Prospettive assistenziali, n. 66, aprile - giugno 1984
LEGGE 180 E PROGETTI DI REVISIONE: RIFORMA DI QUALE RIFORMA?
ENRICO PASCAL
La legge 14 febbraio 1904 n. 36 - che in epoca giolittiana allineava l'Italia agli altri paesi europei in tema di legislazione psichiatrica - enunciava
subito, al primo articolo, le sue finalità.
La chiarezza è esemplare: «Debbono essere custodite e curate nei
manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando
siano pericolose a sé o agli altri o riescano di pubblico scandalo e non siano
e non possano essere "convenientemente" custodite e curate fuorché
nei manicomi».
Ma la chiarezza, che detta criteri di
internamento basati sul comportamento e, quindi, sulla devianza
rispetto alla normalità sociale, è più apparente che reale.
La scienza medica e la nascente scienza psicologica,
evidentemente in ritardo rispetto alla elaborazione
giuridica, non hanno fornito alcun criterio né alcun supporto alla impalcatura
della legge del 1904.
Qualche anno più tardi la psichiatria, e lei sola,
fornirà, nel 1909, qualche criterio per il regolamento
di esecuzione della legge del 1904.
Si tratta di avere locali «ripartiti in guisa da assicurare la separazione dei due sessi e delle
diverse categorie di alienati» (art. 3) ed ancora «locali distinti per accogliere i ricoverati
in osservazione con una o più camere per gli agitati e pericolosi», locali
per ergoterapia, locali di isolamento «per
i pericolosi ricoverati definitivamente» ed ancora altri tipi di locali di
«isolamento» per vari tipi di malati
(art. 4). Infine, in carenza di istituti pubblici o
privati, anche i «cronici tranquilli
(...) non pericolosi a sé o agli altri (...) devono essere accolti in separati
reparti dei manicomi» (art. 6).
Dicevamo chiarezza più apparente che reale, perché
l'articolo 1 della legge del 1904 postula, oltre al criterio di devianza comportamentale già ricordato, un
secondo criterio: quello che la custodia e la cura non possano avvenire «convenientemente (...) fuorché nei
manicomi».
Proprio questo secondo criterio, relativo alla
convenienza, che può con facilità essere fatta risalire alla
inesistenza di altre strutture, e perché no ai problemi dei costi, è
certamente della massima ambiguità.
Malti anni più tardi, nel 1968, la legge-stralcio
numero 431 è sembrata in grado di ristrutturare in senso medico-ospedaliero i
manicomi, collegandoli ai Centri di
igiene mentale esterni, con un significativo rinforzo della dotazione di
personale medico e infermieristico (e qualche psicologo, assistenti sociali,
rari igienisti).
Nel 1978, dieci anni più tardi, nessuno era più in grado di sostenere la validità di questo tentativo
di ristrutturazione delle istituzioni manicomiali secondo un modello
ospedaliero. Con apparente unanimismo, i politici recepivano
il fallimento della pratica manicomiale e ne legiferavano il superamento.
Con la legge 13 maggio 1978, n. 180, il malato
psichico viene accolto all'interno degli ospedali
civili, a parità di diritti con gli altri cittadini. Viene anche
sancito il suo diritto ad essere tutelato da parte dell'Autorità sanitaria
locale e dal Giudice in caso di ricovero obbligatorio, che deve in ogni caso
essere «eccezionale».
Tuttavia una lettura attenta del testo della legge
180, che purtroppo non è stata fatta con sufficiente chiarezza al momento del
varo della legge, - quando gli oppositori tacevano provvisoriamente
sconfitti ed i sostenitori erano presi dal troppo facile entusiasmo -
consente oggi di vedere i limiti ed i notevoli elementi di compromesso
inseriti nella legge stessa.
Del resto, per quanto la legge di riforma sanitaria n. 833 abbia recepito senza alterazioni la legge
180, nel corso dell'ottava legislatura, è stato possibile verificare con
crescente chiarezza la posizione dei partiti politici, che hanno ripresentato
progetti di modifica e revisione della legge 180 tra loro anche estremamente
diversificati. Come se, superata una convergenza tattica, ognuno volesse riprendere la propria base ideologica e la
propria visione applicativa in materia di provvedimenti concernenti la malattia
mentale.
Anche nei primi mesi della nona legislatura, sono
stati ripresentati progetti di revisione della legge «180».
Ciò sta avvenendo, per certi versi, in maniera più subdola che in passato.
Probabilmente il ministro Degan
intende, con alcune «provocazioni», saggiare il clima politico e
l'opinione pubblica in generale.
