Prospettive assistenziali, n. 65, gennaio - marzo 1984

 

 

SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE SUI PROCEDIMENTI PENALI A CARICO DI MINORI COIMPUTATI CON MAGGIORENNI

 

 

La sentenza n. 222 emessa dalla Corte costi­tuzionale il 15 luglio 1983 che dichiara l'illegitti­mità costituzionale dell'art. 9 della legge 835/35 ha sottratto definitivamente alla competenza dell'autorità giudiziaria ordinaria tutti i minorenni, anche quelli coimputati con maggiorenni.

In passato analoga eccezione era stata respin­ta perché si era ritenuto che dovesse prevalere l'esigenza che tutti i concorrenti in uno stesso reato fossero giudicati dallo stesso giudice. In tal modo, però, venivano lesi determinati diritti del minore, specie alla luce di principi costituzionali.

Veniva violato, così ha riconosciuto la Corte, in primo luogo l'articolo 3 che sancisce l'ugua­glianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, l'ar­ticolo 24 che tutela il diritto della difesa, l'artico­lo 31 che prevede una particolare protezione per l'infanzia e la gioventù a mezzo «di istituti neces­sari a tali scopi». Il Tribunale per i minorenni è appunto uno di tali strumenti di protezione cui il minore, se aveva commesso reati con maggioren­ni, per la vecchia normativa veniva sottratto.

E ciò con evidente suo danno; non tanto perché il giudice ordinario fosse più «severo o cattivo» di quello minorile, ma perché i due processi sono, e non a caso, diversi. In quello minorile, in parti­colare, si cerca di comprendere meglio la perso­nalità del giovane ed i suoi problemi (ed a questo scopo è prevista una perentoria indagine). Inol­tre fanno parte del Collegio giudicante degli esperti (psicologi, educatori, assistenti sociali, ecc.) che assistono i giudici togati in questa in­dagine.

Il processo minorile, inoltre si svolge a porte chiuse, alla sola presenza dei giudicanti, dei rap­presentanti dei servizi sociali, dei parenti del ra­gazzo. In una situazione, quindi, di maggiore di­stensione e comprensione, certamente meno trau­matizzante del processo pubblico. Il Giudice mi­norile più che come Giudice delle sanzioni divie­ne così promotore dei diritti del minore e il Pub­blico Ministero non si presenta come il mero tito­lare dell'azione penale, ma come un organo chia­mato a contribuire all'indubbio interesse dello Stato al reinserimento del minore.

Con la sentenza menzionata si fa certo un pas­so avanti; si ripara ad un'ingiustizia. Resta solo un dubbio. Con le già insufficienti attuali strut­ture, come potranno in concreto soddisfare a que­sta esigenza di giustizia i Tribunali per i minoren­ni su cui verranno improvvisamente a gravare tante decine di migliaia di nuovi processi?

 

 

TESTO DELLA SENTENZA

 

La Corte costituzionale ha pronunciato la se­guente sentenza nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 9 del r.d.l. 20 luglio 1934, n. 1404 (Istituzione e funzionamento del tribunale per i minorenni), convertito con modificazioni nel­la legge 27 maggio 1935, n. 835, promossi con le ordinanze emesse il 16 settembre 1980 dal tribu­nale di Genova nel procedimento penale a carico di P.A. ed altro, e il 12 marzo 1982 dal tribunale di Catanzaro, nel procedimento penale a carico di S.M., rispettivamente iscritte ai nn. 858 del registro ordinanze 1980 e 283 del registro ordi­nanze 1982 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 56 del 1981 e n. 269 del 1982.

Udito, nella camera di consiglio del 27 aprile 1983, il Giudice relatore Antonino De Stefano.

 

RITENUTO IN FATTO:

 

1. - Con sentenza istruttoria in data 31 maggio 1980 S.F. e P.A. venivano rinviati a giudizio innan­zi al tribunale ordinario di Genova, per rispondere di un furto che erano stati accusati di aver com­messo, in concorso fra loro. Al momento del fat­to, avvenuto l'8 novembre 1974, il P., a differenza del S., era ancora minorenne.

