Prospettive assistenziali, n. 67
bis, luglio - settembre 1984
ESPERIENZA FRANCESE DI FOCOLARE PER
INSUFFICIENTI MENTALI ADULTI (*)
L'appellativo di «Focolare di Lavoratori» corrisponde,
per noi, alla preoccupazione di integrare il giovane,
l'adulto insufficiente mentale in un quartiere, senza per altro mettere un'etichetta
che potrebbe sottolineare la sua deficienza. Ci sembra molto importante che un
giovane possa trovare sulla buca delle lettere del suo appartamento, un
indirizzo che non sia per lui un handicap per la sua
integrazione.
Il Focolare accoglie, per il momento, un gruppo di 16
uomini adulti. L'età di ammissione, stabilita secondo
criteri amministrativi, è di 20 anni. Non vi è limite d'età per la dimissione dai Focolare. Attualmente, il più
anziano sta per compiere i 40 anni.
Questo gruppo abita in due appartamenti del medesimo
stabile, l'uno di tipo F4 al terzo piano, l'altro di
tipo F3 al sesto piano. I due appartamenti hanno la medesima scala di accesso.
Il Focolare di Lavoratori è animato da un educatore
e da una educatrice, entrambi sposati, avendo ciascuno
rispettivamente uno e tre figli. L'educatrice e la sua famiglia abitano al
terzo piano e ha il pianerottolo in comune con l'alloggio F4; l'educatore e la
sua famiglia abitano al sesto piano, sul medesimo pianerottolo dell'alloggio F3.
Gli appartamenti, sia del personale educativo sia dei
giovani lavoratori, hanno in comune i servizi e le
comodità dello stabile, insieme con gli altri locatari (buca delle lettere,
scale, ascensore, ecc.).
Ci sembra importante precisare che l'ammissione di
un giovane lavoratore in questo Focolare, è l'ultimo di una serie di interventi e di azioni medico-socio-educativi
antecedenti, che la nostra équipe ha iniziato nell'Istituto medico-pedagogico
di Place Napoléon fino a 14
anni, e ha proseguito fino ai 20 anni nel nostro
Istituto medico professionale. La presa in carico più o meno totale nel quadro del Focolare dei Lavoratori, si può prospettare
per alcuni di questi giovani, a partire dai 20 anni.
Questa evoluzione verso l'acquisizione progressiva
d'una autonomia molto importante è percepita dai più
anziani dell'istituto medico professionale, non come una promozione o una
gratificazione, ma come lo sbocco rassicurante quando essi si interrogano, al
loro livello, sul proprio avvenire.
Se per ragioni soprattutto amministrative, l'età di 20
anni è tassativa per l'ammissione al Focolare, in pratica l'adolescente è
preparato dai suoi educatori al suo status di giovane lavoratore. La rottura
non sarà dunque brutale a livello della differenza del «regime di vita».
Un'abitudine all'autonomia, al proprio controllo, nel quadro
dell'inserimento sociale, l'aiuterà a superare la soglia del «Focolare»
e il giovane adulto sarà sufficientemente informato per affrontare il più facilmente
e il più naturalmente possibile, l'ambiente che costituirà il quadro di vita
in tutto simile alle altre persone che vivono nella comunità urbana.
Il compito degli educatori che animano il gruppo, ora individualmente, ora in coppia educativa, è
essenzialmente un ruolo di presenza. Infatti ci sembra
essenziale evitare, con questi lavoratori, di ricreare l'immagine classica
dell'educatore di gruppo d'internato. La funzione educativa è qui differente.
Si suppone, infatti, che un certo numero di acquisizioni
di base siano state assimilate dai giovani, e che questi abbiano acquisito
delle abitudini di autonomia più elaborate, e siano quindi sufficientemente
preparati per affrontare una terza dimensione di riadattamento e per subire
«l'aggressione» dell'ambiente non istituzionalizzato che è costituito dai
vicini, dalle case, dal quartiere, e dal lavoro esterno per alcuni.
L'autonomia lasciata al lavoratore in vista della sua integrazione sociale, sarà sufficientemente
importante per non essere solo apparente, ma per essere realmente come quella
degli altri cittadini. Per contropartita, l'animazione di un tale gruppo sarà
tale che il giovane vi possa ritrovare una sicurezza
affettiva e materiale dinamica. Qui, la gestione
effettiva dei pasti, del ménage, delle attività, dei contatti con l'esterno
non sarà più un'azione dell'educatore, ma della cellula di vita in cui gli
atteggiamenti e gli interventi saranno individualizzati al massimo. Si tratta ormai di «fare del giovane lavoratore ciò che
egli deve diventare e non ciò che il gruppo o l'educatore desiderano che diventi».
L'organizzazione di questi gruppi di vita sarà tutta
permeata dall'individualizzazione della relazione e
dell'azione educativa. L'educatore non sarà più colui che
ordina la levata al mattino, ma colui che aiuta a sentire il suono della
sveglia. Il suo compito sarà essenzialmente quello di stimolare, di suscitare,
di essere colui che viene consultato e che consiglia.
Il sostegno ergoterapeutico
che il giovane trova negli appartamenti lo aiuterà ancora a scoprire
e a ricercare l'integrazione nei gruppi di vita esterni a quelli
dell'istituzione: clubs, gruppi sportivi, casa dei
giovani, libertà di uscita che equivale spesso alla scelta di compagni esterni
al Focolare.
D'altra parte, la manipolazione e la gestione del suo
denaro (partecipazione alle spese della sua biancheria
e dei suoi vestiti) gli faranno prendere coscienza della sua realtà.
La relazione «assistente-assistito» evolverà a poco a
poco verso una relazione di aiuto reciproco.
Ecco quindi come l'équipe che anima attualmente il
Focolare ne concepisce il ruolo e la funzione. Il Focolare rappresenta il
frutto di un lungo lavoro nell'ombra e, in certa misura, la sommità della curva
di adattamento dei nostri giovani e dei nostri adulti.
Ormai, la società deve poterli accettare interamente, e non più sopportarli. Infine
voglia essa dividere con loro il sole (1).
J.-M. DEVIN, animatore dell'équipe di
lavoro
D. PILLET, direttore dell'istituzione
(*) Prospettive
assistenziali, n. 18, aprile-giugno 1972. Da Foyers d'adultes, numero speciale del 1972 della rivista Nos enfants inadaptées dell'U.N.A.P.E.I., 28, Place St. George, 75 - Paris (9°).
(1) Bisogna sottolineare che questa
esperienza, che conta attualmente più di un anno, ha visto l'estensione di questi
appartamenti, e bisogna registrare ora non più due sole cellule di vita, ma
sette, che si trovano in appartamenti H.L.M. di tipo
F3 e F5.
Le coppie di educatori
sono passate da due a tre, legalmente costituite, cioè tutte e tre costituite
da coppie sposate, con bambini, e inoltre si aggiungono ad essi degli
educatori tirocinanti temporanei, che vengono a vivere questa esperienza.
Bisogna segnalare che i servizi di
collocamento lavorativo, all'uscita dall'Istituto
medico-professionale, sono limitati, e il giovane che trova lavoro
nell'ambiente naturale (artigiani, piccoli esercenti, piccole industrie), ha
sempre bisogno del supporto educativo e psicologico che trova in questo settore
di assistenza del Focolare, e noi pensiamo, dopo alcuni mesi di riflessione, di
orientarci definitivamente verso tale
forma di istituzione.
UN ESEMPIO DI SERVIZIO NON
EMARGINANTE ( * )
A. BRAMBILLA - D. BARLASSINA
Pubblichiamo
lo scritto di due educatori sui risultati ottenuti dalla «comunità familiare»
operante in Desio, Via Pozzo Antico 60, nel reinserimento di soggetti
bisognosi di interventi specialistici: esso è un
esempio di collaborazione con la comunità locale per assistere senza ricorrere
all'istituzionalizzazione. Il focolare di Desio è stato costituito nel 1971
utilizzando un appartamento vacante al disopra della
portineria dell'Ospedale di Desio; ne sono responsabili i firmatari della
relazione.
In data 27-9-1972 veniva
richiesto dall'ufficio di servizio sociale del comune di Desio, alla direzione
dell'Ospedale Corberi di Limbiate,
di accogliere il minore T. Vincenzo di anni 10, presso
il focolare o «comunità familiare», operante in Desio, Via Pozzo Antico, 60.
Poiché tale comunità familiare è sorta per agire da
tramite fra il minore e la famiglia, per individuare la causa del rifiuto,
aiutare entrambi per la reciproca accettazione e, dove ciò non fosse possibile, per sensibilizzare la comunità ad adottare
strutture capaci di reinserire soggetti bisognosi di attenzione e cure
particolari, e non certo una continuata istituzionalizzazione che
inevitabilmente rimanda la soluzione del problema al domani e nello stesso
tempo la complica impedendo un normale sviluppo della personalità per la sua
struttura verticistica e chiusa alle dinamiche sociali,
noi accogliemmo il minore Vincenzo per collaborare con la comunità locale che
in questo caso non voleva ricorrere all'îstituzionalizzazione.
Nel periodo in cui il suddetto minore fu affidato
alle nostre cure notammo che l'aiuto di cui aveva
bisogno, trattandosi di un ragazzo di intelligenza nella norma e di capacità
globali buone, era quello di approfondire la conoscenza della sua situazione
familiare, la quale chiaramente stava all'origine delle turbe comportamentali
del minore, che ultimamente l'avevano portato ad essere rifiutata da una
famiglia alla quale temporaneamente l'ufficio di servizio sociale l'aveva
affidato.
Il primo passo nella ricostruzione della situazione familiare è stato l'incontro con le persone che,
in qualità di dipendenti di enti di servizio sociale che erano interessati
nell'erogare assistenza alla famiglia in questione, avevano già dei dati e
delle diagnosi fatte in precedenza. A questo proposito abbiamo promosso un
incontro all'IPPAI, in via Piceno a Milano, dove la
madre temporaneamente era collocata, con la presenza dell'assistente sociale
del comune e dell'E.C.A. di Desio, di due assi-stenti sociali dell'ONMI, dei
due educatori specializzati a cui era affidato il minore e dello psichiatra.
Successivamente abbiamo incontrato i sacerdoti della parrocchia ove
risiede la famiglia, i quali, tramite l'associazione S. Vincenzo, danno un
aiuta economico e quindi in parte conoscono la famiglia.
Dopo queste ed altre
indagini conoscitive, soprattutto nei contatti con gli interessati ed i loro
parenti, possiamo tracciare così la situazione della famiglia in questione:
Nucleo normalmente costituitosi
circa 10 anni fa con abitazione e residenza in Sicilia.
Il marito (anni 36) prima di sposarsi era emigrato
al Nord dove pare svolgesse l'attività di muratore. Una volta sposato ha dimostrato ben presto incapacità di
mantenere con continuità un lavoro normale. Questo risulta
anche da quando si è trasferito a Desio con la famiglia. Si sa per certo che ha
svolto per lungo tempo ed in parte a tutt'oggi svolge attività illegali per le quali è già stato in
carcere.
Da tre anni ha abbandonato definitivamente la moglie
e convive con un'altra donna, madre di 5 figli, che è
conosciuta ed accettata da alcuni parenti stretti del Sig. T.
È in corso la pratica per togliere la patria potestà, presso il tribunale per i
minorenni.
Nonostante il dichiarato e concreto disinteresse per
la famiglia, saltuariamente il T. torna dalla moglie,
a volte in caso di necessità, come ad esempio in occasione di una malattia della convivente o dopo un incidente stradale in cui aveva
riportato delle lesioni.
La moglie (anni 36) è persona assai svantaggiata,
oltre che per le vicissitudini familiari, anche per aver avuto 14 gravidanze
di cui 10 portate a termine, e a motivo del trapianto
culturale dovuto all'immigrazione.
Fatto saliente: 4 ricoveri in
ospedale psichiatrico dal 1970 ad oggi. Secondo la diagnosi più aggiornata (21-7-72), la Signora T. risulta «ricoverata per
episodi subconfusionali, in relazione alle anomalie
comportamentali del coniuge, che si risolvevano nel giro di pochi giorni. La T. si è sempre dimostrata affettivamente valida nei confronti dei figli, preoccupandosi di garantire loro
valida assistenza».
Dagli incontri avuti con la madre all'IPPAI, quando
ancora era degente per l'ultima gravidanza, notammo il suo attaccamento e
interessamento per i figli, allora comunque era assai
lucida e fisicamente ben curata. Oggi, a distanza di un mese circa, periodo di
tempo in cui è rientrata in famiglia, la donna soffre di incubi
notturni, mangia poco, vive nella paura.
Questi sono in sintesi le cause che presto la
potrebbero portare ad un nuovo ricovero in ospedale psichiatrico.
Qual è oggi la situazione? Attualmente
vive sola con il figlio maggiore Vincenzo di 10 anni. Nonostante
la dichiarata capacità di accudire ai propri figli, la signora T. è stata costretta dalla situazione ambientale a lasciare
l'ultimo figlio di 2 mesi all'IPPAI. Infatti
attualmente vive in due stanze, presso una cascina, priva di acqua e servizi
igienici. Il riscaldamento lascia a desiderare anche a motivo
delle finestre e della porta in cattivo stato. Basta questo
per comprendere come sarebbe precaria la situazione di un bambino di
due mesi che dovesse vivere in un simile alloggio.
Ma questo purtroppo causa dei gravi scompensi nella
madre che di nuovo si vede allontanata da un figlio; infatti
due figlie sono in istituto ed altri due a balia.
A sua volta anche Vincenzo soffre della situazione, trovandosi a casa solo con la madre, mentre
vorrebbe avere i fratelli con sé.
Da 15 giorni circa Vincenzo è assai dimagrito e
mangia molto poco. Di qui la logica
reazione della mamma che deperisce a sua volta. A questo si aggiunge il
fatto del costante stato di ansia in cui vive la signora
per la paura del marito che ultimamente si è fatto rivedere a Desio dopo essere
mancato per un certo periodo.
La donna infatti vorrebbe
non aver più nulla a che fare con il marito, ma sentendosi indifesa teme per sé
e per i figli.
Crediamo che per una persona normale con la cultura
d'origine della signora, questa sia una situazione comprensibile, ma se
aggiungiamo l'affaticamento, le negative esperienze precedenti della donna,
l'attuale comportamento del figlio maggiore, possiamo facilmente prevedere un
disperato rifugio nella malattia mentale.
Gli altri componenti la
famiglia oltre al figlio Vincenzo, di cui già abbiamo parlato sono: Giuseppe di
2 mesi, attualmente ricoverato presso l'IPPAI di Milano. Di lui possiamo dire che un prolungato ricovero risulterà certamente
negativo ai fini del suo migliore sviluppo psicofisico.
Rosa di 6 anni e Graziella di 7,
entrambe ricoverate presso l'orfanotrofio casa «S.C.» di Desio. Abbiamo potuto vedere
personalmente le bambine e la nostra conoscenza si limita a quanto ci è stato detto dalla madre superiora di detto istituto.
Non volendo qui entrare in merito alla particolare situazione educativa di questo istituto, ci limitiamo a considerare come una prolungata
istituzionalizzazione di bambini porti inevitabilmente a scompensi affettivi e
difficoltà maturative nei rapporti interpersonali.
Infine Antonella di 5 anni e
Massimo di 4, entrambi a balia presso una famiglia di Desio. Antonella ha avuto uno sviluppo psicofisico più normale
e il rapporto affettivo con i genitori affidatari
risulta valido anche perché è più accettata, desiderando essi da tempo
occuparsi di una bambina. Massimo invece ha avuto uno
sviluppo turbato dai continui cambiamenti: in 4 anni è stato affidato alle
cure di 3 famiglie. A 3 anni presentava un grave ritardo
nello sviluppo motorio e nessun controllo degli sfinteri. In questi
giorni si potrà avere l'ultima diagnosi dell'équipe dell'ONMI. Certamente per
Massimo sarà necessario in futuro un appoggio speciale per le difficoltà particolari
che gli sono state create dalle varie situazioni
socio-ambientali.
Dopo questa analisi della
situazione, volutamente breve in certe parti, pur avendo cercato di esprimere
i dati indispensabili, non ci resta che passare ad un abbozzo di un piano di
intervento che vogliamo per ora sottoporre alla considerazione degli enti più
direttamente interessati. Se da essi sarà iniziata
un'azione di intervento e se l'evolversi dei fatti lo permetteranno, sarà poi
indispensabile un confronto con altri enti, quali l'ONMI, ad esempio, che
tramite l'assistente sociale interessata ha promesso un sussidio economico
sostitutivo al ricovero ed al baliatico, qualora il caso fosse portato avanti
dagli enti locali con garanzie di continuità.
Intervento a breve
termine
Riteniamo indispensabile ed urgente la collocazione della Signora T.
e del figlio Vincenzo in un alloggio più adeguato, perlomeno provvisto di acqua
e servizi igienici. Questo nonostante ci si renda conto che le capacità di autonomia della madre, sufficienti in condizioni
migliori, ora sono in parte compromesse, ma crediamo pure che permanendo nella
situazione ambientale attuale non potrebbero che peggiorare. Infatti
un alloggio più adeguato potrebbe permettere il rientro dell'ultimo figlio
Giuseppe di 2 mesi e questo abbasserebbe lo stato di ansietà della madre e potrebbe
stimolare Vincenzo a riprendersi dalla crisi depressiva in cui è avviato.
Se non si vuole rimandare l'intervento a dopo un nuovo
ricovero della madre, fatto che potrebbe definitivamente chiudere le
possibilità di ricostruzione del nucleo familiare, è assolutamente necessario
fare questo primo passo.
Parallelamente è necessario l'appoggio di specialisti
in questo particolare momento, coadiuvati eventualmente dall'azione di volontari
da loro indirizzati.
Al rientro di Giuseppe in famiglia si potrebbe già
richiedere da parte dell'ente locale un intervento economico dell'ONMI,
sostitutivo al ricovero (il bambino costa 11.000 lire al
giorno presso l'IPPAI).
A questo punto si può anche sollecitare i parenti
della signora T. ad un appoggio morale. Dai nostri
contatti con tutti i suoi parenti abbiamo rilevato che
in questo momento la maggior parte di essi è in difficoltà economiche per
particolari situazioni, ma probabilmente si potrebbe ottenere, almeno per ora,
un loro interessamento concretizzabile in un appoggio affettivo.
Intervento a medio termine
Qui saremo più schematici, infatti
tutto è subordinato alla tempestività e buona riuscita dell'intervento a breve
scadenza. Si dovrebbe sollecitare l'espletamento delle formalità necessarie
per togliere la patria potestà al padre.
E questa azione portata
avanti correttamente ridarebbe più sicurezza alla signora T.
Si dovrebbero reinserire in famiglia le due figlie attualmente ricoverate in istituto. E di
conseguenza il comune interverrebbe con un sussidio sostitutivo al
ricovero. Nello stesso tempo procederebbe l'azione di appoggio
iniziata nell'intervento a breve termine.
A lungo termine
Ricostruzione del nucleo familiare coi
rientro di due figli attualmente a balia. Nuovo intervento economico
dell'ONMI invece della retta per la balia. Eventuale appoggio
di una figura valida ad ore, pagata con questi soldi dal comune.
Sottolineiamo nuovamente la schematicità della programmazione
degli interventi a medio ed a lungo termine perché necessariamente sono
subordinati alla positività dei primi interventi e sono passibili di mutamenti, che
potrebbero m9glíorarli, qualora il caso fosse diligentemente seguito.
Ci rendiamo perfettamente conto che un'approfondita
analisi di una simile situazione porta inevitabilmente allo scontro con grossi
problemi quali: l'immigrazione, la casa, la sanità, ed altri ancora, ma il
nostro intervento, non volendo e potendo logicamente dare delle soluzioni globali, vuole soltanto essere un apporto per una rinnovata
impostazione dei servizi sociali.
Abbiamo toccato il problema degli interventi
sostitutivi al ricovero, già iniziati dalla provincia, dall'ECA e dal comune di
Milano, e che a nostro parere sono indispensabili per un normale sviluppo
della personalità, il problema dell'assistenza domiciliare già affrontato in
alcuni comuni (es. Gorgonzola), e province (es. Reggio Emilia), con esiti assai
positivi. E per ultimo il grosso problema
dell'intervento primario, spettante al comune, secondo gli indirizzi attuali
della regione Lombardia, che si può iniziare con la fattiva collaborazione dei
molti enti che fino ad oggi erano operanti nel campo assistenziale.
Questo per garantire un corretto e valido aiuto agli
utenti, mirante non a sostituirsi ad essi ed a
relegarli in istituzioni, ma a permettere il più possibile lo sviluppo delle
loro capacità umane.
Risultati ottenuti
1) È stata assegnata alla Signora T.
una casa materialmente e igienicamente adeguata.
2) La Signora T. riceve
mensilmente L. 160.000 dal marzo u.s.
3) Con questa somma la Signora T.
paga un aiuto domiciliare, reperito dal Comune di
Desio.
4) I figli sono rientrati tutti dagli istituti, una
sola è rimasta in affido.
5) La gestione dei problemi socio-assistenziali della
famiglia è condotta dal Comune, che coordina pertanto gli interventi degli
altri Enti competenti per legge.
6) Tale soluzione ha permesso di realizzare un non
indifferente vantaggio economico per le comunità, rispetto alle dispendiose
soluzioni precedenti per ciascun componente, basate
sulla istituzionalizzazione.
(*) Prospettive
assistenziali, n. 26, aprile-giugno 1974.
I GRUPPI APPARTAMENTO (O COMUNITÀ
ALLOGGIO): UNA ALTERNATIVA REALE E VALIDA (*)
I
Il consiglio provinciale di Bologna, nella seduta del
6 novembre 1973, ha deliberato la chiusura del «Sante Zennaro»
di Imola come istituto medico-psico-pedagogico
e la riconversione dello stesso in «Centro di servizi sanitari e sociali».
L'atto consiliare rappresenta indubbiamente una
risposta chiara e precisa alla congerie di interrogativi,
polemiche e interminabili discussioni intessutesi circa l'utilizzo
dell'istituto, ma soprattutto costituisce l'espressione più coerente di una
politica socio-assistenziale incentrata sulla deistituzionalizzazione
e sulla strutturazione di servizi decentrati, articolati sulla base dei reali
bisogni della comunità.
Il processo di deistituzionalizzazione
dell'ex IMPP, iniziata nel giugno 1972, è dunque giunto a completezza e si va
esaurendo nella configurazione di modalità di intervento
più autonome e strettamente collegate alla realtà dei servizi del comprensorio imolese. Ci riferiamo qui, più concretamente, ai gruppi
appartamento che, seppur hanno avuto inizialmente la funzione di permettere
all'istituto di vuotarsi, si sono superati come tali e tendono ad evolvere in
una dimensione territoriale, proponendosi come modello di intervento
mirante a ricondurre nei rispettivi luoghi d'origine tutte quelle situazioni
che ne sono state allontanate.
Dal 24 novembre nessun bambino è più ospite delle
strutture residenziali dell'ex IMPP «Sante Zennaro».
