Prospettive assistenziali, n. 64, ottobre - dicembre 1983

 

 

Specchio nero

 

 

QUANDO ANCHE LA CULTURA EMARGINA

 

Il Governo - con un cinismo difficilmente ri­scontrabile nella legislazione sociale - ha ripro­posto con il decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463 norme che impediscono l'effettivo inseri­mento al lavoro per migliaia di invalidi (vedi ar­ticolo in questo stesso numero della rivista). È il tentativo di far pagare ai più deboli le conse­guenze della crisi, ma anche l'indice di una men­talità deteriore che ancora considera gli handi­cappati cittadini di serie «B», senza gli stessi diritti degli altri sul piano umano, sociale, costi­tuzionale.

Un atteggiamento, una pigrizia culturale molto diffusi che, purtroppo, è favorita da una parte della nostra intellighentia. Ne è esempio signifi­cativo l'articolo scritto da Carlo Bo, rettore della Università di Urbino ed uno degli esponenti prin­cipali della cultura umanistica italiana, sul «Cor­riere della Sera» del 27 agosto 1982. Una posi­zione che - alla luce dei due decreti-legge licen­ziati nel 1983 prima dal governo Fanfani e poi dal ministero Craxi - assume una preoccupante attualità (1).

 

Ecco il testo integrale dell'articolo.

 

L'articolo di Carlo Bo

 

Handicappati psichici nel mondo del lavoro?

 

Una notizia di qualche giorno fa ci sembra porre delle domande che travalicano il senso stretto del fatto riferito. Il tribunale civile di Milano ha stabilito che le aziende sono obbligate a assume­re handicappati psichici, così come l'ufficio del lavoro di Vigevano aveva imposto includendo fra i nomi degli invalidi da assumere anche quello di un malato «particolare». Non si discute la sen­tenza che, del resto, si limita a confermare quan­to era già stato stabilito in prima istanza, così co­me non si mette in discussione l'assoluta bontà della suggestione, dal punto di vista, più che uma­no, cristiano.

Ciò che invece non possiamo nascondere è la questione che ci investe direttamente, mettendo­ci al posto non tanto del datore di lavoro quanto di quello degli eventuali compagni di lavoro, chia­mati a una prova alla quale la società certo non li ha né preparati né educati. Che cosa faremmo noi se ci trovassimo in una situazione del genere? Una domanda che può essere rettamente rove­sciata in questi termini: siamo capaci di pietà, abbiamo almeno lo spirito d'amore che la vita ci richiede? Una cosa è rispondere che la sentenza non solo è giusta ma non fa altro che ripercorrere il senso primo della legge cristiana, una cosa ben diversa è applicare la norma ora non più giuridica ma di ordine morale e spirituale.

Penso che prima di poter dire: sì, sono dispo­sto alla prova, molti di noi si troverebbero in grave imbarazzo, soprattutto perché non riuscia­mo a immaginare neppure il grado e il peso della prova mentre abbiamo ben presente quanto sia già difficile la convivenza fra normali. Sono cose che insegnanti e studenti di classi che ospitano ragazzi handicappati conoscono fin troppo bene e va aggiunto che le loro testimonianze fino a que­sto momento non sembrano fatte per tranquilliz­zare sulla possibilità né - tanto meno - sull'ef­ficacia di questo tipo di famiglia così diversa­mente composta. Lo so, siamo ai primi passi e quindi può darsi che con il tempo queste che ci sembrano difficoltà ardue o addirittura insupera­bili siano superate e vinte ma il divario fra spe­ranza e realtà è enorme e nasce dalla nostra in­disponibilità di fondo. Si potrà obiettare che tale indisponibilità è frutto di una concezione molto antica per cui i diversi andavano emarginati o na­scosti ma non credo che sia soltanto questo.

Caso mai, l'indisponibilità è il frutto del nostro egoismo, di un malinteso spirito vitale, del ve­dere la convivenza come una occasione di lotta o per lo meno di emulazione fra uguali. Tutto il con­trario dello spirito di carità. La carità non compor­ta emulazione di alcun genere, all'infuori di quella così irraggiungibile per noi dell'aspirazione alla santità, della formazione allo spirito di sacrificio. È la carità che trasforma gli altri e i più disere­dati e offesi dalla natura in privilegiati, in soggetti di santità e di amore. Il Cottolengo ha seguito questa strada e ha insegnato a migliaia di uomini a vivere fra persone apparentemente prive di ogni minima dignità umana ma sono casi eccezionali e lo restano.

La vita di un'azienda o di una scuola è una cosa ben diversa, sono officine di ordine pratico e dan­no per scontato un minimo necessario di ugua­glianza, mentre tutto ciò che divarica o contrad­dice questa norma è visto come un errore o un ostacolo. È così che la sentenza del tribunale è paradossale, nell'esatta misura in cui lo è il cri­stianesimo ma con una differenza: il tribunale può ordinare ma non di più, il cristianesimo ha altre risorse, percorre un'altra strada, comincia dal principia, non dalla fine.

Perché tale sentenza possa essere soddisfatta anche nello spirito bisognerebbe che i normali fossero dotati di uno straordinario spirito di amo­re per gli altri, di carità se pure non eccezionale ma fuori della norma. In senso più generale do­vrebbe intanto essere diversa e diversamente co­struita la nostra società, il suo scopo dovrebbe essere di ordine spirituale e non - come per for­za di cose è - soltanto pratico, tecnico, strumen­tale. Com'è possibile trasformare un'azienda, una scuola in una succursale minima del Cottolengo o soltanto di una casa specializzata per malattie mentali?

Certo, la questione presenta aspetti drammati­ci, anzi in certi casi può diventare tragica ma non è con delle sentenze generose e colme di ansia cristiana che si modifica la realtà. La cosa è molto più complessa e difficile, bisognerebbe cioè che noi per primi fossimo disposti a diventare diver­si, nel caso, simili per intensità di carità a chi per infelicità naturale è immagine del dolore e di una violenza misteriosa.

 

 

 

(1) In risposta alle tesi di Carlo Bo, cfr. anche, G. SEL­LERI, «Non pietà ma giustizia», in Orizzonti aperti, n. 4-5-6, 1982; e la rivista «Gli Altri», n. 3, 1982.

 

 

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