Al dibattimento, svoltosi il 16 settembre 1980, il tribunale, sentiti il pubblico ministero e il difen­sore, pronunciava un'ordinanza, con la quale sol­levava d'ufficio la questione di legittimità costi­tuzionale, in relazione agli artt. 3, commi primo e secondo, 24, comma secondo, e 31 della Costi­tuzione, dell'art. 9 del r.d.l. 20 luglio 1934, n. 1404 (Istituzione e funzionamento del tribunale per i minorenni), convertito con modificazioni nella leg­ge 27 maggio 1935, n. 835, «nella parte in cui sot­trae alla competenza del tribunale per i minorenni i procedimenti penali a carico di minori coimpu­tati con maggiorenni».

Il giudice a quo premette che la Corte costitu­zionale chiamata più volte in passato ad esami­nare l'articolo impugnato sotto il profilo della coimputazione fra minorenni e maggiorenni, con l'ultima delle decisioni pronunciate in materia (sentenza n. 198 del 1972) ha riconosciuto la illegittimità costituzionale - per contrasto con l'art. 3 della Costituzione - della deroga, dalla norma stessa prevista, alla competenza del tribunale per i minorenni, nell'ipotesi in cui il reato com­messo dal minore sia distinto e diverso da quel­lo compiuto dal maggiorenne (ancorché fra tali reati sussista connessione); mentre, in relazione all'altra ipotesi, del concorso di minori e maggio­ri degli anni diciotto nello stesso reato (l'unica nella quale la deroga alla competenza del tribu­nale per i minorenni per i reati commessi da minori degli anni diciotto è rimasta, dopo quella sentenza, operante) la questione è stata allora esaminata, e dichiarata non fondata, soltanto in riferimento all'art. 24, comma secondo, della Co­stituzione.

In questi anni - si osserva nell'ordinanza - si sono andati tuttavia sempre più diffusamente affermando, con ampi riscontri nei principi san­citi dagli artt. 2, 3, secondo comma, 30 e 31 della Costituzione, orientamenti dottrinali e giurispru­denziali che guardano al minore come ad un «rea­le» soggetto di diritti, in ogni settore (famiglia, scuola, lavoro, ecc.) in cui si trovi ad operare. In tale contesto anche il procedimento penale da­vanti al tribunale per i minorenni appare indiriz­zato verso quella preminente tutela del minore - chiave di interpretazione di tutto il c.d. diritto minorile - in vista della quale la stessa realiz­zazione della pretesa punitiva deve ritenersi su­bordinata a prospettive di recupero e reinseri­mento sociale. Come dimostrano, oltre alla com­posizione del collegio giudicante, caratterizzata dalla presenza, accanto ai togati, di giudici «lai­ci» benemeriti dell'assistenza sociale, le diverse e particolari garanzie assicurate all'imputato dal rito minorile: istruttoria soltanto sommaria, e quindi più agile e snella; individuazione di organi ausiliari specializzati; previsione di ricerche ob­bligatorie sui precedenti personali e familiari del minore, sotto l'aspetto psichico, morale e am­bientale; svolgimento delle udienze a porte chiu­se, con possibilità di intervento, peraltro, dei prossimi congiunti dell'imputato, nonché di rap­presentanti per l'assistenza e la protezione dei minori. Cosicché, nella peculiarità delle sue fun­zioni, il giudice minorile viene ora visto più che come «giudice delle sanzioni», come «giudice promotore dei diritti del minore», e parimenti il pubblico ministero, che lo affianca, non come me­ro titolare dell'azione penale, ma piuttosto come organo chiamato a contribuire alla realizzazione dell'indubbio interesse dello Stato al reinserimen­to del minore.

Di fronte a tali esigenze - prosegue il giudice a quo - sta il criterio ispiratore della sottrazione del minore, nei casi in questione, in forza della contestata deroga, alla competenza del tribunale per i minorenni: l'opportunità, cioè, del «simul­taneus processus», dell'unicità del procedimen­to, onde evitare che in ordine al medesimo fatto vi sia diversità di accertamenti e valutazioni. Cri­terio che ha un'indubbia rilevanza, ma che, pur costituendo una regola generale del nostro ordi­namento processuale penale, non potrebbe certo dirsi compiutamente «costituzionalizzato», e do­vrebbe comunque ritenersi subordinato alla ri­chiamata preminenza dell'interesse del minore.