I bambini che risultano tuttora «ricoverati» (24),
sono ospiti di quattro gruppi e risiedono insieme con gli educatori in appartamenti
della città di Imola. Nella quasi totalità (91 per cento) si, tratta di ragazzi
già ospiti dell'ex IMPP da prima della scelta deistituzionalizzante,
per i quali non si è potuto provvedere ad un più precoce inserimento, o perché
senza famiglia, o per ragioni di completamento dei cicli scolastici.
Dal giugno '72, cioè dopo la
scelta di svuotare l'IMPP, sono state fatte solo due ammissioni (pari al 9 per
cento dei residenti), con queste motivazioni:
a) grosse difficoltà e carenze
familiari sul piana educativo e sociale;
b) ritorno nel comprensorio di appartenenza
dopo una precedente istituzionalizzazione fuori provincia.
Un altro dato da rilevare, riguarda le prospettive di dimissioni al giugno '74: si prevede che
circa 7/9 bambini (pari al 30-35 per cento tutti appartenenti ad altri
territori), potranno rientrare in famiglia o quanto meno trovare una più valida
risposta nella loro comunità di provenienza. Da queste premesse piuttosto
sommarie si può già delineare quale deve essere la
configurazione del gruppo appartamento e cogliere il significato sia negli
aspetti tecnico-operativi sia in quelli politici e socio-assistenziali.
È un dato ormai acquisito che operativamente il
gruppo si colloca in una dimensione territoriale, prefigurandosi all'interno dei
servizi di base del comprensorio (équipes
territoriali), come strumento di intervento, qualora
non vi siano altre modalità di risposta a certi tipi di bisogno. Infatti per avere una sua validità ed autenticità il gruppo
deve poter essere determinabile accanto a diverse altre possibilità di scelta,
e gli operatori dovranno essere inseriti nelle attività sociali della
comunità, assorbibili totalmente da tale operatività se il gruppo evolverà,
superandosi come tale. Solo così si potrà realizzare una più articolata ed
efficace dimensione di alternative
all'istituzionalizzazione. Beninteso che a ciò si potrà addivenire
solo dopo un'attenta indagine conoscitiva dei reali bisogni del territorio.
Premesso che la psicopatologia infantile ben
difficilmente genera condizioni che necessitano di un
ricovero urgente, per ragioni di «pericolosità a sé e/o agli altri», in
strutture psichiatriche, e che del resto esistono nel territorio valide
strutture ospedaliere di tipo pediatrico, tali da recepire con urgenza una
vasta gamma di situazioni di tipo sanitario, ne deriva che il gruppo potrà
configurarsi come momento di risposta di tipo prevalentemente assistenziale,
senza tuttavia escludere una dimensione terapeutica. Il gruppo può offrirsi
come risposta ad una serie svariata di bisogni che sono tuttavia nella realtà operativa difficilmente definibili e
predeterminabili, in considerazione di un auspicabile evolversi e ampliarsi
delle potenzialità di risposta da parte dei servizi socio-assistenziali.
In altri termini, si ritiene che lo «strumento-gruppo»
potrà subire una, notevole dimensione di utilizzo,
qualora si proceda nella creazione e trasformazione di asili-nido, scuole
materne, scuole dell'obbligo a tempo pieno, nell'individualizzazione e
organizzazione di momenti di tempo libero, nella possibilità di intervenire più
a monte nelle situazioni di disagio socio-economico, in una più efficace
diffusione e articolazione degli interventi per l'adozione e gli affidi,
nell'attuazione di centri sociali, riabilitativi, terapeutici diurni.
Va comunque esplicitamente
chiarito che l'operatività del gruppo di per sé non è e non deve essere
esclusivamente centrata sul bambino ospite, ma deve coinvolgere anche e
soprattutto quei momenti che determinano e strutturano la sua relazionalità.
Accanto ad una prevalente dimensione assistenziale,
e ad una più chiaramente terapeutica del gruppo, non va omessa infine una
dimensione operativa nel senso della prevenzione,
intesa sia come costante rapporto con gli operatori dei servizi e soprattutto
delle équipes territoriali, sia come possibilità di
intervento operativo degli stessi operatori di un gruppo (nel caso di chiusura
di questo) nelle équipes territoriali, in particolare,
con un impegno di ricerca socio-economica e di individuazione di situazioni di
bisogno, rivolta a prevenire richieste di istituzionalizzazione. Sarà inoltre
necessario predisporre, accanto a questo impegno di
tipo preventivo, un'attività di ricerca sui minori istituzionalizzati del
comprensorio.
Per quanto poi concerne più direttamente l'utente
del gruppo restano da definirsi le modalità di
ammissione e dimissione, dopo un'attenta valutazione giuridica che tenga conto
di una notevole flessibilità ed elasticità dei criteri stessi di ammissione e
permanenza nel gruppo, tali da eliminare i momenti di attesa tra accertamento
del bisogno e risposta ad esso, nonché di possibili differenziazioni circa le
modalità di conduzione dello «strumento-gruppo». È da escludersi in modo
categorico il concetto del «ricovero», vigente nell'ex IMPP, in quanto la
configurazione che proponiamo per i gruppi esclude un rapporto di causalità tra
diagnosi e cura, cioè fra riscontro di insufficienza
mentale e turbe comportamentali e mistificante prospettiva terapeutica di adattamento
sociale; si tratta invece di cogliere istanze emergenti di tipo
prevalentemente sociale ed anche psicopatologico e dare quindi loro una risposta
ambientale.
Ogni gruppo avrà inoltre una sua autonomia di
gestione dei fondi previsti in bilancio e potrà direttamente provvedere alle
diverse spese, siano esse relative alla gestione
dell'appartamento, di soddisfacimento dei bisogni elementari, di svago, di
studio, ecc.
Si dovrà, comunque e sempre,
cercare di individuare le modalità di integrazione dei gruppi con le forze e
le strutture sociali del territorio e se possibile, con gli stessi genitori,
onde emancipare gli educatori da un ruolo che rischia di diventare quello del
«casalingo» dell'assistenza, con privatizzazione e carico esclusivo della esperienza
su di loro e soprattutto potere impostare correttamente un programma di «informazione-formazione», che riteniamo non debba essere
né tecnico-funzionale, né generale, bensì creativo e permanente.
Perché questa prospettiva si attui coerentemente, è
indispensabile uno stretto collegamento con tutte le iniziative analoghe e con
i servizi socio-assistenziali programmati per un'attività territoriale
decentrata. Al fine di evitare modalità di intervento
settoriali e interferenze o sovrapposizioni improduttive e per favorire soprattutto
la creazione delle équipes di base, occorrerà trovare
a livello comprensoriale un comune momento di verifica e di coordinamento.
(da BRUNO BERNABEI, LUISA PAVIA e ANNA
RICCIARELLI, Come qualificare il momento
assistenziale, in «Rivista delle Province», n. 2, febbraio 1974).
II
Nell'ambito degli interventi a favore dell'infanzia,
particolarmente significativa ci sembra l'operazione
di deistituzionalizzazione di minori che, iniziata
nel settembre 1971 con la sperimentazione di due gruppi appartamento nei
quartieri S. Donato e Lame, ci ha condotto nel '72, alla chiusura della colonia
comunale di Casaglia e all'inserimento di altri 15 bambini in tre nuovi gruppi, aperti nei
quartieri Borgo Panigale, Corticella
e S. Vitale.
La nostra scelta è motivata da considerazioni di ordine educativo e politico. Dal punto di vista politico
la classe al governo non ha saputo e voluto rispondere con adeguata opera
riformatrice ai pressanti bisogni nei settori dell'occupazione, della casa,
della scuola, della sicurezza sociale: a quei soggetti nei quali la mancata soddisfazione
di questi bisogni ha creato scompensi e situazioni di crisi, la società e la
classe dirigente hanno offerto (e continuano ad offrire) interventi assistenzialistici, che comportano troppo
spesso l'internamento in istituzioni totali, la segregazione e l'emarginazione.
Questo tipo di intervento, da
un lato, lascia inalterati i fattori che hanno determinato quelle situazioni e
dall'altro allontana dal contesto sociale quegli individui la cui posizione
può diventare un « caso di coscienza » del sistema, un potenziale elemento di
frizione e di sconvolgimento.
Gestire nei quartieri i gruppi appartamento ha lo
scopo di mantenere invece le contraddizioni all'interno della società; tenta di
costringere il gruppo sociale a prenderne atto, per mobilitarlo nella ricerca di risposte, politicamente e socialmente avanzate, ai
bisogni.
Dal punto di vista educativo abbiamo verificato che
anche il tentativo di condurre un istituto secondo una metodologia
antiautoritaria, è opera razionalizzatrice,
che non media, perché non sono mediabili, le contraddizioni tra l'autonomia
personale e la funzionalità istituzionale, i diritti e le esigenze degli ospiti
con le necessità della struttura.
Di qui la scelta di un servizio - il gruppo
appartamento - che sia a misura del bambino, che si conformi alle sue esigenze,
che risponda ai suoi bisogni.
Il modello organizzativo che fino ad ora abbiamo adottato è abbastanza noto:
1) in ogni appartamento vivono 5 bambini;
2) gli appartamenti sono collocati in palazzi di
civile abitazione e sono scelti - per quanto possibile - nei quartieri nei quali
risiedono anche le famiglie dei bambini;
3) in ogni gruppo appartamento operano 3 educatori
che seguono turni di lavoro per cui, a rotazione, due
sono presenti in ogni momento della giornata che i bambini trascorrono in casa
e uno soltanto si ferma a dormire la notte;
4) i bambini frequentano le scuole di quartiere, dove
è possibile sezioni a tempo pieno, diversamente scuola di stato ed educatorio comunale; in tutti i
casi in cui non esista un netto rifiuto dei genitori o situazioni oggettive che
lo sconsiglino, i bambini rientrano in famiglia per il fine settimana e per
parte delle vacanze estive.
Ci sembra necessario aggiungere alle considerazioni
generali sopra esposte, un'analisi schematica sulle differenze strutturali fra
l'istituto e il gruppo appartamento, perché quest'ultimo
non venga inteso come un micro-istituto decentrato.
A) L'organizzazione dei tempi della giornata in
istituto, nonché degli spazi, è rigida, strutturata
sulle esigenze di chi vi opera, sulla funzionalità fine a se stessa delle
prestazioni.
- Nell'appartamento, a parte il necessario rispetto
dei tempi scolastici, ogni altro momento è riempito sulla base degli interessi,
dei bisogni, delle motivazioni del gruppo bambini-adulti. Gli spazi sono «a misura d'uomo», arredati secondo gusti personali,
utilizzati per le esigenze che via via si presentano.
B) Una macro-struttura, per funzionare, ha bisogno
della divisione e della gerarchizzazione dei ruoli.
In istituto esistono ali addetti ai lavori, ed ognuno ha
le sue competenze: agli inservienti le pulizie; ai cuochi la confezione dei
pasti; il guardaroba alle guardarobiere; i bambini agli insegnanti; alla
direzione la supervisione, il coordinamento, la responsabilità del
funzionamento di tutti i servizi. Si dà così modo ai bambini di verificare
subito che c'è chi dirige e chi esegue; li si induce,
più o meno consapevolmente, ad obbedire ai primi, a sottovalutare - come
persone - i secondi.
- Nell'appartamento tutti i
problemi di conduzione e gestione del gruppo, di ordine domestico, di
amministrazione del fondo economale, di carattere
educativo, sono a carico degli operatori. Tutti e tre gli adulti sono
responsabili di ogni aspetto della vita del gruppo e
nessuno è più responsabile degli altri. I bambini vengono
coinvolti nei momenti reali e decisionali, fanno esperienza di rapporti
cooperativi e paritetici tra gli adulti e con gli adulti, non li considerano
per i ruoli che ricoprono, ma per le persone che sono.
C) L'istituto limita concretamente (per la rigidità
dei tempi, per la frequente dislocazione isolata rispetto al tessuto urbano)
e, comunque, vizia i rapporti interpersonali tra i
propri ospiti e quanti, dall'esterno, entrino in contatto con loro. Per «i
bambini del collegio», l'approccio con coetanei che vivono in situazioni
normali si colora spesso di vergogna, di diffidenza,
di estraneità e tutto questo sfocia spesso in atteggiamenti aggressivi. Il
ricovero in istituto tende inoltre a deresponsabilizzare le famiglie dal rapporto
con i bambini, diluisce, quando non annulla, i legami
affettivi.
- La situazione di vita in appartamento è comune e
comunicabile. Si va al cinema come gli altri, si va a
scuola con gli altri. Gli incontri, gli scambi di visita non dipendono da alcuna esigenza estrinseca. Il rapporto con i genitori è facilitato dalla vicinanza, preparato e sollecitato dagli
educatori.
D) Scopo dell'istituto è continuare se stesso. Gli
ospiti si dimettono a norma di regolamento (per raggiunti limiti di età, di scolarità, ecc.) qualunque sia la loro
destinazione futura; altri subentreranno.
- Scopo del gruppo appartamento è, al
limite, esaurirsi. In prima istanza ciò
significa esaurire la sua necessità per quei bambini per cui si è costituito;
in seconda istanza - che speriamo non utopistica, ma che prevediamo
realisticamente a lunghissima scadenza - esaurirsi come istituzione.
Il primo caso comporta, da un lato, l'esigenza di
stimolare nei bambini la formazione di personalità equilibrate
ed autonome, tali da porli in grado di reggere l'impatto con una realtà familiare
anche conflittuale; dall'altro comporta un'indispensabile opera, di cui si fanno
carico gli educatori ed altri operatori sociali del quartiere, per sostenere
le famiglie, aiutarle a capire i loro problemi o quelli dei figli, lottare
insieme a loro per rimuovere le situazioni di carenza che hanno determinato la
loro condizione.
L'esaurirsi della necessità del gruppo appartamento
come tale - o comunque di un servizio analogo che
adempia ai medesimi compiti - è di fatto postulabile solo per il momento in cui
le sperequazioni economiche e sociali non saranno più una struttura portante
del sistema politico ed uno scotto, pagato dalla società, per questo tipo di
sviluppo industriale e tecnologico; ed ancora, nel momento in cui un organico
e democratico sistema di sicurezza sociale potrà proficuamente agire nel
senso della prevenzione del disadattamento e della tutela della salute fisica
e psichica dei cittadini.
La valutazione dell'esperienza dei gruppi appartamento,
così come si è concretamente realizzata, è globalmente positiva:
le maggiori difficoltà si riscontrano nel rapporto con le famiglie e nella
insufficienza - a livello di territorio - di servizi di integrazione e
sostegno.
All'interno delle enormi limitazioni di potere e di autonomia in cui si muovono oggi gli enti locali,
individuiamo alcune possibilità di intervento, che postulano la necessità di
una collaborazione tra gli enti, le organizzazioni, le associazioni della
società civile:
- da un lato è importante l'arricchimento del
territorio di nuove infrastrutture culturali, ricreative, sportive, e la
destinazione di più aree a verde pubblico, affinché tutti i cittadini (dall'infanzia agli anziani) possano fruire del loro tempo
libero in dimensione comunitaria;
- dall'altro è urgente potenziare i quartieri di
servizi e di operatori che consentano interventi
sociali più incisivi, risposte più concrete e tempestive ai bisogni.
Il secondo limite dell'esperienza, la cui portata non
è trascurabile, deriva dalla mancanza di un inquadramento organico del
personale dei gruppi, le cui retribuzioni di base e le
cui qualifiche sono ancora relative alle mansioni svolte - sempre alle
dipendenze del comune - prima dell'inserimento negli appartamenti.
Sono inoltre notevoli le difficoltà di reperimento
di nuovi educatori da destinare alle strutture che dovremo aprire per accogliere
altri bambini sui quali pende l'oggettiva necessità di un allontanamento dalla
famiglia, o che già ora sono ricoverati in istituto. Infatti, dopo la deistituzionalizzazione dei minori ospiti della colonia di
Casaglia, di diretta gestione comunale, abbiamo
provocato e sostenuto un'analoga trasformazione - che
entrerà in fase operativa dal prossimo settembre - dell'Istituto Primodì che, tra i suoi ospiti, conta un rilevante numero
di minori assistiti dal comune. Al più presto avrà inizio un
corso - aperto ai dipendenti comunali - per qualificare operatori da
destinare ai nuovi appartamenti. Alcuni di questi operatori pensiamo
possano essere utilizzati, in collegamento con i gruppi e nell'ambito della
prevenzione dell'istituzionalizzazione, in un lavoro socio-pedagogico a livello
di territorio. ~ comunque solo nella prospettiva di
una radicale riforma della scuola e di un rinnovamento strutturale del sistema
assistenziale che si potrà concretamente risolvere il problema di una diversa
qualificazione e di un nuovo ruolo dell'operatore sociale.
(dalla relazione presentata dagli Assessori
EUSTACHIO LOPERFIDO e ERMANNO TONDI nella seduta del Consiglio comunale di
Bologna del 21 maggio 1973).
(*) Prospettive
assistenziali, n. 27, luglio-settembre 1974.
DIBATTITO SULLE
COMUNITÀ ALLOGGIO A MILANO (*)
Su iniziativa della sezione lombarda dell'UNIONE,
mercoledì 18 dicembre 1974 ha avuto luogo a Milano un
dibattito pubblico sul tema: «Le comunità alloggio nell'ambito dei servizi
pubblici di quartiere: alternativa all'emarginazione
istituzionale o semplice paravento di copertura?».
Il dibattito, promosso dalla Federazione provinciale
CGIL-CISL-UIL, dalle ACLI, dal Coordinamento lavoratori
dell'assistenza e dall'Unione per la promozione dei diritti del minore, ha
fatto il punto sulla situazione delle esperienze di comunità alloggio
esistenti in Milano e provincia. Dopo il Convegno
dello scorso marzo organizzato dall'Unione e dall'ANFAA, ha costituito un secondo
momento di utile dibattito sul tema oltre che un importante passo avanti per
l'assunzione dell'iniziativa direttamente da parte del Sindacato e delle ACLI.
Nonostante si siano dimostrate un valido intervento
alternativo all'emarginazione di minori negli istituti, nel manicomio provinciale,
nel carcere minorile, fino ad oggi le comunità alloggio non fanno
seriamente parte dei programmi operativi degli enti pubblici milanesi che
operano nel settore assistenziale (ECA, Abetina, Comune, Provincia).
Così avviene che le poche comunità esistenti, sorte
più per la volontà di alcuni tecnici ed educatori che
per la scelta politica dei responsabili degli enti pubblici, sopravvivono oggi
senza prospettiva o, come nel caso dell'ECA o del Giambellino,
nella prospettiva di chiudere.
Questa situazione, segno di una precisa linea
involutiva che sembra passare anche perché vengono nel frattempo rafforzate le
istituzioni totali più importanti (come Cesano Boscone o l'Ospedale psichiatrico Corberi),
è stata quindi oggetto del dibattito della serata.
Riportiamo per i lettori alcuni elementi delle
esperienze fino ad oggi più significative.
Comunità di Desio: costituita nel 1971 per volontà di alcuni
medici ed educatori dell'ospedale psichiatrico «Corbari», vuole essere un intervento «ponte», per
evitare a minori l'emarginazione manicomiale o per consentire di uscirne.
Gli educatori non si limitano a
lavorare per i ragazzi affidati, ma vanno alla radice del loro disadattamento,
tentando di capire e proponendo soluzioni anche per la situazione più generale,
che li ha portati all'istituto o al manicomio. La Provincia paga le spese della
comunità, ma l'educatore ha dovuto cercarsi l'appartamento (naturalmente in
edilizia privata e superando le difficoltà derivanti dalla «diffidenza» dei
proprietari) anticipando i costi del mobilio. Il telefono è stato installato
solo nel 1974. La comunità vive come appendice
dell'ospedale, con cui il collegamento è più a livello personale che funzionale.
Per la necessaria integrazione con i servizi e la popolazione
della zona, nel 73 (prima della crisi economica!) si richiede al Comune di
Desio che la comunità divenga un servizio comunale. Il disinteresse
dell'Amministrazione è però totale.
Nel frattempo (4 anni), la Provincia
non programma altre comunità familiari; in compenso vengono
assunti nuovi lavoratori all'interno dell'istituzione manicomiale, che in tal
modo si rafforza, ma non elimina i problemi di fondo. Su nove medici, ben sei vengono stipendiati come primari.
Comunità del Giambellino: viene
costituita nel 1973 da un gruppo di lavoratori dell'Abetina, Società per Azioni
che gestisce una serie di interventi assistenziali del Comune di Milano.
L'iniziativa è
dovuta alla pressione di una quindicina di educatori, che, anziché
assistere í ragazzi milanesi negli istituti della Società, vogliono riuscire
ad intervenire sulla situazione famigliare, che determina il loro allontanamento.
L'iniziativa trova l'appoggio delle
forze sociali e sindacali del quartiere (Giambellino,
Lorenteggio, Inganni), l'indifferenza dell'Abetina,
l'ostilità dell'ECA (che sfratta gli educatori dai locali occupati nell'ospizio
di piazza Bande Nere di cui è proprietario e li
denuncia), l'atteggiamento contraddittorio del Comune (che dapprima sembra
appoggiare l'iniziativa e poi la boicotta).
Dopo una serie incredibile di
riunioni, incontri, e scontri, è ormai chiaro che la situazione non si può
sbloccare. L'assistente sociale del Comune «consiglia» ai genitori di ritirare
i ragazzi per continuare ad usufruire dell'assistenza e progressivamente la
comunità si svuota. Parte degli educatori rinunciano
all'iniziativa o danno le dimissioni; alcuni insistono. In autunno si svolge
il processo contro gli educatori: assolti.
Nel frattempo, tra
le continue polemiche Comune di Milano-Abetina, la comunità
sembra avere il destino segnato.
Tra poche settimane si avranno cinque
educatori regolarmente stipendiati e nessun ragazzo ospite della comunità.
Comunità ECA:
fino alla primavera del 1974 è un pensionato per minori, affidati dal
Tribunale dei minorenni. Ma l'intervento dell'Ente si traduce solo nel dare un
tetto (nell'ospizio per anziani di piazza Bande Nere)
ad undici ragazzi provenienti dall'ambiente del Beccaria,
con l'attività a tempo parziale di un assistente sociale e quella volontaria di
un paio di studenti.
Naturalmente, la
difficile situazione non regge; compaiono ospiti occasionali e con loro la
droga. Interviene
quindi la polizia; l'ECA si spaventa e decide di chiudere.
A questo punto il
Tribunale dei minorenni, forze sociali e sindacali fanno pressione all'ECA,
perché affronti più seriamente il problema. A seguito di tale intervento, l'ECA accetta di
assumere quattro educatori, di incaricare altrettanti
tecnici come consulenti degli stessi, concedere loro libertà educativa e
autonomia gestionale alla comunità. Inizialmente, l'esperienza ha successo: i ragazzi si responsabilizzano, sparisce la
droga, tutti si mettono in cerca di un lavoro.
Ma poi gli aspetti burocratici del
rapporto ECA-educatori riprendono il sopravvento
sulla vita della comunità. Saltano praticamente tutti
i punti dell'accordo e gli educatori vedono perdere ogni credibilità nei
confronti dei ragazzi. In novembre danno quindi le dimissioni.
Comunità di Via Salieri: ospita sette ragazzi subnormali
gravi, che sarebbero altrimenti in manicomio, causa le
difficoltà in cui versano le famiglie e la gravità dell'handicap.
