Prospettive assistenziali, n. 66, aprile - giugno 1984
IL MINORE IN AFFIDO: PROBLEMI AFFETTIVI,
PSICOLOGICI E SOCIALI
GUIDO CATTABENI (1)
In queste due giornate ci proponiamo di aumentare le nostre conoscenze, e di conseguenza le
nostre capacità professionali, sul problema dei minori (è un termine che non mi
piace ma che devo usare per sottolineare che stiamo parlando di bambini,
ragazzi e adolescenti, cioè di tutte le persone in età evolutiva) la cui
crescita psico-fisica è messa in pericolo dalle gravi difficoltà in cui si
trova la loro famiglia d'origine e per i quali abbiamo il compito di
predisporre soluzioni alternative che siano in grado di assicurare un regolare
evolversi del processo maturativo.
Inquadrare così l'oggetto della nostra riflessione non è pleonastico, ma nasce da una esigenza di chiarezza:
le vicende storiche degli ultimi quindici anni hanno indotto costantemente ad
inquadrare l'affido eterofamiliare nella cornice
delle «alternative all'istituto», provocando confusione ed equivoci in molti
operatori sugli obiettivi e sui metodi del lavoro che svolgono. È avvenuto così
che alcuni affidi di minori abbiano prodotto più danni
di quelli che in genere sono prodotti dal ricovero in istituto: ciò è avvenuto
ogni volta che si è ricorso all'affido senza che il minore ne avesse bisogno
oppure quando questo strumento, pur essendo quello corretto, è stato utilizzato
malamente.
Se non vogliamo naufragare, o
meglio far naufragare il minore, sulle rocce di Scilla (affido) per evitare Cariddi (Istituto) o viceversa, è necessario che, a
pilotare il nostro lavoro sia il bisogno del minore e non i richiami delle
sirene appostate subdolamente su entrambi i lati della strettoia. E oggi ci vogliono davvero le doti di Ulisse per portare in salvo chi si affida a noi.
Dobbiamo saper «leggere» il bisogno, dobbiamo saper guidare l'organizzazione della risposta, la migliore
tra quelle possibili.
Di fronte a un minore che
non può più contare sulla sua famiglia d'origine è necessario dunque rispondere, nell'ordine, alle seguenti questioni:
1) - per continuare la sua «crescita-maturazione» ha
bisogno di una «famiglia»?
2) - in caso affermativo, di quale «famiglia» ha
bisogno?
3) - esiste o è reperibile in tempo utile la famiglia di cui ha bisogno?
4) - in caso negativo quale delle altre risorse disponibili
risponde maggiormente al bisogno?
5) - la soluzione di ripiego può essere collocata
all'interno di un programma che lascia aperte le porte a
un affido successivo?
Se l'incontro bambino-famiglia affidataria
è preceduto da un lavoro impostato con questo metodo e svolto con competenza possiamo dire che sono state messe basi tali da
garantire all'affido un'alta percentuale di possibilità di successo. Tuttavia
questo è sostenibile solo a patto che non si ritenga,
da parte degli operatori, che il loro compito è terminato nel momento in cui il
bambino entra nella famiglia affidataria e a patto
che vi sia continuità tra il lavoro che precede questo momento e quello che, insieme
alla famiglia affidataria e di origine, si compie da
quel momento in avanti.
Con questa introduzione
abbiamo già evidenziato un bisogno comune ad ogni minore che va in affido. Abbiamo infatti sottolineato che all'affido si deve arrivare
partendo da un lavoro di individuazione dei bisogni del singolo bambino: ciò
significa rispondere al bisogno di riconoscimento.
Quando la relazione tra affidato e affidatari
non risponde a questo bisogno scatta la paura ed il gioco delle difese.
Con «essere riconosciuto» voglio dire
che il bambino riceve dall'esperienza relazionale questo messaggio: tu sei Luigi,
quel preciso Luigi figlio della sua storia, e tu sei O.K. (per usare una terminologia
cara a certi transazionalisti), e quindi io desidero rispondere ai tuoi bisogni.
Il bambino ha bisogno di sentirsi
desiderato così com'è.
La relazione affidato-affidatari
non può che partire sulla base di un'attitudine
materna (= amore incondizionato) da parte degli affidatari.
Ciò che rende complessa questa relazione è il fatto che essa non avviene tra due persone e per di più
tra due persone astratte, senza storia: accettare il bambino significa
accettare la sua storia, o meglio i legami presenti con la sua storia, il suo
passato e il suo presente che comprende altri in lui e intorno a lui che lo
fanno essere ciò che è, che costituiscono la sua identità; è ad un bambino
cosiffatto che va dato il messaggio: sei O.K.