Che il clima politico non sia
più quello della fine degli anni '70 è risaputo, e potrebbe derivarne il fatto
che la legge 180 non sia più oggi «conveniente».
Per quanto concerne l'opinione pubblica, nutrita in
questi anni dai mass-media più di fatti scandalistici che di informazione
corretta e di analisi rigorose, non c'è dubbio che oggi vi siano molti
cittadini che invocano il ricorso a strutture segreganti. Recenti sondaggi d'opinione
lo confermano, ma, se onesti, confermano anche la
spaventosa disinformazione al riguardo (vedi la trasmissione televisiva Mixer).
Ma se ho citato all'inizio piuttosto a lungo i primi
articoli della legge manicomiale del 1904, è perché questa è la sola legge che
sembrava e sembra ancora offrire garanzie giuridiche, amministrative ed anche
politiche: questa è la legge che continua a piacere non solo a larga parte
dell'opinione pubblica, ma anche a molti politici, a molti R addetti ai lavori
». Anche se nessuno lo dichiara esplicitamente, l'operazione che si cerca di effettuare in questi tempi è in effetti un
ritorno ai fondamenti della legge del 1904 e del regolamento del 1909. Infatti le richieste attuali di modifica della legge 180
sono incentrate sui seguenti punti:
- reparti distinti per varie
categorie di malati (art. 3 e 4 Reg. 1909);
- quindici o trenta giorni di osservazioni
(art. 49 Reg. 1909);
- la possibilità di procedura d'urgenza (art. 42 Reg. 1909);
- intervento della forza pubblica,
se necessario (art. 42 e 43 Reg. 1909), perché è in
questo senso - crediamo - che si deve intendere «accompagnamento».
Questi sono soltanto alcuni esempi. Si ritorna a
parlare dei problemi inerenti alla incapacità di
intendere e di' amministrare, e quindi del problema delle tutele, delle
eventuali interdizioni o inabilitazioni.
È soprattutto il criterio della pericolosità e dello scandalo [art. 1 della legge 1904, anche se non
esplicitamente nominato (1)] che è sempre più alla base di varie argomentazioni,
non solo di parte medica, o di una parte dell'opinione pubblica male
informata, ma anche da parte di alcune organizzazioni
che rappresentano, come la associazione «Dia-Psi-Gra», costituita da parenti di
ammalati.
Sono segni che indicano una crescente e preoccupante
inversione di tendenza, un ritorno al passato.
Nella confusione attuale, poiché è anche vero che
nessuno dichiara in modo esplicito di volere una riedizione della legge 1904,
si sta facendo un uso massiccio della ideologia
medica.
Sembra che la medicina possegga oggi la chiave per
la cura della malattia mentale, e sia quindi in grado
di fornire rassicurazioni ai malati stessi, ai loro parenti, alla società, agli
stessi operatori.
Ma la chiave è, si sa, quella chimica dello
psicofarmaco: ed oggi gli psichiatri dispongono di
molti preparati in grado di modificare il comportamento, in maniera spesso
rapida e spettacolare.
Non sempre si tratta di mettere una «camicia di forza
chimica». Le possibilità di manipolare anche più dolcemente, di riadattare
persone molto disturbate e disturbanti a una
convivenza sociale e lavorativa, non possono essere considerate tutte
negative.
Ma si provi a interrogare
gli interessati, i cosiddetti utenti, che hanno fatto da qualche parte, in un
servizio psichiatrico di diagnosi e cura o in una clinica neuropsichiatrica
privata, esperienza di una cura sedativa a dosi sostenute. Ricordiamo i
penosi effetti secondari, il senso di rigidità, di angoscia
chiusa dentro che non può esprimersi con manifestazioni motorie, le emozioni
confuse e intorpidite. In altre situazioni, la dipendenza instaurata dal
farmaco, alimenta il terrore, spesso coltivato dallo stesso psichiatra, che se
uno smette ricade, e si ripresenta la crisi, la ricaduta.
Non c'è nulla in comune col trattamento che viene contrattato liberamente nel territorio o nelle
strutture aperte non ospedaliere, teso a cogliere il significato dei disturbi,
dei sintomi, delle alterazioni del comportamento che compaiono durante la
crisi. Nelle situazioni territoriali, il farmaco è certamente anche usato, ma
in analogia con quanto avviene con tutti gli altri tipi di malati, assunto
consapevolmente e liberamente.