Va considerato, del resto, che originariamente, prima della sentenza della Corte costituzionale n. 130 del 1963, l'art. 9 del r.d.l. n. 1404 del 1934 ammetteva, per tutti i procedimenti a carico di minorenni con coimputati maggiorenni, una pos­sibilità di separazione (con conseguente eventua­lità di disparità di giudicati), attraverso una fa­coltà discrezionale di stralcio attribuita al procu­ratore generale, con quella sentenza peraltro eli­minata. E vanno considerate, altresì, le recenti in­novazioni legislative intese a porre rimedio agli inconvenienti che potrebbero verificarsi nei casi di procedimenti separati relativi a coimputati, mediante l'aggiunta al codice di procedura penale (artt. 9 e 3 della legge 8 agosto 1977, n. 534) dell'art. 348 bis che consente di sentire liberamente «le persone imputate nello stesso reato... nei confronti delle quali si procede separatamente » - e dell'art. 144 bis, che a sua volta prevede, per tale ipotesi, la possibilità di acquisizione e lettura di atti dei procedimenti separati, anche se non ancora definiti con sentenza irrevocabile.

Alla luce di tali argomentazioni - conclude l'ordinanza - la denuncia di illegittimità della norma in questione deve ritenersi non manifesta­mente infondata, in riferimento, principalmente, all'art. 3, comma primo, della Costituzione, ipo­tizzandosi al riguardo violazione del principio di eguaglianza tra tali soggetti e gli altri minori au­tori di reati, che quanto all'esigenza di recupero e reinserimento, di gran lunga maggiormente ga­rantita nel procedimento avanti all'organo specia­lizzata, sono tutti su un piano di sicura parità. Ma anche con riferimento al secondo comma dello stesso art. 3, giacché il tribunale minorile, anche nel settore penale, svolge una precisa funzione di garanzia dello sviluppo della personalità dell'adolescente, e una eccezione alla sua generale competenza si configura come un ostacolo a tale sviluppo. Si fa altresì richiamo all'art. 31 della Costituzione, atteso che, a differenza dal tribuna­le ordinario, l'organo giudiziario minorile è cer­tamente strumento di protezione dell'infanzia e della gioventù. Ed infine, all'art. 24, comma se­condo, della Costituzione, non già nel senso che il minore non possa usufruire, anche nel procedimento ordinario, degli uffici del difensore, ma secondo una nozione più ampia (e non solo tec­nica) della difesa: come possibilità, cioè, per il minore stesso, di utilizzare tutte le opportunità a lui offerte dal procedimento avanti all'organo spe­cializzato.

Quanto alla rilevanza della questione nel pro­cedimento in corso, il tribunale sottolinea che, trattandosi appunto di un procedimento a carico di un minore coimputato con un maggiorenne, so­lo in virtù della norma impugnata il collegio è chiamato a giudicare detto minore, così sottratto alla competenza del tribunale per i minorenni.

Notificata, comunicata e regolarmente pubbli­cata l'ordinanza di rinvio, nessuna delle parti si è costituita innanzi alla Corte, né si è avuto in­tervento da parte del Presidente del Consiglio dei ministri.

 

2. - In seguito a rapporto con cui i Carabinieri di Sellia Marina avevano denunciato per concorso in furto aggravato, D.F.B. e S.A., maggiorenni, e S.M., minore degli anni diciotto, il sostituto pro­curatore della Repubblica presso il tribunale di Catanzaro, con decreto in data 18 luglio 1980, considerato che il procedimento penale aperto nei confronti dei suddetti era suscettibile di es­sere immediatamente definito con rito direttissi­mo per i primi due imputati, arrestati e rei con­fessi, mentre non poteva procedersi allo stesso modo a carico del terzo, denunciato in istato di irreperibilità, ordinava lo stralcio della posizione di quest'ultimo. Nel successivo giudizio, con sen­tenza 11 agosto 1980, il tribunale di Catanzaro condannava, per il delitto loro ascritto, sia il D.F. che lo S., con concessione di attenuanti e sospen­sione condizionale, alla pena di un mese di reclu­sione e lire 30.000 di multa ciascuno. Successi­vamente, anche il minore S., nel frattempo rin­tracciato, veniva citato a giudizio, innanzi allo stesso tribunale ordinario, per rispondere di con­corso nel reato suddetto. Al dibattimento, svol­tosi il 12 marzo 1982, il P.M. eccepiva tuttavia, in relazione all'art 25, comma primo, della Costi­tuzione, la illegittimità costituzionale dell'art. 9, comma secondo, del r.d.l. 20 luglio 1934, n. 1404, «nella parte in cui non limita la deroga alla com­petenza del tribunale per i minorenni pur nell'ipo­tesi in cui si proceda separatamente a carico del solo minore per reato commesso in concorso con persone maggiori degli anni diciotto». Alle argo­mentazioni svolte dal P.M. si associava la difesa dell'imputato. Con ordinanza emessa al termine della discussione il tribunale, ritenuta la rilevan­za della eccezione, la dichiarava non manifesta­mente infondata.

