della reputazione e del prestigio
dell'infermiera, delle frasi in discorso.
Così qualificato
il reato attribuibile, e rilevata la data dei fatti, collocati nel luglio '81 (fg.
39 dibatt.; Boffelli al dibatt.), poiché
evidentemente non sussistono i presupposti per il proscioglimento in merito
per nessuno degli imputati, ex art. 152 cpv c.p.p. - date le risultanze sopra elencate - e poiché il
reato di oltraggio rientra nella previsione dell'art. 1, lett. A) D.P.R. 744/81, va dichiarata I'improcedibilità nei confronti di Zanetti,
Maso e Meneghel in ordine al reato al Capo M),
essendo il reato stesso estinto per intervenuta amnistia, ai sensi del citato
D.P.R. (non ostando a tale declaratoria condizioni soggettive degli imputati).
CAPO N)
Imputazione ricalcante la
precedente, quanto al titolo, riguarda condotte solo in parte analoghe, poste in essere da Maso e Mulachié
in danno di Listo Maria.
Diversamente da quanto argomentato
sub Capo M), qui emergono gli elementi del reato
ascritto: l'infermiera afferma di essere stata oggetto di minacce di
ritorsioni qualora si fosse lamentata - di ciò che percepiva e constatava
all'interno del reparto infermeria uomini - con qualcuno (v. fg. 125 P.G.); individua costantemente nei due imputati gli
autori di tali minacce; conferma infine tali
allegazioni al dibattimento, specificando il contenuto del male prospettatole -
così, da Mulachié, che «le sarebbe convenuto... non
rivolgersi alla Direzione perché» - in tal caso - «avrebbe rischiato di
perdere il posto»; e, da Maso, che «si stavano raccogliendo delle firme per
mandarla via». Tali condotte vanno rapportate al ruolo determinante
svolto dalla teste Listo nell'ambito dell'indagine, quanto a produzione di
informazioni e - ancor prima - alla scarsa remissività mostrata dalla stessa a
fronte degli episodi verificatisi nella Casa di riposo; le condotte minacciose
rivestono quindi una connotazione precisa, nel senso della loro ragione
ultima, tanto più evidentemente diretta a tacitare e mantenere nel chiuso
dell'Istituto quanto ivi si verificava quanto più la Listo si mostrava in
opposizione al clima reticente e alle pratiche aggressive. Risulta
poi constatabile alla prima lettura il contenuto minaccioso della alternativa
posta alla donna, tra il tollerare in qualche modo la situazione e non
operare alcuna iniziativa atta a spezzarne la prosecuzione, e le prospettate
ritorsioni sul piano stesso della garanzia di continuità della prestazione
lavorativa.
Che tale minaccia sia idonea alla
verificazione dell'effetto, è dimostrabile anche solo argomentando dalla
posizione di notevole libertà di azione goduta dalle
persone implicate nella vicenda, tra cui gli imputati in discorso; risulta del
resto minoritaria la percentuale di addetti e colleghi degli imputati che -
oltre a non avallare le condotte violente con analoghi comportamenti o con
indifferenza - reagisce allo stato di cose, affronta i diretti responsabili,
esterna infine una serie di notizie (va ricordato, qui, l'episodio di minaccia
patita dalla Listo fuori del processo ad opera di un parente di un imputato).
La Listo, infatti, «non era
sopportata per le disfunzioni che segnalava o» - soprattutto - «intendeva segnalare alla Direzione» (fg. 9 ud. 21.10.82). Quanto, infine, all'elemento - fine del
reato, ovverossia l'omissione dell'atto del servizio, esso è integrato dal riferimento esplicito a
«non parlare con la Direzione».
Deriva da quanto
sopra detto l'affermazione di responsabilità degli imputati per tale addebito;
per le aggravanti ex art. 61 nn. 1, 2 e 9 c.p. si rimanda alle
precedenti esposizioni; sul titolo di concorso nel reato, questo emerge dal
riferimento contestuale della Listo agli imputati e
dal dato di collegamento tra Mulachié e Maso
rilevabile nelle frasi del primo, il quale disse esplicitamente alla donna che
«le conveniva badare al Maso».
CAPO R)
Riguarda il gesto esibizionistico
compiuto da Memo di fronte all'infermiera Manente; la circostanza, risultante dal verbale della riunione consiliare
del 27.4.1982 (fg. 161 P.G.), è integralmente
confermata dalla suddetta sia al P.M. (fg. 62) che
nel dibattimento (fg. 17 ud.
21.10.82): la teste descrive nei dettagli tempi, luoghi e
modalità dell'episodio (che è dell'aprile '82).
Si rileva qui solo che dal confronto
tra tale precisa deposizione, resa da persona estranea rispetto al più
generale oggetto di giudizio - la Manente non figura nel novero delle infermiere «scomode» -
e la negazione dell'imputato, la cui difesa gioca su argomentazioni di pretesa
equivocità delle frasi della parte offesa (poiché questa colloca il fatto
«all'interno di un servizio»; ma, evidentemente, intendendolo nel senso
funzionale, come poi infatti preciserà la Manente)
si palesa l'incongruità della tesi di non responsabilità che si appunta,
anziché sulla condotta, sulla localizzazione di essa.
Sull'integrazione dell'oscenità,
penalmente punibile nel gesto di esibire il membro sessuale in erezione, non
sembra necessario spendere argomenti.
Per tale fatto - dell'aprile '82,
quindi fuori dell'ambito temporale di applicazione del
D.P.R. 744/ 1981 - va dichiarata la
responsabilità dell'imputato Memo.
CAPI S) e T)
Si trattano congiuntamente per
economia del discorso, implicando argomentazioni parallele.
Le imputazioni traggono origine dal
già citato verbale di cui a foglio 161 P.G., che riporta le dichiarazioni della Parpagiola
e della Zanchettin in sede di riunione commissariale.
La prima lamenta di essere stata
baciata con violenza da Maso, nello studio medico dell'Istituto; la seconda
espone di essere stata oggetto di aggressioni verbali
e fisiche di carattere osceno da parte di Memo.