La comunità è sorta inizialmente come
struttura di appoggio all'attività dei Centri per
gravi gestiti dall'Abetina. Per questo risente naturalmente in
questa fase della tensione Comune-Abetina. Nonostante i risultati
raggiunti, ora si rende assolutamente necessario lo sviluppo dei rapporti con i
servizi pubblici ed è sempre più evidente quanto sia
importante la realizzazione di tale iniziativa. Naturalmente sia Comune che
Abetina sembrano ancora una volta indifferenti.
Altre esperienze: nel frattempo si continua a «vociferare» circa una comunità che il
Comune di Milano dovrebbe aprire nella zona di Baggio (ma il Consiglio di
zona non ne sa nulla anche se la «voce» è vecchia di alcuni mesi).
Ben più serio è invece il lavoro che
un gruppo di operatori sociali sta conducendo per
realizzare alternative al carcere minorile. Dopo aver aperto una
comunità pochi mesi or sono ha avviato trattative con la zona IA per
ottenere l'inserimento fra i servizi sociali del quartiere.
Di fronte a queste realtà più che legittima appare
quindi la perplessità delle forze sociali milanesi circa la volontà degli enti
pubblici di sviluppare organicamente questo tipo di intervento.
(*) Prospettive
assistenziali, n. 29, gennaio-marzo 1975.
LEGGE DELLA REGIONE
EMILIA-ROMAGNA N. 27 DEL 7-5-1975 «CONCESSIONE
DI CONTRIBUTI IN CONTO CAPITALE A COMUNI PER LA COSTRUZIONE, L'ACQUISTO ED IL
RIATTAMENTO DI APPARTAMENTI POLIFUNZIONALI» (*)
La legge
della Regione Emilia-Romagna, che riportiamo,
costituisce un significativo esempio delle possibilità
profondamente innovative che può assumere la legislazione regionale quando c'è
la volontà politica. Infatti la previsione di alloggi
polifunzionali destinati sia a persone singole, sia famiglie e nuclei
familiari, sia a comunità rappresenta una concreta alternativa al ricovero in
istituto.
Sottolineiamo inoltre che gli alloggi polifunzionali sono
destinati ai minori, compresi quelli handicappati, agli inabili ed agli
anziani.
TESTO
DELLA LEGGE
LEGGE
REGIONALE 7 MAGGIO 1975, N. 27 CONCESSIONE DI CONTRIBUTI IN CONTO CAPITALE A
COMUNI PER LA COSTRUZIONE, L'ACOUISTO ED IL RIATTAMENTO DI APPARTAMENTI POLIFUNZIONALI
Art. 1
La Regione Emilia-Romagna,
nell'ambito delle iniziative proprie e di quelle promosse dagli enti locali,
tese alla concreta realizzazione del principio costituzionale dell'uguaglianza
di tutti i cittadini ed in attuazione degli impegni assunti dalla Statuto
regionale, contribuisce a creare le condizioni che favoriscano
la permanenza del cittadino nell'ambito della comunità di appartenenza,
promuovendone il processo di deistituzionalizzazione
ed il mantenimento di normali condizioni di vita nel tessuto delle proprie
relazioni familiari e sociali.
In attuazione delle finalità di cui al precedente
comma è predisposto un piano di finanziamento, da realizzare a
partire dal 1975, per la costruzione, il riattamento e l'acquisto di
alloggi polifunzionali idonei ad ospitare cittadini residenti nei Comuni del
territorio regionale, considerati individualmente e nelle formazioni sociali
organizzate quale la famiglia o il gruppo organicamente costituito per
riconosciute finalità di recupero sociale.
Art. 2
Interventi finanziari a favore di enti locali territoriali
La Regione favorisce la costruzione, l'acquisto, il
riattamento di appartamenti polifunzionali mediante
l'erogazione di contributi in conto capitale a favore di Comuni, fino alla
concorrenza massima del 90% della spesa ammessa a contributo.
L'utenza degli appartamenti polifunzionali, quali
strumenti alternativi al ricovero in istituto, è riservata ai sottoelencati cittadini:
a) minori, compresi gli handicappati, i quali si
trovino in stato di abbandono morale o materiate,
temporaneo o permanente, previo assenso dell'esercente la patria potestà;
b) minori, compresi gli handicappati, in stato di
bisogno, con il nucleo familiare naturale o affidatario;
c) anziani, inabili o autosufficienti, in stato di abbandono morale o materiale.
L'utenza può essere estesa, ad altri cittadini che versino in analoghe condizioni di abbandono morale o
materiale, in particolare a cittadini dimessi da istituzioni di ricovero.
Art. 3
Caratteristiche architettoniche ed urbanistico-residenziali
Gli appartamenti polifunzionali devono essere
realizzati su area posta sul territorio del Comune richiedente o, comunque, sul territorio del consorzio per i servizi
sociali e sanitari cui partecipi il Comune stesso.
Gli appartamenti, di cui al precedente articolo,
sono preferibilmente inseriti in complessi residenziali.
I Comuni possono realizzare gli appartamenti polifunzionali,
di cui alla presente legge, in accordo con gli Istituti Autonomi per le Case
Popolari (I.A.C.P.), là dove detti enti abbiano in corso l'elaborazione di
piani di edilizia residenziale.
La collocazione urbanistico-residenziale deve favorire l'inserimento
sociale degli utenti in presenza di adeguati servizi sociali o, comunque,
facilitare continui interscambi e rapporti tra la comunità dell'appartamento ed
il circostante contesto sociale.
Gli appartamenti devono essere altresì dotati di
strutturazione funzionale di accesso ed interno privo
di barriere architettoniche, per renderli usufruibili anche da cittadini affetti
da insufficienza motoria.
La superficie di ciascun
appartamento non deve essere complessivamente inferiore a circa mq. 50 né superiore a mq. 180.
Art. 4
Criteri di gestione
Gli enti assegnatari del contributo garantiscono la gestione degli appartamenti polifunzionali
direttamente o mediante convenzione con altri enti che operano nel settore
socio-sanitario.
In detta convenzione devono essere stabilite le
modalità di gestione degli appartamenti, coerentemente alle finalità previste
dalla presente legge.
Art. 5
Programmazione degli interventi
I consorzi per i servizi sociali e sanitari, entro il
31 marzo di ogni anno e, per l'anno 1975, entro
centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge,
presentano alla Giunta regionale il programma degli interventi da realizzarsi
nel loro territorio evidenziando esigenze e possibilità di riconvertire altre
risorse ai medesimi fini, e di garantire una adeguata gestione delle strutture
che si intendano realizzare.
Il programma, con gli allegati di cui al successivo
art. 6, deve essere altresì inviato alle amministrazioni provinciali
interessate, che promuovono ed attuano le opportune forme di coordinamento ed
esprimono, entro trenta giorni dalla data di
ricevimento del programma stesso, il proprio parere sulle iniziative proposte;
per l'esercizio di tali funzioni possono avvalersi dei comitati provinciali
previsti al punto 7 - lettera b) del documento allegato alla legge regionale 6
marzo 1974, n. 12.
Il comitato circondariale di Rimini esercita i
campiti, di cui al comma precedente, per i consorzi costituiti fra Comuni di
cui all'articolo 2 della legge regionale 22 gennaio 1974, n. 6, e
l'amministrazione provinciale di Forlì.
Il Consiglio regionale approva, su
proposta della Giunta, il programma annuale degli interventi tesi a realizzare
le finalità di cui all'articolo 1, indicando l'ente beneficiario del contributo
regionale e la quota a carico della Regione.
Art. 6
Modalità di presentazione delle domande
Le domande dei Comuni, per l'ammissione a contributo,
devono essere indirizzate al presidente del consorzio per i servizi sociali e
sanitari di appartenenza.
I Comuni non consorziati possono inviare la domanda
al presidente del limitrofo consorzio per i servizi sociali e sanitari.
Le domande devono essere corredate da:
- atto deliberativo che approva l'intervento ed il
relativo piano finanziario dell'opera da realizzare, riattare od acquistare;
- relazione sulle modalità organizzative della
gestione;
- progetta di massima dell'opera da realizzare,
riattare ad acquistare.
Le domande, relative ad opere da finanziarsi sull'esercizio 1975, devono pervenire ai presidenti dei
consorzi per i servizi sociali e sanitari entro novanta giorni dall'entrata in
vigore della presente legge.
Le domande, facenti carico agli esercizi successivi,
devono pervenire entro il 31 gennaio di ogni anno.
Le domande, per iniziative, non finanziate totalmente o parzialmente nell'esercizio di riferimento,
concorrono alla formulazione del piano annuale degli esercizi successivi di
validità della presente legge.
Art. 7
Assegnazione dei contributi
I consorzi per i servizi sociali e sanitari approvano
il piano annuale di assegnazione entro trenta giorni
dalla comunicazione dell'avvenuta approvazione del piano di ripartizione di cui
all'articolo 5 e, nei limiti dei fondi assegnati, provvedono alla concessione
dei contributi, fissando i termini entro i quali le opere devono essere ultimate
o la data entro la quale devono essere perfezionati gli acquisti.
Qualora il contributo sia riferito alla costruzione
o al riattamento di locali, l'erogazione dello stesso agli enti assegnatari viene effettuata secondo le seguenti modalità:
a) primo acconto, pari al 30% dell'importo del
contributo, sulla base dell'atto formale di consegna o della dichiarazione di inizio dei lavori previsti nel progetto approvato;
b) secondo acconto, pari al 60% dell'importo del
contributo, sulla base dello stato di avanzamento dei
lavori;
c) 10% in sede di approvazione
degli atti di collaudo.
Il contributo, qualora sia riferito all'acquisto di
locali, viene erogato in sede di stipula del contratto
di compravendita di locali già dichiarati agibili per il raggiungimento delle
finalità della presente legge.
Art. 8
Erogazione dei contributi
I contributi agli enti assegnatari sono
erogati, sulla base del provvedimento di liquidazione della spesa, dall'organo
deliberativo dei consorzi per i servizi sociali e sanitari, previo accertamento
dell'avvenuta realizzazione delle opere, del riadattamento o dell'acquisto.
Ai fini dell'erogazione dei contributi sono autorizzate,
presso l'istituto incaricato del servizio di tesoreria, apposite
aperture di credito a favore di presidenti dei consorzi per i servizi sociali
e sanitari, sia in conto competenze che in conto residui.
Le aperture di credito suddette non possono superare
l'importo assegnato territorialmente ai singoli consorzi nel riparto di cui
all'art. 5 della presente legge.
I presidenti dei consorzi per i servizi sociali e
sanitari dispongono le erogazioni mediante appositi ordini di pagamento a
firma dei presidenti stessi e dei responsabili degli uffici amministrativi.
Sia gli assegni che gli ordini di pagamento, di cui
sopra, dovranno riportare la firma congiunta dei presidenti e dei responsabili
dell'ufficio di ragioneria dei consorzi per i servizi sociali e sanitari.
Per il funzionamento delle aperture
di credito di cui al precedente comma si richiamano, nei limiti della loro
applicabilità, le norme di cui agli artt. dal n. 56 al n. 61,
compresi, del R.D. 18 novembre 1923 n. 2240 e successive modificazioni ed
integrazioni.
La Regione Emilia-Romagna
provvederà, attraverso l'adozione di un apposito
regolamento, tenuto conto delle particolari esigenze operative dell'ente
medesimo, a disciplinare le modalità di esecuzione della normativa sopra
richiamata. Qualora l'onere effettivamente sostenuto per la realizzazione delle
opere e degli acquisti sia inferiore alla spesa presa
a base per la concessione del contributo, lo stesso sarà ridotto dall'organo
deliberativo del consorzio in misura proporzionale alla spesa accertata.
Art. 9
Vincolo di destinazione
Gli immobili, per i quali sono concessi i contributi
di cui alla presente legge, sono vincolati per la durata di venti anni alla
destinazione indicata nel provvedimento di concessione.
Il vincolo, di cui al precedente comma, viene trascritto, a cura e spesa dei beneficiari, presso la
conservatoria dei registri immobiliari.
Ogni mutamento nella destinazione dell'immobile,
rispetto a quella per la quale è stato concesso il
contributo, deve essere formalmente approvato dal consorzio per i servizi
sociali e sanitari.
I contributi, erogati in forza della presente legge,
sono cumulabili con altri erogati eventualmente da enti pubblici o privati,
fermo restando che la proprietà dell'immobile è comunque
sempre riservata al comune assegnatario.
(*) Prospettive
assistenziali, n. 31, luglio-settembre 1975.
LA COMUNITÀ ALLOGGIO (*)
SANDRA
ROCCHI
Introdurre il discorso della comunità alloggio,
strumento alternativo al tradizionale istituto, significa riflettere su un
tipo di intervento chiaramente volto a superare
l'ottica dell'ormai scontata politica assistenziale.
Il discorso della comunità alloggio non può infatti
essere disgiunto da quello più ampio dei servizi sociali di quartiere e
dall'individuazione dell'unità locale come unica formula di ristrutturazione a
livello territoriale di tali servizi.
Non significa quindi razionalizzare strutture e
interventi all'interno degli istituti esistenti; non si chiede all'istituto di
rivedere la propria struttura, modellandola su nuove esigenze meno alienanti,
di sostituire le camerate e i dormitori con piccoli appartamenti, pensando di
ricreare una dimensione più familiare; ma si nega l'istituto in quanto tale
perché inidoneo a rispondere alle reali esigenze di
chi ne dovrebbe usufruire.
Sociologia, psicologia, psichiatria hanno ormai chiaramente evidenziato con una estesissima e
profonda letteratura sull'argomento, l'importanza che per la salute mentale
dell'individuo e lo sviluppo della sua personalità, ha il vivere e crescere
in un ambiente affettivamente ricco e in grado di consentire lo svolgersi di
legami duraturi e validi.
Tali scienze hanno ugualmente dimostrato come la
vita in istituto non possa assolutamente porre le premesse a tali esigenze, ma rischi piuttosto di fare estinguere ed
atrofizzare le funzioni di base della personalità, che viene in tal modo ad
acquistare sempre più decisamente modalità di reazione proprie di una dinamica
istituzionale patogena.
Più dell'ambiente familiare in senso stretto si pone
in luce l'importanza di un ambiente stimolante: ambienti comunitari in cui la
famiglia tradizionale è scomparsa, a volte possono essere più utili di alcune famiglie chiuse.
Margaret Mead, nota antropologa,
afferma che «gli attuali istituti per l'infanzia, messi a confronto
con i sistemi dei primitivi, non sono altro che un mezzo meno radicale per
sbarazzarsi, in una forma ammessa, dei bambini che nessuno vuole». E riferendosi
successivamente ad una ricerca di Spiro sui bambini
nei kibbutz, sottolinea la capacità intellettuale e l'autonomia del
comportamento di chi vive in un ambiente stimolante anche se questo non ha più
alcun punto di contatto con la famiglia tradizionale.
Ma quali sono i parametri che definiscono un ambiente
stimolante e per ciò stesso educativo? Un momento di dinamica vitale da cui non si può prescindere per giungere a
quella capacità di integrazione della personalità, che permette la produzione
di nuovi modelli, certamente è la comunicazione; così la creatività come
momento di formulazione di tali modelli e la partecipazione al sociale come
momento di verifica e d'esperienza.
È noto invece quanto la struttura istituzionale porti
piuttosto alla progressiva diminuzione degli stimoli esterni. Diminuzione che si trasforma spesso in incapacità di vivere la «comunicazione»
anche con le persone che vivono all'interno dell'istituzione. In tal
modo il coinvolgimento emotivo diventa sempre più labile, allontanando ogni
stimolo di creatività fino a quell'isolamento sempre
più emarginante ed alienante che dall'angoscia e la depressione sfocia
nell'automatismo, nell'adeguamento stereotipo alle norme, all'anaffettività.
È chiaro quindi come la ricerca di un modello
alternativo debba partire dalla realtà di vita esistente nell'istituzione per
negarla, rimuovendone alla radice i meccanismi di emarginazione
in essa presenti.
Pertanto, se l'istituto significa diminuzione delle
possibilità di comunicazione, vuoi per l'allontanamento dalla famiglia che
dall'ambiente e dalla zona d'origine, alternativo è certamente un intervento
in quartiere teso all'inserimento dei ragazzi in tutte le sue strutture: tessuto sociale di provenienza, scuola, famiglia.
Di questo intervento, se
indispensabile è definire e chiarire subito gli obiettivi politici, è
ugualmente irrimandabile approfondire i contenuti psico-pedagogici
e il connesso problema della preparazione del personale.
* * *
È pertanto opportuno, senza perdere di vista la
necessità degli interventi immediati - aggi principalmente attuati
dall'iniziativa di operatori volontari - inquadrare il
servizio delle Comunità Alloggio nell'ambito di un'iniziativa dell'ente pubblico,
cui sia ricollegabile direttamente ogni responsabilità politica in ardine al
tipo di gestione da esso attuato.
Questo oltre ad inserirsi nella più
ampia politica che vede nella costituzione dell'Unità SocioSanitaria
l'unica possibilità di superare l'attuale gerarchizzazione
e burocratizzazione degli interventi, privilegiando col decentramento la
responsabilità dei cittadini, evita anche il pericolo di una eccessiva
differenziazione tra le varie Comunità Alloggio in ordine al tipo d'intervento
educativo, ai soggetti cui si rivolge, alla qualifica degli educatori.
Questo significa anche ricondurre il problema del
minore, il «sintomo» che sta alla base della sua stessa emarginazione, nel tessuto sociale d'origine, responsabilizzando, intorno a
questo, i cittadini e le forze del quartiere che, in quel «sintomo», potranno
riconoscere la loro potenziale emarginazione.
Questa presa di coscienza riveste un'enorme
importanza politica perché è il tentativo di spiegare sempre meglio che se
esiste un certo tipo di emarginazione é perché esiste
un certo tipo di produzione e che la risposta all'emarginazione, dovuta alla
mancanza dei servizi sociali, deve essere anch'essa «politica»: una risposta di
classe. Dalle motivazioni politiche che, alle esistenti strutture di intervento (istituti per minori, case di ricoveri per
anziani, ospedali psichiatrici), fanno privilegiare il servizio delle comunità
alloggio, non è difficile scendere alle motivazioni psicologiche ed educative.
* * *
La comunità alloggio si
presenta come un piccolo gruppo, costituita cioè in base a quei criteri di
composizione, ritenuti ottimali, secondo le esperienze di dinamica dei gruppi
già attuate all'estero e in Italia.
Come struttura si identifica
così in un alloggio comune in cui vivono in permanenza un gruppo di minori
(da quattro a otto) e degli adulti professionalmente preparati nel loro
compito educativo.
La collocazione di zona di
tali alloggi evita la necessità di quello sradicamento, proprio della
istituzionalizzazione, che determina, a livello psicologico, conseguenze
estremamente negative. Conseguenze ricollegabili al venir meno degli abituali
riferimenti spaziali, temporali e culturali che configurano il mondo, e quindi
«la sicurezza» di ogni persona.
Entrando nello specifico della psicologia dell'età
evolutiva (è delle comunità alloggio riferite a quest'età
che vogliamo occuparci in quest'articolo)
e quindi dello strutturarsi della personalità del minore, individueremo più
chiaramente i condizionamenti dell'istituto e le potenzialità liberatorie
della comunità alloggio.
Proponendo la comunità alloggio
come alternativa all'istituzionalizzazione non dimentichiamo certamente la
priorità da darsi, in ogni situazione ed in ogni età, al ricorso all'adozione
speciale ogni qual volta questa sia attuabile.
* * *
Seguendo uno schema ormai confermato dai vari studi
sulla psicologia dell'età evolutiva, possiamo individuare i bisogni essenziali
del bambino, sinteticamente, nella necessità di intense
soddisfazioni affettive, di esperienza di sicurezza, di un controllo moderato
- una presenza «educante» -, della compagnia di altri bambini.
Il mondo interiore, emotivo e fantastico del bambino
piccolo è tanto intenso quanto incontrollabile: la sua capacità di difesa e di
controllo delle fantasie cariche d'ansia e di timore è pressoché inesistente e
si costituisce solo nella misura in cui la gratificazione affettiva, il senso di accoglimento e di accettazione è tale da fargli superare
l'ipotesi pessimistica che egli ha di se stesso.
Un bambino che non si sente amato - e in un rapporto
strettamente personale e «individualizzato» - crede di essere
cattivo e spesso orienta le sue energie verso atteggiamenti aggressivi e
distruttivi: di sé e degli altri.
Non sono poche le statistiche che mettono in
correlazione la devianza con l'istituzionalizzazione.
Ugualmente vediamo che la sicurezza viene a strutturarsi nella psiche del bambino solo quando egli è in
grado di decolpevolizzarsi: e solo così si
interrompe quel circolo vizioso fatto di aggressività, di senso di colpa, di
distruzione e di autopunizione per orientarsi verso condotte costruttive e di collaborazione:
il bambino da «ruolo» diventa «persona» - seppur potenziale.
Non è certo la disciplina della vita d'istituto che
può portare il bambino a liberare le energie della sua personalità perché non è
tanto importante lo svolgersi di abitudini regolari
nell'arco della sua giornata, quanto l'esistenza di un rapporto stabile con
alcune persone. Non infermiere, educatori che ruotano, ma delle figure
parentali fisse in grado di presentarsi come quel modello di «confronto
moderato» e di «presenza educante» cui prima ci riferivamo.
Controllo moderato, per cui la disciplina diventa
qualcosa che si sceglie, e non qualcosa che è imposto dalla rigidità di alcune
regole. Presenza educante che giocherà un'importante funzione nel processo di identificazione che il minore dovrà compiere per
camminare verso una maturità più piena.
La possibilità di stare in compagnia con altri
bambini è costantemente assicurata dalla vita in istituto; ma dagli studi sulla
dinamica: di gruppo si deduce facilmente come anche
questa necessità vitale del bambino piccolo non si realizzi in modo positivo
all'interno di un istituto.
Vediamo infatti che quanto
più piccolo è un bambino tanto meno è in grado di instaurare un rapporto
emotivo con troppi coetanei; e che tale situazione lo porta all'angoscia, al
sentirsi «anonimo» e sopraffatto: molto lontano quindi dalla socializzazione.
Questa, perché si realizzi, deve essere inoltre sollecitata in un ambiente
estremamente libero che garantisca al bambino la sua
piena possibilità di esprimersi al di là di ogni schema o regola prefissata.
La Isaacs parlando delle esigenze di socializzazione della
infanzia afferma infatti che il bambino: «ha bisogno di contatti variati, ma
questi debbono essere vivi e reali».
* * *
I bisogni essenziali, relativi alle prime tappe di
maturazione della personalità, ci portano chiaramente ad evidenziare quanto
l'istituto per la sua struttura, per l'anonimato dei rapporti che si instaurano è più facilmente causa di «deviazioni» (sulle
cui tipologie si potrebbe sviluppare un amplissimo discorso) che di formazione
educativa.