Sull'altro versante della relazione quasi sempre non c'è una persona sola ma più persone organizzate
in funzione dei bisogni di ciascuno: la famiglia.
Perché parta il messaggio «sei
O.K.» è necessario che il gruppo familiare intero sia disponibile a organizzarsi
in funzione non più soltanto dei bisogni dei suoi vecchi componenti, ma anche
in funzione dei bisogni del nuovo arrivato = c'è il bisogno di riorganizzare la
vita di tutti in rapporto alla nuova situazione.
Solo su questa base è possibile avviare un programma
educativo che, attraverso l'affido, possa rispondere all'obiettivo di favorire
una sana maturazione della persona. Vi sono nella vita di
tutti esperienze di affido che si realizzano spontaneamente su questa
base favorevole al successo finale (affido alla scuola, all'ospedale, a parenti,
ad amici, ecc.). Noi tutti, se solo ci fermiamo un attimo
a rifletterci, siamo in grado di indicare le condizioni necessarie perché
questo affido non sia vissuto in modo traumatizzante dal bambino. Possiamo
raggrupparle così:
1) - L'atteggiamento degli affidanti nei confronti
dell'affido
2) - La preparazione del bambino alla separazione dalla famiglia
3) - L'incontro del bambino con la famiglia affidataria.
L'atteggiamento degli affidanti nei
confronti dell'affido
Quando la famiglia in cui il bambino ha vissuto fino
a quel momento condivide o addirittura sceglie di sua iniziativa l'affido
familiare come soluzione positiva alle sue necessità,
troviamo le condizioni ideali perché il passaggio da una famiglia all'altra
avvenga in un clima affettivo rassicurante tale da non minacciare l'equilibrio
della vita emotiva del bambino.
La famiglia affidataria può
essere così vissuta dal bambino come un'estensione della famiglia cui
appartiene, anziché una perdita di tutto ciò che lo fa essere quello che è.
L'attitudine collaborante degli affidanti facilita
enormemente la preparazione del bambino alla separazione dalla sua famiglia e, decolpevolizzando gli affidatari
a livello emotivo profondo, semplifica loro il problema del rapporto da
instaurare con il bambino.
L'esperienza ci dice che
questa condizione ideale si verifica ben raramente per i casi di cui ci occupiamo.
Tralasciando il caso di bambini piccolissimi figli di madri nubili o comunque sole, che sono quasi contente di poter mettere a
balia gratuitamente il bambino fino all'età della scuola materna (quando
pensano che saranno in grado di organizzarsi per averlo in casa), per gli altri
casi ci troviamo di fronte a famiglie che si oppongono più o meno apertamente
all'idea di un'altra famiglia che si occupi dei loro figli.
Tuttavia gli incalcolabili vantaggi che derivano al
bambino in affido dalla collaborazione della sua famiglia d'origine ci impongono di dedicare il massimo del tempo, delle energie
e della competenza al lavoro di preparazione della famiglia di origine,
partendo dall'idea che è legittimo che dei familiari, e soprattutto le madri,
che sono interessati ed affezionati ai propri figli (anche se spesso in modo
poco « standardizzato ») soffrono all'idea che altri se ne occupino per un
tempo più o meno lungo. L'obiettivo di questo lavoro di preparazione può essere
anche soltanto quello di ridurre al minimo interventi di sabotaggio dell'affido,
quando non fosse realistico pensare di ottenere una
piena collaborazione.
Si cercherà di decolpevolizzare la famiglia d'origine
(non è perché tu sei un cattivo genitore che il bambino è affidato ad altri
genitori), di rassicurarla (gli affidatari integrano e non sostituiscono la famiglia
d'origine), di evidenziare il vero
interesse del bambino cui loro vogliono bene.
Gli operatori sociali devono organizzare il loro
lavoro in modo da avere il tempo di effettuare questi
interventi preparatori, senza illudersi comunque che tutto dipenda dalla loro
abilità e competenza « verbale »: la loro preparazione della famiglia di
origine si concluderà positivamente solo quando le loro parole saranno confermate
dai fatti cioè da ciò che avverrà dal momento dell'incontro con gli affidatari in avanti.
La preparazione del bambino alla separazione
Nel caso della famiglia collaborante la preparazione
al passaggio sarà possibile proprio al suo interno: si tratta di dare al bambino informazioni sufficienti e anticipate su ciò
che avviene, sulle motivazioni e sugli sviluppi futuri.
In questo caso sarà qualcuno della sua famiglia
stessa che l'accompagna nella famiglia affidataria. Se la famiglia d'origine non dà molto affidamento per
quanto riguarda le capacità di preparare il bambino, deve essere aiutata nelle
varie fasi dall'operatore sociale.