Il primo fatto è pacifico, supportato
probatoriamente da deposizioni di terze persone
presenti (Lazzarin, fg. 61 P.M.) e dall'ammissione dell'imputato.
Il secondo va precisato nei termini
di petulanti e insistenti «advances» (Zanchettin, fg. 46 P.M.), in
gesti di equivoco «taglio» sessuale non concretatesi,
peraltro, in azioni specifiche o contatti fisici (così la teste al
dibattimento).
Va valutato, preliminarmente, come
tali azioni risultino di poco probabile contenuto
sessuale in senso proprio, posto che in entrambi i casi si è trattato di
condotte svolte in presenza di terzi, e verso due infermiere rappresentanti,
sia oggettivamente che dal punto di vista degli imputati, persone certamente
tra le meno disponibili a tollerare comportamenti del genere; va infatti considerato
il preesistente stato di conflitto - esternatosi in svariati episodi - tra
imputati da un lato e parti offese dall'altro, in inconciliabile contrasto
circa la metodologia lavorativa, la correttezza professionale, la cura dei
degenti etc.
Se innestati su tale più ampio
quadro, gesti quali quelli descritti evidenziano, più che una valenza
sessuale, una manifestazione di scherno e una sorta di riaffermazione di forza
di fronte alle persone meno duttili nei riguardi del più generale stato di cose creatosi nell'ambiente di lavoro.
Ad avallo di tale considerazione -
che non attiene, si precisa, a motivi interni degli
agenti, bensì ai connotati obiettivi dell'azione criminosa, e al bene offeso
nel caso concreto - si riportano:
1) il dato espresso dalla Parpagiola, che si sentì offesa dal bacio violento del
Maso; 2) la precisazione delle «advances» fatta dalla
Zanchettin, il che riduce l'escursione della
condotta in confini di irriguardosità
e scherno.
Tali addebiti devono essere, per le sueposte considerazioni, qualificati come ingiurie, ex art.
594 c.p., dato che
indubbiamente rappresentano un'offesa del valore della dignità delle persone
sottopostevi, considerata anche la presenza di terzi (dato questo che illumina
il taglio dispregiativo delle condotte, e, viceversa, contribuisce a eliminare
note di intimità sia pure coartata).
Così modificate le imputazioni, in ordine a tali reati ai Capi S) e T), non essendo stata
proposta istanza punitiva per tali episodi da parte delle vittime, va
dichiarata l'improcedibilità dell'azione penale nei
confronti degli imputati Memo e Maso, rispettivamente, per mancanza originaria
di querela.
CAPO V)
L'addebito di atti
osceni a carico di Maso si ricollega direttamente all'episodio del degente Sciandra, già analizzato più sopra sub. Lett.
U) dell'imputazione, e riguarda la «risposta» gestuale del Maso ai rimproveri
della Zanchettin, in quella circostanza.
Elemento di accusa
determinante è costituito dalla dichiarazione non equivocabile della parte
offesa, che precisa che Maso, da lei richiamato, «aprì pantaloni e slip ed
esibì i genitali» (puntuale è la conferma dibattimentale, fg.
41).
L'assunto difensivo dell'imputato
tende a fornire spiegazioni in chiave di espressioni
non verbali significanti che «anch'egli si lavava»; sul che si ritiene
opportuno trascurare ogni altra considerazione, salvo quella della totale
incongruenza di tale presunto significato rispetto all'antefatto.
Quanto all'integrazione dell'osceno,
anche qui - come sub R) - l'esibizione degli organi sessuali non lascia
margini di dubbio sulla violazione del «minimum» di
riserbo a cui presidio è posta la norma incriminatrice
dell'art. 527 c.p.
Sussistono dunque gli elementi per
l'affermazione astratta di responsabilità, data la
perfezione dei requisiti tutti della fattispecie in esame.
Peraltro, l'episodio avviene in data
attorno al maggio-giugno 1981 (come da precisazione della Zanchettin
sul punto, fg. 46 P.M.); pertanto -
sicuramente inapplicabile l'art. 152 cpv. c.p.p. - il fatto delittuoso rientra nella previsione del D.P.R. 744/81; non sussistendo condizioni
soggettive ostative alla declaratoria, va dichiarata l'improcedibilità
nei confronti del Maso in ordine a tale reato, essendo
questo estinto per intervenuta amnistia.
CAPO I)
L'imputazione di maltrattamenti - a
titolo di concorso - costituisce il reato-chiave del giudizio, e rappresenta
il momento di indagine che cementa tutti gli episodi
via via elencati e analizzati fin qui, cosicché -
rispetto alla frammentazione e disarticolazione delle singole imputazioni
specifiche e dei fatti comunque emersi nel corso del procedimento, atomisticamente considerati - è dall'esame di tale reato
che il quadro complessivo della situazione verificatasi all'interno del
reparto infermeria uomini della Casa di riposo si manifesta, sul piano della lesività di beni tutelati anche penalmente, nel suo reale disvalore.
Gli elementi fattuali
che entrano a comporre la serie del «maltrattare» ex art. 752
c.p. sono numerosi e collocati, nel tempo, lungo tutto l'arco dell'indagine
giudiziaria, dal maggio 1981 sino al marzo 1982.
È necessario, qui,
richiamarli - anche per fornire l'esatta «ampiezza» dell'imputazione;
nell'addebito sono ricompresi perciò: gli svariati
episodi di percosse - per Checchin, Zanetti, Cerato, Gomirato, Meneghel, Maso e Mulachié -
individuati ai Capi A) e B), secondo quanto già detto circa l'assorbimento di
tali reati nel più ampio delitto di maltrattamenti; le lesioni volontarie
comuni di Maso in danno di De Pieri, sub Capo B), qui
sotto il profilo del concorso formale, pacificamente ammesso (Cass. Sez. VI, 5.4.1974 in Giust. Pen. 75, II,
56); le lesioni di Marte ad opera di Cerato (Capo C),
ribadito il non assorbimento delle fattispecie; il fatto di atti di libidine
violenti sub Capo E), a carico di Memo e Gomirato
(anche qui non opera l'assorbimento: Cass. Sez. III
29.11.1974, Lo Conte, Giust.
