Prospettive assistenziali, n. 67 bis, luglio - settembre 1984

 

 

ESPERIENZA FRANCESE DI FOCOLARE PER INSUFFICIENTI MENTALI ADULTI (*)

 

 

L'appellativo di «Focolare di Lavoratori» cor­risponde, per noi, alla preoccupazione di inte­grare il giovane, l'adulto insufficiente mentale in un quartiere, senza per altro mettere un'etichetta che potrebbe sottolineare la sua deficienza. Ci sembra molto importante che un giovane possa trovare sulla buca delle lettere del suo apparta­mento, un indirizzo che non sia per lui un han­dicap per la sua integrazione.

Il Focolare accoglie, per il momento, un gruppo di 16 uomini adulti. L'età di ammissione, stabi­lita secondo criteri amministrativi, è di 20 anni. Non vi è limite d'età per la dimissione dai Foco­lare. Attualmente, il più anziano sta per com­piere i 40 anni.

Questo gruppo abita in due appartamenti del medesimo stabile, l'uno di tipo F4 al terzo pia­no, l'altro di tipo F3 al sesto piano. I due appar­tamenti hanno la medesima scala di accesso.

Il Focolare di Lavoratori è animato da un edu­catore e da una educatrice, entrambi sposati, avendo ciascuno rispettivamente uno e tre figli. L'educatrice e la sua famiglia abitano al terzo piano e ha il pianerottolo in comune con l'allog­gio F4; l'educatore e la sua famiglia abitano al sesto piano, sul medesimo pianerottolo dell'al­loggio F3.

Gli appartamenti, sia del personale educativo sia dei giovani lavoratori, hanno in comune i ser­vizi e le comodità dello stabile, insieme con gli altri locatari (buca delle lettere, scale, ascen­sore, ecc.).

Ci sembra importante precisare che l'ammis­sione di un giovane lavoratore in questo Focola­re, è l'ultimo di una serie di interventi e di azio­ni medico-socio-educativi antecedenti, che la no­stra équipe ha iniziato nell'Istituto medico-peda­gogico di Place Napoléon fino a 14 anni, e ha proseguito fino ai 20 anni nel nostro Istituto me­dico professionale. La presa in carico più o me­no totale nel quadro del Focolare dei Lavoratori, si può prospettare per alcuni di questi giovani, a partire dai 20 anni.

Questa evoluzione verso l'acquisizione pro­gressiva d'una autonomia molto importante è per­cepita dai più anziani dell'istituto medico profes­sionale, non come una promozione o una gratifi­cazione, ma come lo sbocco rassicurante quando essi si interrogano, al loro livello, sul proprio avvenire.

Se per ragioni soprattutto amministrative, l'età di 20 anni è tassativa per l'ammissione al Foco­lare, in pratica l'adolescente è preparato dai suoi educatori al suo status di giovane lavoratore. La rottura non sarà dunque brutale a livello della dif­ferenza del «regime di vita». Un'abitudine all'autonomia, al proprio controllo, nel quadro dell'inserimento sociale, l'aiuterà a superare la so­glia del «Focolare» e il giovane adulto sarà suf­ficientemente informato per affrontare il più fa­cilmente e il più naturalmente possibile, l'am­biente che costituirà il quadro di vita in tutto simile alle altre persone che vivono nella comu­nità urbana.

Il compito degli educatori che animano il grup­po, ora individualmente, ora in coppia educativa, è essenzialmente un ruolo di presenza. Infatti ci sembra essenziale evitare, con questi lavoratori, di ricreare l'immagine classica dell'educatore di gruppo d'internato. La funzione educativa è qui differente. Si suppone, infatti, che un certo nu­mero di acquisizioni di base siano state assimi­late dai giovani, e che questi abbiano acquisito delle abitudini di autonomia più elaborate, e sia­no quindi sufficientemente preparati per affron­tare una terza dimensione di riadattamento e per subire «l'aggressione» dell'ambiente non istitu­zionalizzato che è costituito dai vicini, dalle case, dal quartiere, e dal lavoro esterno per alcuni.

L'autonomia lasciata al lavoratore in vista del­la sua integrazione sociale, sarà sufficientemente importante per non essere solo apparente, ma per essere realmente come quella degli altri cit­tadini. Per contropartita, l'animazione di un tale gruppo sarà tale che il giovane vi possa ritro­vare una sicurezza affettiva e materiale dinami­ca. Qui, la gestione effettiva dei pasti, del mé­nage, delle attività, dei contatti con l'esterno non sarà più un'azione dell'educatore, ma della cel­lula di vita in cui gli atteggiamenti e gli inter­venti saranno individualizzati al massimo. Si trat­ta ormai di «fare del giovane lavoratore ciò che egli deve diventare e non ciò che il gruppo o l'educatore desiderano che diventi».

L'organizzazione di questi gruppi di vita sarà tutta permeata dall'individualizzazione della rela­zione e dell'azione educativa. L'educatore non sarà più colui che ordina la levata al mattino, ma colui che aiuta a sentire il suono della sveglia. Il suo compito sarà essenzialmente quello di sti­molare, di suscitare, di essere colui che viene consultato e che consiglia.

Il sostegno ergoterapeutico che il giovane tro­va negli appartamenti lo aiuterà ancora a scopri­re e a ricercare l'integrazione nei gruppi di vita esterni a quelli dell'istituzione: clubs, gruppi sportivi, casa dei giovani, libertà di uscita che equivale spesso alla scelta di compagni esterni al Focolare.

D'altra parte, la manipolazione e la gestione del suo denaro (partecipazione alle spese della sua biancheria e dei suoi vestiti) gli faranno prendere coscienza della sua realtà.

La relazione «assistente-assistito» evolverà a poco a poco verso una relazione di aiuto reci­proco.

Ecco quindi come l'équipe che anima attual­mente il Focolare ne concepisce il ruolo e la fun­zione. Il Focolare rappresenta il frutto di un lungo lavoro nell'ombra e, in certa misura, la sommità della curva di adattamento dei nostri giovani e dei nostri adulti. Ormai, la società deve poterli accettare interamente, e non più sopportarli. In­fine voglia essa dividere con loro il sole (1).

J.-M. DEVIN, animatore dell'équipe di lavoro

D. PILLET, direttore dell'istituzione

 

(*) Prospettive assistenziali, n. 18, aprile-giugno 1972. Da Foyers d'adultes, numero speciale del 1972 della rivi­sta Nos enfants inadaptées dell'U.N.A.P.E.I., 28, Place St. George, 75 - Paris (9°).

(1) Bisogna sottolineare che questa esperienza, che con­ta attualmente più di un anno, ha visto l'estensione di que­sti appartamenti, e bisogna registrare ora non più due sole cellule di vita, ma sette, che si trovano in apparta­menti H.L.M. di tipo F3 e F5.

Le coppie di educatori sono passate da due a tre, legal­mente costituite, cioè tutte e tre costituite da coppie spo­sate, con bambini, e inoltre si aggiungono ad essi degli educatori tirocinanti temporanei, che vengono a vivere que­sta esperienza.

Bisogna segnalare che i servizi di collocamento lavorati­vo, all'uscita dall'Istituto medico-professionale, sono limi­tati, e il giovane che trova lavoro nell'ambiente naturale (artigiani, piccoli esercenti, piccole industrie), ha sempre bisogno del supporto educativo e psicologico che trova in questo settore di assistenza del Focolare, e noi pensiamo, dopo alcuni mesi di riflessione, di orientarci definitivamen­te verso tale forma di istituzione.

 

 

 

 

 

UN ESEMPIO DI SERVIZIO NON EMARGINANTE ( * )

A. BRAMBILLA - D. BARLASSINA

 

 

Pubblichiamo lo scritto di due educatori sui ri­sultati ottenuti dalla «comunità familiare» ope­rante in Desio, Via Pozzo Antico 60, nel reinse­rimento di soggetti bisognosi di interventi spe­cialistici: esso è un esempio di collaborazione con la comunità locale per assistere senza ricor­rere all'istituzionalizzazione. Il focolare di Desio è stato costituito nel 1971 utilizzando un apparta­mento vacante al disopra della portineria dell'Ospedale di Desio; ne sono responsabili i fir­matari della relazione.

 

In data 27-9-1972 veniva richiesto dall'ufficio di servizio sociale del comune di Desio, alla di­rezione dell'Ospedale Corberi di Limbiate, di accogliere il minore T. Vincenzo di anni 10, pres­so il focolare o «comunità familiare», operante in Desio, Via Pozzo Antico, 60.

Poiché tale comunità familiare è sorta per agire da tramite fra il minore e la famiglia, per individuare la causa del rifiuto, aiutare entrambi per la reciproca accettazione e, dove ciò non fosse possibile, per sensibilizzare la comunità ad adottare strutture capaci di reinserire soggetti bisognosi di attenzione e cure particolari, e non certo una continuata istituzionalizzazione che inevitabilmente rimanda la soluzione del pro­blema al domani e nello stesso tempo la com­plica impedendo un normale sviluppo della per­sonalità per la sua struttura verticistica e chiusa alle dinamiche sociali, noi accogliemmo il mino­re Vincenzo per collaborare con la comunità lo­cale che in questo caso non voleva ricorrere all'îstituzionalizzazione.

Nel periodo in cui il suddetto minore fu affidato alle nostre cure notammo che l'aiuto di cui aveva bisogno, trattandosi di un ragazzo di intelligenza nella norma e di capacità globali buone, era quel­lo di approfondire la conoscenza della sua situa­zione familiare, la quale chiaramente stava all'origine delle turbe comportamentali del minore, che ultimamente l'avevano portato ad essere ri­fiutata da una famiglia alla quale temporanea­mente l'ufficio di servizio sociale l'aveva affidato.

Il primo passo nella ricostruzione della situa­zione familiare è stato l'incontro con le persone che, in qualità di dipendenti di enti di servizio sociale che erano interessati nell'erogare assi­stenza alla famiglia in questione, avevano già dei dati e delle diagnosi fatte in precedenza. A questo proposito abbiamo promosso un incontro all'IPPAI, in via Piceno a Milano, dove la madre temporaneamente era collocata, con la presenza dell'assistente sociale del comune e dell'E.C.A. di Desio, di due assi-stenti sociali dell'ONMI, dei due educatori specializzati a cui era affidato il minore e dello psichiatra.

Successivamente abbiamo incontrato i sacer­doti della parrocchia ove risiede la famiglia, i quali, tramite l'associazione S. Vincenzo, danno un aiuta economico e quindi in parte conoscono la famiglia.

Dopo queste ed altre indagini conoscitive, so­prattutto nei contatti con gli interessati ed i loro parenti, possiamo tracciare così la situazione della famiglia in questione:

Nucleo normalmente costituitosi circa 10 anni fa con abitazione e residenza in Sicilia.

Il marito (anni 36) prima di sposarsi era emi­grato al Nord dove pare svolgesse l'attività di muratore. Una volta sposato ha dimostrato ben presto incapacità di mantenere con continuità un lavoro normale. Questo risulta anche da quando si è trasferito a Desio con la famiglia. Si sa per certo che ha svolto per lungo tempo ed in parte a tutt'oggi svolge attività illegali per le quali è già stato in carcere.

Da tre anni ha abbandonato definitivamente la moglie e convive con un'altra donna, madre di 5 figli, che è conosciuta ed accettata da alcuni parenti stretti del Sig. T. È in corso la pratica per togliere la patria potestà, presso il tribunale per i minorenni.

Nonostante il dichiarato e concreto disinteres­se per la famiglia, saltuariamente il T. torna dalla moglie, a volte in caso di necessità, come ad esempio in occasione di una malattia della con­vivente o dopo un incidente stradale in cui aveva riportato delle lesioni.

La moglie (anni 36) è persona assai svantag­giata, oltre che per le vicissitudini familiari, an­che per aver avuto 14 gravidanze di cui 10 por­tate a termine, e a motivo del trapianto culturale dovuto all'immigrazione.

Fatto saliente: 4 ricoveri in ospedale psichia­trico dal 1970 ad oggi. Secondo la diagnosi più aggiornata (21-7-72), la Signora T. risulta «rico­verata per episodi subconfusionali, in relazione alle anomalie comportamentali del coniuge, che si risolvevano nel giro di pochi giorni. La T. si è sempre dimostrata affettivamente valida nei con­fronti dei figli, preoccupandosi di garantire loro valida assistenza».

Dagli incontri avuti con la madre all'IPPAI, quando ancora era degente per l'ultima gravidan­za, notammo il suo attaccamento e interessa­mento per i figli, allora comunque era assai lu­cida e fisicamente ben curata. Oggi, a distanza di un mese circa, periodo di tempo in cui è rien­trata in famiglia, la donna soffre di incubi nottur­ni, mangia poco, vive nella paura.

Questi sono in sintesi le cause che presto la potrebbero portare ad un nuovo ricovero in ospe­dale psichiatrico.

Qual è oggi la situazione? Attualmente vive sola con il figlio maggiore Vincenzo di 10 anni. Nonostante la dichiarata capacità di accudire ai propri figli, la signora T. è stata costretta dalla situazione ambientale a lasciare l'ultimo figlio di 2 mesi all'IPPAI. Infatti attualmente vive in due stanze, presso una cascina, priva di acqua e ser­vizi igienici. Il riscaldamento lascia a desiderare anche a motivo delle finestre e della porta in cattivo stato. Basta questo per comprendere co­me sarebbe precaria la situazione di un bambino di due mesi che dovesse vivere in un simile alloggio.

Ma questo purtroppo causa dei gravi scom­pensi nella madre che di nuovo si vede allonta­nata da un figlio; infatti due figlie sono in istituto ed altri due a balia.

A sua volta anche Vincenzo soffre della situa­zione, trovandosi a casa solo con la madre, men­tre vorrebbe avere i fratelli con sé.

Da 15 giorni circa Vincenzo è assai dimagrito e mangia molto poco. Di qui la logica reazione della mamma che deperisce a sua volta. A que­sto si aggiunge il fatto del costante stato di ansia in cui vive la signora per la paura del marito che ultimamente si è fatto rivedere a Desio dopo es­sere mancato per un certo periodo.

La donna infatti vorrebbe non aver più nulla a che fare con il marito, ma sentendosi indifesa teme per sé e per i figli.

Crediamo che per una persona normale con la cultura d'origine della signora, questa sia una situazione comprensibile, ma se aggiungiamo l'affaticamento, le negative esperienze preceden­ti della donna, l'attuale comportamento del figlio maggiore, possiamo facilmente prevedere un di­sperato rifugio nella malattia mentale.

Gli altri componenti la famiglia oltre al figlio Vincenzo, di cui già abbiamo parlato sono: Giuseppe di 2 mesi, attualmente ricoverato presso l'IPPAI di Milano. Di lui possiamo dire che un prolungato ricovero risulterà certamente negativo ai fini del suo migliore sviluppo psico­fisico.

Rosa di 6 anni e Graziella di 7, entrambe rico­verate presso l'orfanotrofio casa «S.C.» di De­sio. Abbiamo potuto vedere personalmente le bambine e la nostra conoscenza si limita a quan­to ci è stato detto dalla madre superiora di detto istituto. Non volendo qui entrare in merito alla particolare situazione educativa di questo istituto, ci limitiamo a considerare come una pro­lungata istituzionalizzazione di bambini porti ine­vitabilmente a scompensi affettivi e difficoltà ma­turative nei rapporti interpersonali.

Infine Antonella di 5 anni e Massimo di 4, en­trambi a balia presso una famiglia di Desio. Antonella ha avuto uno sviluppo psicofisico più nor­male e il rapporto affettivo con i genitori affida­tari risulta valido anche perché è più accettata, desiderando essi da tempo occuparsi di una bam­bina. Massimo invece ha avuto uno sviluppo tur­bato dai continui cambiamenti: in 4 anni è stato affidato alle cure di 3 famiglie. A 3 anni presen­tava un grave ritardo nello sviluppo motorio e nessun controllo degli sfinteri. In questi giorni si potrà avere l'ultima diagnosi dell'équipe dell'ONMI. Certamente per Massimo sarà necessa­rio in futuro un appoggio speciale per le difficoltà particolari che gli sono state create dalle varie situazioni socio-ambientali.

Dopo questa analisi della situazione, voluta­mente breve in certe parti, pur avendo cercato di esprimere i dati indispensabili, non ci resta che passare ad un abbozzo di un piano di inter­vento che vogliamo per ora sottoporre alla con­siderazione degli enti più direttamente interes­sati. Se da essi sarà iniziata un'azione di inter­vento e se l'evolversi dei fatti lo permetteranno, sarà poi indispensabile un confronto con altri enti, quali l'ONMI, ad esempio, che tramite l'as­sistente sociale interessata ha promesso un sus­sidio economico sostitutivo al ricovero ed al ba­liatico, qualora il caso fosse portato avanti dagli enti locali con garanzie di continuità.

 

Intervento a breve termine

Riteniamo indispensabile ed urgente la collo­cazione della Signora T. e del figlio Vincenzo in un alloggio più adeguato, perlomeno provvisto di acqua e servizi igienici. Questo nonostante ci si renda conto che le capacità di autonomia della madre, sufficienti in condizioni migliori, ora sono in parte compromesse, ma crediamo pure che permanendo nella situazione ambientale attuale non potrebbero che peggiorare. Infatti un allog­gio più adeguato potrebbe permettere il rientro dell'ultimo figlio Giuseppe di 2 mesi e questo ab­basserebbe lo stato di ansietà della madre e po­trebbe stimolare Vincenzo a riprendersi dalla cri­si depressiva in cui è avviato.

Se non si vuole rimandare l'intervento a dopo un nuovo ricovero della madre, fatto che potreb­be definitivamente chiudere le possibilità di ri­costruzione del nucleo familiare, è assolutamen­te necessario fare questo primo passo.

Parallelamente è necessario l'appoggio di spe­cialisti in questo particolare momento, coadiu­vati eventualmente dall'azione di volontari da loro indirizzati.

Al rientro di Giuseppe in famiglia si potrebbe già richiedere da parte dell'ente locale un inter­vento economico dell'ONMI, sostitutivo al rico­vero (il bambino costa 11.000 lire al giorno pres­so l'IPPAI).

A questo punto si può anche sollecitare i pa­renti della signora T. ad un appoggio morale. Dai nostri contatti con tutti i suoi parenti abbiamo rilevato che in questo momento la maggior parte di essi è in difficoltà economiche per particolari situazioni, ma probabilmente si potrebbe ottene­re, almeno per ora, un loro interessamento con­cretizzabile in un appoggio affettivo.

 

Intervento a medio termine

Qui saremo più schematici, infatti tutto è su­bordinato alla tempestività e buona riuscita dell'intervento a breve scadenza. Si dovrebbe sol­lecitare l'espletamento delle formalità necessa­rie per togliere la patria potestà al padre.

E questa azione portata avanti correttamente ridarebbe più sicurezza alla signora T.

Si dovrebbero reinserire in famiglia le due figlie attualmente ricoverate in istituto. E di con­seguenza il comune interverrebbe con un sussi­dio sostitutivo al ricovero. Nello stesso tempo procederebbe l'azione di appoggio iniziata nell'intervento a breve termine.

 

A lungo termine

Ricostruzione del nucleo familiare coi rientro di due figli attualmente a balia. Nuovo intervento economico dell'ONMI invece della retta per la balia. Eventuale appoggio di una figura valida ad ore, pagata con questi soldi dal comune.

Sottolineiamo nuovamente la schematicità del­la programmazione degli interventi a medio ed a lungo termine perché necessariamente sono

subordinati alla positività dei primi interventi e sono passibili di mutamenti, che potrebbero m9­glíorarli, qualora il caso fosse diligentemente seguito.

Ci rendiamo perfettamente conto che un'appro­fondita analisi di una simile situazione porta ine­vitabilmente allo scontro con grossi problemi quali: l'immigrazione, la casa, la sanità, ed altri ancora, ma il nostro intervento, non volendo e potendo logicamente dare delle soluzioni globali, vuole soltanto essere un apporto per una rinno­vata impostazione dei servizi sociali.

Abbiamo toccato il problema degli interventi sostitutivi al ricovero, già iniziati dalla provincia, dall'ECA e dal comune di Milano, e che a nostro parere sono indispensabili per un normale svi­luppo della personalità, il problema dell'assisten­za domiciliare già affrontato in alcuni comuni (es. Gorgonzola), e province (es. Reggio Emilia), con esiti assai positivi. E per ultimo il grosso pro­blema dell'intervento primario, spettante al co­mune, secondo gli indirizzi attuali della regione Lombardia, che si può iniziare con la fattiva col­laborazione dei molti enti che fino ad oggi erano operanti nel campo assistenziale.

Questo per garantire un corretto e valido aiuto agli utenti, mirante non a sostituirsi ad essi ed a relegarli in istituzioni, ma a permettere il più possibile lo sviluppo delle loro capacità umane.

 

Risultati ottenuti

1) È stata assegnata alla Signora T. una casa materialmente e igienicamente adeguata.

2) La Signora T. riceve mensilmente L. 160.000 dal marzo u.s.

3) Con questa somma la Signora T. paga un aiuto domiciliare, reperito dal Comune di Desio.

4) I figli sono rientrati tutti dagli istituti, una sola è rimasta in affido.

5) La gestione dei problemi socio-assistenziali della famiglia è condotta dal Comune, che coor­dina pertanto gli interventi degli altri Enti com­petenti per legge.

6) Tale soluzione ha permesso di realizzare un non indifferente vantaggio economico per le co­munità, rispetto alle dispendiose soluzioni pre­cedenti per ciascun componente, basate sulla istituzionalizzazione.

 

(*) Prospettive assistenziali, n. 26, aprile-giugno 1974.

 

 

 

 

 

 

I GRUPPI APPARTAMENTO (O COMUNITÀ ALLOGGIO): UNA ALTERNATIVA REALE E VALIDA (*)

 

 

I

 

Il consiglio provinciale di Bologna, nella seduta del 6 novembre 1973, ha deliberato la chiusura del «Sante Zennaro» di Imola come istituto medico-psico-pedagogico e la riconversione del­lo stesso in «Centro di servizi sanitari e so­ciali».

L'atto consiliare rappresenta indubbiamente una risposta chiara e precisa alla congerie di interrogativi, polemiche e interminabili discus­sioni intessutesi circa l'utilizzo dell'istituto, ma soprattutto costituisce l'espressione più coeren­te di una politica socio-assistenziale incentrata sulla deistituzionalizzazione e sulla strutturazio­ne di servizi decentrati, articolati sulla base dei reali bisogni della comunità.

Il processo di deistituzionalizzazione dell'ex IMPP, iniziata nel giugno 1972, è dunque giunto a completezza e si va esaurendo nella configura­zione di modalità di intervento più autonome e strettamente collegate alla realtà dei servizi del comprensorio imolese. Ci riferiamo qui, più con­cretamente, ai gruppi appartamento che, seppur hanno avuto inizialmente la funzione di permet­tere all'istituto di vuotarsi, si sono superati co­me tali e tendono ad evolvere in una dimensione territoriale, proponendosi come modello di inter­vento mirante a ricondurre nei rispettivi luoghi d'origine tutte quelle situazioni che ne sono state allontanate.

Dal 24 novembre nessun bambino è più ospite delle strutture residenziali dell'ex IMPP «Sante Zennaro». I bambini che risultano tuttora «rico­verati» (24), sono ospiti di quattro gruppi e ri­siedono insieme con gli educatori in apparta­menti della città di Imola. Nella quasi totalità (91 per cento) si, tratta di ragazzi già ospiti dell'ex IMPP da prima della scelta deistituzionalizzante, per i quali non si è potuto provvedere ad un più precoce inserimento, o perché senza famiglia, o per ragioni di completamento dei cicli scolastici.

Dal giugno '72, cioè dopo la scelta di svuotare l'IMPP, sono state fatte solo due ammissioni (pari al 9 per cento dei residenti), con queste mo­tivazioni:

a) grosse difficoltà e carenze familiari sul pia­na educativo e sociale;

b) ritorno nel comprensorio di appartenenza do­po una precedente istituzionalizzazione fuori pro­vincia.

Un altro dato da rilevare, riguarda le prospetti­ve di dimissioni al giugno '74: si prevede che circa 7/9 bambini (pari al 30-35 per cento tutti appartenenti ad altri territori), potranno rientrare in famiglia o quanto meno trovare una più valida risposta nella loro comunità di provenienza. Da queste premesse piuttosto sommarie si può già delineare quale deve essere la configurazione del gruppo appartamento e cogliere il significato sia negli aspetti tecnico-operativi sia in quelli politici e socio-assistenziali.

È un dato ormai acquisito che operativamente il gruppo si colloca in una dimensione territoria­le, prefigurandosi all'interno dei servizi di base del comprensorio (équipes territoriali), come strumento di intervento, qualora non vi siano al­tre modalità di risposta a certi tipi di bisogno. Infatti per avere una sua validità ed autenticità il gruppo deve poter essere determinabile accan­to a diverse altre possibilità di scelta, e gli ope­ratori dovranno essere inseriti nelle attività so­ciali della comunità, assorbibili totalmente da tale operatività se il gruppo evolverà, superando­si come tale. Solo così si potrà realizzare una più articolata ed efficace dimensione di alternative all'istituzionalizzazione. Beninteso che a ciò si potrà addivenire solo dopo un'attenta indagine conoscitiva dei reali bisogni del territorio.

Premesso che la psicopatologia infantile ben difficilmente genera condizioni che necessitano di un ricovero urgente, per ragioni di «pericolo­sità a sé e/o agli altri», in strutture psichiatri­che, e che del resto esistono nel territorio valide strutture ospedaliere di tipo pediatrico, tali da recepire con urgenza una vasta gamma di situa­zioni di tipo sanitario, ne deriva che il gruppo potrà configurarsi come momento di risposta di tipo prevalentemente assistenziale, senza tut­tavia escludere una dimensione terapeutica. Il gruppo può offrirsi come risposta ad una serie svariata di bisogni che sono tuttavia nella realtà operativa difficilmente definibili e predetermina­bili, in considerazione di un auspicabile evolversi e ampliarsi delle potenzialità di risposta da parte dei servizi socio-assistenziali.