Ovvio che il bambino possa e
debba portare con sé le cose personali, che rappresentano la concretizzazione
della possibilità di conservare i suoi legami affettivi con il passato: il
segno della continuità.
Preparare il bambino diventa assolutamente importante quando la famiglia sia in difficoltà o per nulla
capace di collaborare all'affido.
L'operatore deve supplire, in questi casi, alla
funzione rassicurante della famiglia. Ciò sarà possibile naturalmente se egli
avrà potuto stabilire quel minimo di rapporto interpersonale con il bambino che
consente di presentarsi come persona che lo «riconosce» nel senso già detto in
precedenza.
In caso di allontanamenti
improvvisi ed urgenti, disposti dal Tribunale per i Minorenni, non essendoci
il tempo di conoscere a sufficienza i bisogni del bambino o di stabilire con
lui un minimo di rapporto di fiducia, non è tecnicamente ammissibile
trapiantarlo da una famiglia all'altra, per quanto quest'ultima
possa essere ottimale. Bisogna allora ricorrere ad un inserimento provvisorio
in un contesto ambientale emotivamente meno pregnante,
in una comunità cioè che consenta sia di svolgere un periodo di osservazione e
di conoscenza sia di predisporre interventi che preparino ad un collocamento
in famiglia.
L'incontro del bambino con la famiglia affidataria
Probabilmente diversi tra voi si aspettavano che io
cominciassi l'argomento della mia relazione proprio
di qui, anziché dedicarvi solo la parte finale. È infatti
convinzione abbastanza diffusa che le difficoltà dell'affido comincino per il
bambino nel momento in cui entra nella famiglia affidataria.
Questo é del tutto esatto se l'affido non è stato preparato correttamente o
sufficientemente o se l'unico obiettivo che si propone è quello di non mettere
il bambino in istituto.
Se l'arrivo del bambino nella famiglia affidataria è invece la fase di un programma studiato e preparato
dal momento in cui si è rilevato l'impedimento della famiglia d'origine,
l'adattamento del bambino alla nuova sistemazione
avviene molto rapidamente.
È soltanto necessario che la famiglia affidataria sia in grado di entrare in relazione con il
bambino attraverso la comprensione delle sue difficoltà di adattamento,
non evitabili neanche con la miglior preparazione preliminare di entrambe le
parti.
L'errore più frequente degli affidatari
è quello di interpretare il comportamento iniziale come un rifiuto del dono
d'amore che essi fanno al bambino che arriva e di ritenerlo quindi «cattivo» o
di ritenersi incapaci al compito.
Ciò è dovuto al fatto che
essi non distinguono tra situazione oggettiva e soggettiva: si è portati cioè a
pensare che il bambino, specie se è stato preparato al cambiamento, sappia che
la nuova situazione è migliore per lui e che quindi egli non possa essere che
contento di incontrare persone più disponibili alle sue necessità.
La nuova situazione in realtà è inevitabilmente ansiogena
e se i tentativi per rassicurarlo sono gesti che cercano di accelerare un
incontro affettivo più intimo, si avranno delle reazioni emotive di segno
contrario.
Gli affidatari devono
comprendere il bisogno del bambino di decodificare il loro linguaggio non
verbale, devono permettergli di mantenere le distanze di sicurezza sul piano
della relazione affettiva, devono lasciarsi conoscere, osservare per tutto il
tempo necessario, lasciandosi avvicinare gradualmente e rispondendo positivamente
alle richieste, ma in misura del bisogno del bambino e non del loro bisogno.
Se hanno fiducia in se stessi e fiducia nel bambino, il processo di adattamento si svolgerà spontaneamente
e con una certa facilità.
Se invece di fronte alle ansie del bambino vanno in
ansia anche loro, se cominciano a dubitare di se stessi, del bambino o di chi
ha pilotato l'affido, non saranno in grado di fungere
da rassicuratori per le difficoltà del bambino.
Un aspetto può in particolare confondere gli affidatari: quello di ritenere che le difficoltà del bambino
nei primi tempi siano da collegare con il problema che il bambino si trova ad
avere due famiglie.
Le difficoltà iniziali sono invece
dovute al fatto che il bambino ha una sola famiglia e che questa non c'è
più, che egli ora è solo, abbandonato, minacciato da fantasmi, senza appoggi
interni ed esterni.
Se il nuovo contesto
comprende ed accetta le difficoltà dell'afFidato; se gli si propone come appoggio
e consolazione; se si offre di rispondere ai suoi bisogni senza volere niente
in cambio, non può che aversi un felice superamento delle difficoltà di
adattamento.