Pen. 76, II, 35); la violenza privata esercitata da Gomirato, Mulachié e Maso in
danno Voltan (Capo H).
Questo per quanto attiene alle
condotte autonomamente valutabili in quanto integranti distinti illeciti
penali; ad esse vanno aggiunte attività, espletate
dagli imputati, non costituenti estremi di specifici reati o contestazioni:
così il fatto sub O) per Mulachié - episodio Griggi già visto - e, soprattutto, tutti gli altri episodi
emersi via via dalle acquisizioni testimoniali nel
procedimento.
La serie di riferimenti a condotte
violente, minacciose, intimidatorie poste in atto dagli imputati, sia
singolarmente che assieme tra loro di volta in volta,
è estremamente lunga; si sintetizza qui, di tale complesso di testimonianze,
la parte maggiormente significativa quanto a gravità: Mulachié
che si rivolge ad un anziano assistito (in gravi condizioni di salute)
dicendogli «ti faccio guarire se mi fai portare a letto tua figlia» (fg. 134 P.G.); i lividi riscontrati su un
anziano dalla dott.ssa Alì,
fg. 38 P.M. (senza possibilità di identificazione dei soggetti, attivo e passivo); la
gratuità delle violenze esercitate (fg. 41 P.M.); le
modalità, brusche e di scherno, dell'espletamento del servizio di igiene personale (fg. 43 P.M.);
Mulachié che afferra per i piedi Reni Cesare e lo
trascina in tal modo lungo un corridoio (fgg. 48, 49 P.M.), accompagnando a tale condotta minacce verso terzi -
di trattarli analogamente (Franchini, fg. 49 P.M.); Cabbia,
Maso e Checchin che torcono le braccia di Marte,
colpendolo inoltre con le mani, per la resistenza che questi opponeva ad
essere vestito; e - «quasi tutti» - gli infermieri che accusano Sciandra di essere uno «spione», minacciando di «tagliargli
la gola e i coglioni» (fg.
50 P.M.); Gomirato che schiaffeggia Marte (fg. 51 P.M.); Mulachié che
formula l'epiteto di «puttana» riferito alla moglie di Fontanella, presente
questi (fg. 53 P.M.); gesti di lazzo, estremamente volgari, operati da Mulachié
su un degente (fg. 55 P.M.); casi di spoliazione - «sciacallaggio» - di oggetti dei
degenti appena deceduti (fg. 134 P.G., 55 P.M.); in particolare, Mulachié
che si appropria di un braccialetto dell'ospite Artico, appena deceduto (fgg. 42 e 76 P.M.); Cabbia che
sveglia un paziente alle sei antimeridiane, offrendogli del vino per costringerlo
a cantare, al fine di svegliare tutti gli altri (fg.
56 P.M.); l'abbandono degli assistiti immobilizzati in condizioni di sporcizia
fisiologica, per delle ore (fg. 58 P.M.); e, fatto
connesso al precedente, Cerato e Checchin che,
rivolti ai pazienti, li intimano a trattenere i bisogni fisici (ché, altrimenti, avrebbero dovuto pulirli); Memo che colpisce
con un pugno Battistoni (fg.
62 P.M.); strattonamenti, pestaggi, lanci di oggetti in danno di Scarpa (fg.
67 P.M.); Milani immobilizzato e percosso da Gomirato (fg. 69 P.M.); Maso, Mulachié, Zanetti e Gomirato che trascurano di imboccare De Franceschi
- non autosufficiente - per andare prima a mangiare (fg.
70 P.M.).
Tale sequenza di episodi
costituisce il substrato più generale da cui emergono poi le singole condotte,
particolarmente gravi, costituenti specifici illeciti sanzionabili penalmente
a vario titolo; rispetto a questi ultimi, i fatti elencati sopra
costituiscono sì un «minus» quanto a estensione
dell'offesa sotto il profilo dell'integrazione di fattispecie criminali, ma, correlativamente, valgono a unificare tutte le attività -
reali o meno - nel complesso del «cattivo trattamento» riservato dagli
imputati alle persone anziane ad essi sottoposte in virtù del formale rapporto
di prestazione d'opera assistenziale.
Non è inutile ricordare, qui, che il
reato in esame richiede una serie di presupposti e
requisiti, elaborati in sede giurisprudenziale - data la struttura intrinseca
della fattispecie a «condotta libera», facente riferimento alla clausola generale
del trattare male, che è compito del giudicante riempire di contenuto - alla
luce del criterio guida relativo all'oggetto della difesa penale, dunque al
bene che deve risultare leso perché di maltrattamenti possa parlarsi.
A tale riguardo, non è dubbio che
l'evento di danno sotteso dalla norma - il tormento, l'umiliazione,
la sofferenza prolungati nel tempo a causa della reiterazione di comportamenti
vessatori - è raggiungibile attraverso le più diverse azioni - od omissioni -
sia che queste rappresentino autonomi titoli di reato sia che rimangano fuori
dell'ambito penale, purché tali da condurre ad una apprezzabile lesione del
bene difeso, costituito dalla dignità e integrità personale (sempre,
s'intende, nell'ambito dello svolgimento nel tempo di situazioni interpersonali
connotate da un rapporto di supremazia-inferiorità, in famiglia o in altre
sedi, di lavoro, educative etc.); l'intollerabilità della prosecuzione di un
metodo di vita, cioè, può risultare non integrata da una reiterazione di
fatti-reati slegati tra loro e non collegati da un rapporto sistematico, come
può, viceversa, verificarsi a seguito di ripetitive condotte «extrapenali»
direttamente incidenti sulla tranquillità, libertà, onore del soggetto passivo;
che tale considerazione sia esatta, si rileva sia dalla «ratio» ultima della
previsione legislativa del reato, e dalla collocazione sistematica di questa
figura delittuosa, dato che si è ritenuto necessario porre un autonomo titolo
di reato rispetto a previsioni difensive dei vari beni - libertà personale e morale,
integrità psicofisica - già formulate a parte (donde il diverso disvalore ad es. di più minacce, violenze etc. rispetto
alla reiterazione di esse, su persone in condizioni di soggezione, e in grado
tale da causare il di più dell'avvilimento, della prostrazione, della
intollerabilità; con la conseguenza già ricordata della concorrenza dei
precetti penali, dato il diverso significato delle condotte nell'una e
nell'altra ipotesi); sia dalla mancata formulazione, nell'ambito della norma
dell'art. 572 c.p., di un preciso evento di danno
rapportato alla libertà, personale, sessuale, morale etc.;
il che, appunto, esprime la «riqualificazione» che le condotte, altrimenti
lecite penalmente, ricevono dalla norma (in caso contrario, si aggiunge, la
fattispecie potrebbe sussistere solo in presenza di una serie di reati specifici
quali quelli degli artt. 582, 605, 610, 519 etc. c.p.; il che pacificamente non è).