Nella motivazione del provvedimento, esposti i fatti e le su riferite vicende processuali, il giudice a quo osserva che nei casi come quello in questione, una volta verificatasi la separazione dei giudizi, più non sussiste esigenza di simul­taneo processo e di economia processuale, e che il principio, di ordine processuale, della «perpe­tuatio iurisdictionis» non può trovare preminente considerazione su quello, costituzionalmente ga­rantito dall'art. 25, primo comma, della Costituzio­ne, che vieta di sottrarre l'imputato al suo giu­dice naturale precostituito per legge.

Adempiute le formalità di rito per le notifiche, comunicazioni e pubblicazione dell'ordinanza, non si è avuta costituzione di parte innanzi alla Corte, né è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

CONSIDERATO IN DIRITTO:

 

1. - L'art. 9 del r.d.l. 20 luglio 1934, n. 1404 (Isti­tuzione e funzionamento del tribunale per i mi­norenni), convertito con modificazioni nella legge 27 maggio 1935, n. 835, attribuisce alla competen­za del tribunale per i minorenni tutti i procedi­menti penali per reati commessi dai minori degli anni diciotto, soggiungendo, al comma secondo, che la disposizione non è applicabile quando nel procedimento vi sono coimputati maggiorenni. Questa Corte, con sentenza n. 198 del 1972, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di detta nor­ma «nella parte in cui non limita la deroga alla competenza del tribunale per i minorenni alla sola ipotesi nella quale minori e maggiori degli anni diciotto siano coimputati dello stesso reato».

Proprio per tale residua ipotesi l'ordinanza del tribunale di Genova sottopone al giudizio di que­sta Corte, come esposto in narrativa, la questione di legittimità costituzionale del citato art. 9, «nel­la parte in cui sottrae alla competenza del tribu­nale per i minorenni i procedimenti penali a ca­rico di minori coimputati con maggiorenni».

Ritiene il giudice a quo che la norma contrasti con vari precetti costituzionali. Innanzi tutto con l'art. 3, comma primo, della Costituzione, poiché darebbe luogo ad una ingiustificata disparità di trattamento tra i minori che vengano a trovarsi nella descritta situazione, e gli altri minori, autori di reati, che restano sottoposti al giudizio del tri­bunale per i minorenni, pur essendo, gli uni come gli altri, su un piano di sicura parità quanto all'e­sigenza di recupero e reinserimento sociale, mag­giormente garantita dal procedimento avanti all'organo specializzato. Con il comma secondo dello stesso art. 3, in quanto il tribunale minorile svolge anche nel settore penale una precisa fun­zione di garanzia dello sviluppo della personalità dell'adolescente, e un'eccezione alla sua genera­le competenza si configurerebbe come un osta­colo a tale sviluppo. Con l'art. 31 della Costitu­zione, essendo l'organo giudiziario minorile, a differenza dal tribunale ordinario, uno degli stru­menti di protezione della gioventù ivi previsti e che vanno favoriti. Infine, con l'art. 24, comma se­condo, della Costituzione, in quanto il minore, per effetto della denunciata norma, si vedrebbe nega­ta la possibilità di avvalersi per la sua difesa del­le particolari garanzie offerte dal procedimento innanzi al tribunale per i minorenni, che gli viene precluso.

2. - La stessa suindicata norma della legge isti­tutiva del tribunale per i minorenni è sospettata di illegittimità costituzionale dal tribunale di Catanzaro, per contrasto con l'art. 25, comma primo, della Costituzione, nella parte in cui, prevedendo che sia il giudice ordinario, in deroga alla compe­tenza del tribunale per i minorenni, a conoscere del reato che il minore è accusato di aver com­messo in concorso con maggiorenne, non pone li­miti alla deroga stessa, in quanto non restituisce il minore al giudizio del tribunale per i minorenni, nell'ipotesi in cui, di fatto, si proceda separata­mente nei suoi confronti.

