Prospettive assistenziali, n. 65, gennaio - marzo 1984
RAPPORTO CENSIS 1983 E
SERVIZI SOCIO-ASSISTENZIALI
Anche nel
suo XVII Rapporto sulla situazione sociale del paese (1), il Censis ha dedicato un ampio capitolo ai problemi della
sicurezza sociale e, in questo ambito, ai «bisogni e
servizi socioassistenziali». Da questo abbiamo stralciato i paragrafi relativi alla «insufficienza delle risposte istituzionali»,
alla «debolezza strutturale e politica del settore dell'assistenza» ed agli anziani
(2).
Ci sembra,
infatti, importante che il Rapporto predisposto dal Censis
con il patrocinio del Cnel, faccia riferimento ai
temi sui quali la nostra rivista si batte da anni; evidenzi bisogni emergenti ma sui quali non si è ancora fermata l'attenzione
dello Stato, del Parlamento e degli Enti locali; solleciti - riferendo su
iniziative assunte in alcune aree del paese - cambiamenti di mentalità e di
strutture.
Particolarmente
importanti, crediamo siano i riferimenti alla mancata approvazione della
riforma dell'assistenza ed ai limiti del testo fermo alle Camere; l'accenno ad
una «restrittiva e miope» definizione del volontariato e del suo ruolo nel campo
assistenziale; il richiamo al nodo delle IPAB
(Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza) e a quello degli organi di
governo preposti alla gestione dei servizi.
Per quanto
riguarda gli anziani, va segnalata l'attenzione del Rapporto Censis al problema dei cronici non autosufficienti, sul
quale la nostra rivista si è soffermata più volte in questi ultimi anni ed a
cui dedica anche l'editoriale di questo numero.
Nelle pagine
del Rapporto '83 riservate all'assistenza, va registrata, tuttavia, a nostro
avviso, una vistosa lacuna. Non si fa alcun cenno alle
iniziative in atto per la deistituzionalizzazione di
minori, anziani, handicappati, che pure esistono nel paese. La carenza è tanto più grave, in quanto proprio nel 1983 è
stata approvata definitivamente la nuova legge sulla adozione che introduce
nel nostro ordinamento giuridico l'istituto dell'affidamento familiare, con
l'obiettivo di ridurre (e al limite eliminare) il
ricovero in istituto.
Una lacuna
da colmare nel «Rapporto Censis 1984».
DAL
RAPPORTO CENSIS 1983
Vecchi e nuovi bisogni: l'insufficienza
delle risposte istituzionali
Se all'inizio degli anni '80 i complessi fenomeni di
trasformazione e di modernizzazione in atto non configurano ancora un assetto societario nuovo o definibile in termini meno generici che
postindustriale, hanno senza dubbio prodotto una emergenza e ampliamento dei
bisogni sociali, rispetto a quelli convenzionalmente assunti nelle politiche
sociali.
I bisogni sociali e assistenziali
nella loro tipologia derivano da diverse matrici che in parte si intrecciano e
si cumulano. Queste fanno riferimento:
- alla
persistenza di alcuni bisogni di tipo assoluto,
acuiti dalla crisi strutturale del sistema economico-produttivo nazionale e
quindi legati all'assenza, insufficienza o aleatorità
delle fonti di reddito, alla strumentalizzazione di alcune fasce di lavoratori
come il lavoro nero o il lavoro minorile, alla precarietà di certe condizioni
di vita e di abitazione esposte al rischio di inquinamento e all'assenza di
garanzie igieniche primarie;
- ai
cambiamenti socio-culturali di cui indicatori di nuovi bisogni sarebbero
ad es.: la definitiva
legittimazione del lavoro femminile, la restrizione del nucleo familiare, la
precoce autonomizzazione dei bambini, l'aumento
della quota di popolazione anziana, il crescente margine di utilizzo creativo
e formativo del tempo libero, l'estensione dell'area media della
stratificazione sociale, l'omologazione della popolazione sul piano dei valori
e dei consumi;
- all'insorgere
di nuove povertà riferibili alla generalità della popolazione e
direttamente conseguenti alla caduta complessiva di qualità dei rapporti
interpersonali e alla perdita di identità. Questo tipo
di bisogni, definiti post-materialistici, sembrano
dipendere direttamente dalla crisi dei sistemi di significato e dei valori
collettivi che colpisce le società post-industriali;
- all'emergere di aree di bisogno legate a nuovi soggetti sociali posti
in una particolare condizione esistenziale. È ormai sempre più avvertito che
la giovane coppia costituisca una unità di
riferimento socialmente rilevante per il sistema dei servizi sociali. Così come
i bisogni degli anziani o dei minori non sono riducibili a quelli meramente assistenziali ma risultano articolati e segmentati sia
all'interno della categoria dei soggetti considerati che in riferimento alla
loro condizione sociale complessiva;
- al
manifestarsi di povertà legate all'inadeguatezza sia quantitativa che qualitativa delle risposte istituzionali ai bisogni
fondamentali di salute, istruzione, assistenza, dell'assetto complessivo
dei servizi sociali e loro organizzazione sul territorio. I bisogni derivano in
questo caso da aspetti disfunzionanti nel concetto,
nel modello, nelle modalità reali, nella carenza
complessiva delle prestazioni che attengono le politiche sociali, lo sviluppo
dei servizi sociali.