In altri termini, si ritiene che lo «strumento­-gruppo» potrà subire una, notevole dimensione di utilizzo, qualora si proceda nella creazione e trasformazione di asili-nido, scuole materne, scuole dell'obbligo a tempo pieno, nell'individua­lizzazione e organizzazione di momenti di tempo libero, nella possibilità di intervenire più a monte nelle situazioni di disagio socio-economico, in una più efficace diffusione e articolazione degli interventi per l'adozione e gli affidi, nell'attuazio­ne di centri sociali, riabilitativi, terapeutici diurni.

Va comunque esplicitamente chiarito che l'o­peratività del gruppo di per sé non è e non de­ve essere esclusivamente centrata sul bambino ospite, ma deve coinvolgere anche e soprattutto quei momenti che determinano e strutturano la sua relazionalità.

Accanto ad una prevalente dimensione assi­stenziale, e ad una più chiaramente terapeutica del gruppo, non va omessa infine una dimensio­ne operativa nel senso della prevenzione, intesa sia come costante rapporto con gli operatori dei servizi e soprattutto delle équipes territoriali, sia come possibilità di intervento operativo degli stessi operatori di un gruppo (nel caso di chiu­sura di questo) nelle équipes territoriali, in par­ticolare, con un impegno di ricerca socio-econo­mica e di individuazione di situazioni di bisogno, rivolta a prevenire richieste di istituzionalizza­zione. Sarà inoltre necessario predisporre, accan­to a questo impegno di tipo preventivo, un'atti­vità di ricerca sui minori istituzionalizzati del comprensorio.

Per quanto poi concerne più direttamente l'u­tente del gruppo restano da definirsi le modalità di ammissione e dimissione, dopo un'attenta va­lutazione giuridica che tenga conto di una note­vole flessibilità ed elasticità dei criteri stessi di ammissione e permanenza nel gruppo, tali da eli­minare i momenti di attesa tra accertamento del bisogno e risposta ad esso, nonché di possibili differenziazioni circa le modalità di conduzione dello «strumento-gruppo». È da escludersi in modo categorico il concetto del «ricovero», vi­gente nell'ex IMPP, in quanto la configurazione che proponiamo per i gruppi esclude un rapporto di causalità tra diagnosi e cura, cioè fra riscon­tro di insufficienza mentale e turbe comportamen­tali e mistificante prospettiva terapeutica di adat­tamento sociale; si tratta invece di cogliere istan­ze emergenti di tipo prevalentemente sociale ed anche psicopatologico e dare quindi loro una ri­sposta ambientale.

Ogni gruppo avrà inoltre una sua autonomia di gestione dei fondi previsti in bilancio e potrà direttamente provvedere alle diverse spese, sia­no esse relative alla gestione dell'appartamento, di soddisfacimento dei bisogni elementari, di svago, di studio, ecc.

Si dovrà, comunque e sempre, cercare di indi­viduare le modalità di integrazione dei gruppi con le forze e le strutture sociali del territorio e se possibile, con gli stessi genitori, onde eman­cipare gli educatori da un ruolo che rischia di diventare quello del «casalingo» dell'assisten­za, con privatizzazione e carico esclusivo della esperienza su di loro e soprattutto potere impo­stare correttamente un programma di «infor­mazione-formazione», che riteniamo non debba essere né tecnico-funzionale, né generale, bensì creativo e permanente.

Perché questa prospettiva si attui coerente­mente, è indispensabile uno stretto collegamento con tutte le iniziative analoghe e con i servizi socio-assistenziali programmati per un'attività territoriale decentrata. Al fine di evitare modalità di intervento settoriali e interferenze o sovrap­posizioni improduttive e per favorire soprattutto la creazione delle équipes di base, occorrerà tro­vare a livello comprensoriale un comune momen­to di verifica e di coordinamento.

 

(da BRUNO BERNABEI, LUISA PAVIA e ANNA RICCIA­RELLI, Come qualificare il momento assistenziale, in «Ri­vista delle Province», n. 2, febbraio 1974).

 

II

 

Nell'ambito degli interventi a favore dell'infan­zia, particolarmente significativa ci sembra l'ope­razione di deistituzionalizzazione di minori che, iniziata nel settembre 1971 con la sperimenta­zione di due gruppi appartamento nei quartieri S. Donato e Lame, ci ha condotto nel '72, alla chiusura della colonia comunale di Casaglia e all'inserimento di altri 15 bambini in tre nuovi gruppi, aperti nei quartieri Borgo Panigale, Corti­cella e S. Vitale.

La nostra scelta è motivata da considerazioni di ordine educativo e politico. Dal punto di vista politico la classe al governo non ha saputo e voluto rispondere con adeguata opera riformatri­ce ai pressanti bisogni nei settori dell'occupa­zione, della casa, della scuola, della sicurezza sociale: a quei soggetti nei quali la mancata sod­disfazione di questi bisogni ha creato scompensi e situazioni di crisi, la società e la classe diri­gente hanno offerto (e continuano ad offrire) in­terventi assistenzialistici, che comportano trop­po spesso l'internamento in istituzioni totali, la segregazione e l'emarginazione.

Questo tipo di intervento, da un lato, lascia inalterati i fattori che hanno determinato quelle situazioni e dall'altro allontana dal contesto so­ciale quegli individui la cui posizione può diven­tare un « caso di coscienza » del sistema, un po­tenziale elemento di frizione e di sconvolgimento.

Gestire nei quartieri i gruppi appartamento ha lo scopo di mantenere invece le contraddizioni all'interno della società; tenta di costringere il gruppo sociale a prenderne atto, per mobilitarlo nella ricerca di risposte, politicamente e social­mente avanzate, ai bisogni.

Dal punto di vista educativo abbiamo verificato che anche il tentativo di condurre un istituto secondo una metodologia antiautoritaria, è opera razionalizzatrice, che non media, perché non so­no mediabili, le contraddizioni tra l'autonomia personale e la funzionalità istituzionale, i diritti e le esigenze degli ospiti con le necessità della struttura.

Di qui la scelta di un servizio - il gruppo appartamento - che sia a misura del bambino, che si conformi alle sue esigenze, che risponda ai suoi bisogni.

Il modello organizzativo che fino ad ora abbia­mo adottato è abbastanza noto:

1) in ogni appartamento vivono 5 bambini;

2) gli appartamenti sono collocati in palazzi di civile abitazione e sono scelti - per quanto possibile - nei quartieri nei quali risiedono an­che le famiglie dei bambini;

3) in ogni gruppo appartamento operano 3 edu­catori che seguono turni di lavoro per cui, a rotazione, due sono presenti in ogni momento della giornata che i bambini trascorrono in casa e uno soltanto si ferma a dormire la notte;

4) i bambini frequentano le scuole di quartiere, dove è possibile sezioni a tempo pieno, diversa­mente scuola di stato ed educatorio comunale; in tutti i casi in cui non esista un netto rifiuto dei genitori o situazioni oggettive che lo sconsi­glino, i bambini rientrano in famiglia per il fine settimana e per parte delle vacanze estive.

Ci sembra necessario aggiungere alle conside­razioni generali sopra esposte, un'analisi schema­tica sulle differenze strutturali fra l'istituto e il gruppo appartamento, perché quest'ultimo non venga inteso come un micro-istituto decentrato.

A) L'organizzazione dei tempi della giornata in istituto, nonché degli spazi, è rigida, strutturata sulle esigenze di chi vi opera, sulla funzionalità fine a se stessa delle prestazioni.

- Nell'appartamento, a parte il necessario rispetto dei tempi scolastici, ogni altro momento è riempito sulla base degli interessi, dei bisogni, delle motivazioni del gruppo bambini-adulti. Gli spazi sono «a misura d'uomo», arredati secondo gusti personali, utilizzati per le esigenze che via via si presentano.

B) Una macro-struttura, per funzionare, ha biso­gno della divisione e della gerarchizzazione dei ruoli. In istituto esistono ali addetti ai lavori, ed ognuno ha le sue competenze: agli inservienti le pulizie; ai cuochi la confezione dei pasti; il guardaroba alle guardarobiere; i bambini agli in­segnanti; alla direzione la supervisione, il coordi­namento, la responsabilità del funzionamento di tutti i servizi. Si dà così modo ai bambini di veri­ficare subito che c'è chi dirige e chi esegue; li si induce, più o meno consapevolmente, ad obbe­dire ai primi, a sottovalutare - come persone - i secondi.

- Nell'appartamento tutti i problemi di condu­zione e gestione del gruppo, di ordine domestico, di amministrazione del fondo economale, di ca­rattere educativo, sono a carico degli operatori. Tutti e tre gli adulti sono responsabili di ogni aspetto della vita del gruppo e nessuno è più re­sponsabile degli altri. I bambini vengono coinvolti nei momenti reali e decisionali, fanno esperienza di rapporti cooperativi e paritetici tra gli adulti e con gli adulti, non li considerano per i ruoli che ricoprono, ma per le persone che sono.

C) L'istituto limita concretamente (per la rigi­dità dei tempi, per la frequente dislocazione iso­lata rispetto al tessuto urbano) e, comunque, vizia i rapporti interpersonali tra i propri ospiti e quanti, dall'esterno, entrino in contatto con loro. Per «i bambini del collegio», l'approccio con coetanei che vivono in situazioni normali si co­lora spesso di vergogna, di diffidenza, di estra­neità e tutto questo sfocia spesso in atteggia­menti aggressivi. Il ricovero in istituto tende inoltre a deresponsabilizzare le famiglie dal rap­porto con i bambini, diluisce, quando non annul­la, i legami affettivi.

- La situazione di vita in appartamento è co­mune e comunicabile. Si va al cinema come gli altri, si va a scuola con gli altri. Gli incontri, gli scambi di visita non dipendono da alcuna esi­genza estrinseca. Il rapporto con i genitori è faci­litato dalla vicinanza, preparato e sollecitato da­gli educatori.

D) Scopo dell'istituto è continuare se stesso. Gli ospiti si dimettono a norma di regolamento (per raggiunti limiti di età, di scolarità, ecc.) qualunque sia la loro destinazione futura; altri subentreranno.

- Scopo del gruppo appartamento è, al limi­te, esaurirsi. In prima istanza ciò significa esau­rire la sua necessità per quei bambini per cui si è costituito; in seconda istanza - che speriamo non utopistica, ma che prevediamo realisticamen­te a lunghissima scadenza - esaurirsi come istituzione.

Il primo caso comporta, da un lato, l'esigenza di stimolare nei bambini la formazione di perso­nalità equilibrate ed autonome, tali da porli in grado di reggere l'impatto con una realtà fami­liare anche conflittuale; dall'altro comporta un'in­dispensabile opera, di cui si fanno carico gli edu­catori ed altri operatori sociali del quartiere, per sostenere le famiglie, aiutarle a capire i loro problemi o quelli dei figli, lottare insieme a loro per rimuovere le situazioni di carenza che hanno determinato la loro condizione.

L'esaurirsi della necessità del gruppo apparta­mento come tale - o comunque di un servizio analogo che adempia ai medesimi compiti - è di fatto postulabile solo per il momento in cui le sperequazioni economiche e sociali non saran­no più una struttura portante del sistema politico ed uno scotto, pagato dalla società, per questo tipo di sviluppo industriale e tecnologico; ed an­cora, nel momento in cui un organico e democra­tico sistema di sicurezza sociale potrà proficua­mente agire nel senso della prevenzione del disa­dattamento e della tutela della salute fisica e psichica dei cittadini.

La valutazione dell'esperienza dei gruppi ap­partamento, così come si è concretamente rea­lizzata, è globalmente positiva: le maggiori dif­ficoltà si riscontrano nel rapporto con le famiglie e nella insufficienza - a livello di territorio - di servizi di integrazione e sostegno.

All'interno delle enormi limitazioni di potere e di autonomia in cui si muovono oggi gli enti locali, individuiamo alcune possibilità di interven­to, che postulano la necessità di una collabora­zione tra gli enti, le organizzazioni, le associazio­ni della società civile:

- da un lato è importante l'arricchimento del territorio di nuove infrastrutture culturali, ricrea­tive, sportive, e la destinazione di più aree a verde pubblico, affinché tutti i cittadini (dall'in­fanzia agli anziani) possano fruire del loro tempo libero in dimensione comunitaria;

- dall'altro è urgente potenziare i quartieri di servizi e di operatori che consentano interventi sociali più incisivi, risposte più concrete e tem­pestive ai bisogni.

Il secondo limite dell'esperienza, la cui portata non è trascurabile, deriva dalla mancanza di un inquadramento organico del personale dei gruppi, le cui retribuzioni di base e le cui qualifiche sono ancora relative alle mansioni svolte - sempre alle dipendenze del comune - prima dell'inseri­mento negli appartamenti.

Sono inoltre notevoli le difficoltà di reperimen­to di nuovi educatori da destinare alle strutture che dovremo aprire per accogliere altri bambini sui quali pende l'oggettiva necessità di un allon­tanamento dalla famiglia, o che già ora sono ri­coverati in istituto. Infatti, dopo la deistituzio­nalizzazione dei minori ospiti della colonia di Ca­saglia, di diretta gestione comunale, abbiamo provocato e sostenuto un'analoga trasformazio­ne - che entrerà in fase operativa dal prossimo settembre - dell'Istituto Primodì che, tra i suoi ospiti, conta un rilevante numero di minori assi­stiti dal comune. Al più presto avrà inizio un cor­so - aperto ai dipendenti comunali - per qua­lificare operatori da destinare ai nuovi apparta­menti. Alcuni di questi operatori pensiamo pos­sano essere utilizzati, in collegamento con i grup­pi e nell'ambito della prevenzione dell'istituzio­nalizzazione, in un lavoro socio-pedagogico a li­vello di territorio. ~ comunque solo nella prospet­tiva di una radicale riforma della scuola e di un rinnovamento strutturale del sistema assistenzia­le che si potrà concretamente risolvere il pro­blema di una diversa qualificazione e di un nuovo ruolo dell'operatore sociale.

 

(dalla relazione presentata dagli Assessori EUSTACHIO LOPERFIDO e ERMANNO TONDI nella seduta del Consiglio comunale di Bologna del 21 maggio 1973).

 

(*) Prospettive assistenziali, n. 27, luglio-settembre 1974.

 

 

 

 

 

 

DIBATTITO SULLE COMUNITÀ ALLOGGIO A MILANO (*)

 

 

Su iniziativa della sezione lombarda dell'UNIO­NE, mercoledì 18 dicembre 1974 ha avuto luogo a Milano un dibattito pubblico sul tema: «Le co­munità alloggio nell'ambito dei servizi pubblici di quartiere: alternativa all'emarginazione istituzio­nale o semplice paravento di copertura?».

Il dibattito, promosso dalla Federazione pro­vinciale CGIL-CISL-UIL, dalle ACLI, dal Coordina­mento lavoratori dell'assistenza e dall'Unione per la promozione dei diritti del minore, ha fatto il punto sulla situazione delle esperienze di comu­nità alloggio esistenti in Milano e provincia. Do­po il Convegno dello scorso marzo organizzato dall'Unione e dall'ANFAA, ha costituito un se­condo momento di utile dibattito sul tema oltre che un importante passo avanti per l'assunzione dell'iniziativa direttamente da parte del Sindaca­to e delle ACLI.

Nonostante si siano dimostrate un valido in­tervento alternativo all'emarginazione di minori negli istituti, nel manicomio provinciale, nel car­cere minorile, fino ad oggi le comunità alloggio non fanno seriamente parte dei programmi ope­rativi degli enti pubblici milanesi che operano nel settore assistenziale (ECA, Abetina, Comune, Provincia).

Così avviene che le poche comunità esistenti, sorte più per la volontà di alcuni tecnici ed edu­catori che per la scelta politica dei responsabili degli enti pubblici, sopravvivono oggi senza pro­spettiva o, come nel caso dell'ECA o del Giam­bellino, nella prospettiva di chiudere.

Questa situazione, segno di una precisa linea involutiva che sembra passare anche perché ven­gono nel frattempo rafforzate le istituzioni totali più importanti (come Cesano Boscone o l'Ospe­dale psichiatrico Corberi), è stata quindi oggetto del dibattito della serata.

Riportiamo per i lettori alcuni elementi delle esperienze fino ad oggi più significative.

 

Comunità di Desio: costituita nel 1971 per volontà di alcuni medici ed educatori dell'ospedale psichiatrico «Cor­bari», vuole essere un intervento «ponte», per evitare a minori l'emarginazione manicomiale o per consentire di uscirne.

Gli educatori non si limitano a lavorare per i ragazzi affidati, ma vanno alla radice del loro disadattamento, tentando di capire e proponendo soluzioni anche per la situazione più generale, che li ha portati all'istituto o al manicomio. La Provincia paga le spese della comunità, ma l'educatore ha dovuto cercarsi l'appartamento (na­turalmente in edilizia privata e superando le difficoltà de­rivanti dalla «diffidenza» dei proprietari) anticipando i costi del mobilio. Il telefono è stato installato solo nel 1974. La comunità vive come appendice dell'ospedale, con cui il collegamento è più a livello personale che funzio­nale. Per la necessaria integrazione con i servizi e la po­polazione della zona, nel 73 (prima della crisi economica!) si richiede al Comune di Desio che la comunità divenga un servizio comunale. Il disinteresse dell'Amministrazione è però totale.

Nel frattempo (4 anni), la Provincia non programma altre comunità familiari; in compenso vengono assunti nuovi lavoratori all'interno dell'istituzione manicomiale, che in tal modo si rafforza, ma non elimina i problemi di fondo. Su nove medici, ben sei vengono stipendiati come primari.

 

Comunità del Giambellino: viene costituita nel 1973 da un gruppo di lavoratori dell'Abetina, Società per Azioni che gestisce una serie di interventi assistenziali del Co­mune di Milano.

L'iniziativa è dovuta alla pressione di una quindicina di educatori, che, anziché assistere í ragazzi milanesi ne­gli istituti della Società, vogliono riuscire ad intervenire sulla situazione famigliare, che determina il loro allonta­namento.

L'iniziativa trova l'appoggio delle forze sociali e sinda­cali del quartiere (Giambellino, Lorenteggio, Inganni), l'in­differenza dell'Abetina, l'ostilità dell'ECA (che sfratta gli educatori dai locali occupati nell'ospizio di piazza Bande Nere di cui è proprietario e li denuncia), l'atteggiamento contraddittorio del Comune (che dapprima sembra appog­giare l'iniziativa e poi la boicotta).

Dopo una serie incredibile di riunioni, incontri, e scon­tri, è ormai chiaro che la situazione non si può sbloccare. L'assistente sociale del Comune «consiglia» ai genitori di ritirare i ragazzi per continuare ad usufruire dell'as­sistenza e progressivamente la comunità si svuota. Parte degli educatori rinunciano all'iniziativa o danno le dimis­sioni; alcuni insistono. In autunno si svolge il processo contro gli educatori: assolti.

Nel frattempo, tra le continue polemiche Comune di Milano-Abetina, la comunità sembra avere il destino segnato.

Tra poche settimane si avranno cinque educatori re­golarmente stipendiati e nessun ragazzo ospite della co­munità.

 

Comunità ECA: fino alla primavera del 1974 è un pen­sionato per minori, affidati dal Tribunale dei minorenni. Ma l'intervento dell'Ente si traduce solo nel dare un tetto (nell'ospizio per anziani di piazza Bande Nere) ad undici ragazzi provenienti dall'ambiente del Beccaria, con l'attività a tempo parziale di un assistente sociale e quella volontaria di un paio di studenti.

Naturalmente, la difficile situazione non regge; compa­iono ospiti occasionali e con loro la droga. Interviene quindi la polizia; l'ECA si spaventa e decide di chiudere.

A questo punto il Tribunale dei minorenni, forze sociali e sindacali fanno pressione all'ECA, perché affronti più seriamente il problema. A seguito di tale intervento, l'ECA accetta di assumere quattro educatori, di incari­care altrettanti tecnici come consulenti degli stessi, concedere loro libertà educativa e autonomia gestionale alla comunità. Inizialmente, l'esperienza ha successo: i ragazzi si responsabilizzano, sparisce la droga, tutti si met­tono in cerca di un lavoro.

Ma poi gli aspetti burocratici del rapporto ECA-educa­tori riprendono il sopravvento sulla vita della comunità. Saltano praticamente tutti i punti dell'accordo e gli edu­catori vedono perdere ogni credibilità nei confronti dei ra­gazzi. In novembre danno quindi le dimissioni.

 

Comunità di Via Salieri: ospita sette ragazzi subnormali gravi, che sarebbero altrimenti in manicomio, causa le dif­ficoltà in cui versano le famiglie e la gravità dell'handicap.

La comunità è sorta inizialmente come struttura di ap­poggio all'attività dei Centri per gravi gestiti dall'Abetina. Per questo risente naturalmente in questa fase della tensione Comune-Abetina. Nonostante i risultati raggiunti, ora si rende assolutamente necessario lo sviluppo dei rapporti con i servizi pubblici ed è sempre più evidente quanto sia importante la realizzazione di tale iniziativa. Naturalmente sia Comune che Abetina sembrano ancora una volta indifferenti.

 

Altre esperienze: nel frattempo si continua a «vocife­rare» circa una comunità che il Comune di Milano do­vrebbe aprire nella zona di Baggio (ma il Consiglio di zona non ne sa nulla anche se la «voce» è vecchia di alcuni mesi).

Ben più serio è invece il lavoro che un gruppo di ope­ratori sociali sta conducendo per realizzare alternative al carcere minorile. Dopo aver aperto una comunità pochi me­si or sono ha avviato trattative con la zona IA per ottenere l'inserimento fra i servizi sociali del quartiere.

 

Di fronte a queste realtà più che legittima ap­pare quindi la perplessità delle forze sociali mi­lanesi circa la volontà degli enti pubblici di svi­luppare organicamente questo tipo di intervento.

 

(*) Prospettive assistenziali, n. 29, gennaio-marzo 1975.

 

 

 

 

 

 

LEGGE DELLA REGIONE EMILIA-ROMAGNA N. 27 DEL 7-5-1975 «CONCESSIONE DI CONTRIBUTI IN CONTO CAPITALE A COMUNI PER LA COSTRUZIONE, L'ACQUISTO ED IL RIATTAMENTO DI APPARTAMENTI POLIFUNZIONALI» (*)

 

 

La legge della Regione Emilia-Romagna, che riportiamo, costituisce un significativo esempio delle possibilità profondamente innovative che può assumere la legislazione regionale quando c'è la volontà politica. Infatti la previsione di al­loggi polifunzionali destinati sia a persone sin­gole, sia famiglie e nuclei familiari, sia a comu­nità rappresenta una concreta alternativa al ri­covero in istituto.

Sottolineiamo inoltre che gli alloggi polifun­zionali sono destinati ai minori, compresi quelli handicappati, agli inabili ed agli anziani.

 

TESTO DELLA LEGGE

 

LEGGE REGIONALE 7 MAGGIO 1975, N. 27 CONCESSIONE DI CONTRIBUTI IN CONTO CAPITALE A COMUNI PER LA COSTRUZIONE, L'ACOUISTO ED IL RIATTAMENTO DI APPARTA­MENTI POLIFUNZIONALI

 

Art. 1

La Regione Emilia-Romagna, nell'ambito delle iniziative proprie e di quelle promosse dagli enti locali, tese alla concreta realizzazione del prin­cipio costituzionale dell'uguaglianza di tutti i cit­tadini ed in attuazione degli impegni assunti dal­la Statuto regionale, contribuisce a creare le con­dizioni che favoriscano la permanenza del citta­dino nell'ambito della comunità di appartenenza, promuovendone il processo di deistituzionalizza­zione ed il mantenimento di normali condizioni di vita nel tessuto delle proprie relazioni fami­liari e sociali.

In attuazione delle finalità di cui al precedente comma è predisposto un piano di finanziamento, da realizzare a partire dal 1975, per la costruzio­ne, il riattamento e l'acquisto di alloggi polifun­zionali idonei ad ospitare cittadini residenti nei Comuni del territorio regionale, considerati indi­vidualmente e nelle formazioni sociali organizza­te quale la famiglia o il gruppo organicamente costituito per riconosciute finalità di recupero sociale.

 

Art. 2

Interventi finanziari a favore di enti locali territoriali

La Regione favorisce la costruzione, l'acqui­sto, il riattamento di appartamenti polifunzionali mediante l'erogazione di contributi in conto ca­pitale a favore di Comuni, fino alla concorrenza massima del 90% della spesa ammessa a con­tributo.

L'utenza degli appartamenti polifunzionali, qua­li strumenti alternativi al ricovero in istituto, è riservata ai sottoelencati cittadini:

a) minori, compresi gli handicappati, i quali si trovino in stato di abbandono morale o materia­te, temporaneo o permanente, previo assenso dell'esercente la patria potestà;

b) minori, compresi gli handicappati, in stato di bisogno, con il nucleo familiare naturale o affidatario;

c) anziani, inabili o autosufficienti, in stato di abbandono morale o materiale.

L'utenza può essere estesa, ad altri cittadini che versino in analoghe condizioni di abbando­no morale o materiale, in particolare a cittadini dimessi da istituzioni di ricovero.

 

Art. 3

Caratteristiche architettoniche ed urbanistico-residenziali

Gli appartamenti polifunzionali devono essere realizzati su area posta sul territorio del Comune richiedente o, comunque, sul territorio del con­sorzio per i servizi sociali e sanitari cui parte­cipi il Comune stesso.

Gli appartamenti, di cui al precedente artico­lo, sono preferibilmente inseriti in complessi re­sidenziali.