Nell'ordinanza di rimessione il giudice a quo osserva che, ove per vicende processuali si veri­fichi la separazione del giudizio a carico del mi­nore da quello a carico del coimputato maggioren­ne, le esigenze del simultaneus processus e di economia processuale, poste a base della deroga, più non sussistono. Né vale invocare il principio di ordine processuale della perpetuatio iurisdic­tionis, posto che esso non può trovare premi­nente considerazione su quello, garantito dal pre­cetto costituzionale, che vieta di sottrarre l'im­putato al giudice naturale precostituito per legge.

3. - Evidente è la connessione tra le prospetta­te questioni: i relativi giudizi vengono quindi riu­niti per essere decisi con unica sentenza.

4. - La questione proposta dal tribunale di Genova è fondata.

La deroga alla competenza del tribunale per i minorenni quando nel procedimento vi siano co­imputati maggiorenni, ha già più volte formato oggetto del sindacato di legittimità costituziona­le. Questa Corte, con sentenza n. 130 del 1963, ha ritenuto che tale deroga non contrasti con l'art. 25 della Costituzione, atteso che «è eviden­te in questa disposizione l'ispirazione alla neces­sità del simultansus processus per il motivo del­la connessione», che costituisce «un criterio fondamentale di attribuzione della competenza». Circa, poi, la possibilità della separazione dei procedimenti, prevista nello stesso comma se­condo dell'art. 9, ove l'unico processo non sia ritenuto indispensabile, la Corte, con la medesi­ma sentenza, ha ritenuto la norma scindibile nelle sue proposizioni, e ne ha dichiarato la illegittimi­tà costituzionale, per violazione dell'art. 25 della Costituzione, limitatamente alla parte in cui, af­fidando al Procuratore generale della Corte di appello ogni decisione sull'opportunità dello spo­stamento di competenza, gli dava poteri espres­samente qualificati come esenti da qualsiasi sin­dacato.

Alla medesima «esigenza di uniformità nel giudizio sull'accertamento del fatto e sulla sua valutazione» la Corte ha fatto appello, nella suc­cessiva sentenza n. 10 del 1966, per negare che la deroga in parola contrasti con l'art. 3 della Co­stituzione; e si è richiamata alla precedente sen­tenza, dianzi menzionata, che faceva «salva una nuova disciplina della materia», rilevando che «la mancanza attuale di questa nuova normativa né include l'illegittimità costituzionale del prin­cipio di separabilità dei procedimenti, né travol­ge nell'illegittimità costituzionale la regola che unifica il processo innanzi all'organo ordinario, ove debba essere ritenuto inscindibile».

Nella citata sentenza n. 198 del 1972, infine, si è affermato che «la necessità del simultaneus processus, che la Corte nella sua precedente de­cisione ha posto a giustificazione della deroga alla competenza del tribunale per i minorenni per l'ipotesi di procedimenti contro minori e maggiori coimputati dello stesso reato, non ricorre quando il reato commesso dal minore... sia distinto e di­verso da quello compiuto dal maggiore degli anni diciotto, anche se fra tali reati sussista connes­sione»; pertanto, come già ricordato, la Corte ha riconosciuto che la norma impugnata contra­stava con l'art. 3 della Costituzione nella parte in cui non limitava la competenza del giudice ordi­nario nei confronti dei coimputati minori, al caso di procedimenti nei quali minori e maggiori degli anni diciotto siano coimputati dello stesso reato.

Le tre pronunce della Corte, dunque, per giu­stificare la deroga hanno fatto tutte leva sulla esigenza del simultaneus processus, considerata preminente rispetto alla ratio ispiratrice della isti­tuzione di un giudice specializzato per gli impu­tati minorenni. In particolare, per quanto concer­ne il rispetto del principio di eguaglianza, la ra­gionevolezza della disparità del trattamento riser­vato a minori autori del medesimo reato, giudicati da organi a composizione diversa e con diverso procedimento, a seconda vi siano o meno coim­putati maggiorenni, è stata dedotta dall'ordina­mento, in esso ravvisando una sorta di preponde­rante favor per il cumulo processuale, ritenuto necessario per prevenire l'eventualità di giudizi difformi.