Quest'ultimo tipo di bisogni, indotti dall'inefficienza
del sistema di welfare state complessivo, merita qui una
sottolineatura particolare, in quanto finisce per ricadere nell'apparato assistenziale che risulta oggi nel nostro paese alquanto
appesantito.
Così molte situazioni di emarginazione
potrebbero essere risolte o ridimensionate se i servizi sociali e l'intero
apparato di sicurezza sociale fossero impostati ed organizzati in modo da dare
anche risposte specifiche e socializzanti ai soggetti con minore autonomia o
con problemi particolari. Si pensi al benessere sociale ed esistenziale che
deriverebbe ai portatori di handicaps l'eliminazione delle barriere architettoniche o ai dimessi dagli ospedali psichiatrici la possibilità di
inserirsi in una cooperativa di lavoro e di usufruire di un alloggio («casa
famiglia» o altro).
Restano pertanto molti bisogni non risolvibili dai
servizi sociali, anche a causa della loro inadeguatezza
strutturale e funzionale, quali le pensioni insufficienti, la mancanza
di abitazioni idonee, l'espulsione degli anziani malati cronici non
autosufficienti dagli ospedali, le carenze della riabilitazione, la mancanza
di politiche sociali non settoriali e promozionali per intere categorie di soggetti,
ecc.
È proprio la mancanza di una rete di servizi sociali e la privatizzazione delle risposte a costringere
numerosi cittadini nei canali della istituzionalizzazione e della medicalizzazione o a nascondere i loro bisogni all'interno
delle pareti domestiche.
Lo sviluppo dei bisogni assistenziali
si configura pertanto all'interno di un quadro di inadeguata profilassi
sociale.
Se all'evoluzione di una società sempre più articolata
e complessa al suo interno segue linearmente l'evoluzione dei bisogni, non
così correlato appare il rapporto tra bisogni e loro legittimazione sul piano
culturale e istituzionale. Scarsa considerazione dei bisogni, discrasie e
inefficienze caratterizzano per lo più le risposte istituzionali.
Esse, nell'ambito socio-assistenziale, attengono soprattutto:
- alla
rilevazione dei bisogni: carente è l'indagine territoriale, la
quantificazione e qualificazione dei bisogni della popolazione, e ciò finisce
per incidere su una reale programmazione dei servizi e determina una
nebulosità di indirizzo circa gli scopi e i fini degli
interventi che si riducono ad «aspettare i casi in ufficio» e a subentrare
quando ormai i bisogni hanno carattere di emergenza;
- alle modalità
di risposta ai bisogni; esse risultano strutturate
su funzioni e procedure preformate e standardizzate comportando risposte
parcellizzate ai bisogni e rigidità di intervento. Le
politiche socio-assistenziali non sembrano pertanto in grado di
configurare un pacchetto coerente e unitario di risposte ai molteplici bisogni
degli utenti-assistiti, bisogni che risultano frantumati e articolati. Si nota
come con il crescere dei bisogni le risposte dei servizi si fanno ancora più
settoriali, rivolte a singole denominazioni di soggetti. Si pensi al diverso
trattamento dei minori in stato di bisogno distinti tra orfani, ex-ONMI, illegittimi, handicappati,
ecc. Inoltre le rigidità proprie del servizio (orario, attesa prestazioni
preordinate, rapporto formalizzato con l'utenza) costituiscono ulteriore
ostacolo all'efficacia degli interventi;
- alla
persistenza di una offerta piuttosto consolidata di
interventi in risposta ai problemi più tradizionali della popolazione
(sussidi economici ed altre forme meramente assistenziali) e ad una difficoltà
ad istituire forme alternative di servizi sociali (ad es. la deistituzionalizzazione con inserimenti in famiglie,
gruppi e comunità, l'assistenza domiciliare estesa alle neofamiglie con bambini
in età infantile) riconvertendo spese e personale;
- alla
confusione implicita nelle politiche socio-assistenziali
tra la diversità di espressione di un bisogno con la
sua natura e quindi l'attribuzione di senso diverso a bisogni simili.