Perché la comunità alloggio non sia
alternativa all'istituto solo per le differenti dimensioni strutturali
e per la sua collocazione in zona - come servizio di quartiere - ma anche per
le sue dinamiche educative, occorre che gli educatori siano preparati a vivere
con consapevolezza ed esperienza il loro rapporto con i minori. Certamente non
facile, se ci ricolleghiamo al rapido esame tracciato dei bisogni essenziali
per la crescita di una personalità sana, e pensiamo viceversa
quanto questi siano stati disattesi nei confronti di quei soggetti che vengono
a trovarsi nella comunità alloggio.
Qualunque sia la causa che porta il
minore in tale comunità, certamente ha determinato in lui situazioni di
deprivazione e di frustrazione, di gravi conflitti.
E il suo modo di esprimersi sarà il più diverso, a seconda dell'età e della gravità delle carenze subite.
L'opera rieducativa della
comunità alloggio inizia sempre col passo primo ed indispensabile
dell'accettazione piena, dell'accoglimento totale del minore e di quanto questi
vuol comunicare.
Non sempre l'approccio di comunicazione, che il
minore tenta, è il più gratificante per l'educatore
che deve avere quindi la capacità, per preparazione professionale e maturità
propria, di saper accettare e dirigere positivamente anche lunghe fasi di
opposizione, evitando il pericolo di una rottura psicologica fra il presente e
il passato del soggetto, che metterebbe molto in forse ogni possibilità di
guarigione e di recupero.
Il minore nella misura in cui ha vissuto uno stato di angoscia, nella sua famiglia d'origine o in una
precedente collocazione istituzionale, si crea tutta una barriera di difese
inconsce che lo proteggano da nuove frustrazioni. Ed è diffuso l'atteggiamento
di «mettere alla prova» i nuovi educatori con comportamenti ostili, di rifiuto,
od aggressivi per raggiungere in questo modo la certezza di essere veramente
accettati, di sentire soprattutto accettata quella parte di sé «cattiva»,
ostacolo all'instaurarsi di ogni valido rapporto.
La capacità di ascolto degli
educatori, la loro «sicurezza» educativa che non li porrà mai come quelle
figure «buone» in grado di cancellare quelle «cattive» precedentemente
incontrate e, a volte, anche interiorizzate dal minore, è determinante perché
questi si liberi da ogni atteggiamento di cautela, di circospezione: dal
timore stesso di amare.
È determinante anche perché
il processo di identificazione non sia vissuto come conflitto tra i modelli
vecchi da scartare (con tutti i sensi di colpa conseguenti), e quelli nuovi che
gli si presentano più gratificanti, ma come una rielaborazione progressiva
dei suoi vissuti, quelli presenti e quelli passati, in cui lentamente possa
riemergere la capacità di «sentirsi buono» - perché amato - e così la fiducia
e la possibilità di intrecciare rapporti costruttivi e di collaborazione.
È questo l'inizio della strada verso la ricerca di una identità, che sarà tanto più decisa e strutturata,
quanto più continuerà ad elaborarsi all'interno di un rapporto in cui il
minore si sentirà sempre soggetto e persona.
In questa fase incombe ancora su di lui il Pericolo, per l'impreparazione degli educatori, di essere
oggettivato, e quindi negato come persona, e visto solo come «ruolo», come
«quel minore» che gli educatori vorrebbero che egli fosse, riproponendogli
così ancora rana volta i confini, anche se strutturalmente più limitati, di un'istituzione
totalizzante.
Di qui l'importanza vitale, per i minori e per gli
educatori, che la comunità sia inserita nel quartiere e le sia pienamente
garantita la possibilità di rapporti costruttivi e positivi
nel sociale circostante.
L'instaurarsi anche di un rapporto terapeutico valido
all'interno della comunità alloggio, avrebbe breve durata se questa si
presentasse come un microcosmo estraneo alla realtà, guardata come un ghetto
di stigmatizzati, senza la possibilità per i minori di vivere tutto l'aspetto
socializzante di quei momenti di confronto, di dialogo, di solidarietà con
altri coetanei e gruppi d'amici.
Ugualmente anche gli educatori più preparati non
potrebbero svolgere pienamente la loro opera educativa senza i necessari
supporti specialistici per i casi più difficili (per esempio la psicoterapia);
così senza la possibilità di una frequente verifica di quanto il loro impegno
educativo comporta.
Verifica che se richiede l'esistenza di un'équipe di
servizio sociale e psicologico nella zona, necessita
anche della partecipazione solidale di tutta la gente del quartiere.
Pubblichiamo
due documenti di Comunità alloggio di Milano: nate da una comune esperienza
quella di Via Castillia, dove la comunità si è trovata
a vivere in condizione di precarietà per la sua impostazione stessa
volontaristica e di beneficenza, esse hanno poi elaborato nuovi elementi per
uscire dall'improvvisazione, e creare nuovi rapporti con l'ente locale e con
tutte le forze politiche del quartiere.
I
LA
COMUNITÀ NUOVA DI VIA ZUMBINI
La necessità di avere delle «comunità» è nata per
sopperire ai bisogni di alcuni ragazzi usciti dal
carcere minorile di Milano «Cesare Beccaria».
I bisogni erano sostanzialmente quelli di avere un
tetto ed un ambiente rassicurante.
Abbiamo dato avvio così, circa due anni fa, alla
prima esperienza in via De Castillia;
nella comunità vivevano inizialmente quattro ragazzi con due educatori, uno
dei quali lasciò la medesima per trasferirsi nella comunità di via Compagnoni.
Le difficoltà incontrate furono enormi, e si possono riassumere in:
difficoltà di carattere economico, scarso numero di educatori
ed inesperienza degli stessi, l'appartamento che era fatiscente, impossibilità
della comunità di avere contatti con l'esterno essendo situata al quartiere
Isola dove i problemi fondamentali della gente che vi abita (proletariato,
sottoproletariato, disoccupati) sono quelli di assicurarsi la sopravvivenza
quotidiana.
Da questa esperienza è nata
l'esigenza di trasferirsi in una zona più ricettiva, dove ci fosse la
possibilità per i ragazzi di crearsi nuove amicizie, ed avere un ambiente con
un minimo di confort.
A marzo dell'anno scorso ci siamo trasferiti in via Zumbini impostando la comunità
in maniera diversa alla luce dell'esperienza precedente.
Abbiamo portato a tre il numero degli educatori per dare a questi maggior possibilità di confronto
e di spazio.
L'impostazione pedagogica si basa sfruttando le
relazioni che nascono spontaneamente all'interno
delle comunità per far prendere coscienza ai ragazzi delle proprie capacità e
della realtà circostante.
Questa dialettica tra educatori e ragazzi deve tener conto, nella prospettiva di una conoscenza della
realtà, della storia di ogni ragazzo.
In questa dinamica di
relazioni, educatori-ragazzi, ragazzi-ragazzi, educatori-educatori, scaturiscono
delle norme di vita in comune, quali il rispetto delle reciproche esigenze e la
partecipazione alla gestione della casa (partecipazione diversa date le storie
diverse) come momenti socializzanti.
Poiché la finalità della comunità è
quella di far prendere coscienza della realtà e questa si acquisisce con
l'incontro-scontro con la medesima, si stimola il ragazzo a fare esperienze
concrete nei diversi campi (scuola, lavoro, quartiere).
Data la diversità di storie di ogni
ragazzo per il passaggio da una situazione quasi passiva (di alcuni di essi) ad
una situazione di partecipazione è importante che vi siano attività in cui
possa realizzarsi.
Abbiamo pensato quindi alla creazione di laboratori
aperti anche ai ragazzi del quartiere, dove sia possibile oltre che imparare un mestiere poter guadagnare un minimo per
rendersi finalmente responsabili dei reali problemi.
II
LA
COMUNITÀ DI VIA COMPAGNONI
L'idea di realizzare una comunità alloggio, preposta
all'inserimento nella società di ragazzi usciti dal carcere minorile, venne
attorno al mese di ottobre del '73 al cappellano
dell'istituto Beccaria, Don Gino Rigoldi.
Alla luce di esperienze già
da alcuni anni in corso in altre parti d'Italia e, in particolare, sul modello
della esperienza del gruppo Abele di Torino, si progettò, prima ed unica nel
suo genere sul territorio metropolitano, una comunità-alloggio che rispondesse
a due ordini di bisogni manifesti nei ragazzi ex-detenuti:
1. bisogni di ordine
materiale. Infatti il ragazzo, dopo il periodo di
segregazione in carcere, periodo nel quale non solo egli interiorizza il ruolo
del «delinquente», ma ne perfeziona anche le tecniche, viene investito appena
fuori da gravi difficoltà di sopravvivenza e di inserimento tali da trovarsi,
quasi certamente, a chiedere aiuto e protezione al «giro» di cui già faceva
parte.
2. Bisogni di ordine
psicologico. Attraverso lo strumento comunità si apre per questi ragazzi la
possibilità di individuare i loro problemi psicologici e umani come comuni ad
altri e di essere aiutati e sorretti in questo dalla presenza di figure di, riferimento adulte.
Passati solo alcuni mesi dall'avvio, l'andamento e
la possibilità di continuazione dell'esperienza venivano
seriamente pregiudicati da alcune gravi difficoltà, sintetizzabili in 4 punti:
1. Il carattere privatistico e l'aleatorietà
della beneficenza che rendeva precaria la sopravvivenza economica della
comunità;
2. Il problema della
gestione interna e dell'isolamento di chi viveva nella comunità;
3. La condizione di volontari a tutti gli effetti
degli educatori;
4. Le dimensioni minime e le condizioni abitative pessime dell'appartamento situato in via De Castillia (zona 2).
Gruppo e definizione d'intervento
Nel frattempo alcuni operatori sociali del settore
della c.d. rieducazione, venuti a conoscenza della iniziativa
del cappellano del Beccaria e avendo questi chiesto
la loro collaborazione per risolvere i problemi suddetti, si costituirono come
gruppo attorno alla comunità-alloggio, ritenendo l'esperienza interessante e
suscettibile di importanti sviluppi.
Avendo
chiara l'analisi della situazione e del settore, impegnati nella ricerca di
proposte e interventi che superassero la logica dell'esclusione (1), il
gruppo, seppure a livello volontario, decise di assumere la gestione di questo
tipo di intervento, dandogli un significato che andasse al di là della
prospettiva assistenziale per potersi trasformare in un momento politico
d'intervento nel campo della delinquenza minorile.
D'altra parte apparve chiaro che un intervento
politico sul fenomeno non può prescindere:
1) dal
coinvolgimento della classe operaia perché,
respingendo l'analisi borghese del fenomeno della devianza, possa incidere con
le pro ,arie lotte là dove il fenomeno ha le sue radici ultime, cioè nei
rapporti di potere a livello di produzione;
2) dallo
spostamento dell'asse operativo dall'individuo al collettivo, dall'istituto al
territorio, là dove il fenomeno si manifesta, per rompere la logica
dell'emarginazione, riportando cioè all'esterno tutte
quelle contraddizioni che il sistema capitalista violentemente reprime e nasconde.
Rapporto con la classe operaia - Sit Siemens
L'occasione
per affrontare il tema del coinvolgimento della classe operaia fu data da un
documento sindacale della Camera del Lavoro (documentazione camerale n. 9)
che proponeva il discorso del rapporto tra la classe operaia e la questione del
carcere.
S'instaura quindi un rapporto con la Camera del
Lavoro che ci mette in contatto con la Sit Siemens.
L'ipotesi iniziale era quella di fare aprire al
Consiglio di Fabbrica una vertenza sul posto di lavoro per ex-detenuti. Essendo
però il Consiglio di Fabbrica piuttosto deresponsabilizzato al problema
dell'emarginazione, chi si dimostrò invece coinvolto sul problema
furono le avanguardie operanti al suo interno. Accanto ad esse
furono anche coinvolti alcuni lavoratori della Siemens
che erano interessati più che altro a livello umanitario.
La proposta di agganciare altre fabbriche non viene realizzata e si approfondisce invece il rapporto con
la Siemens.
A maggio del '74 si tiene in Val Formazza
un convegno organizzato da diversi operatori sociali
insieme ad alcuni operai della Siemens con la
partecipazione dei ragazzi della comunità-alloggio.
Proposto come ricerca di una linea da seguire
all'interno del gruppo diviene di fatto un incontro
di studio e occasione, per molti che non operavano nel settore, di avvicinarsi
al problema della rieducazione.
Si formarono tre gruppi di studio
sui seguenti temi:
1. Comunità; 2. Centro Sociale; 3. Fabbrica.
Per quanto riguarda il gruppo fabbrica sono emersi questi problemi:
a) rapporto Beccaria-fabbrica;
b) rapporto zona-fabbrica;
c) significato dell'emarginazione nella lotta di classe;
d) inserimento degli ex-detenuti in fabbrica;
e) prospettive di superamento dell'istituzione
carceraria;
f) come portare il problema
all'interno della fabbrica; contatti con il CdF;
d) difficoltà di espressione
in fabbrica da parte dei ragazzi che hanno fatto l'esperienza del carcere;
h) partire dai bisogni reali del ragazzo (lavoro
retribuito).
Nel periodo subito successivo al convegno in Val Formazza, il rapporto con il gruppo di operai
si andò sempre più affievolendo fino a scomparire.
Da parte degli operai della Sit
Siemens si rivelò la grossa difficoltà di
generalizzare il problema a livello di massa perché, all'interno della
fabbrica, esistevano problemi contingenti oggettivamente prioritari da
affrontare e perché la sensibilizzazione sul problema
dell'emarginazione in fabbrica richiedeva un lavoro difficile e a lungo
termine.
Da parte del gruppo di operatori,
da un lato si tendeva a trovare una soluzione ai problemi immediati che
scaturivano dalla comunità; dall'altro si privilegiava in questo periodo il
collegamento con forze più responsabilizzate sul problema.
Il rapporto con la fabbrica, anche se fallito in
breve tempo, fu molto importante per le indicazioni
che da questa esperienza scaturirono in un secondo tempo.
1. La via scelta per attuare il coinvolgimento della
classe operaia sul problema della devianza minorile secondo l'ipotesi di intervento, era inadeguata.
Infatti, ad essere coinvolti nell'esperienza, non era
la fabbrica nel suo complesso, bensì un gruppo di
operai che vi si accostavano più su motivazioni personali che altro, creando
così un rapporto solidaristico con la comunità.
D'altra parte, l'instaurarsi di tale rapporto non
poteva avvenire diversamente, dato il carattere ancora essenzialmente privato
dell'esperienza, dove anche il gruppo di operatori non
rappresentava altro che l'esigenza di continuità di un'esperienza di cui si
scorgevano i possibili collegamenti ma non i modi in cui attuarli.
2. Fermo restando l'ipotesi di collegamento con la
classe operaia: l'indicazione in positivo fu di
spostare l'asse di intervento dalla fabbrica al territorio dove la classe
operaia vive ed esprime grossa parte dei suoi interessi.
In questo quadro ci si indirizzò
verso un rapporto con le strutture territoriali della classe operaia
organizzata, i C.U.Z.
Via Compagnoni - Convenzione ENAIP-MGG
In tutto questo periodo all'interno della comunità
avvennero diverse trasformazioni che, se da una parte furono dei miglioramenti,
dall'altra posero in luce abbastanza presto i limiti e
le difficoltà, scaturite peraltro, dall'impostazione stessa di questa
esperienza.
Via Compagnoni
In primo luogo si cercò un alloggio sostitutivo di
quello di via De Castillia,
date le sue scarse possibilità abitative.
L'unico appartamento che si riuscì a reperire fu in via Compagnoni, situato quindi nella zona 2,
a stratificazione medio-borghese che si dimostrò
subito la meno adatta alla verifica delle nostre ipotesi. Principalmente per
due motivi:
1. Nella zona che fa parte del centro di Milano il fenomeno
della devianza è un problema poco sentito o per lo
meno non viene vissuto in prima persona dagli abitanti;
2. Non esistono le possibilità di incidere nella zona sulle cause strutturali che producono il gesto
deviante.
La conseguenza più grossa fu l'impossibilità di
aprirsi al quartiere e quindi di non riuscire ad instaurare
il necessario confronto su questi temi con le forze sociali operanti nel
territorio e relegando i ragazzi in un ambito privato e chiuso.
Convenzione
Inoltre, analizzata la condizione di precarietà in
cui viveva la comunità-alloggio e data l'urgenza di risolvere in qualsiasi
modo (purché non fosse quello volontaristico e di beneficenza) il problema finanziario, condizione indispensabile non solo per
superare la precarietà dell'esperienza, ma soprattutto per poter impostare un
più globale programma di intervento, si giunse alla decisione di coinvolgere
l'Ente Nazionale Acli per l'istruzione Professionale
(E.N.A.I.P.), e di ottenere, attraverso questo ente,
già da tempo impegnato nel settore della c.d. rieducazione e nel progetto e
nella realizzazione di piccole comunità come alternativa
all'istituzionalizzazione, una convenzione con il Ministero di Grazia e Giustizia
(Direzione Generale Istituti di Prevenzione e Pena - Centro di Rieducazione
Minorenni, Milano) per una comunità alloggio in cui siano ospitati «n. 10 giovani di sesso maschile dei quali 5 in internato e 5 inseriti
in situazione esterna, per i quali la competente autorità Giudiziaria Minorile
abbia disposto tale misura rieducativa» (dal testo
della convenzione).
La risoluzione immediata di questo problema, fu
coscientemente ottenuta in termini politici di compromesso e di
ambiguità in quanto l'ENAIP è sostanzialmente una struttura
inaccettabile (assistenza privata) anche se gestita in modo accettabile.
D'altra parte la scelta risultava
obbligata data l'irrilevanza dell'esperienza che non consentiva la richiesta di
gestione da parte dell'ente locale.
Se questa scelta ha permesso da un lato la continuità
dell'esperienza, dall'altro l'ideologia assistenziale
chiusa ed arretrata del MGG ha pesato fortemente sulla comunità-alloggio.
Infatti un'attenta
lettura della convenzione rivela tra le righe qual è la politica del Ministero
di Grazia e Giustizia (nella fattispecie del Centro di Rieducazione per i
Minorenni di Milano) e la sua reale posizione rispetto a esperienze nuove di
rieducazione come te comunità-alloggio. In modo particolare si evidenzia come:
l. Essa sia concepita essenzialmente come un piccolo
istituto più efficace dove le piccole dimensioni, il basso numero di ragazzi e
la mancanza di controlli rigidi rendono meno evidente la finalità repressiva e
custodialistica dell'istituzione rieducativa.
Una razionalizzazione, quindi, un mutamento formale che lascia tutto
inalterato: infatti non si fa nessun riferimento alla
necessità che la comunità si apra al quartiere, o più in generale alle forze
sociali.
Al Ministero
basta che:
ART. 3 «... si provveda alla rieducazione e al
progressivo riadattamento sociale del minore... in particolare a far loro
seguire i corsi scolastici d'obbligo... favorendo soprattutto l'inserimento
lavorativo esterno...».
2. Come viene sottolineato il legame e il controllo alle strutture
istituzionalmente preposte alla rieducazione, cioè, per esempio, il Tribunale
dei Minorenni.
ART. 1 «... si obbliga ad ospitare nella comunità
maschile di Milano n. 10 giovani... per i quali la competente autorità
giudiziaria abbia disposto tale misura educativa».
ART. 5 «la comunità non riceverà minori di diversa
provenienza».
Si possono fare due considerazioni:
a) si riconferma la
specificità della comunità come servizio per soli minori disadattati e già
segnalati in Tribunale, quindi non una comunità aperta a tutti i minori che ne
abbiano bisogno per motivi diversi, che si configuri come servizio aperto e sul
quale non cada nessuna stigmatizzazione giuridico-punitiva;
b) come conseguenza del punto precedente si chiarisce
come si è ancora lontani da una gestione pubblica e collettiva di questi problemi
che restano ancora sotto l'incontrastato controllo
dell'apparato giuridico che non intende spartirli con nessuno.
Ruolo degli educatori
Un altro grosso fattore determinante
dell'andamento dell'esperienza è stato il ruolo che gli educatori si sano trovati
a rivestire. Il MGG parla chiaro: nella convenzione a
proposito degli educatori si limita a definire la specificità del ruolo in
questi termini:
«gli educatori sono tenuti a trasmettere al Tribunale
dei Minorenni... informazioni sulla condotta del minore, sulle sue relazioni
con la famiglia,... sul profitto scolastico e il
grado di riadattamento sociale ottenuto».
Come tutto ciò avvenga, quali siano
gli strumenti e le condizioni attraverso le quali un reale inserimento sociale
possa avvenire non si dice. Nel contempo però il MGG
eroga rette che risalgono a dieci anni fa, non si fa carico in nessun modo
della formazione degli educatori, esclude, come abbiamo visto, una qualsiasi
apertura al territorio, che non sia solo affidata alla discrezione della
«buona volontà» degli operatori, senza contare che non si accenna neppure per
sbaglio a un benché minimo piano educativo.
La diretta conseguenza è che gli educatori assumono
un ruolo custodialistico in forma
attenuata (mistificato cioè dalla caratteristica di libertà della
comunità e delle sue piccole dimensioni) e quindi riconducibile più che altro
alle figure parentali.
Anche l'Ente gestore, l'ENAIP, parla chiaro:
d'accordo sul progetto politico nel complesso, nei fatti la comunità non può avere
più di due educatori in quanto i finanziamenti dell'MGG
sono scarsi e non li si vuole integrare. L'unico rimedio che viene proposto è l'utilizzo di obiettori di coscienza come
forza lavoro non considerando che il volontariato è incompatibile coll'ipotesi di intervento. La conseguenza di questa linea
è stata che la professionalità degli educatori si riduceva a percepire lo
stipendio, mentre, per le esigenze interne, ci si trovava
a coprire tutto l'arco della giornata e della notte vivendo in comunità ventiquattr'ore su ventiquattro, assumendo praticamente il
ruolo di tuttofare e supplendo, con la propria persona alla mancanza di personale
di servizio e di mezzi economici adeguati.
Altre difficoltà:
l'isolamento dal territorio con la conseguenza diretta
che le tensioni generate da problemi reali (per esempio la mancanza di posti di
lavoro) convergevano tutte all'interno della comunità, appesantendone
l'andamento, rendendo difficile la convivenza e soprattutto facendo sì che gli
educatori fossero nella scomoda e deleteria posizione di mediazione fra i
ragazzi e la realtà;
la conseguente non definizione del ruolo degli
educatori come lavoratori a tutti gli effetti che lasciava spazio alle riproposizioni della figura paterna e materna;
l'inesperienza degli educatori in alcun caso sorretta
da momenti di formazione ma solo dall'«amicizia» di alcuni esterni;
l'immissione di ragazzi attuata non tenendo conto della
capacità della comunità, delle esigenze dei singoli o peggio ancora degli
operatori che avevano seguito í singoli ragazzi fino a quel momento e che si
trovavano nell'impossibilità di fare proposte concrete e complessive;
il rapporto della comunità con il gruppo che
nell'ipotesi avrebbe dovuto prendersi carico dei problemi interni il cui coinvolgimento
invece fu sempre parziale e privatistico poiché in
questo ambito più che negli altri violentemente emerse il limite strutturale
del gruppo cioè il volontariato (limitata disponibilità di tempo e
partecipazione subordinata agli impegni di lavoro);
mancanza come gruppo di una precisa identità professionale e
quindi anche scarsa incisività e forza a livello di contatti e richieste.