C'è ancora oggi una psichiatria che invoca spazi
ospedalieri più o meno chiusi e protetti per varie «categorie»
di malati, dove lo psicofarmaco possa essere usata per sedare e controllare
i1 comportamento deviante a dosi massicce e contro la volontà del malato; c'è
un'altra psichiatria che incontra finalmente la psicologia e le scienze umane
e si apre assieme a queste alla psico-terapia, intesa come incontro libero tra
operatori e utenti, fondato sul rapporta e sulla comprensione.
Occorre impedire che prevalga la restaurazione, che
la nuova ideologia «medica» si sostituisca alla
vecchia ideologia «manicomiale», e che le valide e risolutive proposte di
terapie territoriali escano sconfitte dal confronto; bisogna evitare che
l'incremento di posti letto ospedalieri sia la scelta politica del momento,
mentre pazienti e operatori continuano ad essere «abbandonati» sul territorio
senza organici adeguati e strutture agili ed idonee.
Nella logica odierna, talora opprimente, del
costo-beneficio, c'è chi cerca di dimostrare il costo relativamente
vantaggioso di soluzioni che prevedono l'incremento dei posti letto ospedalieri
e l'istituzione di reparti appositi per lungodegenti.
In base alla nostra esperienza vogliamo ricordare
che la malattia mentale è curabile, guaribile, che
molte crisi sono esistenziali e non solo non sono destinate a ripetersi, ma
possono segnare l'inizio di un nuovo e più sano equilibrio di vita.
Ciò che va denunciato nei nuovi progetti di legge - i
quali, in realtà, ripropongono il vecchio - è il
fatto, che se le proposte sembrano estremamente realistiche, pratiche e cariche
di un buon senso che la «utopia» basagliana sembrava
aver sconfitto nel '78, nel senso che «i malati di mente esistono», i «casi di
pericolosità ci sono», i «cronici ci sono», il «residuo manicomiale» è ancora
una realtà e quindi si devono trovare soluzioni «realistiche»; esse sono invece
ciniche e senza speranza.
Eccesso di utopia nel '78?
La nostra esperienza operativa dice di no! Con il progetto del ministro Degan si vuole riproporre una
spietata emarginazione. Ciò viene proposto da chi non
ha fatto nulla per attuare una legge che consentiva sperimentazioni nuove e
costruzione di nuovi servizi, nonché apertura a nuove metodiche di intervento,
e non ha nemmeno tentato di muoversi.
Certamente è più «conveniente» curare le persone
dentro spazi chiusi, sottraendole al controllo del
sociale. Si tratta di una cura che può essere fatta anche senza «capire», tanto
può essere sedativo ed oggettivante il «trattamento sanitario».
Si tratta di sopprimere in tal modo, zittendoli,
testimoni importanti, talora tragici o anche grotteschi, delle contraddizioni
sociali e politiche della società odierna. Ma allora dov'è la differenza tra
l'uso politico degli spazi manicomiali nell'Unione Sovietica e le nuove forme di internamento in Italia?
Pensiamo che la «180» vada «rivista», nel senso di
prevedere una adeguata dotazione di risorse in uomini
e mezzi, e di incoraggiare finalmente la sua applicazione in risposta ai
bisogni che la gente esprime, dove e come li esprime.
L'utopia può, com'è dimostrato da molte esperienze di attuazione della legge 180, farsi pratica attuativa, creativa e polimorfa, e ciò contro il «realismo»
cinico, che, fondato sul presunto fallimento di una legge nella realtà non
attuata, ripropone soluzioni ospedaliere per la massa dei non recuperabili. Ma chi mai ha veramente provato a curarli in modo adeguato,
in tempo, secondo le metodologie più moderne e avanzate? E
nei vari luoghi territoriali, senza sradicarli dal loro ambiente e dai rapporti
sociali validi e significativi?
Non solo da un punto di vista dei costi-beneficio,
ma anche da un punto di vista scientifico e di crescita politico-culturale,
questo secondo tipo di realizzazione, basato sui
servizi territoriali, dovrebbe risultare finalmente il più «conveniente».
Breve commento dei punti significativi del testo governativo
Art. 1
Si enunciano tre linee
organizzative: 1) servizi «territoriali» deputati alla prevenzione e alla
terapia non intensiva; 2) servizi ospedalieri psichiatrici per la cura dei
malati acuti; 3) servizi socio-sanitari e strutture per i trattamenti protratti. Dunque almeno tre
principali «categorie» di malati con strutture separate.
Ciò urta contro la realtà degli accadimenti
psicopatologici, molto più complessi ed assai meno separabili nella vita e nella esperienza delle persone .