Proprio perché l'handicappato è un soggetto considerato diverso, all'interno
di una determinata cultura, si suppone che tale sua diversità si esprima in
ogni campo, e soprattutto in quello dei bisogni. La falsificazione dei bisogni
riguarda pertanto più categorie di soggetti emarginati concorrendo a rafforzare
tale stato di marginalità. È ormai sempre più avvertito che lo sviluppo delle
esigenze (bisogni) assistenziali in luogo di attività
e servizi che incentivino l'autonomia delle persone (e dei nuclei sociali) stia
a significare l'aumento della fascia di popolazione emarginata;
- al rapporto problematico tra bisogni e domanda di prestazioni. Da
una parte vi è una dimensione di bisogni scarsamente rappresentati nelle
soluzioni socio-assistenziali, peraltro non in grado di pubblicizzarsi
adeguatamente. Dall'altra si rivela una difficoltà da
parte dei cittadini, per lo più delle classi sociali meno abbienti, ad autocertificare i propri bisogni riconoscendo come un
diritto la domanda posta ai servizi; quindi a partecipare alla definizione dei
bisogni e alla gestione diretta o indiretta delle risposte istituzionali;
- alle risposte
sperequate alla comune situazione di bisogno a seconda
delle possibilità dei cittadini dei vari ceti di utilizzare i servizi
(informazioni adeguate) e di ricorrere all'offerta privata (disponibilità
economica) evitando di ricadere nel mero assistenzialismo (sussidio economico)
qualora risultino deficitari i servizi sociali più
idonei a rispondere al bisogno. Laddove è carente l'offerta dei servizi
pubblici si allarga la forbice della disparità fra gli
assistiti di diversa condizione sociale, fino a determinare una ingiustizia
diffusa insopportabile.
La debolezza strutturate
e politica del settore dell'assistenza
A tutt'oggi il dibattito
sulla riforma dell'assistenza e il Testo Unificato di
Legge Quadro risultano bloccati sui livelli dello scorso anno, e lo stallo cui
da tempo si assiste nel settore sembra farsi sempre più pesante e completo.
Il testo di Legge-Quadro approntato dalle Commissioni
Interni e Affari Costituzionali della Camera è fermo dal dicembre del 1981, da quando cioè si è arrivati a trattare il problema delle
IPAB, nodo istituzionale e ideologico centrale dello scontro in atto nel paese
rispetto alla organizzazione dei servizi assistenziali.
Come rilevavamo già lo
scorso anno, il progetto di riforma rimasto immobilizzato all'art. 15
(Trasferimento dei beni delle IPAB) e poi decaduto con la chiusura della
legislatura, era d'altra parte ancora assai carente e confuso. Ricordiamo i
punti che più di altri lasciavano perplessi per la loro indeterminatezza.
1. La
definizione degli organi di governo preposti alfa gestione dei servizi:
l'indeterminatezza tra Comuni singoli ed Associazioni di Comuni
o genericamente «organismi di decentramento comunale» è destinata a provocare
caos e confusione.
2. Il
volontariato ed il suo ruolo nell'assistenza: l'attuale definizione è
restrittiva e miope rispetto alle potenzialità di un
volontariato più ampio.
3. Il
personale: la Legge non affronta i nodi del ruolo giuridico e delle
categorie professionali, rimandando a poi «la determinazione dei profili professionali
degli operatori sociali», gli organici, i titoli professionali e la
formazione.
4. Ministero
competente: il passaggio delle competenze dal Ministero degli Interni a
quello della Sanità dovrebbe essere accompagnato dalla contemporanea
ristrutturazione del nuovo organismo competente, al
fine di salvaguardare la cultura specifica del settore sociale rispetto a
quello sanitario.