I Comuni possono realizzare gli appartamenti polifunzionali, di cui alla presente legge, in ac­cordo con gli Istituti Autonomi per le Case Po­polari (I.A.C.P.), là dove detti enti abbiano in cor­so l'elaborazione di piani di edilizia residenziale.

La collocazione urbanistico-residenziale deve favorire l'inserimento sociale degli utenti in pre­senza di adeguati servizi sociali o, comunque, facilitare continui interscambi e rapporti tra la comunità dell'appartamento ed il circostante con­testo sociale.

Gli appartamenti devono essere altresì dotati di strutturazione funzionale di accesso ed inter­no privo di barriere architettoniche, per renderli usufruibili anche da cittadini affetti da insuffi­cienza motoria.

La superficie di ciascun appartamento non de­ve essere complessivamente inferiore a circa mq. 50 né superiore a mq. 180.

 

Art. 4

Criteri di gestione

Gli enti assegnatari del contributo garantisco­no la gestione degli appartamenti polifunzionali direttamente o mediante convenzione con altri enti che operano nel settore socio-sanitario.

In detta convenzione devono essere stabilite le modalità di gestione degli appartamenti, coe­rentemente alle finalità previste dalla presente legge.

 

Art. 5

Programmazione degli interventi

I consorzi per i servizi sociali e sanitari, entro il 31 marzo di ogni anno e, per l'anno 1975, en­tro centoventi giorni dalla data di entrata in vi­gore della presente legge, presentano alla Giun­ta regionale il programma degli interventi da rea­lizzarsi nel loro territorio evidenziando esigenze e possibilità di riconvertire altre risorse ai me­desimi fini, e di garantire una adeguata gestione delle strutture che si intendano realizzare.

Il programma, con gli allegati di cui al succes­sivo art. 6, deve essere altresì inviato alle am­ministrazioni provinciali interessate, che promuo­vono ed attuano le opportune forme di coordi­namento ed esprimono, entro trenta giorni dal­la data di ricevimento del programma stesso, il proprio parere sulle iniziative proposte; per l'e­sercizio di tali funzioni possono avvalersi dei co­mitati provinciali previsti al punto 7 - lettera b) del documento allegato alla legge regionale 6 marzo 1974, n. 12.

Il comitato circondariale di Rimini esercita i campiti, di cui al comma precedente, per i con­sorzi costituiti fra Comuni di cui all'articolo 2 della legge regionale 22 gennaio 1974, n. 6, e l'amministrazione provinciale di Forlì.

Il Consiglio regionale approva, su proposta del­la Giunta, il programma annuale degli interventi tesi a realizzare le finalità di cui all'articolo 1, indicando l'ente beneficiario del contributo re­gionale e la quota a carico della Regione.

 

Art. 6

Modalità di presentazione delle domande

Le domande dei Comuni, per l'ammissione a contributo, devono essere indirizzate al presidente del consorzio per i servizi sociali e sani­tari di appartenenza.

I Comuni non consorziati possono inviare la domanda al presidente del limitrofo consorzio per i servizi sociali e sanitari.

Le domande devono essere corredate da:

- atto deliberativo che approva l'intervento ed il relativo piano finanziario dell'opera da realiz­zare, riattare od acquistare;

- relazione sulle modalità organizzative della gestione;

- progetta di massima dell'opera da realiz­zare, riattare ad acquistare.

Le domande, relative ad opere da finanziarsi sull'esercizio 1975, devono pervenire ai presi­denti dei consorzi per i servizi sociali e sanitari entro novanta giorni dall'entrata in vigore della presente legge.

Le domande, facenti carico agli esercizi suc­cessivi, devono pervenire entro il 31 gennaio di ogni anno.

Le domande, per iniziative, non finanziate total­mente o parzialmente nell'esercizio di riferimen­to, concorrono alla formulazione del piano annua­le degli esercizi successivi di validità della pre­sente legge.

 

Art. 7

Assegnazione dei contributi

I consorzi per i servizi sociali e sanitari ap­provano il piano annuale di assegnazione entro trenta giorni dalla comunicazione dell'avvenuta approvazione del piano di ripartizione di cui all'articolo 5 e, nei limiti dei fondi assegnati, prov­vedono alla concessione dei contributi, fissando i termini entro i quali le opere devono essere ul­timate o la data entro la quale devono essere perfezionati gli acquisti.

Qualora il contributo sia riferito alla costru­zione o al riattamento di locali, l'erogazione del­lo stesso agli enti assegnatari viene effettuata secondo le seguenti modalità:

a) primo acconto, pari al 30% dell'importo del contributo, sulla base dell'atto formale di consegna o della dichiarazione di inizio dei la­vori previsti nel progetto approvato;

b) secondo acconto, pari al 60% dell'importo del contributo, sulla base dello stato di avanza­mento dei lavori;

c) 10% in sede di approvazione degli atti di collaudo.

Il contributo, qualora sia riferito all'acquisto di locali, viene erogato in sede di stipula del con­tratto di compravendita di locali già dichiarati agibili per il raggiungimento delle finalità della presente legge.

 

Art. 8

Erogazione dei contributi

I contributi agli enti assegnatari sono erogati, sulla base del provvedimento di liquidazione del­la spesa, dall'organo deliberativo dei consorzi per i servizi sociali e sanitari, previo accerta­mento dell'avvenuta realizzazione delle opere, del riadattamento o dell'acquisto.

Ai fini dell'erogazione dei contributi sono au­torizzate, presso l'istituto incaricato del servizio di tesoreria, apposite aperture di credito a fa­vore di presidenti dei consorzi per i servizi so­ciali e sanitari, sia in conto competenze che in conto residui.

Le aperture di credito suddette non possono superare l'importo assegnato territorialmente ai singoli consorzi nel riparto di cui all'art. 5 della presente legge.

I presidenti dei consorzi per i servizi sociali e sanitari dispongono le erogazioni mediante ap­positi ordini di pagamento a firma dei presidenti stessi e dei responsabili degli uffici amministra­tivi.

Sia gli assegni che gli ordini di pagamento, di cui sopra, dovranno riportare la firma congiunta dei presidenti e dei responsabili dell'ufficio di ragioneria dei consorzi per i servizi sociali e sa­nitari.

Per il funzionamento delle aperture di credito di cui al precedente comma si richiamano, nei limiti della loro applicabilità, le norme di cui agli artt. dal n. 56 al n. 61, compresi, del R.D. 18 no­vembre 1923 n. 2240 e successive modificazioni ed integrazioni.

La Regione Emilia-Romagna provvederà, attra­verso l'adozione di un apposito regolamento, te­nuto conto delle particolari esigenze operative dell'ente medesimo, a disciplinare le modalità di esecuzione della normativa sopra richiamata. Qualora l'onere effettivamente sostenuto per la realizzazione delle opere e degli acquisti sia inferiore alla spesa presa a base per la conces­sione del contributo, lo stesso sarà ridotto dall'organo deliberativo del consorzio in misura pro­porzionale alla spesa accertata.

 

Art. 9

Vincolo di destinazione

Gli immobili, per i quali sono concessi i con­tributi di cui alla presente legge, sono vincolati per la durata di venti anni alla destinazione indi­cata nel provvedimento di concessione.

Il vincolo, di cui al precedente comma, viene trascritto, a cura e spesa dei beneficiari, presso la conservatoria dei registri immobiliari.

Ogni mutamento nella destinazione dell'immo­bile, rispetto a quella per la quale è stato con­cesso il contributo, deve essere formalmente ap­provato dal consorzio per i servizi sociali e sa­nitari.

I contributi, erogati in forza della presente leg­ge, sono cumulabili con altri erogati eventual­mente da enti pubblici o privati, fermo restando che la proprietà dell'immobile è comunque sem­pre riservata al comune assegnatario.

 

(*) Prospettive assistenziali, n. 31, luglio-settembre 1975.

 

 

 

 

 

LA COMUNITÀ ALLOGGIO (*)

SANDRA ROCCHI

 

 

Introdurre il discorso della comunità alloggio, strumento alternativo al tradizionale istituto, si­gnifica riflettere su un tipo di intervento chiara­mente volto a superare l'ottica dell'ormai scon­tata politica assistenziale.

Il discorso della comunità alloggio non può in­fatti essere disgiunto da quello più ampio dei servizi sociali di quartiere e dall'individuazione dell'unità locale come unica formula di ristruttu­razione a livello territoriale di tali servizi.

Non significa quindi razionalizzare strutture e interventi all'interno degli istituti esistenti; non si chiede all'istituto di rivedere la propria strut­tura, modellandola su nuove esigenze meno alie­nanti, di sostituire le camerate e i dormitori con piccoli appartamenti, pensando di ricreare una dimensione più familiare; ma si nega l'istituto in quanto tale perché inidoneo a rispondere alle rea­li esigenze di chi ne dovrebbe usufruire.

Sociologia, psicologia, psichiatria hanno ormai chiaramente evidenziato con una estesissima e profonda letteratura sull'argomento, l'importanza che per la salute mentale dell'individuo e lo svi­luppo della sua personalità, ha il vivere e cresce­re in un ambiente affettivamente ricco e in grado di consentire lo svolgersi di legami duraturi e validi.

Tali scienze hanno ugualmente dimostrato co­me la vita in istituto non possa assolutamente porre le premesse a tali esigenze, ma rischi piut­tosto di fare estinguere ed atrofizzare le funzioni di base della personalità, che viene in tal modo ad acquistare sempre più decisamente modalità di reazione proprie di una dinamica istituzionale patogena.

Più dell'ambiente familiare in senso stretto si pone in luce l'importanza di un ambiente stimo­lante: ambienti comunitari in cui la famiglia tra­dizionale è scomparsa, a volte possono essere più utili di alcune famiglie chiuse.

Margaret Mead, nota antropologa, afferma che «gli attuali istituti per l'infanzia, messi a con­fronto con i sistemi dei primitivi, non sono altro che un mezzo meno radicale per sbarazzarsi, in una forma ammessa, dei bambini che nessuno vuole». E riferendosi successivamente ad una ricerca di Spiro sui bambini nei kibbutz, sotto­linea la capacità intellettuale e l'autonomia del comportamento di chi vive in un ambiente stimo­lante anche se questo non ha più alcun punto di contatto con la famiglia tradizionale.

Ma quali sono i parametri che definiscono un ambiente stimolante e per ciò stesso educativo? Un momento di dinamica vitale da cui non si può prescindere per giungere a quella capacità di integrazione della personalità, che permette la produzione di nuovi modelli, certamente è la comunicazione; così la creatività come momento di formulazione di tali modelli e la partecipazio­ne al sociale come momento di verifica e d'espe­rienza.

È noto invece quanto la struttura istituzionale porti piuttosto alla progressiva diminuzione degli stimoli esterni. Diminuzione che si trasforma spesso in incapacità di vivere la «comunicazio­ne» anche con le persone che vivono all'interno dell'istituzione. In tal modo il coinvolgimento emotivo diventa sempre più labile, allontanando ogni stimolo di creatività fino a quell'isolamento sempre più emarginante ed alienante che dall'angoscia e la depressione sfocia nell'automa­tismo, nell'adeguamento stereotipo alle norme, all'anaffettività.

È chiaro quindi come la ricerca di un modello alternativo debba partire dalla realtà di vita esi­stente nell'istituzione per negarla, rimuovendone alla radice i meccanismi di emarginazione in es­sa presenti.

Pertanto, se l'istituto significa diminuzione del­le possibilità di comunicazione, vuoi per l'allon­tanamento dalla famiglia che dall'ambiente e dal­la zona d'origine, alternativo è certamente un in­tervento in quartiere teso all'inserimento dei ra­gazzi in tutte le sue strutture: tessuto sociale di provenienza, scuola, famiglia.

Di questo intervento, se indispensabile è de­finire e chiarire subito gli obiettivi politici, è ugualmente irrimandabile approfondire i conte­nuti psico-pedagogici e il connesso problema del­la preparazione del personale.

 

*  *  *

 

È pertanto opportuno, senza perdere di vista la necessità degli interventi immediati - aggi principalmente attuati dall'iniziativa di operatori volontari - inquadrare il servizio delle Comunità Alloggio nell'ambito di un'iniziativa dell'ente pub­blico, cui sia ricollegabile direttamente ogni re­sponsabilità politica in ardine al tipo di gestione da esso attuato.

Questo oltre ad inserirsi nella più ampia poli­tica che vede nella costituzione dell'Unità Socio­Sanitaria l'unica possibilità di superare l'attuale gerarchizzazione e burocratizzazione degli inter­venti, privilegiando col decentramento la respon­sabilità dei cittadini, evita anche il pericolo di una eccessiva differenziazione tra le varie Comu­nità Alloggio in ordine al tipo d'intervento edu­cativo, ai soggetti cui si rivolge, alla qualifica degli educatori.

Questo significa anche ricondurre il problema del minore, il «sintomo» che sta alla base della sua stessa emarginazione, nel tessuto sociale d'origine, responsabilizzando, intorno a questo, i cittadini e le forze del quartiere che, in quel «sintomo», potranno riconoscere la loro poten­ziale emarginazione.

Questa presa di coscienza riveste un'enorme importanza politica perché è il tentativo di spie­gare sempre meglio che se esiste un certo tipo di emarginazione é perché esiste un certo tipo di produzione e che la risposta all'emarginazione, dovuta alla mancanza dei servizi sociali, deve essere anch'essa «politica»: una risposta di classe. Dalle motivazioni politiche che, alle esi­stenti strutture di intervento (istituti per minori, case di ricoveri per anziani, ospedali psichiatrici), fanno privilegiare il servizio delle comunità al­loggio, non è difficile scendere alle motivazioni psicologiche ed educative.

 

*  *  *

 

La comunità alloggio si presenta come un pic­colo gruppo, costituita cioè in base a quei cri­teri di composizione, ritenuti ottimali, secondo le esperienze di dinamica dei gruppi già attuate all'estero e in Italia.

Come struttura si identifica così in un allog­gio comune in cui vivono in permanenza un grup­po di minori (da quattro a otto) e degli adulti pro­fessionalmente preparati nel loro compito edu­cativo.

La collocazione di zona di tali alloggi evita la necessità di quello sradicamento, proprio della istituzionalizzazione, che determina, a livello psi­cologico, conseguenze estremamente negative. Conseguenze ricollegabili al venir meno degli abituali riferimenti spaziali, temporali e culturali che configurano il mondo, e quindi «la sicurez­za» di ogni persona.

Entrando nello specifico della psicologia dell'età evolutiva (è delle comunità alloggio riferite a quest'età che vogliamo occuparci in quest'arti­colo) e quindi dello strutturarsi della personalità del minore, individueremo più chiaramente i con­dizionamenti dell'istituto e le potenzialità libe­ratorie della comunità alloggio.

Proponendo la comunità alloggio come alterna­tiva all'istituzionalizzazione non dimentichiamo certamente la priorità da darsi, in ogni situazione ed in ogni età, al ricorso all'adozione speciale ogni qual volta questa sia attuabile.

 

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Seguendo uno schema ormai confermato dai vari studi sulla psicologia dell'età evolutiva, pos­siamo individuare i bisogni essenziali del bambi­no, sinteticamente, nella necessità di intense soddisfazioni affettive, di esperienza di sicurez­za, di un controllo moderato - una presenza «educante» -, della compagnia di altri bambini.

Il mondo interiore, emotivo e fantastico del bambino piccolo è tanto intenso quanto incon­trollabile: la sua capacità di difesa e di controllo delle fantasie cariche d'ansia e di timore è pres­soché inesistente e si costituisce solo nella mi­sura in cui la gratificazione affettiva, il senso di accoglimento e di accettazione è tale da fargli superare l'ipotesi pessimistica che egli ha di se stesso.

Un bambino che non si sente amato - e in un rapporto strettamente personale e «individualiz­zato» - crede di essere cattivo e spesso orien­ta le sue energie verso atteggiamenti aggressivi e distruttivi: di sé e degli altri.

Non sono poche le statistiche che mettono in correlazione la devianza con l'istituzionalizza­zione.

Ugualmente vediamo che la sicurezza viene a strutturarsi nella psiche del bambino solo quan­do egli è in grado di decolpevolizzarsi: e solo co­sì si interrompe quel circolo vizioso fatto di ag­gressività, di senso di colpa, di distruzione e di autopunizione per orientarsi verso condotte co­struttive e di collaborazione: il bambino da «ruo­lo» diventa «persona» - seppur potenziale.

Non è certo la disciplina della vita d'istituto che può portare il bambino a liberare le energie della sua personalità perché non è tanto impor­tante lo svolgersi di abitudini regolari nell'arco della sua giornata, quanto l'esistenza di un rap­porto stabile con alcune persone. Non infermiere, educatori che ruotano, ma delle figure parentali fisse in grado di presentarsi come quel modello di «confronto moderato» e di «presenza edu­cante» cui prima ci riferivamo. Controllo mode­rato, per cui la disciplina diventa qualcosa che si sceglie, e non qualcosa che è imposto dalla rigidità di alcune regole. Presenza educante che giocherà un'importante funzione nel processo di identificazione che il minore dovrà compiere per camminare verso una maturità più piena.

La possibilità di stare in compagnia con altri bambini è costantemente assicurata dalla vita in istituto; ma dagli studi sulla dinamica: di gruppo si deduce facilmente come anche questa neces­sità vitale del bambino piccolo non si realizzi in modo positivo all'interno di un istituto.

Vediamo infatti che quanto più piccolo è un bambino tanto meno è in grado di instaurare un rapporto emotivo con troppi coetanei; e che tale situazione lo porta all'angoscia, al sentirsi «ano­nimo» e sopraffatto: molto lontano quindi dalla socializzazione. Questa, perché si realizzi, deve essere inoltre sollecitata in un ambiente estre­mamente libero che garantisca al bambino la sua piena possibilità di esprimersi al di là di ogni schema o regola prefissata.

La Isaacs parlando delle esigenze di socializ­zazione della infanzia afferma infatti che il bam­bino: «ha bisogno di contatti variati, ma questi debbono essere vivi e reali».

 

*  *  *

 

I bisogni essenziali, relativi alle prime tappe di maturazione della personalità, ci portano chia­ramente ad evidenziare quanto l'istituto per la sua struttura, per l'anonimato dei rapporti che si instaurano è più facilmente causa di «deviazio­ni» (sulle cui tipologie si potrebbe sviluppare un amplissimo discorso) che di formazione edu­cativa.

Perché la comunità alloggio non sia alternativa all'istituto solo per le differenti dimensioni strut­turali e per la sua collocazione in zona - come servizio di quartiere - ma anche per le sue di­namiche educative, occorre che gli educatori siano preparati a vivere con consapevolezza ed esperienza il loro rapporto con i minori. Certa­mente non facile, se ci ricolleghiamo al rapido esame tracciato dei bisogni essenziali per la crescita di una personalità sana, e pensiamo vi­ceversa quanto questi siano stati disattesi nei confronti di quei soggetti che vengono a trovarsi nella comunità alloggio.

Qualunque sia la causa che porta il minore in tale comunità, certamente ha determinato in lui situazioni di deprivazione e di frustrazione, di gravi conflitti.

E il suo modo di esprimersi sarà il più diverso, a seconda dell'età e della gravità delle carenze subite.

L'opera rieducativa della comunità alloggio ini­zia sempre col passo primo ed indispensabile dell'accettazione piena, dell'accoglimento totale del minore e di quanto questi vuol comunicare.

Non sempre l'approccio di comunicazione, che il minore tenta, è il più gratificante per l'educa­tore che deve avere quindi la capacità, per pre­parazione professionale e maturità propria, di saper accettare e dirigere positivamente anche lunghe fasi di opposizione, evitando il pericolo di una rottura psicologica fra il presente e il pas­sato del soggetto, che metterebbe molto in for­se ogni possibilità di guarigione e di recupero.

Il minore nella misura in cui ha vissuto uno stato di angoscia, nella sua famiglia d'origine o in una precedente collocazione istituzionale, si crea tutta una barriera di difese inconsce che lo proteggano da nuove frustrazioni. Ed è diffuso l'atteggiamento di «mettere alla prova» i nuovi educatori con comportamenti ostili, di rifiuto, od aggressivi per raggiungere in questo modo la certezza di essere veramente accettati, di sen­tire soprattutto accettata quella parte di sé «cattiva», ostacolo all'instaurarsi di ogni valido rapporto.

La capacità di ascolto degli educatori, la loro «sicurezza» educativa che non li porrà mai co­me quelle figure «buone» in grado di cancellare quelle «cattive» precedentemente incontrate e, a volte, anche interiorizzate dal minore, è deter­minante perché questi si liberi da ogni atteggia­mento di cautela, di circospezione: dal timore stesso di amare.

È determinante anche perché il processo di identificazione non sia vissuto come conflitto tra i modelli vecchi da scartare (con tutti i sensi di colpa conseguenti), e quelli nuovi che gli si pre­sentano più gratificanti, ma come una rielabora­zione progressiva dei suoi vissuti, quelli presen­ti e quelli passati, in cui lentamente possa rie­mergere la capacità di «sentirsi buono» - per­ché amato - e così la fiducia e la possibilità di intrecciare rapporti costruttivi e di collabo­razione.

È questo l'inizio della strada verso la ricerca di una identità, che sarà tanto più decisa e strut­turata, quanto più continuerà ad elaborarsi all'in­terno di un rapporto in cui il minore si sentirà sempre soggetto e persona.

In questa fase incombe ancora su di lui il Peri­colo, per l'impreparazione degli educatori, di es­sere oggettivato, e quindi negato come persona, e visto solo come «ruolo», come «quel mino­re» che gli educatori vorrebbero che egli fosse, riproponendogli così ancora rana volta i confini, anche se strutturalmente più limitati, di un'isti­tuzione totalizzante.

Di qui l'importanza vitale, per i minori e per gli educatori, che la comunità sia inserita nel quartiere e le sia pienamente garantita la possi­bilità di rapporti costruttivi e positivi nel sociale circostante.

L'instaurarsi anche di un rapporto terapeutico valido all'interno della comunità alloggio, avreb­be breve durata se questa si presentasse come un microcosmo estraneo alla realtà, guardata co­me un ghetto di stigmatizzati, senza la possibilità per i minori di vivere tutto l'aspetto socializzante di quei momenti di confronto, di dialogo, di soli­darietà con altri coetanei e gruppi d'amici.

Ugualmente anche gli educatori più preparati non potrebbero svolgere pienamente la loro ope­ra educativa senza i necessari supporti speciali­stici per i casi più difficili (per esempio la psico­terapia); così senza la possibilità di una fre­quente verifica di quanto il loro impegno educa­tivo comporta.

Verifica che se richiede l'esistenza di un'équi­pe di servizio sociale e psicologico nella zona, necessita anche della partecipazione solidale di tutta la gente del quartiere.

 

 

Pubblichiamo due documenti di Comunità al­loggio di Milano: nate da una comune esperienza quella di Via Castillia, dove la comunità si è tro­vata a vivere in condizione di precarietà per la sua impostazione stessa volontaristica e di bene­ficenza, esse hanno poi elaborato nuovi elementi per uscire dall'improvvisazione, e creare nuovi rapporti con l'ente locale e con tutte le forze po­litiche del quartiere.

 

I

 

LA COMUNITÀ NUOVA DI VIA ZUMBINI

 

La necessità di avere delle «comunità» è nata per sopperire ai bisogni di alcuni ragazzi usciti dal carcere minorile di Milano «Cesare Beccaria».

I bisogni erano sostanzialmente quelli di avere un tetto ed un ambiente rassicurante.

Abbiamo dato avvio così, circa due anni fa, al­la prima esperienza in via De Castillia; nella co­munità vivevano inizialmente quattro ragazzi con due educatori, uno dei quali lasciò la medesima per trasferirsi nella comunità di via Compagnoni.

Le difficoltà incontrate furono enormi, e si pos­sono riassumere in:

difficoltà di carattere economico, scarso nume­ro di educatori ed inesperienza degli stessi, l'ap­partamento che era fatiscente, impossibilità della comunità di avere contatti con l'esterno essen­do situata al quartiere Isola dove i problemi fon­damentali della gente che vi abita (proletariato, sottoproletariato, disoccupati) sono quelli di as­sicurarsi la sopravvivenza quotidiana.

Da questa esperienza è nata l'esigenza di tra­sferirsi in una zona più ricettiva, dove ci fosse la possibilità per i ragazzi di crearsi nuove ami­cizie, ed avere un ambiente con un minimo di confort.

A marzo dell'anno scorso ci siamo trasferiti in via Zumbini impostando la comunità in maniera diversa alla luce dell'esperienza precedente.

Abbiamo portato a tre il numero degli educa­tori per dare a questi maggior possibilità di con­fronto e di spazio.

L'impostazione pedagogica si basa sfruttando le relazioni che nascono spontaneamente all'in­terno delle comunità per far prendere coscienza ai ragazzi delle proprie capacità e della realtà circostante.

Questa dialettica tra educatori e ragazzi deve tener conto, nella prospettiva di una conoscenza della realtà, della storia di ogni ragazzo.

In questa dinamica di relazioni, educatori-ra­gazzi, ragazzi-ragazzi, educatori-educatori, scatu­riscono delle norme di vita in comune, quali il rispetto delle reciproche esigenze e la parteci­pazione alla gestione della casa (partecipazione diversa date le storie diverse) come momenti socializzanti.

Poiché la finalità della comunità è quella di far prendere coscienza della realtà e questa si acqui­sisce con l'incontro-scontro con la medesima, si stimola il ragazzo a fare esperienze concrete nei diversi campi (scuola, lavoro, quartiere).

Data la diversità di storie di ogni ragazzo per il passaggio da una situazione quasi passiva (di alcuni di essi) ad una situazione di partecipazio­ne è importante che vi siano attività in cui possa realizzarsi.

Abbiamo pensato quindi alla creazione di labo­ratori aperti anche ai ragazzi del quartiere, dove sia possibile oltre che imparare un mestiere po­ter guadagnare un minimo per rendersi finalmen­te responsabili dei reali problemi.