5. - Ma posteriormente alle richiamate decisioni di questa Corte, il sistema del codice di proce­dura penale appare sensibilmente modificato, per quanto concerne gli effetti della connessione, da un complesso di disposizioni, dalle quali emerge un deciso orientamento in senso riduttivo. Giova in proposito ricordare che, in correlazio­ne con l'accentuato ricorso, per varie categorie di reati, al giudizio direttissimo, si pone come rego­la, nell'ambito della connessione, la separazione dei procedimenti. Ed invero, l'art. 35 della legge 18 aprile 1975, n. 110, in materia di controllo delle armi, delle munizioni e degli esplosivi, nel prescrivere, per i reati da essa previsti, il rito direttissimo, stabilisce che «per i reati connessi si procede, di regola, previa separazione dei giu­dizi». Del pari gli artt. 17 e 26 della legge 22 maggio 1975, n. 152, recante disposizioni a tutela dell'ordine pubblico, nel prevedere il giudizio di­rettissimo per determinati reati, stabiliscono che «la connessione opera soltanto se è indispensa­bile per l'accertamento dei reati medesimi o del­la responsabilità dell'imputato». Formule ana­loghe, procedendosi con giudizio direttissimo, si ritrovano in successive leggi: art. 4 del d.l. 4 mar­zo 1976, n. 31, convertito con modificazioni in legge 30 aprile 1976, n. 159, recante disposizioni penali in materia d'infrazioni valutarie; art. 80 della legge 1° aprile 1976, n. 159, recante dispo­sizioni penali in materia d'infrazioni valutarie; art. 80 della legge 1° aprile 1981, n. 121, per ta­luni delitti commessi da appartenenti all'Ammini­strazione della pubblica sicurezza.

Anche al di fuori della instaurazione del pro­cedimento direttissimo, il legislatore nell'ultimo decennio ha inciso in senso limitativo sui casi e sugli effetti della connessione nel processo pe­nale. Così, l'art. 31 della già citata legge n. 152 del 1975 ha introdotto un'ulteriore deroga, dispo­nendo che i reati commessi da ufficiali o agenti di polizia per fatti compiuti in servizio e relativi all'uso delle armi «sono di regola giudicati se­paratamente». Sempre nella stessa linea di ten­denza, ma con portata di carattere generale, va soprattutto tenuta presente la «novella» dell'art. 48 bis (art. 2 della legge 8 agosto 1977, n. 534), in punto di «rilevanza della connessione», se­condo cui la connessione non produce effetti né sulla competenza né ai fini della riunione, rispet­to ai procedimenti relativi a reati commessi da arrestati, detenuti o internati, ai reati per i quali l'imputato o gl'imputati sono stati sorpresi in fla­granza e ai reati per i quali la prova appare evi­dente, procedendosi in questi casi separatamen­te per gli altri reati e nei confronti degli altri imputati. Norma, quest'ultima, operante pure nel­la ipotesi di connessione per concorso di persone nel medesimo reato, e che è stata ritenuta dalla Corte di cassazione applicabile anche per il con­corso del minore con il maggiore di età, ove il primo soltanto sia stato sorpreso in flagranza.

Della citata legge n. 534 del 1977 va del pari ricordato, nella stessa prospettiva, l'art. 10, che ha sostituito il testo dell'art. 414 del codice di procedura penale, disponendo che qualora l'ordi­nanza di rinvio a giudizio o la richiesta a il de­creto di citazione abbiano per oggetto un reato at­tribuito a più imputati o più reati attribuiti a uno o più imputati, il giudice, sentite le parti, possa ordinare la separazione dei giudizi, ove si mani­festi la possibilità di definire prontamente uno o più dei procedimenti riuniti. Infine, nell'intento di ovviare ai possibili inconvenienti della separa­zione, la stessa legge n. 534 del 1977, mediante gli artt. 3, 9 e 11, ha inserito nel codice di pro­cedura penale disposizioni che consentono, nei casi in cui si proceda separatamente nei con­fronti di imputati dello stesso reato o di reati connessi, di acquisire e dare lettura di atti dei procedimenti separati, anche se non ancora defi­niti con sentenza irrevocabile (art. 144 bis); e di sentire liberamente, tanto nella fase istruttoria che in quella dibattimentale, le persone imputate per lo stesso reato o per un reato connesso, nei cui confronti si proceda separatamente (artt. 348 bis e 450 bis).