5. Il punto
delle competenze residue dello Stato, relative agli interventi assistenziali per appartenenti alle Forze Armate, ai
Carabinieri, alla Polizia e ai Vigili del Fuoco, e ai loro familiari: è in
contraddizione con il superamento del settorialismo e col principio della
parità dei cittadini di fronte ai servizi sociali.
6. L'attribuzione
alle Province di altri compiti specifici, quali la
localizzazione dei presidi, contrasta con il principio della integrazione
delle funzioni a livello locale.
7. La
definizione degli indici e degli standards per la
ripartizione dei finanziamenti è rimandata a tempi successivi, lasciando nel
vago un punto di importanza centrale.
8. Manca un sia
pur minimo sforzo di definizione dei servizi sociali e dei settori di intervento, lasciata alla programmazione periodica
governativa e regionale.
9. Il testo di legge non definisce chiaramente i termini che le Regioni devono rispettare per
emanare normative di riordino del settore.
10. Non affronta il nodo fondamentale relativo agli stanziamenti per la riforma e la
riorganizzazione del settore.
La mancata attuazione della riforma della finanza
locale e di quella delle autonomie; atti normativi
isolati contraddittori tra loro e con i principi del decentramento e della
individuazione di poli territoriali che integrino al proprio interno i diversi
momenti delle politiche sociali (come ad esempio le disposizioni contenute
all'interno della Legge Finanziaria 1932, e relative a controlli e ispezioni
da parte dell'amministrazione centrale sui poteri locali); gli ostacoli
interposti alla pubblicizzazione delle Istituzione
pubbliche d'assistenza e beneficenza (oltre 9 mila enti tra cui circa il 35%
degli istituti di ricovero), ed in particolare la Sentenza della Corte
Costituzionale del luglio 1981 e gli emendamenti introdotti al Testo Unico di
Legge Quadro nel febbraio del 1982, che autorizzano la trasformazione in enti
privati di almeno 6000 IPAB sono tutti ulteriori elementi che hanno contribuito
a determinare l'attuale stallo.
La mancanza di investimenti
finanziari adeguati nel settore e le difficoltà in cui versa la finanza locale
hanno posto inoltre freno, accanto al disordine concettuale e normativo a
livello nazionale, all'opera di riordino che pure in alcune Regioni si è
avviata.
La spesa per la
sicurezza pubblica in Italia infatti è da alcuni anni in fase di stasi, in
particolare per quanto riguarda il comparto assistenziale
in senso stretto (meno per quello sanitario, ed ulteriormente meno per quello
previdenziale).
Mentre infatti le spese per
la previdenza sono passate dal 1976 al 1981 da 22 mila miliardi a 68, con una
crescita del valore percentuale del comparto sull'intero settore dal 62,9% al
69,3%, per la sanità si va da 20 mila miliardi a 23 (dal 28,8% al 23,6%), e per
l'assistenza da 3 mila miliardi a 74 (dall'8,7% al 7,1%).
L'incremento percentuale dei comparti dal '76 all'81 è così distribuito: 206% per la previdenza, 126% per
la sanità e 133% per l'assistenza. In termini reali, depurati cioè dall'incidenza dell'inflazione, si può dire che,
soprattutto per quanto riguarda l'assistenza vera e propria, si assiste ad una
stasi, e per certi aspetti addirittura ad un calo, della spesa pubblica.
Analoga tendenza si riscontra rispetto all'incidenza
della spesa per la sicurezza sociale sul Prodotto Interno Lordo, dove di gran lunga preminente è il peso del comparto
previdenziale (17%), mentre la sanità accusa un calo da 6% del 1979 al 5,8% del
1981 e l'assistenza rimane bloccata su valori che non superano l'1,8%.
Complessivamente il settore pesa per il 24,7% sul PIL
nazionale, valore che risulta tra i più bassi in
Europa; nel 1979 solo la Gran Bretagna spendeva meno in termini relativi (il
20,4% del PIL).
Il mancato impegno finanziario nel settore impedisce
agli Enti Locali di colmare le lacune e i vuoti che ancora sussistono e i
divari tra zona e zona.
Rispetto al personale,
la situazione permane quanto mai confusa. Da un lato si assiste alla proliferazione
di scuole ed istituti di formazione che, in assenza di una regolamentazione
nazionale, formano gli addetti alle attività socio-assistenziali.