Tutto ciò premesso, si tratta in
definitiva di stabilire, quanto all'elemento materiale, se le condotte tutte via via riferite
costituiscano maltrattamenti in senso proprio; ciò non è opinabile, anche solo
riguardando la mole degli episodi e valutando concretamente le specifiche
situazioni di minorazione difensiva delle parti lese; le attività degli
imputati sono per lo più connotate in specifiche direzioni, o, attivamente, di
dileggio, scherno, disprezzo, di esercizio di violenza fisica, di
intimidazione, di violazione della sfera della sessualità; oppure,
negativamente, di trascuratezza - che non è solo sgarbo, ovviamente, se solo
si tengono presenti le condizioni di non autosufficienza e di immobilizzazione
di parecchi dei degenti.
Le condotte stesse si appuntano,
poi, su un gruppo individuabile di persone - nell'ambito di un preciso reparto
della Casa di riposo - rispetto a persone cioè per le
quali l'affidamento, e la correlativa ripercussione negativa di pratiche violente,
è particolarmente alto, e oltremodo idonee risultano attività quali quelle
poste in essere nella direzione, voluta dalla norma, di sottoposizione a
regime esistenziale penoso, attraverso l'approffittamento
di preesistenti istituzionali condizioni di «potere» e supremazia.
Il tutto alimentato dalla
ripetitività e dall'uso di minacce tali da creare quel clima di terrore e
intimidazione che frequentemente ricorre nelle deposizioni acquisite.
Caratterizzazione specifica della
vicenda oggetto del processo è infatti il
consolidamento della libertà di azione da parte degli imputati attraverso
condotte di supporto, rivolte sia sui degenti che - soprattutto - su altri
dipendenti postisi in opposizione rispetto a tale andamento (è sufficiente
ricordare al riguardo le imputazioni che vedono come parti offese le infermiere
Zanchettin, Listo e Parpagiola,
le meno disponibili all'accettazione passiva della situazione): condotte
consistite in minacce, inviti al silenzio, prospettazioni
di ritorsioni.
Detto anche della particolare
distanza tra soggetti attivi e vittime del reato,
quanto a libertà di autodeterminazione - persino motoria - e rilevata perciò
l'estrema debolezza degli assistiti, come condizione iniziale sulla quale si
sono - con facilità, evidentemente - inserite le attività di disprezzo, le
percosse, l'irrisione della personalità complessiva, in una parola le angherie
in danno degli anziani ospiti, l'integrazione dei requisiti materiali
dell'illecito appare con evidenza: già difficili in sé, le condizioni di vita
degli anziani risultano, per effetto degli episodi in esame non solo colorate
da uno stato di avvilimento e prostrazione - dato che manca loro, in parte, il
referente personale cui rivolgersi per un minimo ed elementare soddisfacimento
dei bisogni vitali - ma, al termine della vicenda del «maltrattare»,
addirittura per taluni dei degenti (particolarmente vessati), connotate da
terrore e soggezione estrema, quasi che la reificazione delle loro esistenze
(che è il dato culturale dominante dei gesti compiuti), giunta all'apice,
impedisca ogni capacità reattiva rispetto al clima instauratosi (per tutti, si
veda la definizione del reparto come di un «lager» fatta da Biasutti,
fg. 134 P.G.).
Sul piano oggettivo, quindi, è
integrata la condotta - plurima - del maltrattare penalmente sanzionato.
Quanto al profilo soggettivo, vanno
svolte due considerazioni: ribadito che il reato ex
art. 572 c.p. richiede il dolo generico, e rinviando alle esposizioni dei Capi
che precedono per l'affermazione del momento volitivo di ciascuno dei singoli
fatti in cui è disarticolabile la complessiva condotta, va affermato che il
dolo proprio del reato in discorso si rileva dalla considerazione dell'assoluta
omogeneità dei comportamenti esplicati dai diversi imputati, dalla periodica
ricorrenza di essi, dall'effettuazione di ulteriori prepotenze dirette verso
non degenti, a prosecuzione o copertura del regime instaurato; è da escludere
cioè che ciascuno dei fatti non sia sorretto da una più ampia consapevolezza
del risultato ultimo dell'operato, e che si tratti di fatti atomizzati e non
legati l'uno a tutti gli altri dalla costante coscienza e rappresentazione del
porre in essere condizioni di sopraffazione a danno degli assistiti.
Anche a volere escludere una
programmazione antecedente al primo degli episodi della serie, è certamente
ravvisabile la sussistenza del momento volitivo da un certo punto di relativo
consolidamento della situazione penosa per gli anziani; ed è a partire da quel punto che la consapevole reiterazione dei
fatti include in sé la piena coscienza del disvalore
complessivo della ripetizione medesima, come lesione di un bene - personalità
e libertà - che va oltre la singola oggettività dei beni di volta in volta
violati, per sintetizzare non già una sommatoria (di più attentati
all'incolumità, alla libertà etc.) ma un significato di ulteriore incidenza
sulla personalità intera delle vittime, come valore dell'esistenza delle
stesse, e di sempre maggiore restrizione degli «spazi» di vivibilità e
tollerabilità dello stato di cose, in rapporto di inversa proporzionalità con
la sempre maggiore latitudine dell'offesa della dignità che ogni ulteriore
gesto di sopraffazione comporta.