Superato il periodo di adattamento
compaiono i vari aspetti del carattere di ciascun bambino: la fiducia o la
sfiducia negli adulti, i problemi con la figura paterna e materna, la fiducia
in sé o l'immagine negativa di sé, le carenze affettive delle precedenti
esperienze, le incongruenze tra età cronologica ed età affettiva, le deformazioni
dell'organizzazione dell'io (= come relazionarsi con l'ambiente per
soddisfare il desiderio), e così via. Inizialmente ci sarà la percezione del
nuovo ambiente familiare in funzione delle precedenti esperienze con il mondo
ed un comportamento conseguente. Ciò può far erroneamente pensare che il bambino
non accetti la nuova realtà in cui si trova oppure che egli sia un caso
complicato dal punto di vista psicologico. E così si
può cadere nella trappola della conferma delle sue percezioni affettive.
Ad es. se un bambino ha tratto
dalle sue esperienze passate la convinzione di non essere buono e che gli
adulti non possono amarlo proprio per questo, si comporterà di conseguenza con
gli adulti della famiglia in cui si trova. Se questi adulti non sanno analizzare il
trasferimento su di loro delle precedenti esperienze (= io sono buono, ma il
bambino non accetta il mio dono, quindi è un bambino cattivo che non vede la
mia bontà), essi non potranno che dare conferma al vissuto del bambino.
Al bambino va data la possibilità di decondizionarsi
progressivamente prima di chiedergli di entrare in transazioni adeguate ai
messaggi che gli arrivano dalla nuova realtà.
Quali messaggi, quali
risposte ai suoi bisogni, vanno dati dalla famiglia affidataria?
Da questo punto in avanti ritengo impossibile fare un discorso valido per la generalità degli affidi.
Ma questo non significa affatto
che da questo momento in avanti, affrontati e risolti correttamente i problemi
delle fasi precedenti, al bambino in affido penseranno gli affidatari
dal momento che, essendo ogni situazione talmente diversa una dall'altra, non è
possibile stilare un manuale del perfetto affido.
Ogni bambino in affido ha bisogno di «capire»: chi sono le persone con cui vive; chi sono le persone con cui
ha vissuto prima; che conto può fare sugli uni e sugli altri, immediatamente e
per il suo futuro; che relazioni ci sono tra gli affidatari
e famiglia d'origine e in che rapporto sta lui con questo «sistema». In base
ai messaggi che riceverà (ripeto: «dal sistema») saprà chi è lui e cosa fare
nel rapporto con gli altri.
La maggior parte dei messaggi in questo senso li
riceverà, naturalmente, dagli affidatari. Ma gli affidatari non possono, da
soli, elaborare le risposte corrette al bisogno di «capire» del bambino.
Molte sono infatti le
variabili che possono concorrere a definire la risposta; le principali sono:
- l'età del minore che va in affido;
- l'eredità della sua esperienza passata;
- le capacità educative residue della famiglia di origine;
- la durata dell'affido in funzione del recupero della famiglia d'origine;
- la percentuale di probabilità che le previsioni
dell'operatore sociale si realizzino;
- le capacità di collaborazione dei due sistemi
familiari.
Ciò significa che ogni affido deve essere programmato
in funzione dei chiari obiettivi che si propone e che vanno predisposti gli
strumenti necessari a realizzare il programma.
In partenza tutto ciò è compito di una équipe di operatori sociali in quanto solo loro hanno inizialmente
le informazioni necessarie sulle variabili in gioco di ogni singola situazione.
A loro tocca di chiarire agli affidatari
il gioco che sono chiamati a svolgere nel progetto
predisposto, allo stesso modo che a loro tocca definire il gioco che svolge la
famiglia d'origine.
Ma se in partenza le cose devono essere impostate in
questo modo, successivamente non potranno fare a meno
dell'universo di informazioni di cui saranno sempre più ampiamente in possesso
gli affidatari (in alcuni casi insieme alla famiglia
d'origine).
L'obiettivo da raggiungere con l'affido (= la
crescita del bambino,) non cambierà, ma il programma
e gli strumenti dovranno essere sistematicamente verificati ed adeguati sulla
base delle informazioni che si aggiungono a quelle possedute in partenza.
Operatori sociali, famiglia affidataria
e famiglia d'origine diventeranno, con la guida dei
primi, la équipe che programma e definisce gli strumenti.
Se si sarà capaci di far funzionare questo sistema ordinandolo al servizio
del minore che cresce, il minore non sarà strumentalizzato da una delle parti
in gioco o traumatizzato dai conflitti tra le parti e potrà crescere come
qualsiasi altro bambino in una famiglia sana.
(1) Relazione tenuta il 4 marzo 1983 al
seminario di studio «L'affidamento familiare», organizzato dall'USSL n. 2 di
Piacenza.
www.fondazionepromozionesociale.it