Da una rilevazione effettuata dalla Direzione
Generale dei Servizi Civili del Ministero dell'Interno
risulta ad esempio che sia la durata, sia la modalità di tirocinio, sia gli
stessi programmi delle Scuole di Servizio Sociale in Italia, si differenziano
notevolmente tra loro, denunciando livelli qualitativi assai eterogenei. Si va
ad esempio da una prevalenza di corsi di più di 3000
ore nel nord a corsi tra le mille e 1299 ore nel Centro, a corsi di non più di
800-1000 ore nel sud. La ricerca ha inoltre evidenziato la proliferazione delle
scuole di servizio sociale nel meridione, ed in particolare in Campania e
Sicilia. Complessivamente si assiste ad un accentuato disorientamento intramezzato
da sperimentazioni in parte valide e da situazioni molto eterogenee tra loro.
La Commissione di studio per la definizione dei
profili professionali e dei requisiti di formazione degli operatori sociali
istituita dal Ministero dell'interno nel 1982 sta
lavorando ad una proposta che regolarizzi e unifichi le figure professionali e
la relativa formazione in Italia. Le figure fino ad oggi esaminate
dalla Commissione sono: assistente sociale; operatore in campo socio-pedagogico;
assistente domiciliare e altro personale con compiti socio-assistenziali.
La tendenza che si sta delineando
è quella di istituire un diploma universitario nazionale per la formazione di
questo tipo di operatori.
Il problema del personale costituisce anche un nodo
di primo ordine all'interno del dibattito sulla pubblicizzazione
delle Istituzioni pubbliche di assistenza e
beneficenza. Da una indagine condotta nel 1979 dalla Caritas italiana risulta che sono ben 3.272 gli operatori
delle IPAB socio-assistenziali che risiedono all'interno delle istituzioni, e
che dovrebbero quindi trovare una loro diversa localizzazione, anche abitativa,
in caso di passaggio agli Enti locali.
Il personale delle IPAB nel suo complesso ammonta
invece a circa 35.500 unità, di cui 8.100 religiosi. Si tratta di un
potenziale notevole sia in termini di numero che di
esperienza, di cui la struttura pubblica potrebbe avvalersi.
L'impegno della Regione per il riordino dell'assistenza
procede nel frattempo e per i motivi detti con estrema
lentezza. Alle leggi della Basilicata, della Val d'Aosta e del
Friuli Venezia Giulia si sono aggiunte quelle dell'Umbria e del Piemonte
(Tab. 1).
La legge umbra assegna le funzioni socio-assistenziali
alle Associazioni di Comuni e alle Comunità montane, le quali si debbono avvalere delle Unità Sanitarie Locali che assumono
la denominazione di Unità Locali per i Servizi Sanitari socio-assistenziali
(ULSS). Le funzioni di indirizzo, coordinamento e
verifica vengono attribuite alla Giunta Regionale.
La legge pone alla base della programmazione delle
attività i seguenti principi: la prevenzione, la preferenza per soluzioni
rivolte alla totalità dei cittadini, la garanzia al «non radicamento», l'utilizzazione
delle risorse della società civile al recupero dei soggetti disadattati e
handicappati, la partecipazione e il controllo dei cittadini, l'eguaglianza di
prestazioni rispetto al bisogno.
Tab. 1 -
Leggi regionali di riordino dell'assistenza |
|||
Basilicata |
L.R.
n. 50 |
Riorganizzazione
dei servizi socio-assistenziali |
4-12-1980 |
Valle
d'Aosta |
L. R.
n. 2 |
Organizzazione
dei servizi sanitari e socio-assistenziali |
22-1-1980 |
Friuli
Venezia Giulia |
L.R.
n. 35 |
Promozione
e riordino dei servizi e interventi in materia socio-assistenziale |
3-6-1981 |
Umbria |
L.R.
n. 29 |
Norme
ed indirizzi per il riordino delle funzioni amministrative e per la
programmazione dei Servizi in materia socio-assistenziale |
31-5-1982 |
Piemonte |
L.R.
n. 20 |
Indirizzi
e normative per il riordino dei servizi socio-assistenziali della Regione Piemonte |
23-8-1982 |
Gli interventi previsti sono così ripartiti:
1) Interventi
di prevenzione e promozione sociale
- assistenza alla maternità e all'infanzia
- aggregazione sociale
- tempo libero
- tutela psico-affettiva
dei minori ricoverati nei presidi ospedalieri
- sostegno e integrazione sociale - promozione sociale degli anziani
- eliminazione delle barriere architettoniche
2) Interventi assistenziali
- assistenza economica
- assistenza domiciliare
- soddisfacimento di esigenze
abitative
- emergenza e pronto intervento assistenziale
- interventi a favore dei minori
- affidamento familiare
- servizi residenziali
- protezione dei minori.