 

II

 

LA COMUNITÀ DI VIA COMPAGNONI

 

L'idea di realizzare una comunità alloggio, pre­posta all'inserimento nella società di ragazzi usciti dal carcere minorile, venne attorno al me­se di ottobre del '73 al cappellano dell'istituto Beccaria, Don Gino Rigoldi.

Alla luce di esperienze già da alcuni anni in corso in altre parti d'Italia e, in particolare, sul modello della esperienza del gruppo Abele di To­rino, si progettò, prima ed unica nel suo genere sul territorio metropolitano, una comunità-allog­gio che rispondesse a due ordini di bisogni ma­nifesti nei ragazzi ex-detenuti:

1. bisogni di ordine materiale. Infatti il ragaz­zo, dopo il periodo di segregazione in carcere, periodo nel quale non solo egli interiorizza il ruolo del «delinquente», ma ne perfeziona an­che le tecniche, viene investito appena fuori da gravi difficoltà di sopravvivenza e di inserimento tali da trovarsi, quasi certamente, a chiedere aiu­to e protezione al «giro» di cui già faceva parte.

2. Bisogni di ordine psicologico. Attraverso lo strumento comunità si apre per questi ragazzi la possibilità di individuare i loro problemi psico­logici e umani come comuni ad altri e di essere aiutati e sorretti in questo dalla presenza di fi­gure di, riferimento adulte.

Passati solo alcuni mesi dall'avvio, l'andamen­to e la possibilità di continuazione dell'esperien­za venivano seriamente pregiudicati da alcune gravi difficoltà, sintetizzabili in 4 punti:

1. Il carattere privatistico e l'aleatorietà della beneficenza che rendeva precaria la sopravviven­za economica della comunità;

2. Il problema della gestione interna e dell'iso­lamento di chi viveva nella comunità;

3. La condizione di volontari a tutti gli effetti degli educatori;

4. Le dimensioni minime e le condizioni abita­tive pessime dell'appartamento situato in via De Castillia (zona 2).

 

Gruppo e definizione d'intervento

Nel frattempo alcuni operatori sociali del set­tore della c.d. rieducazione, venuti a conoscen­za della iniziativa del cappellano del Beccaria e avendo questi chiesto la loro collaborazione per risolvere i problemi suddetti, si costituirono co­me gruppo attorno alla comunità-alloggio, rite­nendo l'esperienza interessante e suscettibile di importanti sviluppi.

Avendo chiara l'analisi della situazione e del settore, impegnati nella ricerca di proposte e in­terventi che superassero la logica dell'esclusio­ne (1), il gruppo, seppure a livello volontario, de­cise di assumere la gestione di questo tipo di in­tervento, dandogli un significato che andasse al di là della prospettiva assistenziale per potersi trasformare in un momento politico d'intervento nel campo della delinquenza minorile.

D'altra parte apparve chiaro che un intervento politico sul fenomeno non può prescindere:

1) dal coinvolgimento della classe operaia per­ché, respingendo l'analisi borghese del fenome­no della devianza, possa incidere con le pro ,arie lotte là dove il fenomeno ha le sue radici ultime, cioè nei rapporti di potere a livello di produzione;

2) dallo spostamento dell'asse operativo dall'individuo al collettivo, dall'istituto al territorio, là dove il fenomeno si manifesta, per rompere la logica dell'emarginazione, riportando cioè all'esterno tutte quelle contraddizioni che il si­stema capitalista violentemente reprime e na­sconde.

 

Rapporto con la classe operaia - Sit Siemens

L'occasione per affrontare il tema del coinvol­gimento della classe operaia fu data da un do­cumento sindacale della Camera del Lavoro (do­cumentazione camerale n. 9) che proponeva il discorso del rapporto tra la classe operaia e la questione del carcere.

S'instaura quindi un rapporto con la Camera del Lavoro che ci mette in contatto con la Sit Siemens.

L'ipotesi iniziale era quella di fare aprire al Consiglio di Fabbrica una vertenza sul posto di lavoro per ex-detenuti. Essendo però il Consiglio di Fabbrica piuttosto deresponsabilizzato al pro­blema dell'emarginazione, chi si dimostrò invece coinvolto sul problema furono le avanguardie operanti al suo interno. Accanto ad esse furono anche coinvolti alcuni lavoratori della Siemens che erano interessati più che altro a livello uma­nitario.

La proposta di agganciare altre fabbriche non viene realizzata e si approfondisce invece il rap­porto con la Siemens.

A maggio del '74 si tiene in Val Formazza un convegno organizzato da diversi operatori so­ciali insieme ad alcuni operai della Siemens con la partecipazione dei ragazzi della comunità-al­loggio.

Proposto come ricerca di una linea da seguire all'interno del gruppo diviene di fatto un incon­tro di studio e occasione, per molti che non ope­ravano nel settore, di avvicinarsi al problema del­la rieducazione.

Si formarono tre gruppi di studio sui seguen­ti temi:

1. Comunità; 2. Centro Sociale; 3. Fabbrica.

Per quanto riguarda il gruppo fabbrica sono emersi questi problemi:

a) rapporto Beccaria-fabbrica;

b) rapporto zona-fabbrica;

c) significato dell'emarginazione nella lotta di classe;

d) inserimento degli ex-detenuti in fabbrica;

e) prospettive di superamento dell'istituzione carceraria;

f) come portare il problema all'interno della fabbrica; contatti con il CdF;

d) difficoltà di espressione in fabbrica da parte dei ragazzi che hanno fatto l'esperienza del car­cere;

h) partire dai bisogni reali del ragazzo (lavoro retribuito).

Nel periodo subito successivo al convegno in Val Formazza, il rapporto con il gruppo di operai si andò sempre più affievolendo fino a scom­parire.

Da parte degli operai della Sit Siemens si ri­velò la grossa difficoltà di generalizzare il pro­blema a livello di massa perché, all'interno della fabbrica, esistevano problemi contingenti ogget­tivamente prioritari da affrontare e perché la sen­sibilizzazione sul problema dell'emarginazione in fabbrica richiedeva un lavoro difficile e a lungo termine.

Da parte del gruppo di operatori, da un lato si tendeva a trovare una soluzione ai problemi im­mediati che scaturivano dalla comunità; dall'al­tro si privilegiava in questo periodo il collega­mento con forze più responsabilizzate sul pro­blema.

Il rapporto con la fabbrica, anche se fallito in breve tempo, fu molto importante per le indica­zioni che da questa esperienza scaturirono in un secondo tempo.

1. La via scelta per attuare il coinvolgimento della classe operaia sul problema della devianza minorile secondo l'ipotesi di intervento, era ina­deguata.

Infatti, ad essere coinvolti nell'esperienza, non era la fabbrica nel suo complesso, bensì un grup­po di operai che vi si accostavano più su moti­vazioni personali che altro, creando così un rap­porto solidaristico con la comunità.

D'altra parte, l'instaurarsi di tale rapporto non poteva avvenire diversamente, dato il carattere ancora essenzialmente privato dell'esperienza, dove anche il gruppo di operatori non rappresen­tava altro che l'esigenza di continuità di un'espe­rienza di cui si scorgevano i possibili collegamen­ti ma non i modi in cui attuarli.

2. Fermo restando l'ipotesi di collegamento con la classe operaia: l'indicazione in positivo fu di spostare l'asse di intervento dalla fabbrica al ter­ritorio dove la classe operaia vive ed esprime grossa parte dei suoi interessi.

In questo quadro ci si indirizzò verso un rap­porto con le strutture territoriali della classe ope­raia organizzata, i C.U.Z.

 

Via Compagnoni - Convenzione ENAIP-MGG

In tutto questo periodo all'interno della comu­nità avvennero diverse trasformazioni che, se da una parte furono dei miglioramenti, dall'altra po­sero in luce abbastanza presto i limiti e le diffi­coltà, scaturite peraltro, dall'impostazione stessa di questa esperienza.

 

Via Compagnoni

In primo luogo si cercò un alloggio sostitutivo di quello di via De Castillia, date le sue scarse possibilità abitative.

L'unico appartamento che si riuscì a reperire fu in via Compagnoni, situato quindi nella zo­na 2, a stratificazione medio-borghese che si di­mostrò subito la meno adatta alla verifica delle nostre ipotesi. Principalmente per due motivi:

1. Nella zona che fa parte del centro di Milano il fenomeno della devianza è un problema poco sentito o per lo meno non viene vissuto in prima persona dagli abitanti;

2. Non esistono le possibilità di incidere nel­la zona sulle cause strutturali che producono il gesto deviante.

La conseguenza più grossa fu l'impossibilità di aprirsi al quartiere e quindi di non riuscire ad in­staurare il necessario confronto su questi temi con le forze sociali operanti nel territorio e rele­gando i ragazzi in un ambito privato e chiuso.

 

Convenzione

Inoltre, analizzata la condizione di precarietà in cui viveva la comunità-alloggio e data l'urgen­za di risolvere in qualsiasi modo (purché non fos­se quello volontaristico e di beneficenza) il pro­blema finanziario, condizione indispensabile non solo per superare la precarietà dell'esperienza, ma soprattutto per poter impostare un più glo­bale programma di intervento, si giunse alla de­cisione di coinvolgere l'Ente Nazionale Acli per l'istruzione Professionale (E.N.A.I.P.), e di otte­nere, attraverso questo ente, già da tempo im­pegnato nel settore della c.d. rieducazione e nel progetto e nella realizzazione di piccole comuni­tà come alternativa all'istituzionalizzazione, una convenzione con il Ministero di Grazia e Giusti­zia (Direzione Generale Istituti di Prevenzione e Pena - Centro di Rieducazione Minorenni, Milano) per una comunità alloggio in cui siano ospitati «n. 10 giovani di sesso maschile dei quali 5 in internato e 5 inseriti in situazione esterna, per i quali la competente autorità Giudiziaria Minori­le abbia disposto tale misura rieducativa» (dal testo della convenzione).

La risoluzione immediata di questo problema, fu coscientemente ottenuta in termini politici di compromesso e di ambiguità in quanto l'ENAIP è sostanzialmente una struttura inaccettabile (as­sistenza privata) anche se gestita in modo ac­cettabile.

D'altra parte la scelta risultava obbligata data l'irrilevanza dell'esperienza che non consentiva la richiesta di gestione da parte dell'ente locale.

Se questa scelta ha permesso da un lato la continuità dell'esperienza, dall'altro l'ideologia assistenziale chiusa ed arretrata del MGG ha pesato fortemente sulla comunità-alloggio.

Infatti un'attenta lettura della convenzione ri­vela tra le righe qual è la politica del Ministero di Grazia e Giustizia (nella fattispecie del Centro di Rieducazione per i Minorenni di Milano) e la sua reale posizione rispetto a esperienze nuove di rieducazione come te comunità-alloggio. In mo­do particolare si evidenzia come:

l. Essa sia concepita essenzialmente come un piccolo istituto più efficace dove le piccole di­mensioni, il basso numero di ragazzi e la mancan­za di controlli rigidi rendono meno evidente la finalità repressiva e custodialistica dell'istituzio­ne rieducativa. Una razionalizzazione, quindi, un mutamento formale che lascia tutto inalterato: infatti non si fa nessun riferimento alla necessità che la comunità si apra al quartiere, o più in ge­nerale alle forze sociali.

Al Ministero basta che:

ART. 3 «... si provveda alla rieducazione e al progressivo riadattamento sociale del minore... in particolare a far loro seguire i corsi scolastici d'obbligo... favorendo soprattutto l'inserimento lavorativo esterno...».

2. Come viene sottolineato il legame e il con­trollo alle strutture istituzionalmente preposte alla rieducazione, cioè, per esempio, il Tribunale dei Minorenni.

ART. 1 «... si obbliga ad ospitare nella comu­nità maschile di Milano n. 10 giovani... per i quali la competente autorità giudiziaria abbia disposto tale misura educativa».

ART. 5 «la comunità non riceverà minori di diversa provenienza».

 

Si possono fare due considerazioni:

a) si riconferma la specificità della comunità come servizio per soli minori disadattati e già segnalati in Tribunale, quindi non una comunità aperta a tutti i minori che ne abbiano bisogno per motivi diversi, che si configuri come servizio aperto e sul quale non cada nessuna stigmatiz­zazione giuridico-punitiva;

b) come conseguenza del punto precedente si chiarisce come si è ancora lontani da una ge­stione pubblica e collettiva di questi problemi che restano ancora sotto l'incontrastato control­lo dell'apparato giuridico che non intende spar­tirli con nessuno.

 

Ruolo degli educatori

Un altro grosso fattore determinante dell'an­damento dell'esperienza è stato il ruolo che gli educatori si sano trovati a rivestire. Il MGG par­la chiaro: nella convenzione a proposito degli educatori si limita a definire la specificità del ruolo in questi termini:

«gli educatori sono tenuti a trasmettere al Tri­bunale dei Minorenni... informazioni sulla con­dotta del minore, sulle sue relazioni con la fa­miglia,... sul profitto scolastico e il grado di ria­dattamento sociale ottenuto».

Come tutto ciò avvenga, quali siano gli stru­menti e le condizioni attraverso le quali un reale inserimento sociale possa avvenire non si dice. Nel contempo però il MGG eroga rette che risal­gono a dieci anni fa, non si fa carico in nessun modo della formazione degli educatori, esclude, come abbiamo visto, una qualsiasi apertura al territorio, che non sia solo affidata alla discre­zione della «buona volontà» degli operatori, sen­za contare che non si accenna neppure per sba­glio a un benché minimo piano educativo.

La diretta conseguenza è che gli educatori as­sumono un ruolo custodialistico in forma atte­nuata (mistificato cioè dalla caratteristica di li­bertà della comunità e delle sue piccole dimen­sioni) e quindi riconducibile più che altro alle figure parentali.

Anche l'Ente gestore, l'ENAIP, parla chiaro: d'accordo sul progetto politico nel complesso, nei fatti la comunità non può avere più di due educatori in quanto i finanziamenti dell'MGG so­no scarsi e non li si vuole integrare. L'unico ri­medio che viene proposto è l'utilizzo di obiettori di coscienza come forza lavoro non considerando che il volontariato è incompatibile coll'ipotesi di intervento. La conseguenza di questa linea è sta­ta che la professionalità degli educatori si ridu­ceva a percepire lo stipendio, mentre, per le esi­genze interne, ci si trovava a coprire tutto l'arco della giornata e della notte vivendo in comuni­tà ventiquattr'ore su ventiquattro, assumendo praticamente il ruolo di tuttofare e supplendo, con la propria persona alla mancanza di persona­le di servizio e di mezzi economici adeguati.

Altre difficoltà:

l'isolamento dal territorio con la conseguenza diretta che le tensioni generate da problemi reali (per esempio la mancanza di posti di lavoro) con­vergevano tutte all'interno della comunità, appe­santendone l'andamento, rendendo difficile la convivenza e soprattutto facendo sì che gli edu­catori fossero nella scomoda e deleteria posi­zione di mediazione fra i ragazzi e la realtà;

la conseguente non definizione del ruolo degli educatori come lavoratori a tutti gli effetti che la­sciava spazio alle riproposizioni della figura pa­terna e materna;

l'inesperienza degli educatori in alcun caso sor­retta da momenti di formazione ma solo dall'«amicizia» di alcuni esterni;

l'immissione di ragazzi attuata non tenendo conto della capacità della comunità, delle esigen­ze dei singoli o peggio ancora degli operatori che avevano seguito í singoli ragazzi fino a quel mo­mento e che si trovavano nell'impossibilità di fare proposte concrete e complessive;

il rapporto della comunità con il gruppo che nell'ipotesi avrebbe dovuto prendersi carico dei problemi interni il cui coinvolgimento invece fu sempre parziale e privatistico poiché in questo ambito più che negli altri violentemente emerse il limite strutturale del gruppo cioè il volontariato (limitata disponibilità di tempo e partecipazione subordinata agli impegni di lavoro);

mancanza come gruppo di una precisa identità professionale e quindi anche scarsa incisività e forza a livello di contatti e richieste.

L'intreccio di tutti questi fattori fu la causa per cui nella comunità si crearono dinamiche fra i ragazzi e fra questi e gli educatori non gesti­bili solo sulla base delle capacità personali o peggio della « buona volontà » degli educatori.

Veniva riproposto nei fatti ai ragazzi un misto di piccolo istituto (con caratteristiche proprie ma pur sempre nella stessa logica) e di una fa­miglia.

Questo non permetteva né l'attuarsi di un pro­getto di deistituzionalizzazione né, a livello edu­cativo, la possibilità di aiutare i ragazzi a supera­re la dipendenza e la passività a cui sempre so­no soggetti a tutti i livelli per arrivare invece alla gestione in prima persona della loro vita.

Infatti è nostra convinzione che la comunità alloggio ha una funzione oggettiva di stimolo sia alla sensibilizzazione su questo grave problema sociale sia alla presa in carico e alla lotta alle cause del disadattamento, nella misura in cui a livello soggettivo, cioè di ciascun ragazzo che della comunità fa parte, risponde alle esigenze di configurarsi a pieno diritto come uomo e come soggetto politico, imparando quello che al di là di mistificazioni di sorta, la nostra società non solo non insegna ma non permette, imparando cioè a compiere una scelta di vita, a gestire le proprie carenze e a « costruire insieme agli al­tri », in una visione collettiva di cambiamento della società, acquisendo a questo scopo quegli strumenti di lettura dei meccanismi della realtà che a questi ragazzi sono sempre mancati e la cui mancanza molto ha contribuito a portarli al «gesto deviante», come ribellione individuali­stica e non cosciente e per questo distruttiva più ancora che degli altri o delle cose, di se stessi.

Concretamente perché questo approccio diret­to e costruttivo colla realtà possa avvenire posi­tivamente, occorre individuare e favorire momen­ti fondamentali di socializzazione (attività scola­stiche, gestione del tempo libero ecc.) attraver­so i quali il ragazzo acquisti una dimensione collettiva dei suoi problemi e la coscienza che per la maggior parte solo collettivamente si pos­sono risolvere e la collettività d'altra parte ri­conosca come suoi i problemi del ragazzo, non considerandolo più un «diverso». L'integrazione della Comunità nel territorio, in­dispensabile dal punto di vista politico, veniva così riproposta come indispensabile dal punto di vista educativo.

Si può dire comunque che questo fatto ha per­messo un maggiore approfondimento dell'analisi del settore assistenziale e ha dato vita ad alcune iniziative di sensibilizzazione nel quartiere (per esempio tramite l'allestimento di una mostra fo­tografica sull'emarginazione).

Da questa esperienza abbiamo ricavato il con­vincimento dell'importanza fondamentale del rap­porto con il gruppo ACLI come un tramite non solo per conoscere realisticamente le caratteri­stiche del quartiere, ma per aggregare intorno al progetto i lavoratori e le forze sociali presenti in esso.

 

Conseguenze verificatesi all'interno della comunità

Il mancato reperimento dell'alloggio così come è stato determinante per la definizione dell'in­tervento a Baggio ha anche fatto emergere la contraddizione tra la conduzione della comunità e l'ipotesi di lavoro a Baggio, nella quale gli edu­catori, assieme al gruppo (2), erano assorbiti.

Rispetto alle condizioni in cui viveva la comu­nità che abbiamo esaminato sopra, in questo pe­riodo si aggiungono una serie di elementi nuovi:

1) Gli educatori devono affrontare due tipi di lavoro nettamente differenziati, l'uno interno l'al­tro esterno alla comunità, con l'aggravante della distanza tra i due posti di lavoro posti, rispetti­vamente, ai lati estremi della città (città studi­-Baggio);

2) Si aggrava il problema della formazione de­gli educatori che risulta sempre più inadeguata rispetto al nuovo ruolo che essi vanno acqui­sendo;

3) Emerge sempre più pesantemente il limite del gruppo che via via va scomparendo;

4) I ragazzi risentono negativamente della pre­senza, quasi dimezzata, degli educatori. E si tro­vano a:

5) Dover assumere maggiori responsabilità, bruscamente e al di fuori di una loro scelta, per es., nella conduzione della casa;

6) In una situazione già precaria vengono im­messi nuovi ragazzi senza una presenza costante degli educatori che servisse ad affrontare positi­vamente le dinamiche conflittuali che si venivano a determinare.

Appare evidente la profonda diversità con la quale gli stessi problemi si sarebbero affrontati nella situazione del trasferimento della comuni­tà a Baggio.

La possibilità di rendere partecipi in prima per­sona i giovani dello sviluppo del progetto inizia­le, avrebbe, se non altro permesso di affrontare i problemi, che si sarebbero egualmente creati, ma non come conseguenza da subire, bensì co­me difficoltà da affrontare, e superare, in una di­mensione non angustamente limitata all'ambito chiuso della comunità, ma in un confronto con la nuova situazione ambientale ed eventualmente con le forze sociali attive.

Non crediamo che il trasferimento a Baggio avrebbe automaticamente e miracolosamente ri­solto ogni problema, siamo certi che ne avrebbe mutato profondamente la qualità, permettendo ad educatori e ragazzi, ciascuno conservando la propria soggettività, esigenze e problemi, di por­si concretamente nella realtà uscendo dal sem­plice rapporto interpersonale, e creando le pre­messe di un lavoro comune.

 

Precisazioni riguardo al carattere dell'intervento sul territorio

Si può dire che l'ottobre '74 inizia una nuova fase caratterizzata dalla scelta della zona in cui spostare la comunità e dai collegamenti che si instaurano con le forze in essa presenti ed ope­ranti.

Infatti, come abbiamo visto, sia i problemi strutturali della comunità sia i problemi pedago­gici di rapporto con i ragazzi e di definizione del ruolo degli operatori interni, misero all'ordine del giorno il trasferimento della comunità-alloggio in una zona realizzabile nei termini sopra espo­sti, cioè nel duplice senso di responsabilizzazio­ne del quartiere al problema della devianza mi­norile e possibilità di rapporti diretti con la real­tà da parte dei ragazzi.

 

Scelta della zona: Baggio

La scelta fu per la zona 18 Baggio, in base ad alcune caratteristiche in essa presenti:

1) Tipica stratificazione sociale della zona (ri­levante presenza proletaria);

2) Quartiere dormitorio;

3) Zona nella quale il fenomeno della «devian­za» si presenta in modo massiccio;

4) Possibilità di collegamento con un gruppo di operatori sociali dipendenti da vari enti che già lavorano all'interno del territorio su un'ipo­tesi di collegamento e coordinamento.

Scelta la zona, vengono affrontati i seguenti problemi:

I° - Ricerca dell'appartamento in cui inserire la comunità-alloggio a Baggio: questa ricerca era ri­volta, ovviamente, all'interno dell'edilizia pubbli­ca, per due motivi di fondo: uno di carattere eco­nomico e l'altro di carattere politico. Solo l'edi­lizia pubblica, infatti, permette o può permettere, che, date certe condizioni e certi rapporti di for­za, possa esistere un «prezzo politico» per l'af­fitto (nel bilancio della comunità-alloggio, in base alle rette pagate dal M.G.G., non era, come non è, possibile stanziare per l'affitto che una somma assai esigua, praticamente formale, come lo era per l'appartamento di V. Compagnoni, ceduto da un'istituzione cattolica al Cappellano del Becca­ria) e, nel contempo, è l'edilizia pubblica che, in primo luogo, deve farsi carico, in base al suo specifico, di una serie di problemi quale quello dell'emarginazione, che sono propri della collet­tività in questo momento storico.

A livello di zona ci si è rivolti al consiglio di zona, in forma del tutto strumentale, perché si prendesse carico, attraverso lo IACP del nostro problema.

Mentre il presidente del C.d.Z. era interessato alla nostra proposta e quindi riteneva valido por­tare all'interno del quartiere un discorso sull'e­marginazione, i capi-gruppo di altri partiti e i membri del suo stesso partito (la Democrazia Cristiana) rimanevano su una posizione di chiu­sura riguardo a qualsiasi iniziativa, che presen­tasse una minima caratteristica innovativa, quin­di c'era una sostanziale mancanza di volontà poli­tica a livello di vertice.

Il° - Conoscenza e contatti con tutte le forze politiche presenti nel quartiere. Attraverso ten­tativi diretti di contatti di zona siamo venuti a conoscenza di varie realtà, diverse tra loro e tut­te significative quali un gruppo di insegnanti de­mocratici della scuola media Mattei, una scuola popolare, un gruppo spontaneo di giovani attorno all'obiettivo di intervento sul problema della dro­ga, il gruppo di operatori sociali di vari enti di cui sopra, il circolo ACLI di Baggio.

Con i primi abbiamo avuto rapporti di scambio di informazione ed esperienze che ci sono stati utilissimi per l'inserimento nel quartiere e che peraltro hanno dato luogo a momenti di collabo­razione significativa ma episodica.

Diverso il rapporto col circolo ACLI:

L'intenzione di questo gruppo di farsi carico del problema dell'assistenza in generale come terreno di iniziativa politica sul territorio ci ha permesso di avere un rapporto continuativo teso all'elaborazione di un comune progetto di inter­vento.

L'ipotesi fondamentale sulla quale ci muovia­mo è quella del passaggio delle strutture della rieducazione all'ente locale, che riteniamo com­plessivamente più idoneo del M.G.G., a rispon­dere alle reali esigenze dei giovani posti sotto il suo eventuale intervento.

 

Sviluppi del rapporto con l'assistenza

Il rapporto con l'ente locale lo vediamo nell'ef­fettivo collegamento della comunità-alloggio con gli altri servizi sociali, quindi come una delle strutture necessarie per portare avanti un di­scorso sui servizi decentrati territorialmente a gestione democratica, non emarginanti.

Consideriamo importante questo, poiché se pur siamo convinti della necessità di combattere tutte le strutture private o privatistiche e quindi siamo fautori della pubblicizzazione, non credia­mo che sia sufficiente un semplice cambio di forma o di facciata.