Va poi notato il tradizionale concetto per cui chi ha bisogno di «trattamenti protratti», dopo che
la «medicina» ha spuntato le sue armi, diventa un caso socio-sanitario
(equivalente al concetto di cronicità).
Significativa anche l'accoppiata tra la «sorveglianza» sanitaria
che deve essere garantita in ogni caso, associata alla continuità terapeutica:
è difficile non leggere ciò come una versione edulcorata del famoso concetto di
«custodia e cura».
Del resto, nel complesso degli articoli, cura,
trattamento, intervento, misure sono usati indifferentemente, unificati dalla
definizione «sanitaria» che sempre li accompagna e sembra garantirne la
validità in ogni caso.
Vengono precisate le modalità del trattamento sanitario
obbligatorio, anche nel caso di minori. Non si può fare a meno di notare la
sostituzione della parola «quando» al precedente avverbio «solo» della legge
180 e del corrispondente articolo 34 della legge 833 che lo aveva
recepito. Con la dizione «solo» si voleva delimitare e sancire la eccezionalità del provvedimento. Del resto, perché
dovrebbe essere eccezionale, se equivale a una
«efficace» terapia intensiva in ambiente ospedaliero?!
I posti letto ospedalieri non possono essere inferiori all'uno per ogni 10.000
abitanti (circa il doppio di quanti ne esistono ad esempio nella Regione
Piemonte).
Ma poiché varie esperienze territoriali dimostrano
la validità di interventi alternativi presso le
famiglie stesse, presso centri crisi e comunità, perché non considerare almeno
queste strutture nel computo dei posti letto, in modo di sancirne la pari
validità?
Viene proposto l'intervento urgente, con accompagnamento
al pronto soccorso ospedaliero, sulla base della certificazione del solo
sanitario del servizio psichiatrico ospedaliero.
Anche la legge del 1904, oltre a contemplare il
ricovero ordinario che postulava una procedura complessa certamente garantista, prevedeva la procedura più sbrigativa del
ricovero coatto d'urgenza, con accompagnamento da parte della forza pubblica, sulla base di un solo certificato medico. Ed è noto che, nei
fatti, fu questa seconda procedura la sola ad essere
attuata nella stragrande maggioranza dei casi.
Non si vede perché ora questa situazione non dovrebbe
ripetersi!
Giusto pare il ricorso all'impiego delle cliniche
universitarie per la gestione di servizi territoriali, salvaguardata la loro
autonomia direzionale e gestionale. Ciò dovrebbe però
sollevare non facili problemi di convivenza coi servizi territoriali gestiti
dalle Unità sanitarie locali.
Sarebbe stato a mio parere più ragionevole postulare collegamenti teorico-pratici tra Università e
territorio mediante tirocini e seminari in tutti i servizi, anziché ghettizzare
una simile organizzazione a scapito degli apporti multidisciplinari
e degli scambi tra gli operatori dei vari servizi e strutture.
La istituzione di una Commissione di vigilanza non è in
sé nuova: era già definita dalla legge del 1904 e si rivelò nei fatti non
funzionante. Tuttavia può essere valida, sperando che la novità di una
rappresentanza dei familiari dei malati in essa, non
sia un fatto puramente simbolico.
Art. 2
Consente ai sanitari ospedalieri di intervenire in
caso di trattamento sanitario obbligatorio in attesa
dell'autorizzazione del Sindaco e del Giudice tutelare. È innegabile che una
situazione di parcheggio burocratico in sede ospedaliera, nell'attesa
dell'autorizzazione, non ha senso. D'altra parte l'esperienza di questi anni
dimostra una progressiva riduzione sia dei trattamenti sanitari obbligatori,
sia dei casi in cui gli interessati non danno il loro assenso alle cure.
Colpisce il fatto che, qualora il trattamento sanitario obbligatorio non
sia convalidato, le misure sanitarie extraospedaliere debbano essere prese con «ordinanza soggetta a convalida». Ben diverso
era il concetto esposto nel corrispondente articolo 33 della
legge 833, che sanciva la possibilità di trattamenti sanitari
obbligatori anche presso servizi e strutture territoriali.
I sette giorni che limitavano il trattamento sanitario
obbligatorio sono ora diventati quindici, come primo periodo, ovviamente
prorogabile. Ciò può sembrare utile e ragionevole, e dovrebbe consentire ai
medici di lavorare meglio o meno frettolosamente. Ma
presuppone anche una analisi meno veloce della
situazione del ricoverato, una maggiore medicalizzazione
in ogni caso e il conseguente aumento necessario dei posti letto. E poi, perché non fissare anche il termine ultimo oltre il
quale si diventa lungodegente?