La legge umbra lascia la possibilità anche ai Singoli
Comuni e ai Consigli di Circoscrizione di erogare prestazioni assistenziali.
La legge della Regione Piemonte individua nelle Unità
Socio-Sanitarie locali (USSL) gli organi periferici per lo svolgimento delle
funzioni socioassistenziali e per la rilevazione dei
bisogni. Essi sono i gestori in particolare di:
a) interventi
di sostegno del nucleo familiare e del singolo sotto forma di
- assistenza economica
- assistenza domiciliare
b) interventi
di sostituzione del nucleo familiare sotto forma di
- affidamenti ed inserimenti presso famiglie
- affidamenti a servizi residenziali tutelari.
La Regione e gli Enti locali sono incaricati di
svolgere le attività di tipo preventivo, e cioè:
- informazione, ricerca, progetti
- soddisfacimento di esigenze
abitative
- soddisfacimento di esigenze
socio-relazionali
- promozione dell'inserimento
lavorativo
- abolizione delle barriere architettoniche.
Gli anziani
Sul problema delle persone anziane si è intensificato
il dibattito sul piano politico, culturale, sociale, sanitario ed economico, e
ciò per la presa di coscienza dell'ampliamento
quantitativo della popolazione anziana e per la consapevolezza che tale
ampliamento è ormai una tendenza demografica di lungo periodo caratteristica. delle società occidentali. Tale dibattito ha portato alla
definizione di alcuni nodi nella programmazione e
nell'attuazione dei servizi, ma soprattutto ha condotto a una riflessione e a
tentativi di ri-definizione della condizione delle
persone anziane.
La fascia degli anziani tende complessivamente a
crescere di consistenza (sia in senso relativo che in
valore assoluto) sia per la diminuzione delle nascite che per il prolungamento
della durata della vita dovuto ai progressi delle scienze mediche e al
miglioramento del tenore di vita generale.
Rispetto all'incidenza della popolazione in età 65
anni e oltre sul totale della popolazione, l'Italia si colloca circa a metà
strada rispetto ai valori degli altri paesi europei. Il movimento naturale
della popolazione evidenzia un aumento di popolazione complessivo e un
parallelo aumento della popolazione sopra i 60 anni, sia in termini assoluti che percentuali (confronto tra i dati dei censimenti del
1951, 1961, 1971 e i risultati provvisori del censimento 1981): si va dai 56
cittadini al di sopra dei 60 anni per ogni ragazzo fino a 14 anni del 1961,
agli 80 del 1981, e da 22 per ogni cittadino in età lavorativa nel 1961 a 28
del 1981.
Tale tendenza demografica, rimanendo bassa la
natalità e decrescendo il movimento migratorio conduce a prevedere che nel 1991
il 20,3% della popolazione sarà in età superiore ai 60 anni, con 117 e con 32
cittadini al di sopra dei 60 anni rispettivamente per
ogni ragazzo fino a 14 anni e per ogni cittadino in età lavorativa.
La situazione interna del Paese, invece, presenta
notevoli differenze tra regioni con una forte incidenza
di popolazione anziana (Liguria, Friuli Venezia Giulia, Toscana), e regioni con
una incidenza notevolmente più bassa (Campania, Sardegna, Basilicata). Le
modificazioni dell'equilibrio tra i vari gruppi di età
determinano sensibili modifiche nei bisogni della popolazione e nei decenni
futuri la più rilevante presenza di popolazione anziana accentuerà problemi già
attuali oggi.
Ma il dato anagrafico in sé non è sufficientemente significativo ai fini di una comprensione della
condizione anziana: a parità di data di nascita le condizioni di vita in cui
sono trascorsi gli anni possono essere molto diverse da individuo a individuo,
da categoria professionale a categoria, da zone geografiche e culturali ad
altre.
Il dibattito svoltosi nel
Paese nell'Anno Internazionale dell'Anziano ha portato a una prima definizione
di bisogni: sociali, psicologici, sanitari, economici, alloggiativi, religiosi
e politici; e di interventi nei settori della previdenza, della sanità e
dell'assistenza sociale. In molti casi si assiste da
parte delle Regioni ad uno sforzo volto a creare convincenti alternative alle
vecchie modalità di intervento, che vedevano nel ricovero, o comunque nella sanitarizzazione, l'unica risposta al complesso delle
esigenze espresse dall'anziano.