In questo senso vediamo il passaggio alla ge­stione pubblica di tutte le strutture private (quin­di anche della nostra), solo come il primo passo verso la costruzione di servizi che siano reale ri­sposta ai più elementari diritti popolari, princi­palmente il diritto di ogni individuo ad una vita sana, integra e cosciente. In tal senso consideria­mo i migliori garanti di questa effettiva trasfor­mazione: i lavoratori degli enti, che da anni lot­tano per la trasformazione degli istituti nei quali lavorano, i lavoratori ed il popolo in generale, che da anni subisce la miseria di una organizzazione sociale, che sa solo reprimere ed isolare coloro che obbliga a condizioni di vita emarginanti.

Noi consideriamo molto importante il contribu­to che può venire da una cosiddetta «esperien­za alternativa» rispetto all'elaborazione dell'in­tervento sopradetto.

A nostro avviso non sarebbe inutile l'ipotizzare un rapporto, da vedersi in qual modo e su quali discorsi, tra la cosiddetta «rieducazione» ed i «lavoratori dell'assistenza» sulle semplici ed ovvie considerazioni che:

a) entrambi intervengono su condizioni che sono conseguenti alle medesime cause emargi­nanti;

b) anche la rieducazione, a più o meno breve scadenza, dovrebbe passare almeno in parte sot­to la programmazione regionale e la gestione dell'ente locale minore: Provincia e Consorzi di Comuni, in ogni caso al di fuori delle competenze del M.G.G.

Data la necessità dei contatti esterni soprain­dicati, e data l'esigenza di non contrapporli all'ipotesi educativa interna che abbiamo elaborato ed alla organizzazione interna che consegue, è utopistico credere che ancora per lungo tempo questa doppia azione parallela possa essere com­piuta soltanto dalle nostre due persone, e nelle stesse condizioni nelle quali abbiamo operato finora.

 

Nuova ipotesi educativa

Crediamo che per andare avanti si debba usci­re dall'ottica assistenziale, come unica ipotesi a cui finalizzare il «servizio comunità-alloggio, cioè ci si debba porre il problema di capire cosa si­gnifichi avere un "rapporto rieducativo", con gio­vani che escono dall'esperienza del disadatta­mento, dell'emarginazione e dell'istituzionalizza­zione non volendo più limitarci al semplice "par­cheggio" delle loro vite, all'interno di una strut­tura valida comunque».

Prima ancora ci si deve chiedere chi siano que­sti giovani?

Dove andranno dopo la cosiddetta esperienza rieducativa?

In definitiva consideriamo che il limite fonda­mentale della nostra esperienza sia stato quello di considerare la finalità del nostro intervento, limitata alla semplice compensazione affettiva di «carenze umane» che i giovani si portavano dietro, ed al generico «sostegno ambientale» necessario per non lasciarli sulla strada.

Probabilmente per la sperimentalità iniziale della stessa esperienza non ci si poteva propor­re niente di più, ma crediamo che, oggi, vi siano abbastanza elementi conoscitivi per farci uscire dall'improvvisazione e dall'empirismo, per comin­ciare ad elaborare un discorso realmente alter­nativo alle cause che creano l'emarginazione.

 

Alcune considerazioni

I giovani che fruiscono, o dovrebbero fruire, delle comunità-alloggio convenzionate con il M.G.G., rappresentano la «sintesi» di tutte le possibili emarginazioni attuate dall'organizzazio­ne sociale nella quale viviamo: dall'immigrazio­ne (con il suo significato di sradicamento cultu­rale, isolamento ecc.) all'espulsione scolastica, allo sfacelo dei rapporti affettivi e del nucleo fa­miliare per le miserabili condizioni di vita di lar­ghi strati popolari, sotto il peso di una organizza­zione economica che impoverisce di più chi vive esclusivamente del proprio lavoro, e che via via attraverso tutte le tappe dell'esclusione, sino al­la impossibilità di inserirsi nella produzione, or­mai divenuta cronica nei nostri tempi.

In ultima analisi gli emarginati rappresentano la miseria materiale e culturale di una società che ha scaricato su di essi la propria incapacità cronica di dare ad ogni uomo, nella collettività, un ruolo in base alle proprie capacità e rapporti sociali non competitivi.

Da una parte questi giovani rappresentano la sintesi dell'esclusione, dall'altra, principalmente per questo, sono divenuti o rischiano di divenire i migliori rappresentanti e difensori della logica su cui si basa l'attuale organizzazione sociale: attraverso l'accettazione completa del consumi­smo e delle merci che lo rappresentano degna­mente, mediante l'utilizzo del proprio corpo e del­la propria intelligenza, per conquistare più o me­no lentamente lo status sociale di coloro che li hanno esclusi.

E allora, l'individualismo, la competitività, la lotta contro il resto dell'umanità, oppure l'apatia, la volontà di emergere per conquistare ciò che il sistema, attraverso i suoi mezzi di comunica­zione, fa credere necessario per considerarsi «realizzati» attraverso la forza fisica ed il culto, molte volte parolaio, della violenza fisica e della supremazia.

Ma oltre a ciò che essi rappresentano, rispetto alla propria carriera di esclusi, e quindi al signi­ficato di un rapporto «rieducativo» nei loro ri­guardi ciò che deve essere problema da appro­fondire, è il significato del futuro all'interno del quale li si vuole inserire, cioè la proposta di vita sulla base della quale pensiamo di dare un signi­ficato al nostra intervento e credibilità al no­stro ruolo.

Da queste brevi considerazioni escono già al­cuni dei compiti che, secondo noi, la comunità-­alloggio deve affrontare:

1) elaborazione di una ipotesi educativa attra­verso la quale, da una parte ci sia il riappropriar­si della storia individuale da parte dei giovani per scoprire insieme i risvolti di similitudine e quindi di riconoscimento, certamente con le per­sone con cui vivono, e dall'altra una ricomposi­zione del rapporto di questi giovani con la real­tà, ma non con una realtà generica bensì una prospettiva di reale e collettiva risoluzione dei loro problemi.

In questo senso non vediamo il ruolo degli edu­catori semplicemente come riempitivo delle ca­renze affettive dei giovani, rischiando in questo modo di proporsi in un ruolo statica, sulla base di un modello familiare ripetitivo di se stesso, bensì quello di un «tramite» tra la storia indi­viduale dei giovani stessi e la realtà, all'interno della quale come comunità e come operatori ci si inserisce attivamente;

2) l'inserimento effettivo della comunità nel territorio per rompere, da una parte l'isolamen­to dei ragazzi attraverso la sensibilizzazione e la ricomposizione di rapporti solidali tra il popolo e i suoi figli esclusi, dall'altra con l'inserimento della comunità all'interno, di un programma per servizi decentrati e non emarginanti e all'interno di un movimento che vada contro le cause dell'emarginazione stessa.

E allora anche se la comunità è ubicata all'in­terno di un caseggiato in un appartamento non vi debbono essere confusioni con il modello fami­liare, introducendo in questo modo una logica privatistica nella definizione della comunità sul territorio. Come già detto, secondo noi, la comu­nità alloggio deve essere un servizio sociale col­legata ad altri servizi socio-sanitari, atti al soddi­sfacimento dei più elementari bisogni popolari.

 

(*) Prospettive assistenziali, n. 34, aprile-giugno 1976.

(1) In corsivo abbiamo citato stralci dell'elaborato finale dell'anno scolastico 1974-75 del gruppo interclasse «DE­VIANZA» della scuola ENSISS. Tale elaborato è l'analisi dell'esperienza di tirocinio svolta in stretta collaborazione con la comunità.

(2) Si intende un gruppo di lavoro, costituito da opera­tori della rieducazione, e la cui funzione è specificata nella prima parte del documento.

 

 

 

 

 

 

 

UN SERVIZIO DI AVANGUARDIA CONDANNATO AD ESTINGUERSI? (*)

 

 

Con l'emanazione dei decreti applicativi della legge 382 per il passaggio di competenze dallo Stato alle Regioni, si è finalmente sancita l'abo­lizione di molti enti inutili o parassitari, fonti di sprechi e di clientelismi.

Tra le altre, anche le attività degli Enti Comu­nali di Assistenza (ECA), oggi organismi pub­blici ma autonomi rispetto ai comuni, saranno trasferite ai Comuni stessi entro giugno '78 (e quasi certamente, in Piemonte, addirittura alla fine del '77).

Avendo per anni lottato per questa tesi, non possiamo che rallegrarci di questo risultato con­creto.

Bisogna però fare grande attenzione affinché, durante il periodo delicato del passaggio di com­petenze, venga garantita la sopravvivenza delle iniziative valide oggi gestite dagli Enti da abolire.

L'ECA di Ivrea, in particolare, aveva deciso tre anni fa di tagliare i ponti con la «beneficen­za» classica, fonte di emarginazione e di disa­dattamento, chiudendo un Istituto per minori a Salerano e sostituendolo con una coraggiosa e­sperienza di due «comunità alloggio», cioè di due gruppi parafamiliari in cui i ragazzi e le ra­gazze ospiti che non avevano altre alternative (adozione, affidamento) trovassero un ambiente sufficientemente simile a quello delle famiglie «vere» per un loro sviluppo più sereno ed equi­librato.

La storia delle due comunità è stata abbastan­za lunga e complessa, e Lei assessore, la co­nosce bene nei suoi aspetti positivi ed in quelli problematici.

Ci pare comunque non si possa negare che questa esperienza:

- risponde ad una precisa esigenza per i ser­vizi di base dell'attuale Consorzio per gli inter­venti sociali, e della futura Unità locale dei ser­vizi, come è facilmente verificabile;

- è aperta ad una visione progressista dei servizi sociali del territorio.

Cosa sta succedendo ultimamente?

• I minori ospitati sono drasticamente diminui­ti, passando da 14 a 4, e forse diminuiranno ancora.

• Gli educatori si sono assottigliati, e pare che rimarranno solo in due nei prossimi mesi.

• Non esiste una garanzia formale da parte del Comune di Ivrea (o del Consorzio) per lo svilup­po di questo servizio dopo la cessazione dell'E.C.A., al di là forse di una mera sopravviven­za (fino a quando? con quali forze ed obiettivi?).

Non si possono naturalmente esaminare qui in dettaglio i problemi oggi aperti, ma ci sembra che il modo in cui verrà affrontata questa vicen­da sarà molto significativo per capire come sa­ranno impostati i futuri servizi sociosanitari del territorio.

Noi per primi ci rallegreremmo che fossero sparite le cause di emarginazione, per cui l'e­stinzione di questo servizio sarebbe logica; c'è però qualche dubbio che la diminuzione dei mi­nori ospitati abbia altre cause.

Riteniamo quindi che almeno su alcuni punti sia necessaria una Sua presenza di posizione chiara ed impegnativa:

1) Quando sono coinvolti dei ragazzi non si può andare a tentoni né fare esperimenti a catena. Val la pena ripeterlo perché comincia a ri­spuntare qualche voce (non ci fraintenda, non è certamente la Sua!) che, sia pur timidamente, sussurra che «non è poi detto che gli istituti fac­ciano così male, ed almeno lì il mantenimento dei minori costa meno».

Come e dove è avvenuto il «rimpatrio» dei 10 bambini che inizialmente erano in comunità? Sono variate le condizioni familiari di origine od é cambiato il criterio di giudizio?

Quali verifiche reali sono in atto per control­lare se il rientro è avvenuto correttamente e se i ragazzi ne hanno beneficio?

Qual è stato il ruolo delle équipes di base? Come mai nel frattempo non si è proceduto con eguale solerzia ad un censimento completo dei minori ospitati negli istituti della zona, onde essere certi che per taluni non fosse più oppor­tuno un loro inserimento in comunità (gli stru­menti conoscitivi, formali e non, esistono)?

2) Gli educatori adatti ad una Comunità allog­gio né si improvvisano né si trovano ad ogni an­golo di strada.

Si è ben coscienti che, procedendo sulla linea attuale, «prima» questo servizio morirà lenta­mente e «dopo» si farà eventualmente un'in­dagine per conoscere le reali necessità del ter­ritorio in questo settore?

Al di là di affermazioni verbali, quante sono veramente le famiglie oggi disponibili ad un af­fidamento educativo, come alternativa alla co­munità?

3) Uno dei punti programmatici fondamentali delle forze politiche che formano la Giunta (ed hanno la maggioranza nell'ECA) è il criterio del­la partecipazione della base sulle scelte e sulla priorità per i servizi che interessano i cittadini.

Non si ritiene che decisioni che rischiano di far scomparire, o quasi, un'esperienza pubblica di questo tipo debbano essere discusse preven­tivamente con le forze politiche e sociali?

Non si vorrà, per caso, eliminare un servizio pubblico «costoso» ritenendo che poi qualche «privato» per tamponare i buchi si troverà sempre?

4) Il lavoro degli educatori nelle comunità esi­ge, per sua natura, una forte componente di vo­lontariato. Questo non deve però comportare che questi lavoratori «tanto buoni» diventino «la­voratori di serie B», troppo facilmente oggetto di contratti a termine e di strani orari di lavoro.

Questo non è evidentemente un problema so­lo di Ivrea; ma qui quale potrà essere l'influen­za della loro voce nel momento in cui altri «tec­nici» stanno prendendo decisioni che li riguar­dano così da vicino?

 

(*) Prospettive assistenziali, n. 40, ottobre-dicembre 1977.

 (Lettera aperta inviata il 5-11-1977 dalla Sezione di Ivrea dell'Unione per la lotta contro l'emarginazione sociale al dr. Stelio Gario, Assessore agli interventi sociali del Comu­ne di Ivrea).

 

 

 

 

 

 

COMUNITÀ ALLOGGIO PER EX-RICOVERATE IN MANICOMIO: DAL PROGETTO ALLA REALIZZAZIONE NEL COMUNE DI SETTIMO TORINESE (*)

ENRICO PASCAL

 

 

«Malattia è la denominazione della sofferenza che ogni individuo in questa società deve soppor­tare, non importa se si tratta di mal di testa o di schizofrenia. Ogni trattamento che si conforma ai bisogni dell'uomo non può dunque cercare di adattare l'uomo alle circostanze distruttive, ma deve contribuire all'adattamento delle circostan­ze ai bisogni dell'uomo».

 

Sono dichiarazioni del Collettivo Socialista dei pazienti di Heidelberg tra i quali predominava­no le cosiddette «malattie mentali». Appunto in questa ottica, di non continuare a forzare del­le persone ad adattarsi a delle circostanze di­struttive, cioè di non permettere il loro totale annientamento da parte della istituzione mani­comiale, che il progetto di reinserimento del­l'équipe psico-medico-sociale di Settimo ha pre­so l'avvio e si è gradualmente concretizzato.

Le motivazioni che hanno portato il gruppo operativo a farsi carico di un gruppo di «uten­ti» da molti anni sradicato dalla zona di prove­nienza, sono da ricercarsi innanzitutto nella sto­ria della équipe.

Infatti i suoi componenti si sono formati nel clima della contestazione manicomiale del '68-69 e del lavoro di comunità terapeutica. Partendo dalla negazione del loro ruolo tradizionale, rico­nosciuta la fondamentale impossibilità di curare in manicomio, essi vedono nel progetto di dimis­sione e nella conseguente liberazione dalla esclu­sione la sola misura veramente terapeutica, e nella gestione assembleare e democratica del reparto la soia possibilità di risocializzazione in vista del reinserimento.

Tuttavia, proiettata sul territorio dal '71 in poi, l'équipe di Settimo Torinese aveva conosciuto un travaglio profondo nel tentativo di costruire una valida alternativa affrontando liberamente le contraddizioni e le crisi senza ricorrere alla e­marginazione. Proprio l'analisi e l'intervento in situazioni gravi ed acute di disagio psichico, non­ché la conoscenza sempre più approfondita del­la «logica manicomiale» e repressiva operante nei nuclei familiari di «psicotici» e nel micro e macrosociale e la scoperta di valide alternative terapeutiche sul territorio ha rimotivato il grup­po a riprendere la riabilitazione e la lotta anti­-istituzionale.

 

Il progetto iniziale

Il progetto iniziale dell'équipe di Settimo To­rinese prevedeva il reinserimento di sei persone anziane in una comunità alloggio messa a dispo­sizione dal Comune. Sembrava urgente privile­giare quelle persone - e sono oltre un terzo del totale - che dopo anni di emarginazione presen­tano problematiche tipiche della persona anzia­na, ancora autosufficiente, senza apparente sin­tomatologia «psichiatrica».

Per affrontare la patologia istituzionale risul­tante dai lunghi anni di adattamento forzoso alla violenza istituzionale, ed eventuali problemi psi­copatologici, erano state ipotizzate tre succes­sive fasi di intervento:

1) lavoro di risocializzazione col gruppo delle persone coinvolte nel progetto ed il personale del reparto nella sede ospedaliera e nel reparto stesso dove erano degenti;

2) uno o più periodi di soggiorno extraospeda­liero e di vita comunitaria tra operatori e psi­chiatrizzate per approfondire la conoscenza e la socializzazione;

3) reinserimento nel territorio inteso come ap­propriamento della struttura e progressiva auto­gestione della vita comunitaria. Azione di socia­lizzazione ma soprattutto di de-psichiatrizzazione da parte degli operatori dell'équipe di zona.

 

Le difficoltà di avviare il progetto «in manicomio»

La logica manicomiale creata dalla legge 1904 non è ancora oggi superata, nonostante la con­testazione psichiatrica del '68 ad i successivi episodi innovatori dell'assistenza psichiatrica to­rinese (1). La tradizionale antitesi tra custodia e cura rande ambigua ogni operazione all'inter­no del manicomio. Inoltre la stessa cura è per lo più intesa come repressione di sintomi per fa­vorire un buon adattamento.

Ne derivano difficoltà ad avviare progetti di dimissione che elenchiamo brevemente:

a) il personale del reparto di lungo-degenza tende ad ostacolare il progetto nella misura in cui si rende conto che saranno dimesse perso­ne tranquille e autosufficienti, che non recano disturbo né comportano gravi carichi di lavoro e che spesso aiutano in reparto;

b) il progetto di dimissione è valutato a pre­scindere dalla malattia istituzionale delle ricove­rate stesse, indotte dopo anni di degenza a te­mere il mondo esterno e a non avere più alcuna fiducia nelle loro possibilità di reinserimento. L'alto grado di istituzionalizzazione del personale di assistenza tende spesso a squalificare la di­missione giudicata antiterapeutica, e favorisce la manipolazione delle ricoverate nel senso di indurle a preferire la protezione istituzionale che il manicomio, oggi apparentemente più permissi­vo, sembra offrire;

c) il personale dei servizi esterni (e questo è in particolare il caso della équipe di Settimo i cui membri si sono collocati sul territorio dopo lunga e dura lotta anti-istituzionale per lo sman­tellamento del manicomio) è vissuto come mi­naccia, e la sua azione come intrusiva;

d) per quanto siano stati fatti dei censimenti della popolazione manicomiale in rapporto alle zone territoriali, i dati raccolti sono incompleti, talora contradditori, desunti con criteri burocra­tici in mancanza di collaborazione dell'interno del manicomio. Ciò rende spesso difficile la iniziale presa in carico delle persone degenti che sedi­mentano, cronicizzate, nei reparti. Il personale dei servizi esterni, nella misura in cui non è ra­dicato nelle situazioni intraospedaliere è accolto con diffidenza dagli stessi ricoverati.

 

Le premesse politiche

Ciò che ha reso possibile la realizzazione del progetto sono state essenzialmente alcune pre­cise assunzioni politiche di responsabilità. Infat­ti l'Ente locale e gli operatori dell'équipe di Set­timo Torinese hanno entrambi accettato di farsi carico di persone psichiatrizzate anche di Co­muni limitrofi, non ancora sensibilizzati al pro­blema psichiatrico o comunque in grado di ri­spondervi. Questo gesto, altamente significativo da parte degli amministratori politici di Settimo, ha inteso prefigurare la politica del Consorzio anche se questo non è ancora attuato, perché questa è la premessa indispensabile per la costi­tuzione della futura Unità locale dei servizi.

Ne sono derivate:

1) la stipula di una convenzione tra la Provin­cia di Torino e il Comune di Settimo Torinese «per l'istituzione e la gestione di una comunità per anziani», del 22 settembre 1976;

2) la messa a disposizione da parte del Comu­ne per la concretizzazione del progetto di due piccoli alloggi adiacenti in uno stabile di proprie­tà del Comune stesso;

3) la messa a disposizione di una collaboratri­ce domestica dipendente dal Comune;

4) vanno comunque segnalate le difficoltà bu­rocratiche, tipiche del funzionamento pubblico (appalti, verifiche, mandati, ecc.) aggravate dal­le ben note difficoltà relative ai conflitti di com­petenza tra due enti (Provincia e Comune). Sol­tanto l'impegno quasi a pieno tempo di un ope­ratore dell'équipe per seguire i lavori di restau­ro e il reperimento delle attrezzature ha conces­so di non superare troppo i limiti di tempo pre­ventivati.

 

La realizzazione del progetto

Le difficoltà di avviare un progetto di dimis­sione in manicomio sono già state segnalate. Ad esse si è cercato di ovviare articolando l'azione sui seguenti punti:

1) impegno di tutta l'équipe (medico, assisten­te sociale e cinque infermieri) per rapportarsi in maniera unitaria al reparto in cui si è avviato il lavoro di risocializzazione. Ciò ha consentito maggiore incisività nell'intervento, e maggiore continuità nonostante la rotazione di alcuni mem­bri dell'équipe impegnati in altre attività;

2) scelta di un reparto zonizzato dell'area To­rino Est, dove erano già confluite la maggior par­te delle ricoverate della zona Unità locale n. 28;

3) utilizzazione della gestione assembleare del reparto 12, già avviata in precedenza, come mo­mento di socializzazione e presentazione del pro­getto;

4) gestione del potere medico nel reparto, per­ché già in precedenza il medico dell'équipe ne aveva assunta la responsabilità primariale e av­viate la gestione assembleare;

5) strutturazione chiara e concreta del proget­to, nei modi e tempi di realizzazione, in modo da favorire la riappropriazione di sé e del mondo esterno (vestiti, partecipazione alla ristruttura­zione dei locali, scelta delle tappezzerie, piastrel­le, ecc.).

Come metodo è stato privilegiato il lavoro di gruppo, con riunioni settimanali di tutte le ricove­rate della zona (una diecina già degenti nel re­parto, a cui si sono aggiunte altre due prove­nienti da altri due ospedali). L'équipe infatti non si era sentita di fissare criteri preliminari di esclusione.

Stabiliti i primi contatti con il gruppo, si veri­ficò una crisi tra gli operatori stessi, in quanto nessuna delle degenti risultava possedere i re­quisiti ipotizzati nel progetto: e cioè di essere semplicemente anziana, autosufficiente, e senza problemi «psichiatrici».

Fu deciso di continuare la realizzazione del progetto collo stesso gruppo, privilegiando no­nostante tutto l'aspetto dell'anzianità, se non altro come durata del ricovero!

A questo punto si evidenziava uno scarto enor­me tra il progetto iniziale e la sua realizzazione. È sembrata tuttavia indispensabile la scelta di adattare il progetto ai bisogni emersi durante la prima fase di avvio, anche se le problematiche «psichiatriche» apparivano preponderanti.

Ben presto le degenti, affiatatesi o no nel grup­po, cominciarono a «scegliersi». Si verificarono esclusioni ed autoesclusioni, certamente alcune provate dall'evidente lavoro occulto di persua­sione effettuato dal personale del reparto, che pure non avversando il progetto apertamente, partecipava pochissimo alle riunioni settimanali di gruppo e cercava di dissuadere le degenti stesse dalla partecipazione.

Il risultato - fermo restando il rifiuto degli operatori dell'équipe di selezionare loro le pa­zienti - fu la costituzione di un gruppo (una decina) tra cui figuravano alcune delle ricoverate più «gravi» sul piano del comportamento di­sturbato a della regressione istituzionale mar­cata, assieme ad altre «psicotiche» lavoratrici, che inizialmente dovevano essere letteralmente strappate alle loro abitudini di vita e di lavoro in reparto e autoritariamente raccolte per le riu­nioni.

Il lavoro di riabilitazione intraospedaliero è durato circa otto mesi. È utile ricordare come ad una prima fase (primi quattro mesi) generica­mente di attesa, ma anche di ansiosa diffidenza di fronte a un progetto che sembrava illusorio, seguì una seconda fase (successivi tre mesi) in cui le prove materiali della sua concretezza (vi­sione di piastrelle, tappezzerie, cataloghi di mo­bili, ecc.) lo avevano reso finalmente credibile, e con un enorme ricupero di interesse e parte­cipazione da parte delle interessate. Infine l'ul­timo mese, carico di tensione nell'attesa ormai impaziente del giorno della dimissione. Furono effettuate alcune uscite per alcune ore, ma la prevista fase di collaudo mediante soggiorni co­munitari di alcuni giorni fu recisamente rifiutata dall'insieme del gruppo: la dimissione dal mani­comio doveva essere senza ritorno, irreversibi­le. Qualsiasi fase intermedia rappresentava per le interessate una sorta di prova inutile, tanto era maturata in loro la decisione di uscire per sempre!

La coesione del gruppo rendeva alla fine estre­mamente arduo operare la riduzione necessaria per le sei unità previste nel progetto, alle quali avrebbe dovuto aggiungersi una unità scelta dal Comune a significare la presenza, di un altro ti­po di utenza, non psichiatrizzata. Fu perciò rie­saminato il progetto, e, d'intesa coll'Ente locale, fu aumentata la capienza al numero massimo di nove posti (da notare che a questo punto non era necessario variare il preventivo di spesa di allestimento e di gestione previsto per sette, se non in minima parte). Ci fu dunque una sola, cer­tamente dolorosa esclusione; va ricordato che di fronte alla concretezza del progetto, pioveva­no numerose, pressanti richieste da parte di pa­zienti di altre zone, a significare la sensibilizza­zione di molte e il ricupero di rivendicazioni per la dimissione ora concretamente possibile per altre.