Nulla sembra innovato circa la cessazione del
trattamento sanitario obbligatorio. Viene chiarita la
tutela che, per quanto non sia affermato esplicitamente nel testo, dovrebbe
ovviamente essere «provvisoria».
Un'altra novità rispetto all'art. 35 della legge 833
è esposta subito dopo, quando viene specificato un nuovo tipo di circuito:
infatti, quando la cura debba essere proseguita fuori del servizio psichiatrico
ospedaliero presso un servizio sociosanitario, il
testo di legge ricorda che può essere chiesto un nuovo trattamento sanitario
obbligatorio in degenza ospedaliera.
Il bisogno di ricordare in un articolo un fatto
certamente in sé non impossibile, sottolineando la
necessità del passaggio da una struttura all'altra, smaschera però la ideologia
su cui è fondato il nuovo disegno di legge.
Il collegamento tra una struttura e l'altra assicura la funzionalità del circuito e
tranquillizza in merito alla non possibilità di altre terapie o altri
provvedimenti, magari domiciliari o ambulatoriali! Il «matto» è matto e, una
volta iniziata la carriera, deve essere chiaro come deve
essere riciclato!
Viene in seguito il discorso del lungodegente
psichiatrico che, nei casi di trattamento sanitario obbligatorio, deve avere un
tutore provvisorio. Ciò era già la formulazione della legge del 1904.
Si deve osservare che le strutture ipotizzate di lungodegenza non sono più definite con precisione come nei passati disegni di legge. Anche se tutto sembra
essere demandato alle disposizioni attuative regionali, è probabile - purtroppo
- che venga data priorità alle strutture ospedaliere
anziché a quelle territoriali (centri crisi, comunità alloggio).
Art. 3
Ora non viene più proposto
il superamento, ma, al contrario, la trasformazione degli ospedali psichiatrici
in istituti di riabilitazione per lungodegenti. Nei fatti, la formulazione
appare piuttosto grottesca, nonché ambigua, quando
recita che la riabilitazione durerà «fino
al totale esaurimento dei lungodegenti attualmente ricoverati».
Altre modifiche ribadiscono
l'impossibilità dei trattamenti sanitari obbligatori in istituti convenzionati,
la necessità di servizi ospedalieri dotati da 15 fino a 30 posti letto (siamo
quindi al raddoppio!) il cui fine, è quello di «garantire la continuità dell'intervento».
Colpisce il fatto che, nell'insieme, i servizi territoriali - i soli in
grado di garantire la continuità terapeutica - non siano messi in risalto.
Anzi.
Art. 4
La Regione deve riordinare i servizi del dipartimento, con facoltà di operare la trasformazione e la
concentrazione dei servizi eccedenti.
Poiché è cosa nota che in nessuna realtà italiana,
tranne forse alcune pochissime eccezioni, c'è eccedenza di servizi ospedalieri,
tanto che si invoca un incremento significativo di
posti letto ospedalieri, è probabile che sì voglia alludere agli altri servizi,
quelli territoriali, dove un personale talora demotivato, abbandonato a se
stesso, in carenza di adeguati organici e di idonea formazione, può sembrare
eccedente. E allora perché non utilizzarlo meglio, non
concentrarlo sui poli ospedalieri?
A questo punto il cerchio della restaurazione
potrebbe chiudersi, risultare completo. Le esperienze
territoriali sono vanificate, il primato dell'ospedale riaffermato per la
tranquillità di tutti. I servizi territoriali - i soli invece in grado di
filtrare i ricoveri e di renderli non convenienti - saranno allora ridotti a
prestazioni simboliche?
Giusto - ovviamente - il discorso delle risorse,
degli investimenti: ma verso le strutture ospedaliere o verso agili strutture ambulatoriali?
(1) Infatti, l'art. 1 del nuovo testo
di modifica, per quanto meno esplicito del precedente art. 1 della legge 1904,
sancisce con inequivocabile chiarezza che, mentre nei servizi
extra-ospedalieri viene soprattutto attuata prevenzione e terapia non
intensiva, il servizio psichiatrico ospedaliero di diagnosi e cura è deputato
alla cura dei casi acuti, è cioè sinonimo di terapia intensiva. Come se, in
analogia con altre forme di malattia (si pensi, ad es., all'unità coronarica per gli
infartuati) anche nel campo della malattia mentale esistesse un analogo
dispositivo. Analogie del tutto destituite di
fondamento sia scientifico che pratico. La realtà è ben diversa.
www.fondazionepromozionesociale.it