L'intreccio di tutti questi fattori fu la causa per cui nella comunità si crearono dinamiche fra i ragazzi e
fra questi e gli educatori non gestibili solo sulla base delle capacità
personali o peggio della « buona volontà » degli educatori.
Veniva riproposto nei fatti ai ragazzi un misto di piccolo
istituto (con caratteristiche proprie ma pur sempre nella stessa logica) e di
una famiglia.
Questo non permetteva né l'attuarsi di un progetto
di deistituzionalizzazione né, a livello educativo,
la possibilità di aiutare i ragazzi a superare la
dipendenza e la passività a cui sempre sono soggetti a tutti i livelli per
arrivare invece alla gestione in prima persona della loro vita.
Infatti è nostra convinzione che la comunità alloggio ha una
funzione oggettiva di stimolo sia alla sensibilizzazione su questo grave
problema sociale sia alla presa in carico e alla lotta alle cause del
disadattamento, nella misura in cui a livello soggettivo, cioè di ciascun
ragazzo che della comunità fa parte, risponde alle esigenze di configurarsi a
pieno diritto come uomo e come soggetto politico, imparando quello che al di là
di mistificazioni di sorta, la nostra società non solo non insegna ma non
permette, imparando cioè a compiere una scelta di vita, a gestire le proprie
carenze e a « costruire insieme agli altri », in una visione collettiva di
cambiamento della società, acquisendo a questo scopo quegli strumenti di
lettura dei meccanismi della realtà che a questi ragazzi sono sempre mancati e
la cui mancanza molto ha contribuito a portarli al «gesto deviante», come
ribellione individualistica e non cosciente e per questo distruttiva più ancora
che degli altri o delle cose, di se stessi.
Concretamente perché questo approccio
diretto e costruttivo colla realtà possa avvenire positivamente, occorre
individuare e favorire momenti fondamentali di socializzazione (attività scolastiche,
gestione del tempo libero ecc.) attraverso i quali il ragazzo acquisti una
dimensione collettiva dei suoi problemi e la coscienza che per la maggior parte
solo collettivamente si possono risolvere e la collettività d'altra parte riconosca
come suoi i problemi del ragazzo, non considerandolo più un «diverso».
L'integrazione della Comunità nel territorio, indispensabile dal punto di
vista politico, veniva così riproposta come
indispensabile dal punto di vista educativo.
Si può dire comunque che
questo fatto ha permesso un maggiore approfondimento dell'analisi del settore
assistenziale e ha dato vita ad alcune iniziative di sensibilizzazione nel
quartiere (per esempio tramite l'allestimento di una mostra fotografica
sull'emarginazione).
Da questa esperienza abbiamo
ricavato il convincimento dell'importanza fondamentale del rapporto con il
gruppo ACLI come un tramite non solo per conoscere realisticamente le caratteristiche
del quartiere, ma per aggregare intorno al progetto i lavoratori e le forze
sociali presenti in esso.
Conseguenze verificatesi all'interno
della comunità
Il mancato reperimento dell'alloggio così come è stato determinante per la definizione dell'intervento
a Baggio ha anche fatto emergere la contraddizione
tra la conduzione della comunità e l'ipotesi di lavoro a Baggio,
nella quale gli educatori, assieme al gruppo (2), erano assorbiti.
Rispetto alle condizioni in cui viveva la comunità
che abbiamo esaminato sopra, in questo periodo si aggiungono una serie di elementi nuovi:
1) Gli educatori devono affrontare due tipi di lavoro
nettamente differenziati, l'uno interno l'altro
esterno alla comunità, con l'aggravante della distanza tra i due posti di
lavoro posti, rispettivamente, ai lati estremi della città (città studi-Baggio);
2) Si aggrava il problema della formazione degli
educatori che risulta sempre più inadeguata rispetto
al nuovo ruolo che essi vanno acquisendo;
3) Emerge sempre più pesantemente il limite del
gruppo che via via va scomparendo;
4) I ragazzi risentono negativamente della presenza,
quasi dimezzata, degli educatori. E si trovano a:
5) Dover assumere maggiori responsabilità,
bruscamente e al di fuori di una loro scelta, per es., nella conduzione della casa;
6) In una situazione già precaria vengono immessi
nuovi ragazzi senza una presenza costante degli educatori che servisse ad
affrontare positivamente le dinamiche conflittuali
che si venivano a determinare.
Appare evidente la profonda diversità con la quale
gli stessi problemi si sarebbero affrontati nella
situazione del trasferimento della comunità a Baggio.
La possibilità di rendere partecipi in prima persona
i giovani dello sviluppo del progetto iniziale, avrebbe, se non altro permesso
di affrontare i problemi, che si sarebbero egualmente creati,
ma non come conseguenza da subire, bensì come difficoltà da affrontare, e
superare, in una dimensione non angustamente limitata all'ambito chiuso della
comunità, ma in un confronto con la nuova situazione ambientale ed
eventualmente con le forze sociali attive.
Non crediamo che il trasferimento a Baggio avrebbe automaticamente e miracolosamente risolto
ogni problema, siamo certi che ne avrebbe mutato
profondamente la qualità, permettendo ad educatori e ragazzi, ciascuno
conservando la propria soggettività, esigenze e problemi, di porsi
concretamente nella realtà uscendo dal semplice rapporto interpersonale, e
creando le premesse di un lavoro comune.
Precisazioni riguardo al carattere
dell'intervento sul territorio
Si può dire che l'ottobre
'74 inizia una nuova fase caratterizzata dalla scelta della zona in cui
spostare la comunità e dai collegamenti che si instaurano con le forze in essa
presenti ed operanti.
Infatti, come abbiamo visto,
sia i problemi strutturali della comunità sia i problemi pedagogici di rapporto
con i ragazzi e di definizione del ruolo degli operatori interni, misero
all'ordine del giorno il trasferimento della comunità-alloggio in una zona
realizzabile nei termini sopra esposti, cioè nel duplice senso di
responsabilizzazione del quartiere al problema della devianza minorile e
possibilità di rapporti diretti con la realtà da parte dei ragazzi.
Scelta della zona: Baggio
La scelta fu per la zona 18 Baggio,
in base ad alcune caratteristiche in essa presenti:
1) Tipica stratificazione sociale della zona (rilevante presenza proletaria);
2) Quartiere dormitorio;
3) Zona nella quale il fenomeno della «devianza» si
presenta in modo massiccio;
4) Possibilità di collegamento con un gruppo di operatori sociali dipendenti da vari enti che già lavorano
all'interno del territorio su un'ipotesi di collegamento e coordinamento.
Scelta la zona, vengono
affrontati i seguenti problemi:
I° - Ricerca dell'appartamento in cui inserire la
comunità-alloggio a Baggio: questa ricerca era rivolta,
ovviamente, all'interno dell'edilizia pubblica, per due motivi di fondo: uno di carattere economico e l'altro di carattere
politico. Solo l'edilizia pubblica, infatti, permette o può permettere, che,
date certe condizioni e certi rapporti di forza, possa esistere un «prezzo
politico» per l'affitto (nel bilancio della comunità-alloggio, in base alle
rette pagate dal M.G.G., non
era, come non è, possibile stanziare per l'affitto che una somma assai esigua,
praticamente formale, come lo era per l'appartamento di V. Compagnoni, ceduto
da un'istituzione cattolica al Cappellano del Beccaria)
e, nel contempo, è l'edilizia pubblica che, in primo luogo, deve farsi carico,
in base al suo specifico, di una serie di problemi quale quello
dell'emarginazione, che sono propri della collettività in questo momento
storico.
A livello di zona ci si è rivolti al consiglio di
zona, in forma del tutto strumentale, perché si prendesse carico, attraverso lo
IACP del nostro problema.
Mentre il presidente del C.d.Z. era interessato alla
nostra proposta e quindi riteneva valido portare all'interno del quartiere un
discorso sull'emarginazione, i capi-gruppo di altri
partiti e i membri del suo stesso partito (la Democrazia Cristiana) rimanevano
su una posizione di chiusura riguardo a qualsiasi iniziativa, che presentasse
una minima caratteristica innovativa, quindi c'era una sostanziale mancanza di
volontà politica a livello di vertice.
Il° - Conoscenza e contatti con
tutte le forze politiche presenti nel quartiere. Attraverso tentativi diretti di contatti di zona siamo venuti a conoscenza di varie realtà, diverse tra loro
e tutte significative quali un gruppo di insegnanti democratici della scuola
media Mattei, una scuola popolare, un gruppo
spontaneo di giovani attorno all'obiettivo di intervento sul problema della droga,
il gruppo di operatori sociali di vari enti di cui sopra, il circolo ACLI di Baggio.
Con i primi abbiamo avuto rapporti di scambio di informazione ed esperienze che ci sono stati utilissimi
per l'inserimento nel quartiere e che peraltro hanno dato luogo a momenti di
collaborazione significativa ma episodica.
Diverso il rapporto col circolo ACLI:
L'intenzione di questo gruppo di farsi carico del
problema dell'assistenza in generale come terreno di iniziativa
politica sul territorio ci ha permesso di avere un rapporto continuativo teso
all'elaborazione di un comune progetto di intervento.
L'ipotesi fondamentale sulla quale ci muoviamo è
quella del passaggio delle strutture della rieducazione all'ente locale, che riteniamo complessivamente più idoneo del M.G.G., a rispondere alle reali esigenze dei giovani posti
sotto il suo eventuale intervento.
Sviluppi del rapporto con l'assistenza
Il rapporto con l'ente locale lo vediamo
nell'effettivo collegamento della comunità-alloggio con gli altri servizi
sociali, quindi come una delle strutture necessarie per portare avanti un discorso
sui servizi decentrati territorialmente a gestione democratica, non
emarginanti.
Consideriamo importante questo, poiché se pur siamo
convinti della necessità di combattere tutte le strutture private o privatistiche e quindi siamo fautori della pubblicizzazione, non crediamo che sia sufficiente un
semplice cambio di forma o di facciata.
In questo senso vediamo il passaggio alla gestione
pubblica di tutte le strutture private (quindi anche della nostra), solo come
il primo passo verso la costruzione di servizi che siano
reale risposta ai più elementari diritti popolari, principalmente il diritto
di ogni individuo ad una vita sana, integra e cosciente. In tal senso
consideriamo i migliori garanti di questa effettiva
trasformazione: i lavoratori degli enti, che da anni lottano per la
trasformazione degli istituti nei quali lavorano, i lavoratori ed il popolo in
generale, che da anni subisce la miseria di una organizzazione sociale, che sa
solo reprimere ed isolare coloro che obbliga a condizioni di vita emarginanti.
Noi consideriamo molto importante il contributo che
può venire da una cosiddetta «esperienza alternativa»
rispetto all'elaborazione dell'intervento sopradetto.
A nostro avviso non sarebbe inutile l'ipotizzare un
rapporto, da vedersi in qual modo e su quali discorsi,
tra la cosiddetta «rieducazione» ed i «lavoratori dell'assistenza» sulle
semplici ed ovvie considerazioni che:
a) entrambi intervengono su condizioni che sono
conseguenti alle medesime cause emarginanti;
b) anche la rieducazione, a più o
meno breve scadenza, dovrebbe passare almeno in parte sotto la
programmazione regionale e la gestione dell'ente locale minore: Provincia e
Consorzi di Comuni, in ogni caso al di fuori delle competenze del M.G.G.
Data la necessità dei contatti esterni sopraindicati,
e data l'esigenza di non contrapporli all'ipotesi educativa interna che abbiamo
elaborato ed alla organizzazione interna che consegue,
è utopistico credere che ancora per lungo tempo questa doppia azione parallela
possa essere compiuta soltanto dalle nostre due persone, e nelle stesse
condizioni nelle quali abbiamo operato finora.
Nuova ipotesi educativa
Crediamo che per andare avanti si debba uscire
dall'ottica assistenziale, come unica ipotesi a cui
finalizzare il «servizio
comunità-alloggio, cioè ci si debba porre il problema di capire cosa significhi
avere un "rapporto rieducativo", con giovani
che escono dall'esperienza del disadattamento, dell'emarginazione e
dell'istituzionalizzazione non volendo più limitarci al semplice "parcheggio"
delle loro vite, all'interno di una struttura valida comunque».
Prima ancora ci si deve chiedere chi siano questi giovani?
Dove andranno dopo la cosiddetta esperienza rieducativa?
In definitiva consideriamo che il
limite fondamentale della nostra esperienza sia stato quello di
considerare la finalità del nostro intervento, limitata alla semplice
compensazione affettiva di «carenze umane» che i giovani si portavano dietro,
ed al generico «sostegno ambientale» necessario per non lasciarli sulla strada.
Probabilmente per la sperimentalità
iniziale della stessa esperienza non ci si poteva proporre niente di più, ma
crediamo che, oggi, vi siano abbastanza elementi conoscitivi per
farci uscire dall'improvvisazione e dall'empirismo, per cominciare ad
elaborare un discorso realmente alternativo alle cause che creano
l'emarginazione.
Alcune considerazioni
I giovani che fruiscono, o dovrebbero fruire, delle
comunità-alloggio convenzionate con il M.G.G., rappresentano la «sintesi» di tutte le possibili
emarginazioni attuate dall'organizzazione sociale nella quale viviamo:
dall'immigrazione (con il suo significato di sradicamento culturale, isolamento
ecc.) all'espulsione scolastica, allo sfacelo dei rapporti affettivi e del
nucleo familiare per le miserabili condizioni di vita di larghi strati
popolari, sotto il peso di una organizzazione economica che impoverisce di più
chi vive esclusivamente del proprio lavoro, e che via via
attraverso tutte le tappe dell'esclusione, sino alla impossibilità di
inserirsi nella produzione, ormai divenuta cronica nei nostri tempi.
In ultima analisi gli emarginati rappresentano la
miseria materiale e culturale di una società che ha scaricato su di essi la propria incapacità cronica di dare ad ogni uomo,
nella collettività, un ruolo in base alle proprie capacità e rapporti sociali
non competitivi.
Da una parte questi giovani rappresentano la sintesi
dell'esclusione, dall'altra, principalmente per questo, sono divenuti o
rischiano di divenire i migliori rappresentanti e difensori della logica su cui
si basa l'attuale organizzazione sociale: attraverso l'accettazione completa del consumismo e delle merci che lo rappresentano degnamente,
mediante l'utilizzo del proprio corpo e della propria intelligenza, per
conquistare più o meno lentamente lo status sociale di coloro che li hanno
esclusi.
E allora, l'individualismo, la competitività, la
lotta contro il resto dell'umanità, oppure l'apatia, la volontà di emergere per
conquistare ciò che il sistema, attraverso i suoi mezzi di comunicazione,
fa credere necessario per considerarsi «realizzati» attraverso la forza fisica
ed il culto, molte volte parolaio, della violenza fisica e della supremazia.
Ma oltre a ciò che essi rappresentano, rispetto alla
propria carriera di esclusi, e quindi al significato
di un rapporto «rieducativo» nei loro riguardi ciò
che deve essere problema da approfondire, è il significato del futuro
all'interno del quale li si vuole inserire, cioè la proposta di vita sulla base
della quale pensiamo di dare un significato al nostra intervento e credibilità
al nostro ruolo.
Da queste brevi considerazioni escono già alcuni dei
compiti che, secondo noi, la comunità-alloggio deve affrontare:
1) elaborazione di una ipotesi
educativa attraverso la quale, da una parte ci sia il riappropriarsi della
storia individuale da parte dei giovani per scoprire insieme i risvolti di
similitudine e quindi di riconoscimento, certamente con le persone con cui
vivono, e dall'altra una ricomposizione del rapporto di questi giovani con la
realtà, ma non con una realtà generica bensì una prospettiva di reale e
collettiva risoluzione dei loro problemi.
In questo senso non vediamo il ruolo degli educatori
semplicemente come riempitivo delle carenze affettive dei giovani, rischiando
in questo modo di proporsi in un ruolo statica, sulla
base di un modello familiare ripetitivo di se stesso, bensì quello di un
«tramite» tra la storia individuale dei giovani stessi e la realtà,
all'interno della quale come comunità e come operatori ci si inserisce
attivamente;
2) l'inserimento effettivo della comunità nel
territorio per rompere, da una parte l'isolamento dei ragazzi attraverso la sensibilizzazione e la ricomposizione di rapporti solidali
tra il popolo e i suoi figli esclusi, dall'altra con l'inserimento della
comunità all'interno, di un programma per servizi decentrati e non emarginanti
e all'interno di un movimento che vada contro le cause dell'emarginazione
stessa.
E allora anche se la comunità è
ubicata all'interno di un caseggiato in un appartamento non vi debbono
essere confusioni con il modello familiare, introducendo in questo modo una
logica privatistica nella definizione della comunità
sul territorio. Come già detto, secondo noi, la comunità alloggio deve essere
un servizio sociale collegata ad altri servizi
socio-sanitari, atti al soddisfacimento dei più elementari bisogni popolari.
(*) Prospettive assistenziali, n. 34,
aprile-giugno 1976.
(1) In corsivo abbiamo citato stralci
dell'elaborato finale dell'anno scolastico 1974-75 del gruppo interclasse «DEVIANZA»
della scuola ENSISS. Tale elaborato è l'analisi dell'esperienza di tirocinio
svolta in stretta collaborazione con la comunità.
(2) Si intende un gruppo di lavoro,
costituito da operatori della rieducazione, e la cui funzione è specificata
nella prima parte del documento.
UN SERVIZIO DI AVANGUARDIA CONDANNATO
AD ESTINGUERSI? (*)
Con l'emanazione dei decreti applicativi della legge
382 per il passaggio di competenze dallo Stato alle Regioni, si è finalmente
sancita l'abolizione di molti enti inutili o parassitari, fonti di sprechi e
di clientelismi.
Tra le altre, anche le attività degli Enti Comunali di Assistenza (ECA), oggi organismi pubblici ma autonomi
rispetto ai comuni, saranno trasferite ai Comuni stessi entro giugno '78 (e
quasi certamente, in Piemonte, addirittura alla fine del '77).
Avendo per anni lottato per questa tesi, non possiamo
che rallegrarci di questo risultato concreto.
Bisogna però fare grande attenzione
affinché, durante il periodo delicato del passaggio di competenze, venga
garantita la sopravvivenza delle iniziative valide oggi gestite dagli Enti da
abolire.
L'ECA di Ivrea, in
particolare, aveva deciso tre anni fa di tagliare i ponti con la «beneficenza»
classica, fonte di emarginazione e di disadattamento, chiudendo un Istituto
per minori a Salerano e sostituendolo con una
coraggiosa esperienza di due «comunità alloggio», cioè di due gruppi
parafamiliari in cui i ragazzi e le ragazze ospiti che non avevano altre
alternative (adozione, affidamento) trovassero un ambiente sufficientemente simile
a quello delle famiglie «vere» per un loro sviluppo più sereno ed equilibrato.
La storia delle due comunità è stata abbastanza
lunga e complessa, e Lei assessore, la conosce bene nei suoi aspetti positivi ed in quelli problematici.
Ci pare comunque non si
possa negare che questa esperienza:
- risponde ad una precisa esigenza per i servizi di
base dell'attuale Consorzio per gli interventi sociali, e della futura Unità
locale dei servizi, come è facilmente verificabile;
- è aperta ad una visione progressista dei servizi
sociali del territorio.
Cosa sta succedendo ultimamente?
• I minori ospitati sono drasticamente diminuiti,
passando da 14 a 4, e forse diminuiranno ancora.
• Gli educatori si sono assottigliati, e pare che
rimarranno solo in due nei prossimi mesi.
• Non esiste una garanzia formale da parte del Comune
di Ivrea (o del Consorzio) per lo sviluppo di questo
servizio dopo la cessazione dell'E.C.A., al di là
forse di una mera sopravvivenza (fino a quando? con
quali forze ed obiettivi?).
Non si possono naturalmente esaminare qui in
dettaglio i problemi oggi aperti, ma ci sembra che il modo in cui verrà affrontata questa vicenda sarà molto significativo
per capire come saranno impostati i futuri servizi sociosanitari del
territorio.
Noi per primi ci rallegreremmo che fossero sparite le
cause di emarginazione, per cui l'estinzione di
questo servizio sarebbe logica; c'è però qualche dubbio che la diminuzione dei
minori ospitati abbia altre cause.
Riteniamo quindi che almeno su alcuni punti sia
necessaria una Sua presenza di posizione chiara ed impegnativa:
1) Quando sono coinvolti dei ragazzi non si può
andare a tentoni né fare esperimenti a catena. Val la pena ripeterlo perché comincia a rispuntare qualche voce
(non ci fraintenda, non è certamente la Sua!) che, sia pur timidamente,
sussurra che «non è poi detto che gli istituti facciano così male, ed almeno
lì il mantenimento dei minori costa meno».
Come e dove è avvenuto il «rimpatrio» dei 10 bambini che
inizialmente erano in comunità? Sono variate le condizioni familiari di origine od é cambiato il criterio di giudizio?
Quali verifiche reali sono in atto per controllare se il rientro è avvenuto correttamente e se i
ragazzi ne hanno beneficio?
Qual è stato il ruolo delle équipes
di base? Come mai nel frattempo non si è proceduto con eguale solerzia ad un
censimento completo dei minori ospitati negli istituti della zona, onde essere
certi che per taluni non fosse più opportuno un loro
inserimento in comunità (gli strumenti conoscitivi, formali e non, esistono)?
2) Gli educatori adatti ad una Comunità alloggio né si improvvisano né si trovano ad ogni angolo di strada.
Si è ben coscienti che, procedendo sulla linea
attuale, «prima» questo servizio morirà lentamente e
«dopo» si farà eventualmente un'indagine per conoscere le reali necessità del
territorio in questo settore?
Al di là di affermazioni verbali, quante sono veramente le
famiglie oggi disponibili ad un affidamento educativo, come alternativa alla
comunità?
3) Uno dei punti programmatici fondamentali delle
forze politiche che formano la Giunta (ed hanno la maggioranza nell'ECA) è il
criterio della partecipazione della base sulle scelte
e sulla priorità per i servizi che interessano i cittadini.
Non si ritiene che decisioni che rischiano di far
scomparire, o quasi, un'esperienza pubblica di questo tipo debbano
essere discusse preventivamente con le forze politiche e sociali?
Non si vorrà, per caso, eliminare un servizio
pubblico «costoso» ritenendo che poi qualche «privato» per tamponare i buchi si
troverà sempre?
4) Il lavoro degli educatori nelle comunità esige,
per sua natura, una forte componente di volontariato.
Questo non deve però comportare che questi lavoratori «tanto buoni» diventino
«lavoratori di serie B», troppo facilmente oggetto di contratti a termine e di
strani orari di lavoro.
Questo non è evidentemente un problema solo di Ivrea; ma qui quale potrà essere l'influenza della loro voce
nel momento in cui altri «tecnici» stanno prendendo decisioni che li riguardano
così da vicino?
(*) Prospettive
assistenziali, n. 40, ottobre-dicembre 1977.
(Lettera aperta
inviata il 5-11-1977 dalla Sezione di Ivrea dell'Unione per la lotta contro
l'emarginazione sociale al dr. Stelio Gario,
Assessore agli interventi sociali del Comune di
Ivrea).