Il 17 dicembre 1976 avveniva la dimissione di nove psichiatrizzate e il loro insediamento nell'alloggio del Comune, a Settimo Torinese.

 

Sensibilizzazione del territorio

Non c'è dubbio che il reinserimento in zona, dato il diffuso pregiudizio in tema di pericolosità o scandalosità del cosiddetto «malato di men­te», vada preceduto da un adeguato lavoro di sensibilizzazione.

Consapevoli però anche del pericolo di teoriz­zare troppo sul progetto, in assenza delle inte­ressate, attivando così fantasmi presso la gen­te del quartiere, gli operatori dell'équipe si sono limitati a presentare il progetto, ed appena pos­sibile, le stesse psichiatrizzate, ai coinquilini, e alla collaboratrice domestica che ha poi seguito a tempo pieno il gruppo. Si è ottenuto in questo modo di non allarmare inutilmente il vicinato, e di favorire l'avvio di buoni rapporti con i coin­quilini. Avviata la comunità, ci sono stati mo­menti di crisi che hanno allarmato il vicinato, in realtà non molti. Si è allora intervenuti colle persone coinvolte per discutere, sensibilizzare, chiarire.

L'azione più efficace è stata svolta dalle stes­se ex-degenti, nel momento in cui, circolando sempre più liberamente nel territorio, al merca­to, nei bar, nei negozi, ricevendo visite di paren­ti ed amici hanno dato prova di «normalità» e «ragionevolezza», argomenti senz'altro più con­vincenti di molti discorsi teorici. Oggi ancora lo sforzo degli operatori va nel senso di rendere il più comprensibile possibile la diversità, più fa­miliare possibile la stranezza e la devianza di queste ex-ricoverate. Oggi l'atteggiamento della popolazione è di fondamentale accettazione.

 

Valutazione dell'esperienza dopo un anno circa

La valutazione che si può dare a circa un an­no dall'avvio è senza dubbio positiva. Pur trat­tandosi di un gruppo di nove «psicotiche» con una permanenza complessiva di 203 anni in ma­nicomio, e non già di «anziane» come preventivato, nessuna è tornata, anche solo per un'ora, in ospedale psichiatrico. Certo non sono man­cate le crisi, talora drammatiche, accompagnate dalla richiesta o della diretta interessata o delle altre, di un ricovero in manicomio, secondo la logica emarginante tipica delle persone «nor­mali». Non sono mancate perplessità ed esita­zioni da parte degli stessi operatori dell'équipe. Ma sino ad ora tutte le crisi sono state auto ed eterogestite da parte del gruppo, che usciva consolidato e rafforzato dopo ogni crisi supera­ta coll'aiuto delle compagne. Si può dunque par­lare di una gestione del tipo «comunità tera­peutica».

Ogni crisi superata all'interno della comunità ha rinsaldato la fiducia tra le componenti e la solidarietà, nonché la fiducia negli operatori. È stata data la prova, talora in circostanze dram­matiche, che in manicomio non si torna, nem­meno quando i disturbi presentati potrebbero esserne il facile pretesto. Se al contrario la pro­vocazione fosse stata raccolta, anche solo in una occasione, ciò avrebbe incrinato profonda­mente la fiducia negli operatori, rivelatisi inca­paci di offrire una valida alternativa «terapeu­tica» alla emarginazione manicomiale.

 

Possibile evoluzione

Allo stato attuale si delineano possibili evolu­zioni, differenziate caso per caso: ritorno in fa­miglia, ricupero lavorativo fuori della comuni­tà, sistemazione definitiva nella comunità stessa per le signore più anziane. Certo, se il lavoro di risocializzazione (ricupero di sé, riapprendimen­to di lavori domestici e di attività sul territorio, ricupero di rapporti liberi con i parenti e amici, ecc.) può dirsi in buona parte compiuto, e il ra­dicamento in zona può dirsi ottimale per la mag­gior parte delle nove ex-internate, si deve sot­tolineare che sul piano terapeutico restano da fare molte cose. Liberate dalle incrostazioni ma­nicomiali, anche quelle che sembravano le più gravi, presentano problematiche esistenziali più comprensibili e decifrabili, mentre possono emer­gere liberamente le gravi frustrazioni che le han­no alimentate. In questo senso la Comunità Te­rapeutica è in piena evoluzione e i 203 anni com­plessivi di manicomio sembrano oggi un lontano ricordo.

Si potrà osservare che al cospetto delle circa 2300 persone ancora escluse ed emarginate in manicomio, questo sparuto gruppo di nove è ben poca cosa. In realtà se ogni équipe di zona si assumesse pari responsabilità (ne sono in fun­zione una trentina), la cifra delle persone così dimesse e reinserite salirebbe in modo notevo­le. Infine il reinserimento di persone psichiatriz­zate con una lunga carriera di internamento alle spalle, senza alcun tipo di esclusione o di sele­zione da parte di operatori di zona, come è avve­nuto nel caso della comunità di Settimo, dimo­stra che il manicomio può essere smantellato, pezzo per pezzo, senza «scremature» e senza «residui»; l'emarginazione non è mai una ri­sposta ai bisogni degli assistiti, ed è sempre una manipolazione mistificante di problemi che la collettività rifiuta di affrontare e di risolvere.

 

La situazione odierna

La comunità è - dopo un anno dall'inizio - autogestita. Con ciò si intende che gli operatori della équipe intervengono su chiamata per le si­tuazioni di crisi, esattamente come per qualsiasi utente che richieda una visita domiciliare. Que­ste chiamate si vanno sempre più diradando data la solidarietà e i rapporti di reciproco aiuto e sostegno proprio della comunità.

Il rapporto tra comunità ed operatori conserva, su richiesta della comunità stessa, un momento istituzionale (riunione settimanale di discussione di problemi essenzialmente gestionali); il resto sono visite, quasi quotidiane, da parte di uno o più operatori dell'équipe tese alla presenza ras­sicurante per loro di «amici», ma realizzate all'insegna della discussione e socializzazione il più possibile spontanee e informali dei loro pro­blemi, senza psichiatrizzazione e senza «bar­riere».

Ciò che però è interessante, e va sottolineata, è la completa autosufficienza del gruppo per tutte le faccende domestiche, la spesa, il vitto, la cu­cina, tanto che la presenza di una collaboratrice domestica, all'inizio impegnata a pieno tempo, non è più necessaria. La stessa contabilità è te­nuta da alcune delle ospiti della comunità stessa. La loro tendenza al risparmio - propria della conduzione di tipo familiare - è talvolta persino eccessiva, dominata dalla preoccupazione di non gravare sulla spesa pubblica!

Offriamo alle considerazioni degli amministra­tori e di tutti gli interessati il bilancio particola­reggiato del primo anno di gestione della comu­nità (1977) considerata la spesa della colf, ora non più necessaria. Se ne deduce che l'assisten­za alternativa sul territorio, oltre ad offrire una risposta corretta alle esigenze delle persone e certamente migliori condizioni di vita, se si attua la formula comunitaria e l'autogestione, ha dei costi sorprendentemente bassi.

Sono stati riassunti nella tabella seguente i dati, elaborati da operatori della équipe di Setti­mo e del Comune assieme alle stesse interessa­te. A questo proposito va ancora sottolineato che il prelievo - in genere settimanale - del denaro occorrente dal fondo che la Provincia ha deposi­tato presso il Comune (ai sensi della convenzio­ne stipulata) avviene in uno spirito di notevole collaborazione coll'economato locale, correspon­sabilizzato della gestione della comunità (integra­zione dei servizi).

 

Tabella 1

 

 

Generi alimentari e varie

 

 

 

 

 

 

 

Mese

Carne

e pesce

Frutta

e verdura

Pane, pasta

zucchero

formaggio,

latte, ecc.

Vino

Varie

(ingrosso

e minuto

compreso

vitto)

Manuten-

zione e

acquisti

vari

Consumo

acqua

Consumo

energia

elettrica

Telefono

Consumo

gas

(riscald.

cucine)

Stipendio

e contri­

buti

COLF

Dicembre '76

(giorni 96)

125.830

71.195

299.385

 

 

255.305

4.755

 

 

10.300

160.967

Gennaio

118.150

51.190

307.645

 

 

126.710

 

 

 

75.600

261.217

Febbraio

117.785

93.075

37.140

 

382.290

20.195

 

69.181

 

89.925

252.510

Marzo

40.925

71.450

117.775

 

174.055

 

42.050

 

 

57.228

252.510

Aprile

53.575

85.250

117.775

 

174.055

67.670

 

 

 

47.850

239.449

Maggio

40.935

101.840

58.310

 

222.515

114.435

 

37.025

116.469

30.000

261.217

135.000

(arretrati)

Giugno

37.490

133.970

88.070

69.640

239.160

15.255

59.410

 

 

 

261.217

luglio

64.435

124.265

91.780

 

248.215

56.015

 

 

 

27.850

312.677

Agosto

54.000

86.400

80.860

 

206.420

 

 

178.792

17.000

 

312.677

750.000

(contributo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CPDEL)

Settembre

52.550

92.100

71.430

 

 

26.500

 

 

 

33.224

312.677

Ottobre

60.835

125.450

80.130

69.325

330.690

1.750

55.605

 

 

30.000

(stima)

384.021

Novembre

36.580

73.550

73.410

17.330

254.080

130.430

 

150.000

(stima)

13.900

30.000

(stima)

302.255

Dicembre

61.850

60.400

73.010

17.330

263.815

 

 

 

 

30.000

(stima)

297.043

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

264.277

(13a mensil.)

TOTALE

864.930

1.170.375

1.496.095

173.625

2.667.430

814.265

161.820

434.998

147.369

461.977

4.659.714

 

Nota: Nelle spese sono state calcolate interamente quelle di installazione (telefono, gas, lavatrice, boiler a gas, ecc.).

Totale L. 13.052.598, diviso per 381 giorni = L. 34.258, diviso per 9 persone = L. 3.800 al giorno per ogni ospite.

Se a questo importo si può aggiungere l'affitto dell'alloggio (4 camere a 2 letti, 1 camera a 1 letto, soggiorno, cucinetta e servizi), di proprietà del Comune di Settimo, che si può calcolare in L. 2.400.000 all'anno e cioè in L. 730 al giorno.

Per il 1978 invece il costo totale, tenuto conto dell'autogestione e deducendo cioè la spesa della Colf, è prevedibile in L. 8.400.000. La spesa per ospite sarà pertanto di L. 2.555 al giorno senza affitto e di L. 3.285 con l'affitto.

 

(*) Prospettive assistenziali, n. 41, gennaio-marzo 1978.

(1) V. in particolare «Accordo Sindacati - Provincia di Torino sull'assistenza psichiatrica di zona», in Prospettive assistenziali, n. 23, luglio-settembre 1973.

 

 

 

 

 

 

 

VERIFICA E PROSPETTIVE DELLE COMUNITA’ ALLOGGIO PER MINORI DELLA AMMINISTRAZIONE PROVINCIALE DI MODENA (*)

 

 

Nel 1972, l'Amministrazione provinciale di Mo­dena, nell'ambito di un più vasto impegno volto a superare la pratica istituzionalizzante, decideva di avviare le opportune iniziative per il reinseri­mento dei minori ricoverati e per il superamento degli stessi istituti di ricovero, anche tramite una riconversione degli stessi operatori ad una attività di territorio integrata nell'ambito di ser­vizi per la sicurezza sociale (consultori, scuole, équipes per l'età evolutiva...).

A tal fine l'Amministrazione provinciale assu­meva i seguenti impegni, operando unitamente ai Comuni della provincia:

a) potenziamento dell'assistenza al nucleo d'o­rigine del minore, sia tramite contributi econo­mici integrativi del reddito, sia tramite priorità d'accesso a servizi gratuiti, sia tramite il soste­gno delle équipes decentrate per l'età evolutiva;

b) istituzione del servizio di affidamento fami­liare a scopo educativo, ad integrazione di quello già svolto per le adozioni. Ciò rendeva possibile il superamento dell'I.P.A.I. nel 1975 e della «Ca­sa del sole» O.N.M.I. di Pievepelago, nonché della stessa sezione notturna operante dal 1975 al 1976, presso un nido comunale, con 6 posti letto, per rispondere ad eventuali improvvisi stati d'abbandono. In quegli anni complessivamente cessavano d'operare nel nostro territorio provin­ciale ben 12 istituti pubblici e privati, mentre altri riducevano e ristrutturavano l'attività.

Nell'autunno del 1972 l'Assessorato provincia­le aveva, inoltre, elaborato la proposta di costi­tuzione di una prima comunità alloggio per mi­nori (tale proposta è contenuta in «Il possibile esperimento», ricerca sugli interventi alterna­tivi alla istituzionalizzazione di minori, a cura di Carugati, Emiliani e Palmonari, ediz. A.A.I.).

L'Educatorio provinciale «S. Paolo» (IPAB con Consiglio d'amministrazione nominato per sta­tuto dal Consiglio provinciale) accoglieva la pro­posta dell'Assessorato per la costituzione di co­munità-alloggio, in sostituzione della attività di ricovero praticata. A seguito di un proficuo lavo­ro di deistituzionalizzazione, che ha realizzato il reinserimento familiare di 70 minori del territo­rio provinciale, al giugno 1973, attraverso l'ope­rare congiunto di operatori dell'Assessorato pro­vinciale, educatori dell'istituto ed équipes di ter­ritorio, iniziava la prima esperienza di comunità a Modena Est, nel gennaio del 1974, con 5 ope­ratori e 5 minori in età compresa tra i 6 e i 10 anni.

Nel maggio e nel novembre dello stesso anno seguivano l'avvio delle esperienze, rispettiva­mente, della comunità S. Lazzaro, con 6 operatori e 7 minori in età compresa tra gli 8 e i 12 anni, e della comunità Don Minzoni, con 4 operatori e 5 ragazze tra i 16 e i 18 anni di età.

Tali minori avevano alle spalle un complesso iter di istituzionalizzazione, spesso presso isti­tuti «medico-psicopedagogici».

Nella previsione del trasferimento, a decorrere dal 1° gennaio 1979, dell'I.P.A,B. «S. Paolo» alla Regione, in attuazione del D.P.R. n. 616, gli ope­ratori hanno avuto una serie di incontri di veri­fica presso l'Assessorato provinciale, da cui è scaturito il seguente documento.

 

RELAZIONE CONCLUSIVA DELLE GIORNATE DI VERIFICA SULLA ATTIVITÀ SVOLTA DALLE TRE COMUNITÀ «S. PAOLO»

 

Il documento che presentiamo è la sintesi dei contenuti emersi dalla discussione e dal con­fronto tra le esperienze degli operatori delle tre Comunità alloggio del «San Paolo», che hanno avvertito l'esigenza di un momento di verifica delle stesse, dal quale fare scaturire nuove pro­poste e prospettive d'intervento. Determinante nel fare avvertire questa esigenza è la legge 382 e relativo D.P.R, 616, con le scadenze indicate per lo scioglimento degli «enti inutili» e il pas­saggio delle competenze ai Comuni, scadenze che ribadiscono il bisogno di una riorganizzazio­ne dell'assistenza pubblica in ambiti territorial­mente definiti.

È nostro intento coinvolgere in tale lavoro di verifica e di riorganizzazione relativa ai nostri servizi sia gli organismi politici sia gli altri ser­vizi sociali presenti nel territorio in cui operia­mo, per, in tal modo, dare un contributo al pro­cesso di superamento della settorialità degli in­terventi, nella prospettiva di una organizzazione e gestione unitaria dei vari momenti in cui si articola il servizio di assistenza all'età evolutiva, come da legge regionale n. 22 del 10-6-1976.

In previsione di una realizzazione dell'unità socio-sanitaria dei servizi, la Comunità alloggia già si configura all'interno del momento speci­fico più ampio, che la legge regionale indica con la denominazione di «servizi integrativi e sosti­tutivi della famiglia».

 

Verifica del servizio

Il primo momento di discussione si è rivolto alla verifica del servizio in relazione alle pre­messe, in base alle quali le Comunità sono sorte:

a) deistituzionalizzazione e reinserimento so­ciale dei minori provenienti dal «S. Paolo»;

b) deistituzionalizzazione e reinserimento so­ciale di minori, eventualmente, in seguito, pro­venienti da altri istituti;

c) risposte ad eventuali casi di bisogno pro­venienti dal territorio.

Elemento comune di questi tre momenti è il carattere riparatorio affidato agli interventi delle Comunità.

La Comunità si è quindi posta fin dall'inizio come servizio che intende offrire un intervento educativo personalizzato, volto alla ricerca di sbocchi reali e definitivi, costituendo così una fase temporanea, ma positiva, nel processo edu­cativo.

A) Per portare a compimento il processo di deistituzionalizzazione del «S. Paolo» sono sor­te, in tempi diversi, tre Comunità: due, che ospi­tavano minori in età scolastica elementare ed una, per adolescenti.

Per i 12 minori in età scolare, ospiti delle due Comunità di Modena Est e di S. Lazzaro, si è individuata come soluzione definitiva l'inserimen­to in ambito familiare che, per tre di essi, ha significato l'adozione, per altri sei il reinserimen­to nella famiglia d'origine e per uno l'affidamento familiare, mentre due minori sono tuttora rispet­tivamente: una presso Modena Est, l'altra presso Don Minzoni.

I tempi dell'intervento sono stati più o meno lunghi, in quanto determinati da diversi fattori:

1) difficoltà legate al vissuto dei minori;

2) difficoltà nella conduzione di rapporti col nucleo familiare originario, tale da favorire il reinserimento nei casi in cui si valutò oppor­tuno;

3) difficoltà a interrompere i rapporti familiari, anche sul piano giuridico, nella misura in cui si ritenevano pregiudizievoli al minore stesso.

Va inoltre sottolineata la carenza di integra­zione fra i servizi di Comunità da un lato e di territorio dall'altro, carenza che ha spesso com­portato la tendenza alla delega, da parte dei ser­vizi del territorio, delle problematiche relative ai minori ospitati, quando invece, per raggiungere l'obiettivo di un pieno inserimento del minore, il piano e la realizzazione dell'intervento sempre richiedono una piena compartecipazione sia de­gli operatori di Comunità sia degli operatori cui compete territorialmente il caso.

Per quanto riguarda le quattro adolescenti, ini­zialmente ospiti della Comunità Don Minzoni, l'obiettivo non poteva che essere il raggiungi­mento di una progressiva autonomia dei sogget­ti, poiché dall'analisi dei casi e, per le caratteri­stiche adolescenziali, risultavano impossibili sia l'inserimento nella famiglia d'origine, sia l'affi­damento familiare a scopo educativo.

Per tre di esse possiamo affermare che l'obiet­tivo é stato raggiunto, in quanto le ragazze vivo­no in modo autonomo e positivo. Per la quarta, dopo un periodo di vita all'esterno, si è reso ne­cessario il ritorno in Comunità.

Anche in questo caso si è, comunque, avuto un graduale processo di crescita.

B) La Comunità si è proposta come servizio alternativo capace di recepire i casi provenienti da altri istituti, non in grado di favorire il pro­cesso di crescita del soggetto e di creare le con­dizioni per il suo inserimento nel tessuto so­ciale.

Per tre bambini ospiti della Comunità di Mo­dena Est (uno di tre anni, proveniente da «Mam­ma Nina» di Carpi, l'altro proveniente dal «Cha­ritas», il terzo proveniente dalla sezione not­turna ex I.P.I.) è stato raggiunto l'obiettivo del reinserimento tramite l'adozione, sia pure in tempi diversi, dovuti ai problemi e alle difficoltà dei soggetti.

Per un altro bambino, deistituzionalizzato dal «Charitas», con inserimento nella Comunità di S. Lazzaro, e che presentava un quadro clinico particolarmente grave (psicosi), nonché prove­nienza extra-regionale, si è rimesso l'intervento all'ente e al territorio di competenza.

Per quanto riguarda le ragazze ospitate dalla Comunità di Don Minzoni, con provenienza da altri istituti, abbiamo rilevato la tendenza da parte degli stessi a delegare alla Comunità i casi che mettevano in crisi l'istituzione.

Ciò vale per tre casi provenienti dal S. Vin­cenzo e dal S. Filippo Neri, di cui, comunque, per due si è raggiunto l'obiettivo dell'autonomia.

Tale considerazione non vale, invece, per altre due ragazze provenienti dal «Charitas », al fine di una loro reintegrazione fra i normodotati, per le quali è stato raggiunto l'obiettivo, sin dall'inizio prefigurato, nella stessa richiesta di ammis­sione.

Si evidenzia come l'obiettivo riparatorio è pro­ponibile, a condizione che non s'intenda la Comu­nità come «sacca di risulta» dei casi di difficile gestione da parte di istituti, ma come momento davvero qualitativamente in grado di promuovere una evoluzione dei soggetti.

C) Premettiamo che l'esperienza fatta, in quan­to servizio di Comunità gestita da una IPAB, non ci ha permesso una conoscenza globale e appro­fondita dei bisogni del territorio. Inoltre la mancata collocazione a tutti gli effetti tra i servizi sociali territoriali, ha determinato una visione parziale dei casi, che pervenivano alla Comunità già filtrati e non la coinvolgevano nel momento di analisi del bisogno.

Si richiede che la riorganizzazione dei servizi assistenziali ponga la Comunità come elemento integrante e integrato nell'ambito di una strate­gia di interventi a favore dell'età evolutiva, con particolare riferimento a quelli integrativi e so­stitutivi della famiglia.

Finora le Comunità hanno dato risposta posi­tiva a 14 casi provenienti dal territorio:

1) situazioni di abbandono di bambini, tramite adozione (n. 8);

2) situazioni di parziale abbandono, tramite af­fidamento (n. 1);

3) situazioni di minori con nucleo familiare gravemente carente, tramite interventi di reinte­grazione familiare (n. 4);

4) situazioni di abbandono, tramite interventi per l'autonomia, in relazione al raggiungimento della maggiore età (n. 1).

Per le situazioni relative ai punti 1 e 4 (stati di abbandono) la provenienza da ambito extra consortile non ha costituito elemento contropro­ducente rispetto all'obiettivo, non essendo nep­pure opportuno il mantenimento di rapporti con l'ambito di provenienza.

Relativamente ai punti 2 e 3, si è evidenziato invece come l'intervento della Comunità sia as­sai più proficuo qualora si rivolga a casi con provenienza territoriale comunale o consortile.

Questo soprattutto per quanto riguarda il pun­to 3, dovendo agire sul nucleo familiare e in stretta collaborazione con l'équipe competente territorialmente, oltre che con altri servizi (scuo­la, ecc.).

Ancora in relazione alle richieste provenienti dal territorio, occorre qualche ulteriore puntua­lizzazione relativamente alle seguenti situazioni:

a) richieste di ammissione di adulti;

b) richieste di ammissione di lattanti e neo­nati;

c) richieste di ammissione di minori con han­dicap o problematiche di devianza;

d) richieste di «pronto intervento».

 

a) Senza sottovalutare i bisogni di tale fascia di età, preme ribadire l'esigenza di qualificare il servizio, non solo a favore dell'età evolutiva, anzi privilegiando l'intervento precoce, che, in base all'esperienza fatta, è premessa indispensa­bile per una soluzione positiva dei casi.

b) Si è evidenziato nel corso dell'esperienza avuta nelle Comunità che l'età dei bambini che presentavano situazioni di bisogno tendeva ad abbassarsi. Questo fattore viene valutato positi­vamente e si ritiene che il servizio debba riorga­nizzarsi prioritariamente in funzione di questo bisogno, che richiede un intervento precoce.

Nella Comunità di Modena Est ci si è occupati di due casi di bambini di pochi mesi. Ciò ha richiesto uno sforzo organizzativo non indiffe­rente. Ha posto problemi di qualificazione speci­fica del personale e una nuova riorganizzazione del servizio, alla luce delle esigenze che il bimbo piccolo pone. (Per esempio, il fatto che sia spes­so ammalato, non sempre sia inseribile al nido e quindi della necessità di una presenza conti­nuativa in tutto l'arco della giornata).

L'inserimento di un bimbo piccolissimo ha messo in evidenza come sia particolarmente controproducente una eccessiva rotazione di per­sonale e di eventuali supplenti. Si ritiene oppor­tuno ribadire l'orientamento che, in tutti i casi in cui sia possibile, la situazione di bisogno, relativamente al bimbo piccolo, trovi una positi­va soluzione nell'inserimento immediato in un ambito familiare, o tramite adeguati sostegni alla famiglia d'origine, o tramite affidi eterofa­miliari, senza passaggio nelle Comunità.

Proprio in base alle considerazioni che ci in­ducono a privilegiare la famiglia rispetto alla Comunità, riteniamo dovere escludere risposte in termini di ospedalizzazione e di sezione not­turna presso asili nido in quanto la loro organiz­zazione non potrebbe che presentare aggravate le caratteristiche individuate come limite nelle Comunità.

c) Richieste di ammissione dal territorio, si riferiscono anche a minori con handicap. A que­sto proposito va ribadito un orientamento che non esclude a priori l'inserimento del bambino con handicap, ma va altresì sottolineata la neces­sità sia di una attenta valutazione delle possi­bilità di sbocco dell'handicappato sia delle diffi­coltà e dei problemi già esistenti all'interno del gruppo, per non dar luogo ad aggregazioni «spe­ciali», nell'intento di attuare un intervento che sia davvero integrante e non emarginante.

Analoghe considerazioni possono farsi per la «devianza». Bisogna anche in questo caso valu­tare i rischi, per non creare situazioni prive di sbocchi che finiscono col paralizzare la stessa attività del servizio.

d) Esperienze di «pronto intervento» pres­so le Comunità di Modena Est e Don Minzoni sono state valutate controproducenti perché han­no consentito una risposta superficiale e non ap­profondita ai bisogni del minore e al suo nu­cleo familiare. I loro problemi hanno forse con­tinuato ad essere trattati al di fuori di una valu­tazione comprendente il contributo degli opera­tori delle Comunità. Presso queste i minori sono stati «parcheggiati» per un breve periodo di tempo, che ha comportato disorientamento nel gruppo già aggregato e sofferenza per il nuovo arrivato, senza dar luogo a nessun positivo pro­cesso di reciproco adattamento. Per tale tipo di bisogno, in base alle precedenti considerazioni, riteniamo sia importante cercare risposte sul territorio che escludano sradicamenti sia pure per breve tempo.