A tali considerazioni va raccordato
il secondo rilievo attinente il profilo soggettivo,
relativo al titolo di concorso nel reato.
Se, come si è detto, nell'ambito
della rappresentazione di ciascuno dei singoli imputati il continuare a
svolgere attività di vessazione esterna, una volta raggiunto un certo grado di
reiterazione e quindi di dannosità di ogni condotta
ulteriormente afflittiva, la coscienza della
sottoposizione a sopraffazione protratta nel tempo, tale dato può essere
spostato anche sul piano delle relazioni reciproche tra gli imputati, svelando
- in ognuno di essi - la consapevolezza dell'unitarietà sostanziale dei
comportamenti, legati in una complessiva operazione di maltrattamento, prodotto
dell'attività di tutti e appartenente perciò, per intero, a ciascuno dei
prevenuti.
A parte, infatti, l'illogicità
dell'ipotesi che ognuno degli imputati abbia agito
senza alcun legame conoscitivo con il resto della situazione e quindi
dell'omogeneo comportamento degli altri, considerata al riguardo la quantità
di circostanze in cui ciascuno di loro risulta aver operato assieme ad altro -
o altri - facente parte del complesso degli infermieri incriminati, si
rilevano, come dati fattuali acquisiti: i precisi
riferimenti ad un insieme di persone individuato come tale, e in tale veste -
di insieme - comportantesi in modo prepotente e
sopraffattore; gli imputati costituiscono infatti agli occhi delle vittime una
sorta di entità unitaria (per un riferimento testuale e semplificativo
v. Milani, fg. 69 P.M.: «soltanto quei pochi» - tra
gli infermieri - «ci trattano male, e sono sempre gli stessi; il resto del
personale ci tratta con umanità»).
L'essersi, inoltre, gli infermieri
in parola in qualche modo adoperati perché i loro turni lavorativi
coincidessero, così da trovarsi insieme in servizio (teste Rigo, fg. 75 P.M.).
Tali emergenze corroborano l'ipotesi
concorsuale, il cui elemento sintomatico principale è rappresentato dalla
complessiva considerazione e «lettura» che della vicenda va fatta: gli imputati
nel loro insieme, costituiscono, all'interno del reparto dell'Istituto, una
sorta di «centro di potere», operante secondo criteri di condotta antitetici
rispetto alla norma professionale e morale del resto del personale; centro che
pratica ed afferma continuativamente un determinato modo di comportarsi,
carico di specifici disvalori, attraverso la
reiterazione delle aggressioni alle sfere personali degli assistiti; e tale
«modus operandi» - come si è già accennato - è
espressione di una cultura - nel senso proprio - connotato da indirizzi e
obiettivi individuabili: le condotte, si è visto, attengono a canalizzazioni
omogenee del maltrattare, come ad es. quella attinente
alla sfera della sessualità, così spesso presente - e mortificata - nella
vicenda.
Ogni singolo imputato agente, in
tale contesto, in maniera uniforme alla «regola»
negativa sopradetta appare perciò operare, più che per l'affermazione di
motivazioni proprie, per il conso-lidamento della logica del «gruppo»; ogni singola
e personale azione, costituente un tassello del complessivo «maltrattamento»,
gioca perciò come supporto e accrescimento - con maggiore o minore
contribuzione causale di volta in volta - di una situazione già instauratasi.
Come già detto in tema di elemento psicologico, non è dato collocare esattamente
nel tempo e su un singolo episodio il momento dopo il quale ha iniziato a
profilarsi nella sua completezza una vicenda di maltrattamenti in senso penale,
né è possibile affermare l'intera composizione del «centro» già dall'inizio:
comunque (ricordando i pacifici criteri in tema di compartecipazione), le
condotte che si inseriscono nella situazione caratterizzata da un certo grado
di espansione della prepotenza e dell'intimidazione, e positivamente agiscono
nella medesima direzione, non solo «fanno proprie» idealmente le attività già
consumate - col che si resterebbe in definitiva sul piano della connivenza - ma
esprimono l'adesione attiva alla complessiva intenzione e, inserendosi in un
«clima», rafforzano sensibilmente l'unitario disegno, costituendo così, già
nell'atto in cui vengono esercitate, espressioni del più ampio operare
criminoso appartenente a tutti gli imputati e, inoltre, supportano in ciascuno
degli altri la determinazione a continuare ad agire in maniera vessatoria,
dato che ogni ulteriore attività di tale tipo amplia il «potere» dell'insieme e
fornisce una base di sicurezza di non isolamento all'interno dell'ambiente di
lavoro.
In tal modo, ogni specifica condotta
apporta un notevole contributo causale alla verificazione dell'evento del
reato, sotto il duplice profilo di atto che viene ad
aggiungersi alla sequenza degli episodi di angherie, ampliando correlativamente lo spettro complessivo della sofferenza
altrui, di assenso più o meno esplicito ad una logica di condotta che
dall'accrescimento degli episodi vede via via sempre
più arricchita la determinazione di comportarsi secondo certi criteri.
Da tali argomentazioni - riferibili
e ripetibili per ogni imputato, nella reciproca integrazione con tutti gli
altri - comporta l'«appartenenza» dell'esito delle condotte (dell'evento dei
maltrattamenti) a ciascuno degli infermieri, allo stesso titolo; ovvero - il
che è lo stesso detto altrimenti - il risultato
lesivo del bene tutelato dalla norma va individuato solo ponendo come referente
di esso l'insieme degli infermieri, e l'aggregato di tutte le singole condotte
da ognuno di essi poste in essere.
Argomentazioni queste che, in
termini semanticamente semplici ma netti, sono, in definitiva, espresse proprio dal degente Milani sopra citato: si noti la contrapposizione che questi
formula tra «gli uni», che maltrattano, e «tutti gli altri», e la
spersonalizzazione - sia attiva che passiva - che egli esprime attraverso il
riferimento al terzo e decisivo polo della vicenda, cioè gli anziani: «Ci»
trattano male; ad indicare la dimensione collettiva della fattispecie concreta,
sia dal lato agenti che dal lato vittime.