COMUNITÀ ALLOGGIO PER
EX-RICOVERATE IN MANICOMIO: DAL PROGETTO ALLA REALIZZAZIONE
NEL COMUNE DI SETTIMO TORINESE (*)
ENRICO PASCAL
«Malattia è
la denominazione della sofferenza che ogni individuo in questa società deve
sopportare, non importa se si tratta di mal di testa o di schizofrenia. Ogni
trattamento che si conforma ai bisogni dell'uomo non
può dunque cercare di adattare l'uomo alle circostanze distruttive, ma deve
contribuire all'adattamento delle circostanze ai bisogni dell'uomo».
Sono dichiarazioni del Collettivo Socialista dei pazienti
di Heidelberg tra i quali
predominavano le cosiddette «malattie mentali». Appunto in questa
ottica, di non continuare a forzare delle persone ad adattarsi a delle
circostanze distruttive, cioè di non permettere il loro totale annientamento
da parte della istituzione manicomiale, che il progetto di reinserimento dell'équipe psico-medico-sociale
di Settimo ha preso l'avvio e si è gradualmente concretizzato.
Le motivazioni che hanno portato il gruppo operativo
a farsi carico di un gruppo di «utenti» da molti anni sradicato dalla zona di
provenienza, sono da ricercarsi innanzitutto nella
storia della équipe.
Infatti i suoi componenti si sono formati nel clima della
contestazione manicomiale del '68-69 e del lavoro di comunità terapeutica.
Partendo dalla negazione del loro ruolo tradizionale, riconosciuta la
fondamentale impossibilità di curare in manicomio, essi vedono nel progetto di
dimissione e nella conseguente liberazione dalla esclusione
la sola misura veramente terapeutica, e nella gestione assembleare e
democratica del reparto la soia possibilità di risocializzazione
in vista del reinserimento.
Tuttavia, proiettata sul territorio dal '71 in poi,
l'équipe di Settimo Torinese aveva conosciuto un travaglio profondo nel
tentativo di costruire una valida alternativa
affrontando liberamente le contraddizioni e le crisi senza ricorrere alla emarginazione.
Proprio l'analisi e l'intervento in situazioni gravi ed acute di disagio
psichico, nonché la conoscenza sempre più
approfondita della «logica manicomiale» e repressiva operante nei nuclei
familiari di «psicotici» e nel micro e macrosociale e
la scoperta di valide alternative terapeutiche sul territorio ha rimotivato il gruppo a riprendere la riabilitazione e la
lotta anti-istituzionale.
Il progetto iniziale
Il progetto iniziale dell'équipe di Settimo Torinese
prevedeva il reinserimento di sei persone anziane in una comunità alloggio
messa a disposizione dal Comune. Sembrava urgente privilegiare quelle persone
- e sono oltre un terzo del totale - che dopo anni di emarginazione
presentano problematiche tipiche della persona anziana, ancora
autosufficiente, senza apparente sintomatologia «psichiatrica».
Per affrontare la patologia istituzionale risultante
dai lunghi anni di adattamento forzoso alla violenza
istituzionale, ed eventuali problemi psicopatologici, erano state ipotizzate
tre successive fasi di intervento:
1) lavoro di risocializzazione
col gruppo delle persone coinvolte nel progetto ed il personale del reparto
nella sede ospedaliera e nel reparto stesso dove erano
degenti;
2) uno o più periodi di soggiorno
extraospedaliero e di vita comunitaria tra operatori e psichiatrizzate
per approfondire la conoscenza e la
socializzazione;
3) reinserimento nel territorio
inteso come appropriamento della struttura e progressiva autogestione della
vita comunitaria. Azione di socializzazione ma soprattutto di de-psichiatrizzazione
da parte degli operatori dell'équipe di zona.
Le difficoltà di avviare il progetto
«in manicomio»
La logica manicomiale creata dalla legge 1904 non è
ancora oggi superata, nonostante la contestazione
psichiatrica del '68 ad i successivi episodi innovatori dell'assistenza
psichiatrica torinese (1). La tradizionale antitesi tra custodia e cura rande
ambigua ogni operazione all'interno del manicomio. Inoltre la stessa cura è
per lo più intesa come repressione di sintomi per favorire
un buon adattamento.
Ne derivano difficoltà ad avviare progetti di
dimissione che elenchiamo brevemente:
a) il personale del reparto di lungo-degenza tende ad
ostacolare il progetto nella misura in cui si rende conto che saranno dimesse
persone tranquille e autosufficienti, che non recano disturbo
né comportano gravi carichi di lavoro e che spesso aiutano in reparto;
b) il progetto di dimissione è valutato a prescindere
dalla malattia istituzionale delle ricoverate stesse, indotte dopo anni di
degenza a temere il mondo esterno e a non avere più alcuna fiducia nelle loro
possibilità di reinserimento. L'alto grado di istituzionalizzazione
del personale di assistenza tende spesso a squalificare la dimissione
giudicata antiterapeutica, e favorisce la manipolazione delle ricoverate nel
senso di indurle a preferire la protezione istituzionale che il manicomio, oggi
apparentemente più permissivo, sembra offrire;
c) il personale dei servizi esterni (e questo è in
particolare il caso della équipe di Settimo i cui membri si sono collocati sul
territorio dopo lunga e dura lotta anti-istituzionale
per lo smantellamento del manicomio) è vissuto come minaccia, e la sua azione
come intrusiva;
d) per quanto siano stati fatti dei censimenti della
popolazione manicomiale in rapporto alle zone territoriali, i dati raccolti
sono incompleti, talora contradditori, desunti con criteri burocratici in
mancanza di collaborazione dell'interno del manicomio.
Ciò rende spesso difficile la iniziale presa in carico
delle persone degenti che sedimentano, cronicizzate, nei reparti. Il personale
dei servizi esterni, nella misura in cui non è radicato nelle situazioni intraospedaliere è accolto con
diffidenza dagli stessi ricoverati.
Le premesse politiche
Ciò che ha reso possibile la realizzazione del progetto sono state essenzialmente alcune precise
assunzioni politiche di responsabilità. Infatti l'Ente locale e gli operatori
dell'équipe di Settimo Torinese hanno entrambi accettato di farsi carico di
persone psichiatrizzate anche di Comuni limitrofi,
non ancora sensibilizzati al problema psichiatrico o comunque
in grado di rispondervi. Questo gesto, altamente
significativo da parte degli amministratori politici di Settimo, ha inteso
prefigurare la politica del Consorzio anche se questo non è ancora attuato,
perché questa è la premessa indispensabile per la costituzione della futura
Unità locale dei servizi.
Ne sono derivate:
1) la stipula di una convenzione tra la Provincia di
Torino e il Comune di Settimo Torinese «per l'istituzione e la gestione di una
comunità per anziani», del 22 settembre 1976;
2) la messa a disposizione da parte del Comune per la concretizzazione del progetto di due piccoli
alloggi adiacenti in uno stabile di proprietà del Comune stesso;
3) la messa a disposizione di una
collaboratrice domestica dipendente dal Comune;
4) vanno comunque segnalate
le difficoltà burocratiche, tipiche del funzionamento pubblico (appalti,
verifiche, mandati, ecc.) aggravate dalle ben note difficoltà relative ai
conflitti di competenza tra due enti (Provincia e Comune). Soltanto l'impegno
quasi a pieno tempo di un operatore dell'équipe per seguire i lavori di restauro
e il reperimento delle attrezzature ha concesso di non superare troppo i
limiti di tempo preventivati.
La realizzazione
del progetto
Le difficoltà di avviare un progetto di dimissione
in manicomio sono già state segnalate. Ad esse si è
cercato di ovviare articolando l'azione sui seguenti punti:
1) impegno di tutta l'équipe (medico, assistente
sociale e cinque infermieri) per rapportarsi in maniera unitaria al reparto in
cui si è avviato il lavoro di risocializzazione. Ciò
ha consentito maggiore incisività nell'intervento, e maggiore continuità
nonostante la rotazione di alcuni membri dell'équipe
impegnati in altre attività;
2) scelta di un reparto zonizzato
dell'area Torino Est, dove erano già confluite la maggior
parte delle ricoverate della zona Unità locale n. 28;
3) utilizzazione della
gestione assembleare del reparto 12, già avviata in precedenza, come momento
di socializzazione e presentazione del progetto;
4) gestione del potere medico nel reparto, perché già in precedenza il medico dell'équipe ne aveva assunta
la responsabilità primariale e avviate la gestione
assembleare;
5) strutturazione chiara e concreta del progetto,
nei modi e tempi di realizzazione, in modo da favorire la riappropriazione
di sé e del mondo esterno (vestiti, partecipazione alla ristrutturazione dei
locali, scelta delle tappezzerie, piastrelle, ecc.).
Come metodo è stato privilegiato
il lavoro di gruppo, con riunioni settimanali di tutte le ricoverate della
zona (una diecina già degenti nel reparto, a cui si sono aggiunte altre due
provenienti da altri due ospedali). L'équipe infatti
non si era sentita di fissare criteri preliminari di esclusione.
Stabiliti i primi contatti con il gruppo, si verificò una crisi tra gli operatori stessi, in quanto
nessuna delle degenti risultava possedere i requisiti ipotizzati nel progetto:
e cioè di essere semplicemente anziana, autosufficiente, e senza problemi
«psichiatrici».
Fu deciso di continuare la realizzazione del progetto
collo stesso gruppo, privilegiando nonostante tutto
l'aspetto dell'anzianità, se non altro come durata del ricovero!
A questo punto si evidenziava uno scarto enorme tra
il progetto iniziale e la sua realizzazione. È
sembrata tuttavia indispensabile la scelta di adattare il progetto ai bisogni emersi durante la prima fase di avvio, anche se le problematiche «psichiatriche»
apparivano preponderanti.
Ben presto le degenti, affiatatesi o no nel gruppo, cominciarono a «scegliersi». Si
verificarono esclusioni ed autoesclusioni,
certamente alcune provate dall'evidente lavoro occulto di persuasione
effettuato dal personale del reparto, che pure non avversando il progetto
apertamente, partecipava pochissimo alle riunioni settimanali di gruppo e
cercava di dissuadere le degenti stesse dalla partecipazione.
Il risultato - fermo restando il rifiuto degli
operatori dell'équipe di selezionare loro le pazienti
- fu la costituzione di un gruppo (una decina) tra cui figuravano alcune delle
ricoverate più «gravi» sul piano del comportamento disturbato a della
regressione istituzionale marcata, assieme ad altre «psicotiche» lavoratrici,
che inizialmente dovevano essere letteralmente strappate alle loro abitudini di
vita e di lavoro in reparto e autoritariamente raccolte per le riunioni.
Il lavoro di riabilitazione intraospedaliero
è durato circa otto mesi. È utile ricordare come ad una prima fase (primi
quattro mesi) genericamente di attesa, ma anche di
ansiosa diffidenza di fronte a un progetto che sembrava illusorio, seguì una
seconda fase (successivi tre mesi) in cui le prove materiali della sua
concretezza (visione di piastrelle, tappezzerie, cataloghi di mobili, ecc.)
lo avevano reso finalmente credibile, e con un enorme ricupero di interesse e
partecipazione da parte delle interessate. Infine l'ultimo
mese, carico di tensione nell'attesa ormai impaziente del giorno della
dimissione. Furono effettuate alcune uscite per
alcune ore, ma la prevista fase di collaudo mediante soggiorni comunitari di
alcuni giorni fu recisamente rifiutata dall'insieme del gruppo: la dimissione
dal manicomio doveva essere senza ritorno, irreversibile. Qualsiasi fase
intermedia rappresentava per le interessate una sorta di prova inutile, tanto
era maturata in loro la decisione di uscire per sempre!
La coesione del gruppo rendeva alla fine estremamente
arduo operare la riduzione necessaria per le sei unità previste nel progetto,
alle quali avrebbe dovuto aggiungersi una unità scelta
dal Comune a significare la presenza, di un altro tipo di utenza, non psichiatrizzata. Fu perciò riesaminato il progetto, e,
d'intesa coll'Ente locale, fu aumentata la capienza
al numero massimo di nove posti (da notare che a questo punto non era
necessario variare il preventivo di spesa di allestimento
e di gestione previsto per sette, se non in minima parte). Ci fu dunque una
sola, certamente dolorosa esclusione; va ricordato che di fronte alla
concretezza del progetto, piovevano numerose, pressanti richieste da parte di
pazienti di altre zone, a significare la sensibilizzazione
di molte e il ricupero di rivendicazioni per la dimissione ora concretamente
possibile per altre.
Il 17 dicembre 1976 avveniva la dimissione di nove psichiatrizzate e il loro insediamento nell'alloggio del
Comune, a Settimo Torinese.
Sensibilizzazione del territorio
Non c'è dubbio che il reinserimento in zona, dato il
diffuso pregiudizio in tema di pericolosità o scandalosità
del cosiddetto «malato di mente», vada preceduto da un adeguato lavoro di sensibilizzazione.
Consapevoli però anche del pericolo di teorizzare
troppo sul progetto, in assenza delle interessate, attivando così fantasmi
presso la gente del quartiere, gli operatori dell'équipe si sono limitati a
presentare il progetto, ed appena possibile, le stesse psichiatrizzate,
ai coinquilini, e alla collaboratrice domestica che ha poi seguito a tempo
pieno il gruppo. Si è ottenuto in questo modo di non allarmare
inutilmente il vicinato, e di favorire l'avvio di buoni rapporti con i coinquilini.
Avviata la comunità, ci sono stati momenti di crisi che hanno allarmato il vicinato, in realtà non molti. Si è allora
intervenuti colle persone coinvolte per discutere, sensibilizzare, chiarire.
L'azione più efficace è stata svolta dalle stesse
ex-degenti, nel momento in cui, circolando sempre più liberamente nel
territorio, al mercato, nei bar, nei negozi, ricevendo visite di parenti ed
amici hanno dato prova di «normalità» e
«ragionevolezza», argomenti senz'altro più convincenti di molti discorsi
teorici. Oggi ancora lo sforzo degli operatori va nel senso
di rendere il più comprensibile possibile la diversità, più familiare
possibile la stranezza e la devianza di queste ex-ricoverate. Oggi
l'atteggiamento della popolazione è di fondamentale accettazione.
Valutazione dell'esperienza dopo un
anno circa
La valutazione che si può dare a circa un anno dall'avvio è senza dubbio positiva. Pur trattandosi di un gruppo
di nove «psicotiche» con una permanenza complessiva di 203 anni in manicomio,
e non già di «anziane» come preventivato, nessuna è tornata, anche solo per
un'ora, in ospedale psichiatrico. Certo non sono mancate le crisi, talora
drammatiche, accompagnate dalla richiesta o della
diretta interessata o delle altre, di un ricovero in manicomio, secondo la
logica emarginante tipica delle persone «normali». Non sono mancate
perplessità ed esitazioni da parte degli stessi operatori dell'équipe. Ma sino
ad ora tutte le crisi sono state auto ed eterogestite da parte del gruppo, che usciva consolidato e
rafforzato dopo ogni crisi superata coll'aiuto delle
compagne. Si può dunque parlare di una gestione del tipo «comunità terapeutica».
Ogni crisi superata all'interno della comunità ha
rinsaldato la fiducia tra le componenti e la
solidarietà, nonché la fiducia negli operatori. È stata data
la prova, talora in circostanze drammatiche, che in manicomio non si torna,
nemmeno quando i disturbi presentati potrebbero esserne il facile pretesto. Se
al contrario la provocazione fosse stata raccolta, anche solo in una occasione, ciò avrebbe incrinato profondamente la
fiducia negli operatori, rivelatisi incapaci di offrire una valida alternativa
«terapeutica» alla emarginazione manicomiale.
Possibile evoluzione
Allo stato attuale si delineano
possibili evoluzioni, differenziate caso per caso: ritorno in famiglia,
ricupero lavorativo fuori della comunità, sistemazione definitiva nella
comunità stessa per le signore più anziane. Certo, se il lavoro di risocializzazione (ricupero di sé, riapprendimento
di lavori domestici e di attività sul territorio, ricupero
di rapporti liberi con i parenti e amici, ecc.) può dirsi in buona parte
compiuto, e il radicamento in zona può dirsi ottimale per la maggior parte
delle nove ex-internate, si deve sottolineare che sul piano terapeutico
restano da fare molte cose. Liberate dalle incrostazioni manicomiali, anche
quelle che sembravano le più gravi, presentano problematiche esistenziali più
comprensibili e decifrabili, mentre possono emergere liberamente le gravi
frustrazioni che le hanno alimentate. In questo senso la Comunità Terapeutica
è in piena evoluzione e i 203 anni complessivi di manicomio sembrano oggi un
lontano ricordo.
Si potrà osservare che al cospetto delle circa 2300
persone ancora escluse ed emarginate in manicomio, questo sparuto gruppo di
nove è ben poca cosa. In realtà se
ogni équipe di zona si assumesse pari responsabilità (ne sono in funzione una
trentina), la cifra delle persone così dimesse e reinserite salirebbe in modo
notevole. Infine il reinserimento di persone psichiatrizzate
con una lunga carriera di internamento alle spalle,
senza alcun tipo di esclusione o di selezione da parte di operatori di zona,
come è avvenuto nel caso della comunità di Settimo, dimostra che il manicomio
può essere smantellato, pezzo per pezzo, senza «scremature» e senza «residui»;
l'emarginazione non è mai una risposta ai bisogni degli assistiti, ed è sempre
una manipolazione mistificante di problemi che la collettività rifiuta di
affrontare e di risolvere.
La situazione odierna
La comunità è - dopo un anno dall'inizio - autogestita. Con ciò si intende
che gli operatori della équipe intervengono su chiamata per le situazioni di
crisi, esattamente come per qualsiasi utente che richieda una visita
domiciliare. Queste chiamate si vanno sempre più diradando data la solidarietà
e i rapporti di reciproco aiuto e sostegno proprio della comunità.
Il rapporto tra comunità ed operatori conserva, su richiesta della comunità stessa, un momento
istituzionale (riunione settimanale di discussione di problemi essenzialmente
gestionali); il resto sono visite, quasi quotidiane, da parte di uno o più
operatori dell'équipe tese alla presenza rassicurante per loro di «amici», ma
realizzate all'insegna della discussione e socializzazione il più possibile
spontanee e informali dei loro problemi, senza psichiatrizzazione
e senza «barriere».
Ciò che però è interessante, e va sottolineata,
è la completa autosufficienza del gruppo per tutte le faccende domestiche, la
spesa, il vitto, la cucina, tanto che la presenza di una collaboratrice
domestica, all'inizio impegnata a pieno tempo, non è più necessaria. La stessa
contabilità è tenuta da alcune delle ospiti della comunità stessa. La loro
tendenza al risparmio - propria della conduzione di tipo familiare - è talvolta
persino eccessiva, dominata dalla preoccupazione di non gravare sulla spesa
pubblica!
Offriamo alle considerazioni degli amministratori e
di tutti gli interessati il bilancio particolareggiato
del primo anno di gestione della comunità (1977) considerata la spesa della
colf, ora non più necessaria. Se ne deduce che l'assistenza alternativa
sul territorio, oltre ad offrire una risposta corretta alle esigenze delle
persone e certamente migliori condizioni di vita, se si attua la formula
comunitaria e l'autogestione, ha dei costi sorprendentemente bassi.
Sono stati riassunti nella tabella seguente i dati,
elaborati da operatori della équipe di Settimo e del Comune assieme alle
stesse interessate. A questo proposito va ancora sottolineato
che il prelievo - in genere settimanale - del denaro occorrente dal fondo che
la Provincia ha depositato presso il Comune (ai sensi della convenzione
stipulata) avviene in uno spirito di notevole collaborazione coll'economato locale, corresponsabilizzato
della gestione della comunità (integrazione dei servizi).
Tabella
1
|
|
Generi alimentari e varie |
|
|
|
|
|
|
|
||
Mese |
Carne e pesce |
Frutta e verdura |
Pane, pasta zucchero formaggio, latte, ecc. |
Vino |
Varie (ingrosso e minuto compreso vitto) |
Manuten- zione e acquisti vari |
Consumo acqua |
Consumo energia elettrica |
Telefono |
Consumo gas (riscald. cucine) |
Stipendio e contri buti COLF |
Dicembre '76 (giorni 96) |
125.830 |
71.195 |
299.385 |
|
|
255.305 |
4.755 |
|
|
10.300 |
160.967 |
Gennaio |
118.150 |
51.190 |
307.645 |
|
|
126.710 |
|
|
|
75.600 |
261.217 |
Febbraio |
117.785 |
93.075 |
37.140 |
|
382.290 |
20.195 |
|
69.181 |
|
89.925 |
252.510 |
Marzo |
40.925 |
71.450 |
117.775 |
|
174.055 |
|
42.050 |
|
|
57.228 |
252.510 |
Aprile |
53.575 |
85.250 |
117.775 |
|
174.055 |
67.670 |
|
|
|
47.850 |
239.449 |
Maggio |
40.935 |
101.840 |
58.310 |
|
222.515 |
114.435 |
|
37.025 |
116.469 |
30.000 |
261.217 |
135.000 (arretrati) |
|||||||||||
Giugno |
37.490 |
133.970 |
88.070 |
69.640 |
239.160 |
15.255 |
59.410 |
|
|
|
261.217 |
luglio |
64.435 |
124.265 |
91.780 |
|
248.215 |
56.015 |
|
|
|
27.850 |
312.677 |
Agosto |
54.000 |
86.400 |
80.860 |
|
206.420 |
|
|
178.792 |
17.000 |
|
312.677 |
750.000 (contributo |
|||||||||||
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
CPDEL) |
Settembre |
52.550 |
92.100 |
71.430 |
|
|
26.500 |
|
|
|
33.224 |
312.677 |
Ottobre |
60.835 |
125.450 |
80.130 |
69.325 |
330.690 |
1.750 |
55.605 |
|
|
30.000 (stima) |
384.021 |
Novembre |
36.580 |
73.550 |
73.410 |
17.330 |
254.080 |
130.430 |
|
150.000 (stima) |
13.900 |
30.000 (stima) |
302.255 |
Dicembre |
61.850 |
60.400 |
73.010 |
17.330 |
263.815 |
|
|
|
|
30.000 (stima) |
297.043 |
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
264.277 (13a mensil.) |
TOTALE |
864.930 |
1.170.375 |
1.496.095 |
173.625 |
2.667.430 |
814.265 |
161.820 |
434.998 |
147.369 |
461.977 |
4.659.714 |
Nota: Nelle spese sono state calcolate interamente quelle di installazione (telefono, gas, lavatrice, boiler a gas,
ecc.).
Totale L. 13.052.598, diviso per
381 giorni = L. 34.258, diviso per 9 persone = L. 3.800 al giorno per ogni
ospite.
Se a questo importo si può
aggiungere l'affitto dell'alloggio (4 camere a 2 letti, 1 camera a 1 letto,
soggiorno, cucinetta e servizi), di proprietà del
Comune di Settimo, che si può calcolare in L.
2.400.000 all'anno e cioè in L. 730 al giorno.
Per il 1978 invece il costo totale, tenuto conto
dell'autogestione e deducendo cioè la spesa della
Colf, è prevedibile in L. 8.400.000. La spesa per
ospite sarà pertanto di L. 2.555 al
giorno senza affitto e di L. 3.285 con l'affitto.