Tutte le leggi
regionali sulle USL contengono al loro interno momenti
di attenzione rispetto al tema degli anziani. In questo ambito
la filosofia più diffusa si pone quale obiettivo la permanenza dell'anziano nel
proprio ambiente sociale e all'interno della propria vita di relazione, per
combattere l'emarginazione e l'isolamento. Ciò esige coordinamento e
integrazione funzionale non solo fra servizi sanitari e sociali, ma anche fra
tutto il complesso degli interventi che sul piano culturale,
ricreativo, turistico, produttivo lavorativo, caratterizzano lo sviluppo e
l'articolazione della comunità.
Rispetto alle applicazioni pratiche poi, con notevoli
differenze da zona a zona tutte le Regioni prevedono interventi assistenziali che hanno come scopo ultimo quello di evitare
l'isolamento (assistenza alla vita di relazione, soggiorni di vacanza), quello
di mantenere gli anziani nel proprio nucleo familiare e nel proprio contesto
sociale (assistenza domiciliare, assistenza abitativa tramite assegnazione di
appartamenti economici e popolari), quello di evitare lo sradicamento dall'ambiente
originario (centri diurni come luogo di incontro sociale, culturale, ricreativo).
Invece vengono previste residenze protette, comunità
alloggio, case albergo, case di riposo fornite di servizi socio-assistenziali
e collegate ai servizi sanitari di base come risposta istituzionale alternativa
al ricovero in istituto (tab. 2).
Uno dei problemi più drammatici che si pone in questo ambito è quello dei pazienti cronici e dei soggetti
non autosufficienti: esso costituisce uno dei nodi più gravi
dell'assistenza geriatrica, ed è motivo di
discussione e di diverse e talvolta opposte valutazioni per il confluire di
aspetti assistenziali e di aspetti più propriamente sanitari.
La legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale
del 1978 riconosce esplicitamente a tutti i cittadini eguali diritti
all'assistenza senza limiti di durata e indipendentemente dalle cause che hanno
determinato lo stato di mancato benessere, rafforzando quindi le disposizioni
precedenti che prescrivevano l'obbligo dell'assistenza di malattia ai
pensionati di invalidità senza limiti di durata nei
casi di malattie specifiche della vecchiaia (L.
4.8.55 n. 692), e che facevano obbligo alle Regioni di indicare la previsione
degli interventi regionali relativi all'impianto di nuovi ospedali e alla
trasformazione di quelli esistenti in relazione al fabbisogno dei posti-letto
distinti per acuti, cronici, convalescenti e lungodegenti (Legge 132 del
12.2.1968).
D'altra parte è opinione corrente che se un ospedale
generale ricoverasse al suo interno tutti gli anziani
e i cronici che lo richiedono ben presto arriverebbe a saturare i suoi letti e
a bloccare l'attività per cui è preposto. Di fatto molto spesso i cronici vengono dimessi dagli ospedali o non vi sono ammessi, per
cui, in assenza di servizi alternativi al ricovero in ospedale, l'intervento
maggiore, praticato nei confronti degli anziani che non sono più in grado di
provvedere a se stessi con i propri mezzi o con l'aiuto dei familiari è il
ricovero in istituto.
Ciò è confermato dai dati. A fronte di una diminuzione
dal 1970 al 1974 dei ricoveri in istituto in complesso (da 374.116 a 305.251
secondo i dati ISTAT), sta un aumento notevole nello stesso
periodo dei ricoveri degli anziani: da 107.617 a 136.503. Tale tendenza
all'aumento dei ricoveri degli anziani è confermata dall'ultimo dato disponibile:
nel 1976 erano in tutta Italia 139.145 gli anziani
ricoverati in istituti.
Le regioni con il più alto numero di ricoveri in
valore assoluto sono la Lombardia, il Piemonte, il Veneto (rispettivamente con
36.440, 23.648 e 17.715), mentre per quel che riguarda l'incidenza dei ricoveri
sulla popolazione in età 18 e oltre, le regioni col più elevato tasso di incidenza sono il Trentino Alto Adige, il Piemonte e il
Veneto (rispettivamente con valori di 0,801, 0,687 e 0,587). L'analisi dei dati
evidenzia la diversa rilevanza del fenomeno dei ricoveri degli anziani nelle diverse circoscrizioni geografiche del Paese: sia i
valori assoluti, ma ancor più il tasso di incidenza dei ricoveri sulla
popolazione in età 18 e oltre, evidenziano come questo fenomeno sia particolarmente
diffuso nelle regioni del Nord, mentre assume dimensioni relativamente molto
più modeste nell'Italia centrale e nel Sud.