Eccezione a tali acquisizioni va
fatta, non sul piano logico ma su quello processuale,
per il solo Meneghel, per il quale dall'insieme dei
dati probatori non emerge la persona dell'imputato stesso o in imputazioni
specifiche e gravi o in un arco sufficientemente esteso di condotte vessatorie,
fuori delle contestazioni; per Meneghel, infatti, un
riferimento nominativo preciso è rappresentato solo dall'imputazione sub A),
mentre per ciò che concerne il Capo M) la stessa teste - parte offesa Zanchettin ha in qualche modo ridimensionato
l'attribuzione di minacce da parte di Meneghel,
dichiarando che questi più che altro «sparlava di lei» (fg.
44 P.M.).
Per tutto quanto fin qui detto,
sussistendo la piena integrazione della fattispecie contestata, gli imputati
Cerato, Gomirato, Mulachié,
Memo, Maso, Checchin, Zanetti
e Cabbia vanno dichiarati responsabili del reato loro
ascritto a titolo di concorso; Meneghel, stante una
situazione probatoria di non piena individuazione di specifici «interventi»
tali da consumare la condotta del maltrattare, di fronte a dati di accusa costituiti dalle prime risultanze processuali,
riguardanti - nel «gruppo» già detto - anche lui, nonché dalle considerazioni
sopra svolte, va prosciolto dal reato ascrittogli al Capo I), con formula
dubitativa, permanendo il dubbio sulla pienezza e non occasionalità
della implicazione (quindi, del concorso) dell'imputato nella complessiva
vicenda.
Va infine fatto un cenno, solo per
completezza espositiva, sulla deduzione difensiva della possibilità di diversa
qualificazione giuridica del fatto sub I), e precisamente quella dell'art. 571
c.p.
Sul che, a parte la discutibilità della ipotizzata esistenza di poteri attinenti alla
«correzione» o alla «disciplina» in capo a infermieri svolgenti una funzione
assistenziale, va rilevata l'insussistenza, nella complessiva vicenda in
giudizio, dell'«indice» tipico del reato ex art. 571 c.p.,
consistente nel particolare atteggiarsi del momento rappresentativo e volitivo
degli agenti; non è possibile ravvisare, in una qualsiasi delle condotte degli
imputati che si sono via via riferite, alcuna
attinenza con il contenuto professionale del servizio, né, quindi, di
trasmoda,mento dei limite - lecito - dell'affidamento, in direzione «correttiva-disciplinare»: percuotere, ingiuriare, compiere
atti di libidine, minacciare etc. si pongono,
in una relazione inter-personale quale è quella tra infermieri e ospiti
assistiti, in antitesi radicale con l'oggetto minimo della prestazione dovuta,
che è, appunto, l'assistenza e la cura.
A conclusione dell'analisi di tutte
le imputazioni si esaminano ora i capi sub L) e O), attinenti a fatti autonomi
ed episodici rispetto al quadro generale, e relativi ad
addebiti contro persone non imputate di maltrattamenti.
CAPO L)
Riguarda l'unico episodio specifico
emerso nell'ambito dei generici riferimenti alle pretese di pagamento da parte di infermieri, per i servizi da loro compiuti; gli elementi
probatori per tale imputazione consistono nella dichiarazione resa dal Biasutti alla P.G. (fg. 134),
relativa al pagamento della somma di L. 1.000 che fu costretto ad effettuare dopo aver ricevuto da parte degli
inservienti Trevisan e Ugo la prestazione di un
servizio (bagno), per evitare violenze da parte di costoro.
Tale dato di accusa
non trova peraltro sostegni nel prosieguo del procedimento: dinanzi al P.M., infatti (fgg. 55, 56), il
teste non è in grado di affermare che le cd. «mance»
agli addetti venivano estorte con esplicita minaccia o con violenza, e
riconduce piuttosto la dazione di modeste prestazioni monetarie nell'ambito di
una sorta di prevenzione di atteggiamenti spiacevoli
degli infermieri.
Sul fatto in discorso, poi, vi è la
testimonianza «de relato» della Listo: questa da un
lato afferma che il Biasutti si espresse, con lei,
nel senso di richieste di mance ad opera di altri
inservienti, dall'altro conferma che era lo stesso anziano ad assumere
l'iniziativa di tali compensi - dato che ebbe ad offrire una somma proprio alla
Listo.
Dai suesposti elementi di prova non
è possibile ricavare con certezza - sia pure data per pacifica la materialità
della consegna della somma - riscontri univoci circa l'esercizio di minacce o
violenze specificamente finalizzate all'ottenimento di tali compensi; e più in
generale non è da escludere che la pratica delle «mance» rientrasse in una espressione dello stato di soggezione del degente a
causa di tutto il complessivo «trattament », cui
l'anziano cercava in qualche modo di sottrarsi monetizzando i servizi, e
pagando per evitare il ripetersi di situazioni avvilenti.
Per l'addebito in esame, quindi, non
essendo l'elemento di accusa iniziale confortato da
puntuali conferme o da considerazioni presuntive (stante altresì l'estraneità
di Trevisan e della Ugo dal complesso della
situazione di maltrattamenti), non risultano integrati i requisiti del reato
essendo incerta la prova relativa all'operazione di specifica minaccia tesa
ad ottenere la somma di denaro; gli imputati vanno perciò assolti dal reato
addebitato sub L), con formula dubitativa sull'elemento materiale
dell'illecito, conformemente alle richieste del rappresentante del P.M.
CAPO O)
Attiene alla circostanza riferita da
Basso Giuseppina nell'esposto inoltrato alla
Direzione della Casa di riposo (fgg. 100-101 P.G.).
In tale denunzia la donna fornisce
una dettagliata ricostruzione dell'episodio di cui è stata testimone diretta,
e in particolare evidenza la mancata prestazione di
assistenza all'anziana caduta, da parte del gruppo delle infermiere, pure dopo
i solleciti di altra ospite e della stessa Basso.
La denunzia è poi totalmente confermata
dinanzi al P.M. (fg. 59), e al dibattimento (fg. 4 ud. 21. 10.82), e
arricchita di precisazioni sia circa le frasi
ricevute da una delle infermiere sia sulla circostanza che in quel momento le
infermiere in parola stavano pranzando.