(*) Prospettive
assistenziali, n. 41, gennaio-marzo 1978.
(1) V. in particolare «Accordo
Sindacati - Provincia di Torino sull'assistenza psichiatrica di zona», in Prospettive assistenziali,
n. 23, luglio-settembre 1973.
VERIFICA E PROSPETTIVE DELLE
COMUNITA’ ALLOGGIO PER MINORI DELLA AMMINISTRAZIONE
PROVINCIALE DI MODENA (*)
Nel 1972,
l'Amministrazione provinciale di Modena, nell'ambito
di un più vasto impegno volto a superare la pratica istituzionalizzante,
decideva di avviare le opportune iniziative per il reinserimento dei minori
ricoverati e per il superamento degli stessi istituti di ricovero, anche
tramite una riconversione degli stessi operatori ad una attività
di territorio integrata nell'ambito di servizi per la sicurezza sociale
(consultori, scuole, équipes per l'età evolutiva...).
A tal fine
l'Amministrazione provinciale assumeva i seguenti impegni, operando unitamente
ai Comuni della provincia:
a)
potenziamento dell'assistenza al nucleo d'origine del minore, sia tramite
contributi economici integrativi del reddito, sia tramite priorità d'accesso a
servizi gratuiti, sia tramite il sostegno delle équipes decentrate per l'età evolutiva;
b)
istituzione del servizio di affidamento familiare a
scopo educativo, ad integrazione di quello già svolto per le adozioni. Ciò
rendeva possibile il superamento dell'I.P.A.I. nel
1975 e della «Casa del sole» O.N.M.I. di Pievepelago,
nonché della stessa sezione notturna operante dal 1975
al 1976, presso un nido comunale, con 6 posti letto, per rispondere ad
eventuali improvvisi stati d'abbandono. In quegli anni complessivamente
cessavano d'operare nel nostro territorio provinciale ben 12 istituti pubblici
e privati, mentre altri riducevano e ristrutturavano l'attività.
Nell'autunno
del 1972 l'Assessorato provinciale aveva, inoltre, elaborato la proposta di
costituzione di una prima comunità alloggio per minori
(tale proposta è contenuta in «Il
possibile esperimento», ricerca sugli interventi alternativi
alla istituzionalizzazione di minori, a
cura di Carugati, Emiliani e Palmonari,
ediz. A.A.I.).
L'Educatorio provinciale «S. Paolo» (IPAB con Consiglio
d'amministrazione nominato per statuto dal Consiglio
provinciale) accoglieva la proposta dell'Assessorato per la costituzione di comunità-alloggio, in sostituzione della attività di
ricovero praticata. A seguito di un proficuo lavoro di deistituzionalizzazione,
che ha realizzato il reinserimento familiare di 70 minori del territorio
provinciale, al giugno 1973, attraverso l'operare congiunto di
operatori dell'Assessorato provinciale, educatori dell'istituto ed équipes di territorio, iniziava la prima esperienza di
comunità a Modena Est, nel gennaio del 1974, con 5 operatori e 5 minori in età
compresa tra i 6 e i 10 anni.
Nel maggio e
nel novembre dello stesso anno seguivano l'avvio delle esperienze, rispettivamente,
della comunità S. Lazzaro, con 6 operatori e 7 minori in età compresa tra gli 8
e i 12 anni, e della comunità Don Minzoni, con 4
operatori e 5 ragazze tra i 16 e i 18 anni di età.
Tali minori
avevano alle spalle un complesso iter di istituzionalizzazione,
spesso presso istituti «medico-psicopedagogici».
Nella
previsione del trasferimento, a decorrere dal 1° gennaio 1979, dell'I.P.A,B. «S. Paolo»
alla Regione, in attuazione del D.P.R. n. 616, gli operatori hanno
avuto una serie di incontri di verifica presso
l'Assessorato provinciale, da cui è scaturito il seguente documento.
RELAZIONE CONCLUSIVA DELLE GIORNATE DI VERIFICA SULLA
ATTIVITÀ SVOLTA DALLE TRE COMUNITÀ
«S. PAOLO»
Il documento che presentiamo è la sintesi dei
contenuti emersi dalla discussione e dal confronto
tra le esperienze degli operatori delle tre Comunità alloggio del «San Paolo»,
che hanno avvertito l'esigenza di un momento di verifica delle
stesse, dal quale fare scaturire nuove proposte e prospettive d'intervento. Determinante nel fare avvertire questa esigenza è la legge
382 e relativo D.P.R, 616, con le scadenze indicate
per lo scioglimento degli «enti inutili» e il passaggio delle competenze ai
Comuni, scadenze che ribadiscono il bisogno di una riorganizzazione
dell'assistenza pubblica in ambiti territorialmente definiti.
È nostro intento coinvolgere in tale lavoro di
verifica e di riorganizzazione relativa ai nostri
servizi sia gli organismi politici sia gli altri servizi sociali presenti nel
territorio in cui operiamo, per, in tal modo, dare un contributo al processo
di superamento della settorialità degli interventi,
nella prospettiva di una organizzazione e gestione unitaria dei vari momenti in
cui si articola il servizio di assistenza all'età evolutiva, come da legge
regionale n. 22 del 10-6-1976.
In previsione di una realizzazione
dell'unità socio-sanitaria dei servizi, la Comunità alloggia già si configura
all'interno del momento specifico più ampio, che la legge regionale indica con
la denominazione di «servizi integrativi e sostitutivi della famiglia».
Verifica del servizio
Il primo momento di discussione si è rivolto alla
verifica del servizio in relazione alle premesse, in
base alle quali le Comunità sono sorte:
a) deistituzionalizzazione
e reinserimento sociale dei minori provenienti dal «S. Paolo»;
b) deistituzionalizzazione
e reinserimento sociale di minori, eventualmente, in seguito, provenienti da
altri istituti;
c) risposte ad eventuali casi di bisogno provenienti
dal territorio.
Elemento comune di questi tre momenti è il carattere riparatorio
affidato agli interventi delle Comunità.
La Comunità si è quindi posta fin dall'inizio come servizio che intende offrire un intervento
educativo personalizzato, volto alla ricerca di sbocchi reali e definitivi,
costituendo così una fase temporanea, ma positiva, nel
processo educativo.
A) Per portare a compimento il processo di deistituzionalizzazione del «S. Paolo» sono sorte, in tempi
diversi, tre Comunità: due, che ospitavano minori in età scolastica elementare
ed una, per adolescenti.
Per i 12 minori in età scolare, ospiti delle due
Comunità di Modena Est e di S. Lazzaro, si è individuata come soluzione
definitiva l'inserimento in ambito familiare che, per tre di essi, ha significato l'adozione, per altri sei il
reinserimento nella famiglia d'origine e per uno l'affidamento familiare,
mentre due minori sono tuttora rispettivamente: una presso Modena Est, l'altra
presso Don Minzoni.
I tempi dell'intervento sono stati più
o meno lunghi, in quanto determinati da diversi fattori:
1) difficoltà legate al vissuto dei minori;
2) difficoltà nella conduzione di rapporti col nucleo
familiare originario, tale da favorire il reinserimento nei casi in cui si
valutò opportuno;
3) difficoltà a interrompere
i rapporti familiari, anche sul piano giuridico, nella misura in cui si
ritenevano pregiudizievoli al minore stesso.
Va inoltre sottolineata la
carenza di integrazione fra i servizi di Comunità da un lato e di territorio
dall'altro, carenza che ha spesso comportato la tendenza alla delega, da parte
dei servizi del territorio, delle problematiche relative ai minori ospitati,
quando invece, per raggiungere
l'obiettivo di un pieno inserimento del minore, il piano e la realizzazione
dell'intervento sempre richiedono una piena compartecipazione sia degli operatori
di Comunità sia degli operatori cui compete territorialmente il caso.
Per quanto riguarda le
quattro adolescenti, inizialmente ospiti della Comunità Don Minzoni, l'obiettivo non poteva che essere il raggiungimento
di una progressiva autonomia dei soggetti, poiché dall'analisi dei casi e, per
le caratteristiche adolescenziali, risultavano impossibili sia l'inserimento
nella famiglia d'origine, sia l'affidamento familiare a scopo educativo.
Per tre di esse possiamo
affermare che l'obiettivo é stato raggiunto, in quanto le ragazze vivono in
modo autonomo e positivo. Per la quarta, dopo un periodo di vita all'esterno,
si è reso necessario il ritorno in Comunità.
Anche in questo caso si è, comunque,
avuto un graduale processo di crescita.
B) La Comunità si è proposta come servizio
alternativo capace di recepire i casi provenienti da
altri istituti, non in grado di favorire il processo di crescita del soggetto
e di creare le condizioni per il suo inserimento nel tessuto sociale.
Per tre bambini ospiti della Comunità di Modena Est (uno di tre anni, proveniente da «Mamma Nina» di Carpi, l'altro proveniente dal «Charitas», il terzo proveniente dalla sezione notturna ex
I.P.I.) è stato raggiunto l'obiettivo del reinserimento tramite l'adozione, sia
pure in tempi diversi, dovuti ai problemi e alle difficoltà dei soggetti.
Per un altro bambino, deistituzionalizzato
dal «Charitas», con inserimento nella Comunità di S.
Lazzaro, e che presentava un quadro clinico particolarmente grave (psicosi), nonché provenienza extra-regionale, si è rimesso
l'intervento all'ente e al territorio di competenza.
Per quanto riguarda le ragazze ospitate dalla
Comunità di Don Minzoni, con provenienza da altri
istituti, abbiamo rilevato la tendenza da parte degli stessi a delegare alla
Comunità i casi che mettevano in crisi l'istituzione.
Ciò vale per tre casi provenienti dal S. Vincenzo e dal S. Filippo Neri,
di cui, comunque, per due si è raggiunto l'obiettivo dell'autonomia.
Tale considerazione non vale, invece, per altre due
ragazze provenienti dal «Charitas », al fine di una
loro reintegrazione fra i normodotati, per le quali è
stato raggiunto l'obiettivo, sin dall'inizio prefigurato, nella stessa
richiesta di ammissione.
Si evidenzia come l'obiettivo
riparatorio è proponibile, a condizione che non s'intenda la Comunità come «sacca di risulta» dei casi di
difficile gestione da parte di istituti, ma come momento davvero
qualitativamente in grado di promuovere una evoluzione dei soggetti.
C) Premettiamo che l'esperienza fatta, in quanto
servizio di Comunità gestita da una IPAB, non ci ha
permesso una conoscenza globale e approfondita dei bisogni del territorio.
Inoltre la mancata collocazione a tutti gli effetti
tra i servizi sociali territoriali, ha determinato una visione parziale dei
casi, che pervenivano alla Comunità già filtrati e non la coinvolgevano nel
momento di analisi del bisogno.
Si richiede che la riorganizzazione dei servizi assistenziali
ponga la Comunità come elemento integrante e integrato nell'ambito di una
strategia di interventi a favore dell'età evolutiva, con particolare
riferimento a quelli integrativi e sostitutivi della famiglia.
Finora le Comunità hanno dato risposta positiva a 14
casi provenienti dal territorio:
1) situazioni di abbandono
di bambini, tramite adozione (n. 8);
2) situazioni di parziale abbandono, tramite affidamento
(n. 1);
3) situazioni di minori con nucleo
familiare gravemente carente, tramite interventi di reintegrazione familiare
(n. 4);
4) situazioni di abbandono,
tramite interventi per l'autonomia, in relazione al raggiungimento della
maggiore età (n. 1).
Per le situazioni relative ai
punti 1 e 4 (stati di abbandono) la provenienza da ambito extra consortile non
ha costituito elemento controproducente rispetto all'obiettivo, non essendo
neppure opportuno il mantenimento di rapporti con l'ambito di provenienza.
Relativamente ai punti 2 e 3, si è evidenziato invece come l'intervento della Comunità sia assai più
proficuo qualora si rivolga a casi con provenienza territoriale comunale o
consortile.
Questo soprattutto per quanto riguarda il punto 3,
dovendo agire sul nucleo familiare e in stretta collaborazione con l'équipe
competente territorialmente, oltre che con altri servizi (scuola, ecc.).
Ancora in relazione alle richieste
provenienti dal territorio, occorre qualche ulteriore puntualizzazione
relativamente alle seguenti situazioni:
a) richieste di ammissione
di adulti;
b) richieste di ammissione
di lattanti e neonati;
c) richieste di ammissione
di minori con handicap o problematiche di devianza;
d) richieste di «pronto intervento».
a) Senza sottovalutare i bisogni di tale fascia di età, preme ribadire l'esigenza di qualificare il servizio, non solo a favore dell'età evolutiva, anzi
privilegiando l'intervento precoce,
che, in base all'esperienza fatta, è premessa indispensabile per una soluzione
positiva dei casi.
b) Si è evidenziato nel corso dell'esperienza avuta
nelle Comunità che l'età dei bambini che presentavano situazioni di bisogno
tendeva ad abbassarsi. Questo fattore viene valutato
positivamente e si ritiene che il servizio debba riorganizzarsi prioritariamente
in funzione di questo bisogno, che richiede un intervento precoce.
Nella Comunità di Modena Est ci si è occupati di due
casi di bambini di pochi mesi. Ciò ha richiesto uno
sforzo organizzativo non indifferente. Ha posto problemi di qualificazione specifica del personale
e una nuova riorganizzazione del servizio, alla luce
delle esigenze che il bimbo piccolo pone. (Per
esempio, il fatto che sia spesso ammalato, non sempre sia inseribile al nido e
quindi della necessità di una presenza continuativa in tutto l'arco della
giornata).
L'inserimento di un bimbo piccolissimo ha messo in evidenza come sia particolarmente controproducente una eccessiva rotazione di personale
e di eventuali supplenti. Si ritiene opportuno ribadire
l'orientamento che, in tutti i casi in cui sia possibile, la situazione di
bisogno, relativamente al bimbo piccolo, trovi una positiva soluzione
nell'inserimento immediato in un ambito familiare, o tramite adeguati sostegni
alla famiglia d'origine, o tramite affidi eterofamiliari,
senza passaggio nelle Comunità.
Proprio in base alle considerazioni che ci inducono a privilegiare
la famiglia rispetto alla Comunità, riteniamo dovere escludere risposte in
termini di ospedalizzazione e di sezione notturna presso asili nido in quanto
la loro organizzazione non potrebbe che presentare aggravate le
caratteristiche individuate come limite nelle Comunità.
c) Richieste di ammissione
dal territorio, si riferiscono anche a minori con handicap. A questo proposito
va ribadito un orientamento che non esclude a priori
l'inserimento del bambino con handicap, ma va altresì sottolineata la necessità
sia di una attenta valutazione delle possibilità di sbocco dell'handicappato
sia delle difficoltà e dei problemi già esistenti all'interno del gruppo, per non dar luogo ad aggregazioni «speciali»,
nell'intento di attuare un intervento che sia davvero integrante e non
emarginante.
Analoghe considerazioni possono farsi per la
«devianza». Bisogna anche in questo caso valutare i rischi, per non creare
situazioni prive di sbocchi che finiscono col paralizzare la stessa attività
del servizio.
d) Esperienze di «pronto intervento» presso le
Comunità di Modena Est e Don Minzoni sono state
valutate controproducenti perché hanno consentito una risposta superficiale e non approfondita ai bisogni del minore
e al suo nucleo familiare. I loro problemi hanno forse continuato ad essere
trattati al di fuori di una valutazione comprendente il contributo degli operatori delle Comunità. Presso queste
i minori sono stati «parcheggiati»
per un breve periodo di tempo, che ha comportato disorientamento nel gruppo già
aggregato e sofferenza per il nuovo arrivato, senza dar luogo a nessun positivo
processo di reciproco adattamento. Per tale tipo di bisogno, in base alle
precedenti considerazioni, riteniamo sia importante cercare risposte sul territorio che escludano
sradicamenti sia pure per breve tempo.
Conduzione del servizio
1) In rapporto ai ragazzi ospiti, oltre alle precedenti
considerazioni, le recenti giornate di verifica hanno
fatto sì che unanimemente confermassimo il
carattere eterogeneo delle Comunità. L'omogeneità di
fondo ci pare debba essere data dal tipo di bisogno, per quanto invece
riguarda l'età, basta una suddivisione per grosse fasce. Riteniamo che una stretta settorializzazione
per età ci restituisca alla passata esperienza degli istituti, mentre
l'esperienza comunitaria ci ha fatto valutare gli aspetti positivi
di una socializzazione più vicina al modello familiare, in cui adulti e
ragazzi di diverse età si forniscono reciprocamente stimoli positivi di
crescita.
D'altra parte ci sono servizi scolastici e prescolastici
per bisogni specifici che richiedono più strette aggregazioni
anche in base al criterio dell'età.
2) In merito al rapporto con gli altri servizi, fin
dal loro sorgere le Comunità si sono proposte, assieme all'obiettivo
d'inserimento dei ragazzi, un obiettivo d'integrazione col territorio e con
tutti i momenti di servizio (équipe, scuole, luoghi di' lavoro, ecc.) e di
partecipazione (quartiere, ecc.) che il territorio é in grado di esprimere. A questo proposito va detto che molto è
ancora da fare, in quanto abbiamo verificato come forti siano le spinte alla delega
e quindi alla emarginazione sulle situazioni complesse e sui problemi di cui
sono portatori i nostri ragazzi.
Non volendo riprodurre la logica dell'istituto, in
quanto logica di separazione dalla più ampia collettività, riteniamo importante
divenga consapevolezza di tutti (enti, servizi e cittadinanza) che l'emarginazione si combatte assumendo le problematiche educativo assistenziali a livello di
impegno comune, senza deleghe, a specifici servizi o ad operatori.
Vogliamo perciò sottolineare
come la sollecita possibilità di fruire di servizi pubblici gratuiti (asili
nido, scuole materne, consultori, ecc.) sottrae le comunità a una dimensione di lavoro privatistica
e garantisce al minore l'inserimento nel tessuto sociale.
Questo nodo è rilevante anche per quanto riguarda i
costi dell'intervento, che aumenta proprio anche in considerazione delle
difficoltà che le comunità hanno incontrato nel cercare di evitare
una risposta in proprio ai vari bisogni di volta in volta emersi (sanitari,
ecc.).
Pesa ancora sui costi la mancanza di un adeguato
collegamento per un utilizzo più corretto da parte dei Comuni del Consorzio di Modena del servizio offerta dalla Comunità.
Bisogna evitare l'attuale sperequazione tra i posti
vuoti in comunità e le rette pagate presso istituti a volte addirittura fuori
provincia.
3) A quattro anni dall'inizio dell'esperienza c'è
l'esigenza di rivedere anche il problema del personale,
in considerazione di alcuni importanti fattori:
a) limiti della qualificazione del
personale utilizzato, insiti nella sua stessa provenienza (istituti e
relativi ruoli);
b) il logorio che ha comportato l'assunzione delle responsabilità relative al tipo di esperienza;
c) la necessità di un mobilità
del personale che tenga conto dell'esistenza del «collettivo» là dove questo si
è costituito e opera in quanto tale; che contribuisca al suo formarsi, là dove
non c'è finora stata sufficiente continuità educativa;
d) esigenza di consolidare una identità
professionale in direzione educativa, tramite l'individuazione di personale
già qualificato in tal senso e tramite garanzie di aggiornamento periodico;
e) esigenza di rivedere
l'organizzazione di una parte del lavoro domestico, in modo da liberare più
energie in direzione educativa e per il lavoro di territorio.
Conclusioni
Ci pare dover richiamare la validità e l'attualità
di quanto già proposto nella sintesi di un documento del marzo 1977, comune
agli operatori di tutte le Comunità:
- progressiva trasformazione delle Comunità alloggio in Comunità territorialmente definite, per essere
in grado di limitare l'emarginazione dei ragazzi temporaneamente ospitati;
- evoluzione degli interventi
forniti dagli operatori della Comunità, al fine di rendere prevalenti gli
interventi preventivi (rispetto a)
ricovero) su quelli collocativi.
I tempi ci paiono maturi, anche in considerazione
del D.P.R. 616 e delle prossime riforme dei settori socio-sanitario e assistenziale, per
prefigurare, in ambito consortile e nel contesto degli interventi previsti
dalla legge regionale n. 22 per la tutela della maternità e infanzia, un momento
unitario per gli interventi integrativi e sostitutivi della famiglia.
Tale servizio consortile dovrebbe collegare tutte le
forze, attualmente disperse in interventi separati per
singole IPAB o Ente di categoria, consentendo una riorganizzazione che
salvaguardi sia l'esigenza di unitarietà sia l'esigenza di articolare risposte
specifiche in base a specifici bisogni e ambiti territoriali. Nel quadro degli interventi da collegarsi in tale servizio
unitario, a nostro avviso vanno sin d'ora previsti:
a) interventi sul minore, sulla famiglia di origine, sulle istituzioni cointeressate al processo di
crescita, per il pieno inserimento nel tessuto sociale, comprensivi di quelli
che richiedono collaborazione con la struttura giudiziaria che tutela i
minori;
b) interventi di attuazione
e sostegno di affidamenti eterofamiliari, di
segnalazione dello stato d'abbandono di minore, di sostegno a nuclei adottivi;
c) interventi che richiedono un momento residenziale
in tempi più o meno lunghi, per la individuazione e
la realizzazione di sbocchi familiari, o autonomi per soggetti prossimi alla
maggiore età.
Fiduciosi che la definizione di quanto individuato e
proposto trovi da parte degli enti interessati i necessari momenti di ulteriore discussione e approfondimento, rimettiamo il
presente documento affinché possa costituire una base di ulteriore lavoro.
(*) Prospettive
assistenziali, n. 45, gennaio-marzo 1979.
COMUNITÀ ALLOGGIO PER INSUFFICIENTI MENTALE IN SVEZIA (*)
KARL GRUNEWALD (1)
Gli insufficienti mentali, che da noi costituiscono la categoria più importante di handicappati,
poco a paco si stanno integrando nella società svedese.
Per quanto indietro vada il nostro ricordo, la
società li ha sempre esclusi, sottolineando quello che
li distingue da noi e mantenendo il mito del «pericolo» che essi rappresentano
e della loro imprevedibilità, catalogandoli come incurabili e confinandoli in
luoghi che impedissero loro di partecipare alla vita sociale della gente «normale».
Oggi, noi sappiamo che la sola cosa che gli insufficienti
mentali hanno in comune tra loro è un handicap
d'ordine intellettuale, handicap che si traduce in una capacità ridotta di
classificare e di trasporre, di capire e di memorizzare l'esperienza vissuta e
i simboli che circondano ognuno di noi. Da questo risulta
una minore attitudine al pensare.
Ma anche questo handicap
intellettuale non è un dato costante. Ci sono molte differenze nei gradi di insufficienza, tra quelli colpiti leggermente e che
possono per lo più farcela da soli, e i casi più gravi che hanno bisogno di
un'assistenza praticamente per tutte le loro funzioni. Per classificare
l'insufficienza mentale, si utilizza una scala internazionale
di quattro gradi: insufficienza mentale lieve, media, grave e gravissima.