 

Conduzione del servizio

1) In rapporto ai ragazzi ospiti, oltre alle pre­cedenti considerazioni, le recenti giornate di ve­rifica hanno fatto sì che unanimemente confer­massimo il carattere eterogeneo delle Comunità. L'omogeneità di fondo ci pare debba essere data dal tipo di bisogno, per quanto invece riguarda l'età, basta una suddivisione per grosse fasce. Riteniamo che una stretta settorializzazione per età ci restituisca alla passata esperienza degli istituti, mentre l'esperienza comunitaria ci ha fatto valutare gli aspetti positivi di una socializ­zazione più vicina al modello familiare, in cui adulti e ragazzi di diverse età si forniscono reci­procamente stimoli positivi di crescita.

D'altra parte ci sono servizi scolastici e pre­scolastici per bisogni specifici che richiedono più strette aggregazioni anche in base al criterio dell'età.

2) In merito al rapporto con gli altri servizi, fin dal loro sorgere le Comunità si sono proposte, assieme all'obiettivo d'inserimento dei ragazzi, un obiettivo d'integrazione col territorio e con tutti i momenti di servizio (équipe, scuole, luo­ghi di' lavoro, ecc.) e di partecipazione (quar­tiere, ecc.) che il territorio é in grado di espri­mere. A questo proposito va detto che molto è ancora da fare, in quanto abbiamo verificato co­me forti siano le spinte alla delega e quindi alla emarginazione sulle situazioni complesse e sui problemi di cui sono portatori i nostri ragazzi.

Non volendo riprodurre la logica dell'istituto, in quanto logica di separazione dalla più ampia collettività, riteniamo importante divenga con­sapevolezza di tutti (enti, servizi e cittadinanza) che l'emarginazione si combatte assumendo le problematiche educativo assistenziali a livello di impegno comune, senza deleghe, a specifici ser­vizi o ad operatori.

Vogliamo perciò sottolineare come la sollecita possibilità di fruire di servizi pubblici gratuiti (asili nido, scuole materne, consultori, ecc.) sot­trae le comunità a una dimensione di lavoro pri­vatistica e garantisce al minore l'inserimento nel tessuto sociale.

Questo nodo è rilevante anche per quanto ri­guarda i costi dell'intervento, che aumenta pro­prio anche in considerazione delle difficoltà che le comunità hanno incontrato nel cercare di evi­tare una risposta in proprio ai vari bisogni di volta in volta emersi (sanitari, ecc.).

Pesa ancora sui costi la mancanza di un ade­guato collegamento per un utilizzo più corretto da parte dei Comuni del Consorzio di Modena del servizio offerta dalla Comunità.

Bisogna evitare l'attuale sperequazione tra i posti vuoti in comunità e le rette pagate presso istituti a volte addirittura fuori provincia.

3) A quattro anni dall'inizio dell'esperienza c'è l'esigenza di rivedere anche il problema del per­sonale, in considerazione di alcuni importanti fattori:

a) limiti della qualificazione del personale uti­lizzato, insiti nella sua stessa provenienza (isti­tuti e relativi ruoli);

b) il logorio che ha comportato l'assunzio­ne delle responsabilità relative al tipo di espe­rienza;

c) la necessità di un mobilità del personale che tenga conto dell'esistenza del «collettivo» là dove questo si è costituito e opera in quanto tale; che contribuisca al suo formarsi, là dove non c'è finora stata sufficiente continuità edu­cativa;

d) esigenza di consolidare una identità profes­sionale in direzione educativa, tramite l'individua­zione di personale già qualificato in tal senso e tramite garanzie di aggiornamento periodico;

e) esigenza di rivedere l'organizzazione di una parte del lavoro domestico, in modo da liberare più energie in direzione educativa e per il lavoro di territorio.

 

Conclusioni

Ci pare dover richiamare la validità e l'attua­lità di quanto già proposto nella sintesi di un documento del marzo 1977, comune agli ope­ratori di tutte le Comunità:

- progressiva trasformazione delle Comunità alloggio in Comunità territorialmente definite, per essere in grado di limitare l'emarginazione dei ragazzi temporaneamente ospitati;

- evoluzione degli interventi forniti dagli ope­ratori della Comunità, al fine di rendere preva­lenti gli interventi preventivi (rispetto a) ricove­ro) su quelli collocativi.

I tempi ci paiono maturi, anche in considera­zione del D.P.R. 616 e delle prossime riforme dei settori socio-sanitario e assistenziale, per prefi­gurare, in ambito consortile e nel contesto degli interventi previsti dalla legge regionale n. 22 per la tutela della maternità e infanzia, un mo­mento unitario per gli interventi integrativi e sostitutivi della famiglia.

Tale servizio consortile dovrebbe collegare tut­te le forze, attualmente disperse in interventi separati per singole IPAB o Ente di categoria, consentendo una riorganizzazione che salvaguar­di sia l'esigenza di unitarietà sia l'esigenza di articolare risposte specifiche in base a specifici bisogni e ambiti territoriali. Nel quadro degli interventi da collegarsi in tale servizio unitario, a nostro avviso vanno sin d'ora previsti:

a) interventi sul minore, sulla famiglia di ori­gine, sulle istituzioni cointeressate al processo di crescita, per il pieno inserimento nel tessuto sociale, comprensivi di quelli che richiedono col­laborazione con la struttura giudiziaria che tutela i minori;

b) interventi di attuazione e sostegno di affi­damenti eterofamiliari, di segnalazione dello sta­to d'abbandono di minore, di sostegno a nuclei adottivi;

c) interventi che richiedono un momento re­sidenziale in tempi più o meno lunghi, per la indi­viduazione e la realizzazione di sbocchi familia­ri, o autonomi per soggetti prossimi alla maggio­re età.

Fiduciosi che la definizione di quanto indivi­duato e proposto trovi da parte degli enti inte­ressati i necessari momenti di ulteriore discus­sione e approfondimento, rimettiamo il presente documento affinché possa costituire una base di ulteriore lavoro.

 

(*) Prospettive assistenziali, n. 45, gennaio-marzo 1979.

 

 

 

 

 

 

COMUNITÀ ALLOGGIO PER INSUFFICIENTI MENTALE IN SVEZIA (*)

KARL GRUNEWALD (1)

 

 

Gli insufficienti mentali, che da noi costituisco­no la categoria più importante di handicappati, poco a paco si stanno integrando nella società svedese.

Per quanto indietro vada il nostro ricordo, la società li ha sempre esclusi, sottolineando quello che li distingue da noi e mantenendo il mito del «pericolo» che essi rappresentano e della loro imprevedibilità, catalogandoli come incurabili e confinandoli in luoghi che impedissero loro di partecipare alla vita sociale della gente «nor­male».

Oggi, noi sappiamo che la sola cosa che gli in­sufficienti mentali hanno in comune tra loro è un handicap d'ordine intellettuale, handicap che si traduce in una capacità ridotta di classificare e di trasporre, di capire e di memorizzare l'esperienza vissuta e i simboli che circondano ognuno di noi. Da questo risulta una minore attitudine al pen­sare.

Ma anche questo handicap intellettuale non è un dato costante. Ci sono molte differenze nei gradi di insufficienza, tra quelli colpiti leggermen­te e che possono per lo più farcela da soli, e i casi più gravi che hanno bisogno di un'assistenza praticamente per tutte le loro funzioni. Per clas­sificare l'insufficienza mentale, si utilizza una sca­la internazionale di quattro gradi: insufficienza mentale lieve, media, grave e gravissima.

Gli insufficienti mentali sono il gruppo più nu­meroso tra le persone costrette per tutta la vita a mantenere una enorme differenza tra i propri bisogni e le proprie richieste. Più di altri hanno bisogno di aiuto, di educazione e di comprensio­ne, ma le loro richieste sono modeste e molti di loro non sono nemmeno in grado di esprimere i loro bisogni e le loro esigenze fondamentali. La maggior parte di essi sono stati per così lungo tempo superprotetti o curati collettivamente in istituti isolati e mediocri, che la loro incapacità di esprimere le proprie esigenze e i propri biso­gni è diventata un handicap che si aggiunge al loro handicap intellettuale e spesso è confuso con quest'ultimo.

Si può fare molto per rimediare a questi effetti nefasti e per prevenirli. Una educazione e delle cure attive e socialmente integrate, sono il modo migliore per dare agli insufficienti mentali un li­vello più elevato di esigenze e una maggior co­scienza dei loro diritti.

 

NORMALIZZAZIONE - SOCIALIZZAZIONE

 

Una delle linee direttrici di questa azione è il «principio della normalizzazione», che consiste nel permettere agli insufficienti mentali di divi­dere, nella misura del possibile, le condizioni di vita e il modo di vivere che caratterizzano la società nella quale essi crescono, abitano e vi­vono. Per l'insufficiente mentale questo significa vivere nelle stesse condizioni e avere le stesse possibilità di realizzarsi degli altri membri della collettività.

Esistono, oggi, non solo dei metodi d'educazio­ne, ma degli aiuti tecnici d'apprendimento che compensano l'handicap intellettuale. In più, noi abbiamo incominciato a capire quanto sia impor­tante fornire questa esperienza vissuta e questa educazione là dove gli altri acquisiscono le loro esperienze: in mezzo a tutti. Specialmente gli in­sufficienti mentali adulti con questo metodo han­no rivelato di essere capaci di accumulare una esperienza vissuta nella loro memoria ritardata, esperienza che si traduce in una fiducia in se stessi e in un'esperienza accresciuta.

La «socializzazione», cioè l'inserimento degli insufficienti mentali nella società, in mezzo a tut­ti gli uomini è uno dei metodi impiegati per rea­lizzare la normalizzazione. L'inserimento si oppo­ne alla segregazione. Lo si può collocare a tre livelli: fisico, funzionale e sociale.

L'inserimento fisico è il più facile a realizzare. La maggior parte degli insufficienti mentali pos­sono essere alloggiati sia in piccole unità inserite nella società, che in unità d'abitazione raggrup­pate in una zona di una certa entità.

L'inserimento funzionale consiste nel permet­tere agli insufficienti mentali l'uso di servizi col­lettivi: prendere l'autobus e il treno, fare degli acquisti nei grandi magazzini, approfittare delle installazioni per gli svaghi, ecc. Perché questo si possa realizzare, è necessaria sia una educazione che una partecipazione accuratamente organiz­zata del personale.

Il terzo livello, quello dell'inserimento sociale, è il più difficile da realizzare, perfino per i non handicappati! Per ottenere ciò occorre la partecipazione a una comunità sociale e stabilire rela­zioni con gli altri, farsi degli amici e cominciare a scambiare dei punti di vista, diventare una parte accettata di un contesto sociale.

 

UNA AFFETTIVITÀ PIÙ APERTA

 

L'abitazione per gli insufficienti mentali è un mezzo importante, forse l'atto più importante, in vista d'una normalizzazione. La concezione della abitazione è, d'altra parte, in ogni caso un eccel­lente strumento quando si tratta di modellare una società e le sue funzioni.

1 principi della politica dell'abitazione hanno sempre delle ripercussioni sugli individui . Per­mettendo agli insufficienti mentali di vivere nella stessa maniera degli altri ed in mezzo a loro, noi possiamo dimostrare che li vogliamo veder di­ventare un tutto intero nella vita della collettività.

Le comunità alloggio creano quelle condizioni materiali che permettono agli insufficienti men­tali e alla gente comune di entrare in contatto gli uni con gli altri. Ma le inchieste rivelano che il fatto di abitare in mezzo alla gente «comune» non apporta, nel maggior dei casi, che una modi­ficazione «culturale» della idea che ci si fa de­gli insufficienti mentali. Bisogna che in più, que­sta abitazione offra agli insufficienti mentali la possibilità di attendere alle proprie occupazioni in mezzo agli altri, nei negozi, negli autobus, nei campi sportivi, nei cinema ecc., perché anche l'at­titudine affettiva della gente diventi più aperta.

Ogni comunità è costituita in media da sette persone che abitano nella maggior parte dei casi nelle unità più piccole, quasi sempre due appar­tamenti. In ogni appartamento coabitano quindi tre o quattro persone. Gli appartamenti sono pros­simi fra di loro, ma raramente con la stessa en­trata. Ci sono comunità alloggio più grandi con dieci o quindici componenti ma allora sono divise in piccoli appartamenti diversi. Prendano il nome di comunità alloggio perché hanno una unica or­ganizzazione amministrativa e geografica. L'ap­partamento più grande serve per lo più da appar­tamento centrale (appartamento principale, ap­partamento di servizio) e comporta servizi di base per il personale.

La maggior parte degli inquilini ha una stanza singola. Certi appartamenti hanno delle camere da letto per due persone, previste principalmente per le coppie. Ma quando due persone, in gene­rale di sesso opposto, desiderano dividere una camera in comune, il più delle volte hanno dimo­strato che essi sono anche capaci di vivere in un appartamento da soli nelle vicinanze.

Il numero degli insufficienti mentali che abita­no da soli o in comunità alloggio rappresenta il 20% del totale.

Esistono circa 300 comunità alloggio per 2000 persone in tutto. In ciascuna di queste vivono in media sette persone di entrambi i sessi.

Le comunità alloggio sono quindi la formula dell'avvenire degli insufficienti mentali? A questo interrogativo si può rispondere sì, senza esita­zione.

Nei prossimi cinque anni noi contiamo di aprire circa 30 appartamenti per ogni anno.

Possiamo ragionevolmente supporre che il 20% che oggi abitano da soli o in comunità alloggio passeranno al 50%. Per gli altri, 30% vivranno probabilmente in case di cura e circa 20% pres­so i loro genitori o con altri membri della loro famiglia (2).

Le case di cura si dividono in: case di cura centrali, sono 21 ed hanno in media 200 posti; case di cura locali, sono 104 con una media di 50 posti.

Dai dati di oggi si rileva che soltanto 1000 sono gli insufficienti mentali adulti che vivono in ospe­dale, ma se si contano gli ospiti delle case di cura malgrado tutto sono ancora 9.700 le per­sone che vivono in case di cura e per lo più in case di cura troppo grandi.

Il 60% di quelli che vivono in comunità alloggio sono degli insufficienti mentali medi, 30% sono degli insufficienti mentali lievi e il 10% restanti sono insufficienti mentali gravi. Esiste il progetto di arrivare ad aprire delle comunità alloggio spe­ciali, per gli insufficienti mentali gravi come solu­zione definitiva in sostituzione alle case di cura.

Tutti quelli che vivono in comunità alloggio prendono parte, in una maniera o in un'altra, ad attività quotidiane fuori della loro abitazione.

La maggior parte si reca in un centro di giorno, alcuni, in minor numero, frequentano i laboratori protetti. Qualche anno fa, la proporzione di quelli che partecipano a queste due forme d'attività di giorno erano rispettivamente del 60% e del 25%. Gli altri si erano inseriti nel mercato del lavoro e avevano altre occupazioni.

Più della metà di quelli che si sono installati in comunità alloggio venivano da una casa di cura. Gli altri venivano direttamente dalla loro famiglia, dalle scuole speciali o da altre forme di abita­zione.

 

DUE TIPI DI ABITAZIONE INDIVIDUALE

 

Numerosi cambiamenti hanno luogo in seno alle comunità alloggio. Gli inquilini passano da grandi unità ad unità più piccole finché la ma­niera di abitare corrisponde alla propria capacità e al proprio grado di indipendenza.

Misurando questi cambiamenti, qualche anno fa, abbiamo constatato che in un anno la metà degli inquilini della comunità alloggio se ne era­no andati per installarsi in un appartamento pri­vato da soli o con un'altra persona! Noi abbiamo visto in questo succedersi di cambiamenti un ef­fetto diretto dell'abitare di gruppo; chi vi abitava ha avuto la possibilità di sentirsi auto-sufficiente, più che nel precedente tipo di abitazione, e ha acquisito l'indipendenza necessaria per avere una abitazione propria.

Ecco perché ci sono adesso due tipi di abita­zione individuale: quella che fa parte di una co­munità alloggio e quella che è interamente indi­pendente.

Tre mila insufficienti mentali adulti vivono ora in abitazioni indipendenti di questo ultimo tipo: degli esseri umani che sono stati salvati dalla vita in istituzioni, avendo per risultato vantaggi sia psicologici che economici.

Una comunità alloggio ha generalmente per punto di partenza un grande appartamento o una casa individuale; ci si aggiungono in seguito di­versi piccoli appartamenti o unità. Gli inquilini dei piccoli appartamenti hanno accesso all'appar­tamento principale per incontrarvi il personale e gli altri ospiti, stare insieme durante gli svaghi, nelle feste e così via. Il personale che conosce bene gli inquilini che abitano fuori è ugualmente responsabile della loro sorveglianza e fa il lavoro come elemento di sostegno e di unione.

 

RUOLO DEL PERSONALE

 

Il personale deve passare la notte nelle comu­nità alloggio? Finora ci si è sforzati di evitarlo. Ma, man mano che anche degli insufficienti gravi si installano in comunità alloggio, la presenza del personale 24 ore su 24 diventa una necessità. Si può dire che il ruolo del personale è d'esercitare una sorveglianza di base e di dare il suo aiuto nelle mansioni domestiche, cucina, pulizia e al­tre cose.

Ma è importante che non aiuti troppo e deve, al contrario, sforzarsi di essere abbastanza pas­sivo affinché gli ospiti possano imparare in misu­ra crescente a far fronte ai propri servizi. L'orga­nizzazione delle attività di svago, i contatti per­sonali per favorire l'adattamento sociale sono in­vece dei punti ai quali il personale dovrà dedicare molto tempo.

In nessuna di queste comunità alloggio, i mem­bri del personale abitano con gli inquilini. La loro abitazione è sempre completamente indipenden­te dalle comunità alloggio, soluzione che si è dimostrata come la migliore per entrambi.

Quando la comunità alloggio era ancora una formula nuova di abitazione per gli insufficienti mentali, si sono avute alcune difficoltà con la po­polazione dovute talvolta a errori commessi da noi che eravamo responsabili della pianificazione. Il nostro errore maggiore è stato di cominciare con gruppi troppo grandi in una stessa villa o in uno stesso appartamento: talvolta di dieci o do­dici persone. Abbiamo avuto anche torto di cer­care di installarci in quartieri già ben stabilizzati invece di farlo in quartieri residenziali nuovi dove la gente avesse fin dal principio la scelta tra ac­cettare di avere degli insufficienti mentali come vicini o rifiutare questa vicinanza rinunciando all'abitazione. In generale è stato ed è più facile accedere ad appartamenti in immobili in affitto (dove abitano molte famiglie) che comprare ville o case condominiali dove i condomini, essendo proprietari del proprio appartamento, hanno, più sovente che gli affittuari, tendenza a pensare in termini di «territorio» da difendere e reagiscono, contro gli insufficienti mentali, considerati come un elemento «perturbatore» del vicinato, nel ti­more che le loro proprietà perdano valore, ecc.

Se si vuol sapere sino a che punto é bene infor­mare in anticipo i futuri vicini, le opinioni sono diverse. In certi posti i responsabili danno un'in­formazione molto completa, mentre in altri i vici­ni sono informati soltanto quando gli insufficienti mentali si sono installati. Una misura che prima era necessaria, quella di informare, non lo è più da quando la gente nel suo insieme si è resa con­to che gli insufficienti mentali vivono tra di noi. D'altra parte, alcune inchieste hanno dimostrato che molti inquilini che abitano nella stessa casa con insufficienti mentali non si sono mai resi ben conto che fossero veramente insufficienti mentali e questo dimostra come i! loro inserimento so­ciale sia ben riuscito!

Noi che ci occupiamo del problema degli insuf­ficienti mentali in Svezia, sappiamo quanto sia importante che ci siano forme di abitazione alter­native per la vasta categoria degli insufficienti mentali adulti che da una parte non possono abi­tare indipendentemente, ma d'altra parte non han­no bisogno di essere in una casa di cura. Le co­munità alloggio appaiono come una forma di abi­tazione ideale che apporta agli insufficienti men­tali un «vissuto» e delle esperienze nello stesso tempo di una sorveglianza «soffice».

I responsabili politici hanno accettato le comu­nità alloggio sia per ragioni economiche - una forma di abitazione meno cara della casa di cura - sia perché è un'espressione concreta della normalizzazione. L'idea incomincia ad allargarsi a macchia d'olio: i responsabili politici s'interes­sano alla creazione di forme nuove dello stesso genere anche per i malati mentali in luogo degli ospedali psichiatrici.

I più scettici sono stati i genitori e i parenti. Evidentemente temevano che i loro congiunti fos­sero messi allo sbaraglio in una società che non li accettasse e si desse loro il sentimento di es­sere cittadini di seconda classe. Essi temevano soprattutto che soffrissero l'isolamento in questi piccoli gruppi, specialmente durante le ore di svago.

 

LE IMPRESSIONI DI ALCUNI INQUILINI SULLA LORO VITA IN COMUNITA’ ALLOGGIO - UN'IN­CHIESTA

 

Soltanto ora cominciamo a sapere qualcosa dell'opinione degli insufficienti mentali sulla vita in comunità alloggio. E. Lundblad e E. Victor han­no realizzato un'inchiesta comprendente colloqui con 61 inquilini di differenti comunità alloggio: l'80% degli inquilini vivevano in appartamenti da 4 e 7 persone per unità e gli altri in unità più pic­cole. Questi appartamenti rappresentano una me­dia delle comunità alloggio esistenti in Svezia. Nessuna fra le persone che precedentemente erano vissute in istituto ha giudicato in maniera negativa l'appartamento in confronto all'istituzio­ne. Tutti consideravano una cosa buona il trasfe­rimento in comunità alloggio. Tra quelli che pri­ma vivevano con la propria famiglia, qualcuno cer­tamente rimpiangeva il proprio focolare, ma i loro motivi per restare nelle comunità alloggio erano più importanti. Per gli insufficienti adulti lievi e medi, è sempre un gran problema sentirsi ed essere chiamati insufficienti mentali. L'impor­tanza di questo problema appare sempre più chia­ro a coloro che si occupano di insufficienti men­tali. Può essere opportuno prendere questo pro­blema come riferimento di partenza quando si vuol studiare il punto di vista degli insufficienti mentali sulla vita in comune in una comunità alloggio. L'inchiesta di Lundblad e di Victor mette in luce quanto segue:

1. abitare in un appartamento in comune invece che in un istituto implica possibilità accresciute di soddisfare i bisogni fondamentali, sociali e di altro genere; permette d'avere il proprio posto nella collettività. Il passaggio progressivo nella società ha apportato un elemento particolarmente positivo: gli insufficienti mentali hanno acquisito il sentimento di essere capaci e competenti. Essi hanno compreso di poter riuscire a fare un certo numero di cose;

2. gli abitanti di una comunità alloggio si sen­tono più indipendenti in questa forma di abita­zione che in un'istituzione o nella propria fami­glia. La dipendenza affettiva che è frequente in quelli che vivono nella propria famiglia, non esi­ste, mentre si è trattati in maniera più individuale che in istituto. È questa l'impressione favorevole più importante per chi vi abita. La metà di loro più o meno sono di questo avviso.

Ma l'inchiesta mostra anche che ci sono dei grandi rischi che le comunità alloggio funzionino come una piccola istituzione. Succede facilmente che si instaurino delle regole collettive. L'integri­tà personale è un'altra questione delicata. Si è detto agli insufficienti mentali che la comunità alloggio era la loro casa, ma il personale non sempre tiene conto di questo fatto. Succede, per esempio, che un membro del personale entri nel­la camera o nel loro appartamento quando co­loro che ci abitano non sono in casa;

3. quelli che hanno una abitazione possiedono un cerchio di relazioni nettamente più largo di quelli che vivono in istituto o con la propria fa­miglia. Molti degli interrogati dicono che ora si trovano con più gente e che possono vedere quel­li che vogliono. Essi hanno maggiori possibilità di scegliere le persone che essi desiderano fre­quentare.

Nessuno degli interrogati pensava che la vita in appartamento portasse ad un maggior isola­mento.

Le relazioni di quelli che ci abitano assomiglia­no a quelle del resto della gente.

Essi conservano in grande misura i loro amici di prima, sia che vengano da un istituto o dalla casa dei loro genitori. La possibilità di stabilire altri contatti è notevolmente aumentata. Essi in­contrano altra gente tra i vicini, sul luogo del la­voro ecc.;

4. la coscienza d'appartenere alla categoria de­gli insufficienti mentali, l'identificazione con un gruppo diverso, diminuisce quando si vive in comunità alloggio.

«Prima quando si viveva in istituto, la gente aveva una curiosa facilità a riconoscerci. Adesso ci si sente di più come gli altri»;

5. un elemento importante nella nozione che si ha di se stessi è il sentimento del proprio va­lore sociale. Riguardo a questo, la vita in comu­nità alloggio non sembra condurre a un migliora­mento particolarmente accentuato. Alcuni di quel­li che vi abitano continuano ad esprimere una concezione di se stessi molto negativa per quan­to concerne il loro valore sociale. Questo par­rebbe essere strettamente legato alla maniera in cui sono stati trattati antecedentemente. Dopo tanti anni passati in forme di abitazione senza indipendenza, essi si aspettano ben poco dalle relazioni con gli altri, hanno l'abitudine a un ruolo subordinato e a non esprimere esigenze. Il loro bisogno di contatto con gli altri è determinato dal loro bisogno di aiuto. L'insufficiente mentale è troppo facilmente educato in maniera di divenire un «paziente». Anche se l'integrazione sociale ha contribuito in ogni modo a far sì che gli abi­tanti delle comunità alloggio si sentano il più possibile come gli altri, molti fra di loro hanno il sentimento di appartenere prima di tutto alla ca­tegoria degli insufficienti mentali.