Dalla puntualità di tale denunzia, e
dalla credibilità della stessa - dato che
l'iniziativa dell'esposto è stata presa dalla Basso dopo le rimostranze da
lei direttamente fatte alle infermiere, e per l'indignazione che le derivò
dalla risposta di queste (l'invito a «rivolgersi al medico») - deriva
l'inapplicabilità del cpv. dell'art. 152 c.p.p.,
mancandone i presupposti; poiché il reato addebitato rientra nella previsione
del D.P.R. 744/81, e non sussistendo
condizioni soggettive impeditive della fruizione del
beneficio, va dichiarato non doversi procedere nei confronti di Cremasco Maria Rosa, Favaretto Anna Maria, Marchiori Elisa, Mogno Morena, Stevanato Maria e Zannini Annamaria in ordine al reato di omissione di atti
di ufficio loro ascritto, essendo tale reato estinto per intervenuta amnistia,
ai sensi del citato Provvedimento di clemenza.
Esaurita l'analisi delle
imputazioni, si determinano ora le sanzioni
riguardanti gli imputati dichiarati responsabili, con la premessa che non
vanno concesse, agli stessi, le attenuanti generiche ex art. 62 bis c.p.
Non si rinviene, né
nel complesso dei fatti oggetto di giudizio né nel comportamento e nella
personalità degli imputati, alcun dato che possa legittimare una valutazione in
qualche modo compensativa della obiettiva gravità della vicenda; i criteri
dell'art. 133 c.p., che qui giocano solo in funzione
della concreta determinazione delle sanzioni, e i correlativi criteri di
giudizio - modalità delle condotte, motivi delle stesse, gravità del danno
rapportato alle condizioni dei soggetti passivi - collegati ai fatti
descritti, pongono in risalto l'alto grado di disvalore
dell'insieme unitario della vicenda, e specificamente del contenuto della
direzione dei maltrattamenti; seppure è evidente che tale reato è di per sé
connotato da particolari atteggiamenti psicologici, che sono già stati
ovviamente tenuti presenti dal legislatore sia nella previsione della
struttura normativa che nella escursione della sanzione per essa stabilita, é
altresì vero che nell'ambito del «maltrattare» diverse possono essere le
misure del comportamento e della lesione dell'oggetto di tutela; considerati
allora i dati concreti della situazione e specie le condizioni di estrema
dipendenza degli anziani, nonché il fatto che gli episodi si sono svolti
all'interno di una istituzione deputata all'assistenza, risulta innegabile la
conclusione della particolare riprovevolezza della
commissione dei reati esaminati, in relazione alla difesa di un grado minimo di
civiltà ed alla protezione, costituzionalmente prevista come di diretto
interesse generale, delle condizioni di salute (art. 32 Cost.), della
personalità dell'individuo nell'ambito di comunità istituzionali (art. 2
Cost.), nonché dell'adempimento degli inderogabili doveri di solidarietà
sociale (art. 2 Cost.).
La connotazione regressiva e
l'oscura e comunque non giustificabile ragione delle vessazioni, legittimano
perciò, ampiamente, il già detto diniego di attenuanti
generiche.
Riassumendo gli esiti del giudizio,
la responsabilità penale va dichiarata nei confronti
di: Cerato, per i Capi C) e I) - assorbito in questo il capo A; Gomirato, per i Capi E), H) e I); Mulachié,
per i Capi H), I), N); Memo, per i Capi E), I) e R); Maso, per i Capi B), H),
I) e N); Checchin, per il Capo I) - in esso assorbita
l'imputazione sub B); Zanetti, per il Capo I); Cabbia, per il Capo I).
I reati rispettivamente commessi da
ciascuno degli imputati vanno legati dal vincolo della continuazione
ex art. 81 cpv. c.p., rappresentando ogni episodio un
momento di una più vasta prospettazione delittuosa
che sorregge ciascuno degli specifici fatti; ritenuto, per tutti, reato concretamente
più grave quello al Capo I), gli imputati vanno condannati come segue: Memo e Gomirato ciascuno alla pena di anni 2 di reclusione [per
Memo p.b. per il reato sub I): anni 1 e mesi 6 di recl., + mesi 5 recl. per il reato ex art. 521 c.p. sub E), e mesi 1 recl. per il reato ex art. 527
c.p. sub R) uguale pena suddetta; per Gomirato p.b. per il Capo I): anni 1 e mesi 6 recl.,
+ mesi 5 per il reato ex art. 521 c.p. sub E), + mesi 1 per il reato ex art.
610 c.p. sub H) uguale alla pena suddetta]; Maso, alla pena di anni 1 e mesi 9
di recl. [p.b.
per il reato sub I): anni 1 e mesi 6 recl., + mesi 1 recl. per il reato ex art. 582
c.p. sub B), + mesi 1 recl. per
il reato ex art. 610 c.p. sub H) e mesi 1 recl. per il reato ex art. 336 c.p. sub N)]; Mulachié,
alla pena di anni 1 e mesi 8 di reclusione [p.b. per
il reato sub I): anni 1 e mesi 6, + mesi 1 per il reato ex art. 610 c.p. sub H)
e mesi 1 recl. per il reato
ex art. 336 c.p. sub N)]; Cerato, alla pena di anni 1 e mesi 7 di reclusione [p.b. per il reato sub I): anni 1 e mesi 6 recl., + mesi 1 per il reato ex art. 582 c.p. sub C)]; Checchin, Zanetti e Cabbia ciascuno alla pena di anni 1 e mesi 6 di reclusione
(per il reato sub I).