6. - Né può dirsi, invero, che l'orientamento, quale è dato desumere dalla attuale normazione, verso una attenuazione della rilevanza della con­nessione ai fini dell'attribuzione della competen­za, abbia carattere contingente: posto che l'art. 2 della legge 3 aprile 1974, n. 108, nel dettare i principi ed i criteri direttivi della delega legi­slativa al Governo per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale, già prevedeva, al punto 13, per la disciplina dell'istituto della con­nessione, non solo la eliminazione di ogni discre­zionalità nella determinazione del giudice compe­tente, ed il potere di disporre, anche in sede di appello, la separazione dei procedimenti su istan­za dell'imputato che vi abbia interesse, ma an­che, per quanto attiene al profilo che qui interes­sa, la «esclusione della connessione nel caso di imputati minori». Nella relazione della Commis­sione ministeriale sul progetto preliminare del co­dice di procedura penale si legge in proposito che «ai fini del maggiore snellimento e della sempli­ficazione del nuovo processo, è stato seguito l'orientamento di ridurre notevolmente i casi di connessione»; e che l'art. 14 del progetto ripro­duce la direttiva n. 13 della legge delega «esclu­dendo l'operatività della connessione in caso di reati commessi in regime di concorso da impu­tati minori e maggiori degli anni diciotto».

Scaduto il 31 ottobre 1979 il termine, più volte prorogato, per l'esercizio della delega, analogo orientamento si evince anche dai lavori parlamen­tari preordinati al suo rinnovo, essendo da ulti­mo previsto, nella relazione che accompagna il testo apprestato dalla IV Commissione della Ca­mera dei deputati, presentata il 17 novembre 1982, che i princìpi relativi alla disciplina della connessione rimangano quasi del tutto immutati rispetto a quelli della precedente delega, salvo piccole modifiche di coordinamento. Per i minori, poi, è ivi prevista, con apposita direttiva (n. 87), una disciplina del processo ispirata ai princìpi generali del nuovo processo penale, «con le mo­dificazioni ed integrazioni imposte dalle partico­lari condizioni psicologiche del minore, dalla sua maturità e dalle esigenze della sua educazione», nonché dall'attuazione di vari criteri, tra cui è indicata, alla lett. a), la «non operatività della connessione tra procedimenti concernenti impu­tati minorenni al momento della commissione del fatto e procedimenti concernenti imputati maggiorenni».

7. - La Corte, nuovamente chiamata a verifica­re se contrasti con il precetto dell'art. 3 della Costituzione la norma che alla competenza pena­le del tribunale per i minorenni, avente carattere di generalità per gl'imputati minori degli anni di­ciotto, tuttora sottrae soltanto quei minori che siano coimputati con maggiorenni per concorso nello stesso reato, ritiene di non poter più invo­care, a differenza da quanto operato nelle prece­denti pronunce, l'esigenza del simultaneus pro­cessus, per giustificare la deroga alla competen­za del giudice specializzato. Ed invero, la soprav­venuta evoluzione dell'ordinamento processuale penale dimostra chiaramente come in esso, a se­guito delle apportate modifiche, il timore del pos­sibile conflitto di giudicati per effetto della se­parazione dei procedimenti, timore che è alla base del ricorso al processo cumulativo, più non prevalga necessariamente su altre esigenze pa­rimenti meritevoli di tutela. Del resto già questa Corte aveva in passato avuto occasione di affer­mare, nella sentenza n. 139 del 1971, che «la connessione è un criterio fondamentale di attri­buzione della competenza», ma «nei limiti in cui il simultaneus processus non pregiudica esigenze che l'ordinamento considera preminenti».