È interessante vedere come gli insufficienti mentali designano gli altri. Essi li chiamano « a gente comune», «gli altri» o «quelli che stanno bene».

 

I CONTATTI PERSONALI

 

1. Circa la metà dei locatori sono in contatto con le loro famiglie. Per molti di loro queste rela­zioni si sono migliorate, essi si vedono più fre­quentemente. E questo vale anche per quelli che vivevano in famiglia: «Prima non eravamo mai d'accordo, adesso trovo che la mamma è straor­dinaria».

Adesso si può scegliere quando si vuole vede­re la propria famiglia: «Prima, bisogna stare tut­to il tempo insieme ai genitori».

L'autonomia riguardo ai genitori è manifesta.

2. Con qualche eccezione, coloro che abitano insieme hanno come amici degli altri insufficienti mentali. L'appartamento ha dato loro migliori pos­sibilità di scelta di nuovi compagni, ma, come si è detto, sempre essenzialmente in seno alla ca­tegoria degli insufficienti mentali.

3. I rapporti coi vicini dipendono dalla durata del soggiorna in comunità alloggio. Nessuno ave­va avuto dei contatti sgradevoli coi vicini. Molti di quelli che avevano vissuto un certo tempo in una comunità alloggio li salutavano e scambia­vano qualche parola, con loro. Questo genere di contatti con i vicini era sentito come positivo.

4. Trattandosi di contatti superficiali con il re­sto della popolazione in generale (nei negozi, ne­gli autobus, ecc.) l'impressione più importante è il sentimento che può sorgere a seguito di questi contatti. La maggior parte fanno da soli i loro ac­quisti alimentari, anche se talvolta bisogna usare qualche espediente. Alcuni hanno delle difficoltà negli acquisti perché non sanno leggere e con­tare.

La maggior parte non osservano niente nell'at­titudine della gente, se non che questa è corretta e gentile in maniera generale. Certi hanno l’im­pressione d'essere trattati differentemente - troppo aiutati o mal ricevuti -, qualcuno trova che l'attitudine della gente è migliorata da quan­do essi vivono in comunità alloggio.

5. Il personale non è, per la maggior parte dei casi, considerato come degli amici, ma come per­sone che si prendono cura di loro, degli assistenti e dei sorveglianti.

 

LE IMPRESSIONI DEL PERSONALE

 

Una inchiesta di J. Knights ha cercato di esa­minare l'attitudine e la situazione di lavoro del personale nelle case di cura e nelle comunità alloggio.

Si è interrogato il personale di 18 comunità alloggio e di 9 unità (servizi) di una casa di cura con 330 posti letti per adulti.

Una differenza tra le due categorie del perso­nale la si constata nel fatto che il personale del­le comunità alloggio partecipava più spesso di quello delle case di cura a dei dibattiti e discu­teva più sovente coi compagni dei differenti pro­blemi del lavoro.

Anche le motivazioni del lavoro differivano. Il personale delle case di cura insisteva maggior­mente sull'importanza della vocazione umanita­ria, cioè di aiutare il prossimo. Ciò deriva in parte dal fatto che gli ospiti delle case di cura sono più frequentemente degli insufficienti mentali gravi, e hanno bisogno di maggior aiuto di quelli che abitano in comunità alloggio, ma questa può essere solo una spiegazione parziale. Il perso­nale delle comunità alloggio aveva in maggior misura una motivazione professionale più nor­male, e la loro soddisfazione nel lavoro era su­periore a quella del personale delle case di cura.

Le divergenze di opinione sugli obiettivi di cia­scuna delle due formule di abitazione non erano molte, ma esistevano. Nelle case di cura si invo­cavano spesso degli obiettivi piuttosto passivi le­gati all'interessato stesso, per esempio la possi­bilità dell'insufficiente mentale di potersela ca­vare da solo.

Nelle comunità alloggio, al contrario, si formu­lavano degli obiettivi attivi a orientamento socia­le. I punti di vista differivano maggiormente nel personale senza formazione professionale. Que­ste differenze possono in parte derivare dal fatto che questo personale si occupa di insufficienti mentali di diversi gradi.

La rotazione del personale è nettamente mag­giore nelle case di cura che nelle comunità al­loggio dove il personale lavora in équipes e dove non c'è un capo nel lavoro quotidiano. Tutti fanno lo stesso lavoro.

 

CONCLUSIONI

 

L'integrazione è il mezzo principale per realizzare una normalizzazione degli insufficienti men­tali. In Svezia, un buon numero di insufficienti mentali hanno lasciato, nel corso degli ultimi anni le case di cura per delle comunità alloggio e degli appartamenti privati. La vita nelle comunità allog­gio modifica la nozione di se stesso che ha l'in­sufficiente mentale, e anche il modo in cui è visto da coloro che lo circondano.

Il modo in cui è visto accresce il suo senti­mento di libertà individuale e la sua coscienza di poter decidere da solo ed essere responsabile. Egli avverte anche in maggior misura di essere capace a farcela da solo. Il fatto di vivere in condizioni normali, in seno alla società e non al di fuori, dà all'insufficiente mentale un senso ac­cresciuto del suo valore personale.

Ma non è facile modificare la sensazione del suo poco valore sociale. La maggior parte di essi sono bloccati nel proprio ruolo subordinato, e senza esigenze, di insufficiente mentale, ma al­cuni tra loro cominciano a criticare e a rendere esplicite delle esigenze riguardo alle loro rela­zioni sociali.

L'inserimento fisico e funzionale apporta dun­que all'insufficiente mentale dei vantaggi apprez­zabili sul piano personale, ma non porta con sé automaticamente una realizzazione di se stesso.

L'integrazione sociale è profondamente marca­ta dal vissuto precedente. Una condizione impor­tante per poter vivere in comunità alloggio è l'ap­prendimento, delle attività quotidiane. Questo mo­do di vita esige ugualmente un apprendimento nel controllo dei sentimenti, dei bisogni e dei desideri, in particolare nei rapporti con gli altri.

Il personale che lavora nelle comunità alloggio si sente più impegnato professionalmente di quel­lo che lavora nelle case di cura. Il suo lavoro gli dà più soddisfazione e la rotazione del personale è minore.

 

(Traduzione di Miriam Montalenti dalla rivista Epanouir, n. 90, ottobre 1977).

 

(*) Prospettive assistenziali, n. 46, aprile-giugno 1979.

(1) Karl Grunewald, medico, dal 1961 è capo della Di­visione svedese per l'assistenza agli insufficienti mentali della Direzione nazionale della salute pubblica e della pre­videnza sociale. È membro del Comitato consultivo sulla insufficienza mentale della Organizzazione mondiale della sanità.

(2) Nel 1975, le abitazioni di tutti gli insufficienti mentali adulti (23.000 persone) si presentavano come segue:

- in casa di cura                                           38%

- presso i genitori o parenti                          33%

- abitazione indipendente                             12%

- comunità alloggio                                        7%

- in ospedale                                                 4%

- affidamenti familiari a non parenti              3%

- altre forme di abitazione                             3%

 

 

 

 

 

 

LINEE PROGRAMMATICHE ED EDUCATIVE DEL GRUPPO APPARTAMENTO DI VIA BORSI - MESTRE (*)

 

 

La relazione che pubblichiamo potrebbe rap­presentare il punto di partenza per la generaliz­zazione di un'iniziativa isolata, frutto della dispo­nibilità di un gruppo di operatori che aveva alle spalle una precedente esperienza di comunità alloggio.

Purtroppo a quasi due anni dal suo avvio essa rimane ancora «una precaria sperimentazione». È per superare questa fase di «stallo» che un gruppo di operatori del territorio assieme a quelli della comunità alloggio stanno organizzan­do un convegno.

A nostro avviso i nodi che dovranno essere sciolti, e che nel convegno potrebbero trovare la tribuna più qualificata, sono i seguenti:

- avvio di una politica di interventi alterna­tivi all'istituto, che oltre alla generalizzazione delle comunità alloggio preveda tutta una serie di altri servizi quali: quello di affido familiare (adeguatamente sostenuto), di assistenza domi­ciliare, economica, ecc.;

- gestione diretta da parte dell'Amministra­zione provinciale oggi e dell'ULSS, non appena funzionante, di tutti i servizi,­

- superamento della fase sperimentale e del rapporto di lavoro libero professionale degli ope­ratori che debbono essere regolarmente assunti;

- programmazione ed immediato avvio di tut­ta una serie di corsi di riqualificazione per ricon­vertire attuali operatori degli ospedali psichia­trici o dell'istituto psico-pedagogico in operatori per l'attuazione dei servizi alternativi al ricovero.

Qualora gli amministratori degli Enti locali non volessero dare una risposta adeguata a queste legittime richieste, alle forze di base, ed al sin­dacato non rimarrebbe altra soluzione che denun­ciare tali inadempienze ed individuare i momenti di lotta più adeguati.

G.B.

RELAZIONE

 

Il gruppo appartamento di via Borsi nasce co­me esperienza deistituzionalizzante in quanto ac­coglie cinque minori provenienti dall'istituto psi­co-pedagogico «Villa Pancrazio» di Marosco: ha caratteristiche specifiche che lo pongono in alter­nativa all'istituto.

Questo tipo di intervento, anche se lascia inal­terati i fattori che hanno determinato quelle si­tuazioni di emarginazione, mantiene le contraddi­zioni all'interno della società: il quartiere dovrà prendere atto del gruppo appartamento, che de­nuncia attraverso la presenza dei suoi ospiti il processo di esclusione sociale.

Il quartiere diventerà la realtà del gruppo ap­partamento attraverso due momenti fondamentali di confronto:

a) il coinvolgimento da parte degli operatori di tutte le forze che operano nel territorio;

b) le relazioni vissute dagli ospiti con il vi­cinato, la scuola, i coetanei, le famiglie, i grup­pi, ecc.

Il gruppo appartamento non dovrà essere una iniziativa isolata ma una indicazione da seguire in un contesto più globale dei servizi sociali per i lavoratori: la medicina scolastica e i poliambu­latori di quartiere, gli asili nido, gli interventi per gli handicappati, la tutela sanitaria e sociale de­gli anziani, il servizio domiciliare e la medicina preventiva dei lavoratori.

Dal punto di vista giuridico, tutto ciò significa applicare ed attuare i principi ed i diritti della Costituzione.

Il nostro sarà quindi un piccolo contributo al cambiamento del servizio socio-sanitario.

In istituto la giornata é prefissata da determi­nati orari; l'utilizzazione degli spazi è rigida, in funzione dell'istituto stesso.

Nell'appartamento, a parte il necessario rispet­to dei tempi scolastici e di lavoro dei ragazzi stessi, ogni momento sarà riempito sulla base degli interessi, dei bisogni, delle motivazioni di chi lo abita. Gli spazi e i tempi saranno a misura d'uomo.

L'istituto per funzionare ha bisogno della ge­rarchizzazione dei ruoli. I ragazzi verificano su­bito che c'è chi dirige e chi esegue; più o meno consapevolmente ubbidiscono ai primi e sottova­lutano i secondi.

Nell'appartamento tutti i problemi di conduzio­ne e gestione sono a carico degli educatori. Tutti siamo responsabili di ogni aspetto della vita co­munitaria e nessuno è più responsabile degli al­tri. L'intervento pedagogico è qualificante ed edu­cativo quanto il momento delle pulizie della casa. Scopo dell'istituto è continuare se stesso.

Scopo del nostro gruppo appartamento è, al li­mite, esaurirsi: esaurire la sua necessità per i ragazzi per cui si è costituito.

Il gruppo appartamento deve essere una strut­tura dinamica pronta a modificarsi rispetto ai bisogni del momento. Il cambiamento della strut­tura dovrà essere garantito dal confronto tra ope­ratori sociali e operatori politici, tra gli educatori stessi e i ragazzi ospiti dell'appartamento. Que­sti momenti dovrebbero evitare il rischio dell'in­staurarsi di un processo di istituzionalizzazione della micro struttura.

 

Gli educatori

L'azione dell'educatore inizia dall'accettazione totale del minore, del suo vissuto e di tutto quel­lo che egli vuole esprimere.

L'educatore deve saper accettare e gestire an­che lunghe fasi di conflittualità, evitando il peri­colo di una rottura psicologica tra il presente e il passato del ragazzo, aiutandolo ad una elabora­zione progressiva del suo vissuto fino alla con­quista positiva della sua identità.

L'educatore deve essere un possibile modello di identificazione per il ragazzo, deve garantirgli la soddisfazione di bisogni affettivi e deve essere in grado di porsi come norma, come autorità ca­pace di portarlo a delle esperienze di sicurezza e autonomia.

Questo si configura come un rapporto terapeu­tico continuativo, e necessita perciò di momenti di aggiornamento e di supervisione.

 

Rapporto tra educatori - équipe

Gli educatori operano collegialmente con la esclusione di ogni rapporto gerarchico per l'at­tuazione del rapporto educativo terapeutico. Le osservazioni e le decisioni, sia a carattere psico­pedagogico che amministrativo verranno prese collegialmente. Per alcuni aspetti della conduzio­ne ci si servirà della consulenza dell'équipe e per altri si richiederà il parere dei ragazzi stessi. Tenendo pur conto della facilità di incontri infor­mali tra educatori si prevede una riunione setti­manale.

Il cammino dei ragazzi ospiti in comunità sarà seguita e valutato criticamente con tutti gli stru­menti del caso, anche quelli più strettamente tecnici.

Con l'équipe dell'istituto medico-psico-pedago­gico «Villa Pancrazio» si avranno rapporti quin­dicinali, per un confronto sul valore di quanto si va attuando, contribuendo così a chiarire agli operatori diretti le problematiche emerse nella pratica quotidiana relativamente alle dinamiche del rapporto con i ragazzi.

In questo contesto abbiamo sentito l'esigenza di un momento di supervisione e formazione co­mune con gli operatori del Servizio Igiene menta­le provinciale e con i collaboratori del Prof. Mor­purgo. Il collegamento con l'équipe dell'Istituto M.P.P. di Marosco, acquista anche il senso di una continuità reale e concreta tra le prospettive del superamento dell'istituto e diviene uno strumen­to intermedio di inserimento del minore nella realtà del territorio.

 

Intervento educativo

Il gruppo appartamento ha lo scopo di «far ca­dere» comportamenti istituzionalizzati nei ragaz­zi ospiti.

La «ricostruzione» della personalità di ogni ragazzo avviene attraverso la relazione con gli adulti disponibili ad accettarli, ed altrettanto di­sponibili a mettersi in discussione.

Nel gruppo appartamento la relazione affettiva tra gli educatori e i ragazzi dovrà permettere una diversa «lettura» dei comportamenti che si ma­nifesteranno. Questa relazione affettiva favorirà l'individuazione di bisogni mai espressi o insod­disfatti.

Si prevedono due fasi comportamentali: in se­guito alla caduta dei ruoli istituzionali ci sarà un periodo di regressione comportamentale e di rea­zioni violente, naturale conseguenza della strut­tura liberante e della presenza di adulti disposti ad accettare un comportamento diverso.

A questa fase seguirà quella della ricostruzio­ne vera e propria della personalità che vede adul­ti e ragazzi confrontarsi con l'esterno: vita di re­lazione scolastica, lavorativa, coi coetanei, coi gruppi, ecc.

In questa fase è molto importante il ruolo dell'educatore che di nuovo sostiene gli scontri con la vita quotidiana e mantiene un atteggiamento comprensivo di fronte agli eventuali episodi pro­vocatori dei ragazzi nei confronti della realtà esterna.

In questa dimensione positiva di disponibilità e interrelazione con l'esterno il ragazzo ospite si troverà gradualmente ad organizzarsi i tempi e gli spazi personali raggiungendo così la propria autonomia.

Nessuna esperienza terapeutica, individualiz­zata, di gruppo o comunitaria viene iniziata e con­tinuata se non esiste una reciproca scelta, se non viene vissuto un rapporto di stima e fiducia sia personale, sia sul lavoro che si condurrà in­sieme.

Nessun istituto assistenziale accetta i suoi ospiti indiscriminatamente dal tipo e dalla gra­vità dei bisogno a meno che il ricovero non si­gnifichi l'approdo all'ultima desolante spiaggia della morte assistenziale.

A maggior ragione si deve tener conto di que­sto nelle esperienze di piccoli gruppi e comunità, laddove la dinamica dei rapporti è molto stretta e le emozioni, in particolare empatiche, vengono avvertite sensibilmente e immediatamente, dove la presenza, l'umore, i disturbi della personalità e del comportamento di uno dei qualsiasi sog­getti, minori o adulti, va ad interessare necessa­riamente quello di tutti gli altri (vedi le pubblica­zioni sulle comunità antipsichiatriche inglesi e quelle di B. Bettelheim della Orthogenic School).

Ai minori dovrebbe essere data possibilità di scelta e di decisione sulla propria sistemazione, al contrario di come è avvenuto finora dove il ri­covero in istituto ha avuto la caratteristica di es­sere la soluzione unica e il più delle volte coatta.

Così gli educatori, essendo impegnati in rap­porti interpersonali profondi con i soggetti a loro affidati, non possono essere costretti ad operare al di fuori di un campo di conoscenza e di compe­tenza, senza vivere il disagio di tale situazione, senza difendersi con un rapporto distaccato e strettamente «professionale».

 

Organizzazione interna del gruppo appartamento

Il gruppo vivrà un'esperienza di tipo familiare. Ci si propone che tutti i ragazzi abbiano un'oc­cupazione quotidiana all'esterno dell'appartamen­to: scuola o lavoro.

L'appartamento verrà quindi prevalentemente utilizzato dai minori nel pomeriggio dei giorni fe­riali e nelle festività.

La presenza, di almeno uno degli educatori ver­rà assicurata permanentemente nelle ventiquat­tro ore per l'organizzazione della giornata, dei servizi domestici e in previsione di necessità di permanenza diurna dei minori (malattia, attesa di occupazione lavorativa, ecc.). Si eseguiranno turni di lavora nei quali, a rotazione, saranno pre­senti due educatori nei momenti significativi del­la giornata: pranzo, pomeriggio, cena; un educa­tore si fermerà a dormire la notte.

 

Scuola

Verranno tenuti con la scuola rapporti mensili e comunque, quando se ne presenta la necessità, in forma tempestiva.

Il ragazzo verrà seguito per i compiti che gli verranno assegnati e per la loro esecuzione con sistematicità, in particolare nelle materie in cui egli viene a trovare più difficoltà.

 

Lavoro

A seconda che il ragazzo sia più o meno auto­sufficiente, lo si aiuterà nella ricerca di un im­piego, a seconda delle sue intenzioni e la possi­bilità che il mercato del lavoro offre. Saranno da stabilire e mantenere rapporti di cordialità e col­laborazione con i datori di lavoro. Si controllerà il denaro in modo che ogni ragazzo, dopo aver soddisfatto i bisogni primari, ne conservi una parte a titolo di risparmio.

 

Tempo libero

Il vissuto di esperienze felici e positive insie­me scioglierà le resistenze e le difese personali e rafforzerà i rapporti sociali.

I momenti di divertimento, saranno considerati importanti, sia nell'aspetto organizzativo che espressivo.

I mezzi di informazione sociale (radio, televi­sione, riviste, cinema, libri, musica, ecc.), ver­ranno sottoposti ad un interesse critico dei con­tenuti e delle forme espressive.

Gruppi spontanei e associazioni giovanili esi­stenti nel quartiere verranno individuati e consi­derati nella prospettiva di un inserimento nelle loro attività dei ragazzi ospiti dell'appartamento.

Le fasi di conoscenza reciproca dei ragazzi ap­partamento-quartiere, e di rafforzamento delle re­lazioni, saranno non forzate e proposte in base agli interessi e ai tempi di maturazione dei ra­gazzi stessi. Importante sarà il nostro intervento preparatorio e di attenzione continua affinché non si verifichino episodi di rigetto onde evitare che l'approccio all'esperienza socializzante risulti fal­limentare.

 

Pulizie e ordine personale

I minori verranno interessati alla cura e alla pulizia della propria persona, delle proprie cose e alla partecipazione dell'ordine e delle pulizie degli ambienti di uso comune.

 

Ruolo del responsabile

Specifiche attribuzioni di responsabilità sono state affidate a uno di noi in ordine a particolari esigenze burocratiche. A tale proposito, al re­sponsabile, identificata nella persona di C.F., viene corrisposto un assegno mensile compren­dente tutte le spese di gestione e la retribuzione mensile degli educatori.

 

Nota

L'appartamento, di proprietà della Provincia di Venezia, situato in Via Borsi 14 - quartiere Car­penedo - Mestre, ospiterà cinque ragazzi ed è provvista di una cucina, soggiorno, tre camere, doppi servizi, ripostiglio e garage.

 

(*) Prospettive assistenziali, n. 47, luglio-settembre 1979.

 

 

 

 

 

 

LA COMUNITÀ ALLOGGIO DI IVREA (*)

 

 

La nostra comunità ha ormai quasi 10 anni di vita, essendo sorta nel 1974 per iniziativa di un gruppo di privati cittadini.

Essa si poneva e si pone tuttora come obiet­tivo di evitare l'istituzionalizzazione dei minori e quindi offrire l'accoglienza il più possibile tempo­ranea.

Fin dall'inizio il gruppo di privati si è riunito in associazione formale e si è preoccupato di re­sponsabilizzare per la gestione della comunità anche l'Ente pubblico.

I comuni, che nel 1974 usufruivano del servizio (passati rapidamente da 4 a 9 e poi a 10), si impegnarono a farsi carico delle spese di gestio­ne, ripartite secondo il numero di abitanti di ciascun comune, a partecipare al Consiglio diret­tivo dell'Associazione, eleggendo un numero di rappresentanti comunali pari a quello dei rap­presentanti dei soci.

L'amministrazione della comunità anche se finora è stata tenuta da soci volontari, è in base allo statuto espressa dal Consiglio direttivo, ed è sottoposta alla supervisione dello stesso e quindi anche dei rappresentanti dei comuni.

Dal settembre del 1982 fra le comunità allog­gio e l'USSL n. 40 di Ivrea (Torino) è stata sti­pulata una convenzione, tuttora in vigore, che re­gola con una semplice normativa i rapporti fra le due parti e garantisce alla comunità la coper­tura delle spese di gestione. In base a tale con­venzione, del Consiglio direttivo fanno parte rap­presentanti nominati dall'Assemblea dell'USSL.

Fra gli scopi essenziali della comunità, sorta per realizzare una valida alternativa all'istituzio­nalizzazione dei minori, vi è quello di offrire ai ragazzi ospitati un ambiente di tipo familiare, do­ve gli educatori siano per essi delle figure simili il più possibile a quelle parentali (genitori - fra­telli maggiori).

Da sempre le ammissioni dei bambini avvengo­no tramite le assistenti sociali competenti del territorio, le quali debbono impegnarsi a mante­nere i contatti con le famiglie da cui essi proven­gono e con gli operatori della comunità.

Gli educatori, cinque attualmente, si avvalgono anche della collaborazione di uno o due obiettori di coscienza e garantiscono ovviamente una pre­senza continua di una o due persone 24 ore su 24. Le ore più impegnative della giornata (dalle 16 alle 21 e gli interi fine settimana) sono coperte da due educatori presenti più un obiettore o una collaboratrice domestica.

Dal 1974 sono passati nella comunità alloggio più di un centinaio di bambini e ragazzi, con pe­riodi di permanenza variabili da pochi giorni a diversi anni.

L'impegno educativo è molto vasto e diversifi­cato a seconda delle esigenze dei ragazzi e dei vari momenti della giornata: accompagnare i più piccoli a scuola, collaborare alla preparazione dei pasti, fare la spesa, assistere i ragazzi nei com­piti, organizzare il tempo libero, partecipare alla loro vita rendendosi disponibili all'ascolto di qualsiasi loro richiesta.

Va qui ancora sottolineata la disponibilità ad accogliere utenti di età variabile da meno di due anni a 18, comprendendo quindi anche i così detti «adolescenti a rischio». Inoltre dalla fine del 1976 a tutt'oggi é presente in comunità una han­dicappata psichica medio-grave, per la quale non è stata trovata finora una sistemazione alter­nativa.

Alcuni dati statistici

Gli utenti appartengono ad un territorio di cir­ca 50.000 abitanti. Dal 1974 a tutto il 1983, sono stati ospitati:

n. 115 minori di cui 66 maschi e 49 femmine, di 75 famiglie diverse. Considerando l'età al mo­(diversi in anni mento del primo ingresso in comunità casi sono stati ospitati più volte, anche successivi) la suddivisione è:

- da zero a 3 anni      n. 20

- da 4 a 6 anni         n. 25

- da 7 a 10 anni       n. 26

- da 11 a 13 anni     n. 27

- da 14 anni in su    n. 27

La durata della permanenza totale è stata (eventualmente in più volte):

per 76, inferiore a tre mesi

per 21, da tre mesi a un anno

per 7, da uno a due anni

per 11, oltre due anni

Dopo la permanenza in comunità:

102 sono rientrati in famiglia (fra questi quelli con brevi permanenze)

2 sono stati adottati

4 hanno iniziato la loro vita autonoma (maggio­re età, matrimonio)

1 è stato affidato ad una famiglia

2 sono passati ad altra comunità

4 sono presenti a fine 1983.

Le presenze totali nel 1983 sono state 2836 giornate (con 28 minori diversi) e quindi la spesa media giornaliera è stata L. 29.975 (per mi­nore).

Il consuntivo 1983 ha dato una spesa comples­siva di L. 85 milioni circa, di cui: 64% persona­le; 27% vitto, trasporti, varie; 9% per i locali (affitto, utenze varie, riscaldamento).

 

(*) Prospettive assistenziali, n. 66, aprile-giugno 1984.

 

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