La pena base (uguale per tutti, dati
il titolo di concorso e le considerazioni svolte al riguardo), viene fissata nella misura detta prendendo in considerazione
- come è d'obbligo ai sensi dell'art. 133 c.p. - ogni elemento stabilito per la
concreta fissazione della sanzione, quindi in primo luogo l'incensuratezza di pressoché tutti gli imputati - e la
modestissima entità dei precedenti per i soli Cerato e Checchin
- quale indice di personalità non pericolose né espressesi, fuori del
procedimento in esame, in particolari azioni negativamente valutabili; nonché
ricordando il basso grado di consapevolezza delle implicazioni tutte
dell'attività criminosa, emergente da quanto più sopra detto circa lo spessore
culturale esternato dai prevenuti; si reputa quindi equilibrata la misura
della pena così determinata, in relazione alla funzione preventiva che la pena
stessa deve assumere, oltre al significato strettamente sanzionatorio.
Dall'affermazione di responsabilità
deriva, a carico degli imputati Cerato, Gomirato, Mulachié, Memo, Maso, Checchin, Zanetti e Cabbia, l'obbligo al
rimborso delle spese processuali, con vincolo di
solidarietà passiva, nonché, per ciascuno di essi, delle spese della propria
custodia preventiva.
Agli stessi si concede la
sospensione condizionale dell'esecuzione di pena, ex art. 163 c.p., in considerazione
dell'efficacia dissuasiva costituita dalla presente condanna, rapportata alla
valutazione della dimostrata non pericolosità sociale, ciò che implica un
giudizio ipotetico negativo circa la ricaduta nell'attività delittuosa.
Poiché i reati per i quali è stata affermata la responsabilità sono stati commessi con
abuso dei poteri - e in violazione dei doveri - inerenti il servizio pubblico
esercitato, dalla condanna deriva a carico degli stessi imputati sopra citati
la sanzione accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici, ex artt. 31, 28 nr. 2 c.p., sanzione che va fissata, per
ciascuno degli imputati, in una durata pari alla misura della pena
rispettivamente inflitta.
Cerato, Gomirato,
Mulachié, Memo, Maso, Checchin,
Zanetti e Cabbia vanno,
infine, condannati in via solidale tra loro al risarcimento dei danni
materiali e morali cagionati dai commessi reati, in favore delle parti civili
costituite - Casa di riposo, in persona del Presidente e Comune di Venezia in
persona dei procuratori speciali nominati - riservando la quantificazione e
liquidazione degli stessi danni al Giudice Civile
competente per territorio; nonché al rimborso, sempre con vincolo di
solidarietà passiva, delle spese di costituzione e difesa sostenute dalle
parti civili, spese che si liquidano in complessive L.
1.000.000 (di cui lire 85.000 di spese e lire 915.000 di onorari) per ognuna
di esse.
P.Q.M.
Visti gli artt.
477, 483, 488, 489 c.p.p. dichiara
Cerato Adriano, Gomirato Luigino, Mulachié
Vittorio, Memo Daniele, Maso Giancarlo, Checchin Arnaldo, Zanetti
Cesarino e Cabbia Bruno responsabili del reato sub
I), assorbiti in tale imputazione il reato sub A) nonché il reato sub B) riferito
al Checchin, previa loro derubricazione
nei reati di cui all'art. 581 c.p.
Dichiara inoltre responsabili: Maso
del reato sub B); Cerato del reato sub C); Memo e Gomirato
del reato sub E), modificata l'imputazione nel reato di cui all'art. 521 c.p.; Gomirato,
Mulachié e Maso del reato sub H); Maso e Mulachié del reato sub N); Memo del reato sub R); e
pertanto, ritenuta la continuazione - tra tutti i delitti rispettivamente
ascritti ai capi che precedono, e considerato più grave il reato di
maltrattamenti, condanna: Gomirato e Memo ciascuno
alla pena di anni 2 di reclusione; Maso alla pena di anni 1 e mesi 9 di
reclusione; Mulachié alla pena di anni 1 e mesi 8 di
reclusione; Cerato alla pena di anni 1 e mesi 7 di reclusione; Checchin, Zanetti e Cabbia ciascuno alla pena di anni 1 e mesi 6 di reclusione.
Tutti in solido al
pagamento delle spese processuali e ciascuno alle spese della propria custodia
preventiva.
Visto l'art. 163 c.p., concede ai predetti il beneficio della sospensione
condizionale della pena.
Visto l'art. 31 c.p., dichiara gli stessi interdetti dai pubblici uffici,
ciascuno per durata pari alla misura della pena inflitta.
Condanna Cerato, Gomirato,
Mulachié, Memo, Maso, Checchin,
Zanetti e Cabbia al
risarcimento dei danni, in solido tra loro, in favore delle parti civili
costituite, da liquidare in separato giudizio; nonché
al rimborso, pure in solido, delle spese di costituzione e difesa sostenute
dalle parti civili, che liquida in complessive L.
1.000.000 per ciascuna di esse.
Visti gli artt.479
c.p.p., 1 e segg. D.P.R. 744/81, dichiara non doversi
procedere nei confronti di Zanetti, Mulachié, Maso e Meneghel in ordine al reato al Capo M), modificata la relativa imputazione
in quella di cui all'art. 341, ultimo comma, c.p.,
nonché nei confronti di Cremasco Maria
Rosa, Favaretto Anna Maria,
Marchiori Elisa, Mogno
Morena, Stevanato Maria, Zannini Annamaria in ordine al reato al Capo O), e nei
confronti di Maso in ordine al reato al Capo V), perché estinti per amnistia.
Dichiara non doversi procedere nei
confronti di Memo e Maso in ordine ai Capi S) e T)
loro rispettivamente ascritti, modificate le imputazioni del reato di cui
all'art. 594 c.p., per mancanza di querela.
Assolve Meneghel
dal reato al capo I), per insufficienza di prove; Cabbia e Gomirato dal reato al
capo B), per insufficienza di prove; Gomirato dal
reato al Capo C), per non aver commesso il fatto; Mulachié
dal reato al Capo E), per insufficienza di prove; Cabbia
e Gomirato dal reato al Capo F), perché il fatto non
costituisce reato; Cerato e Checchin dal reato al
Capo G), per insufficienza di prove; Trevisan Aldo e
Ugo Mariella dal reato al Capo L), per insufficienza di prove; Mulachié dal reato al Capo Q), perché il fatto non sussiste;
e Maso dal reato al Capo U), per insufficienza di prove.
Venezia, 24 novembre
1982
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