In contrapposto alla cennata esigenza, cui la contestata deroga intende sopperire, si pone, in­fatti, con rilievo che la Corte riconosce preminen­te, la finalità perseguita con la istituzione di un giudice specializzato per gl'imputati minorenni. «Il tribunale per i minorenni - si legge nella relazione del Consiglio superiore della magistra­tura per il 1971 sullo stato della giustizia - fu istituito proprio perché si ritenne che il minore, spesso portato al delitto da complesse carenze di personalità dovute a fattori familiari, ambientali e sociali, dovesse essere valutato da giudici spe­cializzati che avessero strumenti tecnici e capa­cità personali particolari per vagliare adeguata­mente la personalità del minore al fine di indivi­duare il trattamento rieducativo più appropriato». Questa Corte - che già nella sentenza n. 25 del 1964 aveva osservato come la giustizia minorile abbia una particolare struttura «in quanto è di­retta in modo specifico alla ricerca delle forme più adatte per la rieducazione dei minorenni» - ha fatto in proposito richiamo, nella sentenza n. 46 del 1978, alla «necessità di valutazioni del giudice fondate su prognosi ovviamente indivi­dualizzate in ordine alla prospettiva di recupero del minore deviante», nell'ambito di quella «pro­tezione della gioventù» che trova fondamento nell'ultimo comma dell'art. 31 della Costituzione. La «tutela dei minori» si colloca così tra gl'inte­ressi costituzionalmente garantiti, come questa Corte ha sottolineato in varie pronunce (senten­ze n. 25 del 1965, nn. 16 e 17 del 1981); ed il tri­bunale per i minorenni, considerato nelle sue complessive attribuzioni, oltre che penali, civili ed amministrative, ben può essere annoverato tra quegli «istituti» dei quali la Repubblica deve fa­vorire lo sviluppo ed il funzionamento, così adem­piendo al precetto costituzionale che la impegna alla «protezione della gioventù». A conferma di tale configurazione stanno la particolare struttu­ra del collegio giudicante (composto, accanto ai magistrati togati, da esperti, benemeriti dell'as­sistenza sociale, scelti fra i cultori di biologia, psichiatria, antropologia criminale, pedagogia, psicologia), gli altri organi che ne preparano o fiancheggiano l'operato, nonché le peculiari ga­ranzie che assistono l'imputato minorenne nell'iter processuale davanti all'organo specializza­to. E tutto ciò, appunto, in vista dell'essenziale finalità del «recupero del minore deviante», me­diante la sua rieducazione ed il suo reinserimento sociale, in armonia con la mèta additata dal terzo comma dell'art. 27 della Costituzione, nonché dall'art. 14, paragrafo 4, del Patto internazionale re­lativo ai diritti civili e politici (adottato a New York il 19 dicembre 1966 e la cui ratifica ed ese­cuzione sono state disposte con legge 25 otto­bre 1977, n. 881), a norma del quale la procedura applicabile ai minorenni rispetto alla legge pena­le dovrà tener conto della loro età e dell'inte­resse a promuovere la loro rieducazione.

Alla luce delle su esposte considerazioni la residua deroga alla generale competenza del tri­bunale per i minorenni risulta ormai carente di adeguata giustificazione; e poiché ogni deroga ad una disciplina generale (specie se la discipli­na, come quella in esame, sia preordinata a tute­la di interessi costituzionalmente garantiti) deve essere sorretta da valide ragioni giustificative, evidente appare il suo contrasto con il principio sancito dall'art. 3 della Costituzione. Ne consegue la dichiarazione di illegittimità costituzionale nel denunciato art. 9 del d.l. n. 1404 del 1934, nella parte in cui sottrae alla competenza del tribunale per i minorenni i procedimenti penali a carico di minori coimputati con maggiorenni per concorso nello stesso reato.

8. - Resta in conseguenza assorbita, per effetto della dichiarata illegittimità costituzionale della denunciata norma in parte qua, la questione sol­levata dal tribunale di Catanzaro.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

riuniti i procedimenti iscritti ai nn. 858 R.O. 1980 e 283 R.O. 1982;

dichiara la illegittimità costituzionale dell'art. 9 del r.d.l. 20 luglio 1934, n. 1404 (Istituzione e fun­zionamento del tribunale per i minorenni), con­vertito con modificazioni nella legge 27 maggio 1935, n. 835, nella parte in cui sottrae alla com­petenza del tribunale per i minorenni i procedi­menti penali a carico di minori coimputati con maggiorenni per concorso nello stesso reato.

Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo del­la Consulta, il 15 luglio 1983.

 

Depositata in cancelleria il 19 luglio 1983.

 

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