I dati evidenziano anche un aumento a livello
nazionale, dell'incidenza dei ricoveri degli anziani
sulla popolazione in età 18 e oltre: si va dallo 0,296 del 1961, allo 0,333 del
1971, allo 0,352 del 1975. Nonostante la mancanza di
dati più aggiornati, si può ipotizzare che tuttora permanga la tendenza
all'aumento dell'incidenza di tale fenomeno.
A livello regionale questa tendenza all'aumento è più
forte nelle regioni settentrionali rispetto a quelle
centro-meridionali.
Questi dati sottolineano
perciò una crescita del fenomeno del ricovero in istituto degli anziani, in
specie nelle regioni dove più alta è la percentuale degli anziani: questo pone
perciò alle istituzioni il compito di rispondere adeguatamente e con urgenza
alle necessità espresse da tale fascia di cittadini.
Per quel che riguarda i dati relativi
al personale addetto alle case di riposo essi evidenziano una scarsa
qualificazione professionale degli operatori: su un totale nazionale nel 1976
di 35.607 operatori, ben 20.524 non hanno secondo il dato ISTAT alcuna
qualificazione.
Manca peraltro una specificazione del personale di
sorveglianza, che è classificato insieme a quello
sanitario, per un totale di 11.215 operatori.
Mancano però altri dati su tale realtà: gli ultimi
dati ufficiali dell'ISTAT riguardano il 1976, per cui
gli elementi resi noti si riferiscono a situazioni probabilmente superate o
che si sono comunque evolute nel corso degli anni.
Mancano ad esempio dati
sulla località di provenienza degli anziani ricoverati nelle case di riposo,
per cui è impossibile valutare se, a livello locale, non vi sono ricoveri in
quanto i servizi coprono tutte le esigenze oppure semplicemente perché non ci
sono istituti.
D'altra parte si scorgono segnali di un mutamento della sensibilità da parte degli Enti locali
rispetto al problema dei cronici, che lasciano prevedere un mutamento di
tendenza nei prossimi anni. Ad esempio il Comune di Torino e l'USL
Torino
1-23 hanno emanato delle disposizioni e una circolare in cui si stabilisce che
i soggetti anziani cronici in fase terminale o con grave compromissione
dello stato fisico generale siano assistiti in sedi ospedaliere, e non in
strutture assistenziali non attrezzate al fine delle necessarie cure
sanitarie. Qualora l'anziano non autosufficiente fosse dimissibile,
è compito dei Servizi Sociali del quartiere di residenza reperire
una sede opportuna di ricovero.
Tab. 2 - Sintesi
degli interventi previsti dalla legislazione regionale
Tipologia Servizi
aperti Servizi
residenziali
degli interventi Assistenza Assistenza Assistenza Assistenza Centri Soggiorni Case- Appartamenti Case di Residenze Comunità
alla vita domiciliare abitativa economica diurni di vacanza albergo polifunzionali riposo protette alloggio
Regioni di
relazione
Abruzzo si SI SI SI SI
SI SI SI
Basilicata si SI SI SI
Calabria si SI
Campania si SI
Emilia-Romagna si SI SI
Friuli Venezia
Giulia si SI SI SI SI SI SI SI SI
Lazio si SI SI SI SI SI SI SI SI
Liguria si SI
Lombardia si SI SI SI SI
Marche
Molise
Piemonte si SI SI SI SI SI SI
Puglia si SI SI SI SI SI SI SI SI
Sardegna si SI
Sicilia SI SI SI SI SI SI SI SI
Toscana SI SI SI
Umbria
Valle d'Aosta SI SI SI SI
SI SI
Veneto SI SI SI
SI SI SI
Prov. Bolzano SI SI SI SI SI SI
SI
Prov. Trento SI SI
Fonte:
Elaborazione CENSIS su dati da «La rivista di servizio sociale», n. 4, 1982
(1) Cfr. Censis, «XVII Rapporto/1983 sulla
situazione sociale del paese», Franco Angeli Editore, 1983.
(2) Ibidem, pp. 411-414, 442-449.
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