Gli insufficienti mentali sono il gruppo più numeroso
tra le persone costrette per tutta la vita a mantenere una enorme
differenza tra i propri bisogni e le proprie richieste. Più di altri hanno
bisogno di aiuto, di educazione e di comprensione, ma
le loro richieste sono modeste e molti di loro non sono nemmeno in grado di
esprimere i loro bisogni e le loro esigenze fondamentali. La maggior parte di essi sono stati per così lungo tempo superprotetti o curati
collettivamente in istituti isolati e mediocri, che la loro incapacità di
esprimere le proprie esigenze e i propri bisogni è diventata un handicap che
si aggiunge al loro handicap intellettuale e spesso è confuso con quest'ultimo.
Si può fare molto per rimediare a questi effetti nefasti
e per prevenirli. Una educazione e delle cure attive e
socialmente integrate, sono il modo migliore per dare agli insufficienti
mentali un livello più elevato di esigenze e una maggior coscienza dei loro
diritti.
NORMALIZZAZIONE - SOCIALIZZAZIONE
Una delle linee direttrici di questa
azione è il «principio della normalizzazione», che consiste nel
permettere agli insufficienti mentali di dividere, nella misura del possibile,
le condizioni di vita e il modo di vivere che caratterizzano la società nella
quale essi crescono, abitano e vivono. Per l'insufficiente mentale questo
significa vivere nelle stesse condizioni e avere le stesse
possibilità di realizzarsi degli altri membri della collettività.
Esistono, oggi, non solo dei metodi d'educazione, ma
degli aiuti tecnici d'apprendimento che compensano l'handicap intellettuale. In
più, noi abbiamo incominciato a capire quanto sia
importante fornire questa esperienza vissuta e questa educazione là dove gli
altri acquisiscono le loro esperienze: in mezzo a tutti. Specialmente gli insufficienti
mentali adulti con questo metodo hanno rivelato di essere
capaci di accumulare una esperienza vissuta nella loro memoria ritardata, esperienza
che si traduce in una fiducia in se stessi e in un'esperienza accresciuta.
La «socializzazione», cioè
l'inserimento degli insufficienti mentali nella società, in mezzo a tutti gli
uomini è uno dei metodi impiegati per realizzare la normalizzazione.
L'inserimento si oppone alla segregazione. Lo si può collocare a tre livelli: fisico, funzionale e
sociale.
L'inserimento fisico è il più facile a realizzare. La
maggior parte degli insufficienti mentali possono
essere alloggiati sia in piccole unità inserite nella società, che in unità
d'abitazione raggruppate in una zona di una certa entità.
L'inserimento funzionale consiste nel permettere
agli insufficienti mentali l'uso di servizi collettivi: prendere l'autobus e
il treno, fare degli acquisti nei grandi magazzini, approfittare delle
installazioni per gli svaghi, ecc. Perché questo si possa realizzare, è
necessaria sia una educazione che una partecipazione
accuratamente organizzata del personale.
Il terzo livello, quello dell'inserimento sociale, è
il più difficile da realizzare, perfino per i non handicappati! Per ottenere
ciò occorre la partecipazione a una comunità sociale e
stabilire relazioni con gli altri, farsi degli amici e cominciare a scambiare
dei punti di vista, diventare una parte accettata di un contesto sociale.
UNA
AFFETTIVITÀ PIÙ APERTA
L'abitazione per gli insufficienti mentali è un mezzo
importante, forse l'atto più importante, in vista
d'una normalizzazione. La concezione della abitazione
è, d'altra parte, in ogni caso un eccellente strumento quando si tratta di
modellare una società e le sue funzioni.
1 principi della politica dell'abitazione hanno
sempre delle ripercussioni sugli individui . Permettendo
agli insufficienti mentali di vivere nella stessa maniera degli altri ed in
mezzo a loro, noi possiamo dimostrare che li vogliamo veder diventare un tutto
intero nella vita della collettività.
Le comunità alloggio creano
quelle condizioni materiali che permettono agli insufficienti mentali e alla
gente comune di entrare in contatto gli uni con gli altri. Ma le inchieste
rivelano che il fatto di abitare in mezzo alla gente «comune» non apporta, nel
maggior dei casi, che una modificazione «culturale»
della idea che ci si fa degli insufficienti mentali. Bisogna che in più, questa
abitazione offra agli insufficienti mentali la possibilità di attendere alle
proprie occupazioni in mezzo agli altri, nei negozi, negli autobus, nei campi
sportivi, nei cinema ecc., perché anche l'attitudine
affettiva della gente diventi più aperta.
Ogni comunità è costituita in media da sette persone
che abitano nella maggior parte dei casi nelle unità più piccole, quasi sempre due appartamenti. In ogni appartamento
coabitano quindi tre o quattro persone. Gli appartamenti sono prossimi fra di loro, ma raramente con la stessa entrata. Ci sono
comunità alloggio più grandi con dieci o quindici componenti
ma allora sono divise in piccoli appartamenti diversi. Prendano il nome di
comunità alloggio perché hanno una unica organizzazione
amministrativa e geografica. L'appartamento più grande serve per lo più da
appartamento centrale (appartamento principale, appartamento di servizio) e
comporta servizi di base per il personale.
La maggior parte degli inquilini ha una stanza
singola. Certi appartamenti hanno delle camere da letto per due persone,
previste principalmente per le coppie. Ma quando due
persone, in generale di sesso opposto, desiderano dividere una camera in
comune, il più delle volte hanno dimostrato che essi sono anche capaci di
vivere in un appartamento da soli nelle vicinanze.
Il numero degli insufficienti mentali che abitano da
soli o in comunità alloggio rappresenta il 20% del totale.
Esistono circa 300 comunità alloggio
per 2000 persone in tutto. In ciascuna di queste vivono in media sette persone di entrambi i sessi.
Le comunità alloggio sono
quindi la formula dell'avvenire degli insufficienti mentali? A questo interrogativo si può rispondere sì, senza esitazione.
Nei prossimi cinque anni noi contiamo di aprire circa
30 appartamenti per ogni anno.
Possiamo ragionevolmente supporre che il 20% che oggi
abitano da soli o in comunità alloggio passeranno al
50%. Per gli altri, 30% vivranno probabilmente in case di cura e circa 20% presso i loro genitori o con altri membri della loro famiglia
(2).
Le case di cura si dividono in: case
di cura centrali, sono 21 ed hanno in media 200 posti; case di cura locali,
sono 104 con una media di 50 posti.
Dai dati di oggi si rileva
che soltanto 1000 sono gli insufficienti mentali adulti che vivono in ospedale,
ma se si contano gli ospiti delle case di cura malgrado tutto sono ancora 9.700
le persone che vivono in case di cura e per lo più in case di cura troppo
grandi.
Il 60% di quelli che vivono in comunità alloggio sono
degli insufficienti mentali medi, 30% sono degli insufficienti
mentali lievi e il 10% restanti sono insufficienti mentali gravi. Esiste il
progetto di arrivare ad aprire delle comunità alloggio speciali, per gli
insufficienti mentali gravi come soluzione definitiva in sostituzione alle
case di cura.
Tutti quelli che vivono in comunità alloggio prendono
parte, in una maniera o in un'altra, ad attività quotidiane fuori della loro
abitazione.
La maggior parte si reca in un
centro di giorno, alcuni, in minor numero, frequentano i laboratori
protetti. Qualche anno fa, la proporzione di quelli che partecipano
a queste due forme d'attività di giorno erano rispettivamente del 60% e del
25%. Gli altri si erano inseriti nel mercato del lavoro e avevano altre
occupazioni.
Più della metà di quelli che si sono installati in comunità alloggio venivano da una casa di cura. Gli altri
venivano direttamente dalla loro famiglia, dalle scuole speciali o da altre
forme di abitazione.
DUE
TIPI DI ABITAZIONE INDIVIDUALE
Numerosi cambiamenti hanno luogo
in seno alle comunità alloggio. Gli inquilini passano da grandi unità ad unità
più piccole finché la maniera di abitare corrisponde
alla propria capacità e al proprio grado di indipendenza.
Misurando questi cambiamenti, qualche anno fa,
abbiamo constatato che in un anno la metà degli inquilini della comunità alloggio se ne erano andati per installarsi in un
appartamento privato da soli o con un'altra persona! Noi abbiamo visto in
questo succedersi di cambiamenti un effetto diretto dell'abitare di gruppo; chi
vi abitava ha avuto la possibilità di sentirsi auto-sufficiente, più che nel
precedente tipo di abitazione, e ha acquisito
l'indipendenza necessaria per avere una abitazione propria.
Ecco perché ci sono adesso due tipi di abitazione individuale: quella che fa parte di una comunità
alloggio e quella che è interamente indipendente.
Tre mila insufficienti mentali adulti vivono ora in
abitazioni indipendenti di questo ultimo tipo: degli
esseri umani che sono stati salvati dalla vita in istituzioni, avendo per
risultato vantaggi sia psicologici che economici.
Una comunità alloggio ha generalmente per punto di
partenza un grande appartamento o una casa individuale; ci si aggiungono in
seguito diversi piccoli appartamenti o unità. Gli inquilini dei piccoli appartamenti
hanno accesso all'appartamento principale per incontrarvi il personale e gli
altri ospiti, stare insieme durante gli svaghi, nelle feste e così via. Il
personale che conosce bene gli inquilini che abitano fuori è ugualmente
responsabile della loro sorveglianza e fa il lavoro come elemento di sostegno e
di unione.
RUOLO
DEL PERSONALE
Il personale deve passare la notte nelle comunità
alloggio? Finora ci si è sforzati di evitarlo. Ma, man mano che anche degli
insufficienti gravi si installano in comunità
alloggio, la presenza del personale 24 ore su 24 diventa una necessità. Si può dire che il ruolo del personale è d'esercitare una
sorveglianza di base e di dare il suo aiuto nelle mansioni domestiche, cucina,
pulizia e altre cose.
Ma è importante che non aiuti troppo e deve, al
contrario, sforzarsi di essere abbastanza passivo affinché gli ospiti possano
imparare in misura crescente a far fronte ai propri servizi. L'organizzazione
delle attività di svago, i contatti personali per favorire l'adattamento
sociale sono invece dei punti ai quali il personale dovrà dedicare molto
tempo.
In nessuna di queste comunità alloggio, i membri del
personale abitano con gli inquilini. La loro abitazione è sempre completamente
indipendente dalle comunità alloggio, soluzione che si è dimostrata come la
migliore per entrambi.
Quando la comunità alloggio era ancora una formula
nuova di abitazione per gli insufficienti mentali, si
sono avute alcune difficoltà con la popolazione dovute talvolta a errori
commessi da noi che eravamo responsabili della pianificazione. Il nostro errore
maggiore è stato di cominciare con gruppi troppo grandi in una stessa villa o
in uno stesso appartamento: talvolta di dieci o dodici
persone. Abbiamo avuto anche torto di cercare di installarci in quartieri già
ben stabilizzati invece di farlo in quartieri residenziali nuovi dove la gente avesse fin dal principio la scelta tra accettare di avere
degli insufficienti mentali come vicini o rifiutare questa vicinanza
rinunciando all'abitazione. In generale è stato ed è più facile accedere ad appartamenti in immobili in affitto (dove
abitano molte famiglie) che comprare ville o case condominiali dove i
condomini, essendo proprietari del proprio appartamento, hanno, più sovente che
gli affittuari, tendenza a pensare in termini di «territorio» da difendere e
reagiscono, contro gli insufficienti mentali, considerati come un elemento
«perturbatore» del vicinato, nel timore che le loro proprietà perdano valore,
ecc.
Se si vuol sapere sino a che punto
é bene informare in anticipo i futuri vicini, le opinioni sono diverse. In certi posti i responsabili danno un'informazione
molto completa, mentre in altri i vicini sono informati soltanto
quando gli insufficienti mentali si sono installati. Una misura che
prima era necessaria, quella di informare, non lo è più da
quando la gente nel suo insieme si è resa conto che gli insufficienti
mentali vivono tra di noi. D'altra parte, alcune inchieste hanno dimostrato che
molti inquilini che abitano nella stessa casa con insufficienti mentali non si
sono mai resi ben conto che fossero veramente insufficienti mentali e questo
dimostra come i! loro inserimento sociale sia ben
riuscito!
Noi che ci occupiamo del problema degli insufficienti
mentali in Svezia, sappiamo quanto sia importante che
ci siano forme di abitazione alternative per la vasta categoria degli
insufficienti mentali adulti che da una parte non possono abitare
indipendentemente, ma d'altra parte non hanno bisogno di essere in una casa di
cura. Le comunità alloggio appaiono come una forma di
abitazione ideale che apporta agli insufficienti mentali un «vissuto» e delle
esperienze nello stesso tempo di una sorveglianza «soffice».
I responsabili politici hanno accettato le comunità
alloggio sia per ragioni economiche - una forma di abitazione
meno cara della casa di cura - sia perché è un'espressione concreta della
normalizzazione. L'idea incomincia ad allargarsi a macchia d'olio: i
responsabili politici s'interessano alla creazione di forme nuove dello stesso
genere anche per i malati mentali in luogo degli ospedali psichiatrici.
I più scettici sono stati i genitori e i parenti.
Evidentemente temevano che i loro congiunti fossero messi allo sbaraglio in
una società che non li accettasse e si desse loro il
sentimento di essere cittadini di seconda classe. Essi temevano soprattutto
che soffrissero l'isolamento in questi piccoli gruppi, specialmente durante le
ore di svago.
LE IMPRESSIONI DI ALCUNI INQUILINI SULLA LORO VITA IN
COMUNITA’ ALLOGGIO - UN'INCHIESTA
Soltanto ora cominciamo a sapere qualcosa dell'opinione
degli insufficienti mentali sulla vita in comunità alloggio. E. Lundblad e E.
Victor hanno realizzato un'inchiesta comprendente colloqui con 61 inquilini di
differenti comunità alloggio: l'80% degli inquilini vivevano in appartamenti da
4 e 7 persone per unità e gli altri in unità più piccole. Questi appartamenti rappresentano una media delle comunità alloggio esistenti
in Svezia. Nessuna fra le persone che precedentemente
erano vissute in istituto ha giudicato in maniera negativa l'appartamento in
confronto all'istituzione. Tutti consideravano una cosa buona il trasferimento
in comunità alloggio. Tra quelli che prima vivevano con la propria famiglia,
qualcuno certamente rimpiangeva il proprio focolare, ma i loro motivi per
restare nelle comunità alloggio erano più importanti. Per gli insufficienti
adulti lievi e medi, è sempre un gran problema sentirsi ed essere chiamati
insufficienti mentali. L'importanza di questo problema appare sempre più chiaro
a coloro che si occupano di insufficienti mentali.
Può essere opportuno prendere questo problema come riferimento di partenza quando si vuol studiare il punto di vista degli
insufficienti mentali sulla vita in comune in una comunità alloggio.
L'inchiesta di Lundblad e di Victor mette in luce
quanto segue:
1. abitare in un appartamento in comune invece che in
un istituto implica possibilità accresciute di soddisfare i bisogni
fondamentali, sociali e di altro genere; permette d'avere
il proprio posto nella collettività. Il passaggio progressivo nella società ha
apportato un elemento particolarmente positivo: gli
insufficienti mentali hanno acquisito il sentimento di essere capaci e
competenti. Essi hanno compreso di poter riuscire a fare un certo numero di
cose;
2. gli abitanti di una comunità alloggio si sentono più indipendenti in questa forma di abitazione
che in un'istituzione o nella propria famiglia. La
dipendenza affettiva che è frequente in quelli che vivono nella propria
famiglia, non esiste, mentre si è trattati in maniera più individuale che in
istituto. È questa l'impressione favorevole più importante per chi vi
abita. La metà di loro più o meno sono di questo
avviso.
Ma l'inchiesta mostra anche che ci sono dei grandi
rischi che le comunità alloggio funzionino come una
piccola istituzione. Succede facilmente che si instaurino
delle regole collettive. L'integrità personale è
un'altra questione delicata. Si è detto agli insufficienti mentali che la
comunità alloggio era la loro casa, ma il personale non sempre tiene conto di
questo fatto. Succede, per esempio, che un membro del personale entri nella camera o nel loro appartamento quando coloro che ci
abitano non sono in casa;
3. quelli che hanno una abitazione
possiedono un cerchio di relazioni nettamente più largo di quelli che vivono in
istituto o con la propria famiglia. Molti degli interrogati dicono
che ora si trovano con più gente e che possono vedere quelli che vogliono.
Essi hanno maggiori possibilità di scegliere le persone che essi desiderano frequentare.
Nessuno degli interrogati pensava che la vita in
appartamento portasse ad un maggior isolamento.
Le relazioni di quelli che ci abitano assomigliano a quelle del resto della gente.
Essi conservano in grande
misura i loro amici di prima, sia che vengano da un istituto o dalla casa dei
loro genitori. La possibilità di stabilire altri contatti è notevolmente
aumentata. Essi incontrano altra gente tra i vicini, sul luogo del lavoro ecc.;
4. la coscienza d'appartenere alla categoria degli
insufficienti mentali, l'identificazione con un gruppo diverso, diminuisce quando si vive in comunità alloggio.
«Prima
quando si viveva in istituto, la gente aveva una curiosa facilità a
riconoscerci. Adesso ci si sente di più come gli altri»;
5. un elemento importante
nella nozione che si ha di se stessi è il sentimento del proprio valore
sociale. Riguardo a questo, la vita in comunità alloggio non sembra condurre a un miglioramento particolarmente accentuato. Alcuni di quelli che vi abitano continuano ad esprimere una concezione di
se stessi molto negativa per quanto concerne il loro valore sociale. Questo parrebbe essere strettamente legato alla maniera in cui
sono stati trattati antecedentemente. Dopo tanti anni passati in forme di abitazione senza indipendenza, essi si aspettano ben poco
dalle relazioni con gli altri, hanno l'abitudine a un ruolo subordinato e a non
esprimere esigenze. Il loro bisogno di contatto con gli altri è determinato dal
loro bisogno di aiuto. L'insufficiente mentale è
troppo facilmente educato in maniera di divenire un «paziente». Anche se
l'integrazione sociale ha contribuito in ogni modo a far sì che gli abitanti
delle comunità alloggio si sentano il più possibile
come gli altri, molti fra di loro hanno il sentimento di appartenere prima di
tutto alla categoria degli insufficienti mentali.
È interessante vedere come gli
insufficienti mentali designano
gli altri. Essi li chiamano « a gente comune», «gli altri» o «quelli che stanno
bene».
I
CONTATTI PERSONALI
1. Circa la metà dei locatori sono
in contatto con le loro famiglie. Per molti di loro queste relazioni si sono migliorate, essi si vedono più frequentemente. E questo vale anche per quelli che vivevano in famiglia: «Prima non eravamo mai d'accordo, adesso trovo che la mamma è straordinaria».
Adesso si può scegliere quando
si vuole vedere la propria famiglia: «Prima,
bisogna stare tutto il tempo insieme ai genitori».
L'autonomia riguardo ai genitori è manifesta.
2. Con qualche eccezione, coloro che abitano insieme
hanno come amici degli altri insufficienti mentali. L'appartamento ha dato loro
migliori possibilità di scelta di nuovi compagni, ma, come si è detto, sempre
essenzialmente in seno alla categoria degli insufficienti mentali.
3. I rapporti coi vicini
dipendono dalla durata del soggiorna in comunità alloggio. Nessuno aveva avuto
dei contatti sgradevoli coi vicini. Molti di quelli
che avevano vissuto un certo tempo in una comunità
alloggio li salutavano e scambiavano qualche parola, con loro. Questo genere
di contatti con i vicini era sentito come positivo.
4. Trattandosi di contatti superficiali con il resto
della popolazione in generale (nei negozi, negli autobus, ecc.) l'impressione
più importante è il sentimento che può sorgere a seguito di questi contatti. La
maggior parte fanno da soli i loro acquisti
alimentari, anche se talvolta bisogna usare qualche espediente. Alcuni hanno
delle difficoltà negli acquisti perché non sanno leggere e contare.
La maggior parte non osservano
niente nell'attitudine della gente, se non che questa è corretta e gentile in maniera
generale. Certi hanno l’impressione d'essere trattati differentemente - troppo
aiutati o mal ricevuti -, qualcuno trova che
l'attitudine della gente è migliorata da quando essi vivono in comunità
alloggio.
5. Il personale non è, per la maggior parte dei casi,
considerato come degli amici, ma come persone che si prendono cura di loro,
degli assistenti e dei sorveglianti.
LE
IMPRESSIONI DEL PERSONALE
Una inchiesta di J. Knights ha
cercato di esaminare l'attitudine e la situazione di
lavoro del personale nelle case di cura e nelle comunità alloggio.
Si è interrogato il personale di 18
comunità alloggio e di 9 unità (servizi) di una casa di cura con 330
posti letti per adulti.
Una differenza tra le due categorie del personale la si constata nel fatto che il personale delle comunità
alloggio partecipava più spesso di quello delle case di cura a dei dibattiti e
discuteva più sovente coi compagni dei differenti problemi del lavoro.
Anche le motivazioni del lavoro differivano. Il personale
delle case di cura insisteva maggiormente sull'importanza della vocazione
umanitaria, cioè di aiutare il prossimo. Ciò deriva
in parte dal fatto che gli ospiti delle case di cura sono più frequentemente
degli insufficienti mentali gravi, e hanno bisogno di maggior aiuto di quelli
che abitano in comunità alloggio, ma questa può essere solo una spiegazione
parziale. Il personale delle comunità alloggio aveva in maggior misura una
motivazione professionale più normale, e la loro soddisfazione nel lavoro era
superiore a quella del personale delle case di cura.
Le divergenze di opinione
sugli obiettivi di ciascuna delle due formule di abitazione non erano molte,
ma esistevano. Nelle case di cura si invocavano
spesso degli obiettivi piuttosto passivi legati all'interessato stesso, per
esempio la possibilità dell'insufficiente mentale di potersela cavare da
solo.
Nelle comunità alloggio, al contrario, si formulavano degli obiettivi attivi a orientamento sociale. I
punti di vista differivano maggiormente nel personale senza formazione
professionale. Queste differenze possono in parte derivare dal fatto che
questo personale si occupa di insufficienti mentali di
diversi gradi.
La rotazione del personale è nettamente maggiore
nelle case di cura che nelle comunità alloggio dove il personale lavora in équipes e dove non c'è un capo nel lavoro quotidiano. Tutti
fanno lo stesso lavoro.
CONCLUSIONI
L'integrazione è il mezzo principale per realizzare
una normalizzazione degli insufficienti mentali. In
Svezia, un buon numero di insufficienti mentali hanno
lasciato, nel corso degli ultimi anni le case di cura per delle comunità
alloggio e degli appartamenti privati. La vita nelle comunità alloggio
modifica la nozione di se stesso che ha l'insufficiente mentale, e anche il
modo in cui è visto da coloro che lo circondano.
Il modo in cui è visto accresce il suo sentimento di libertà individuale e la sua coscienza di
poter decidere da solo ed essere responsabile. Egli avverte anche in maggior
misura di essere capace a farcela da solo. Il fatto di
vivere in condizioni normali, in seno alla società e non al di fuori, dà
all'insufficiente mentale un senso accresciuto del suo valore personale.
Ma non è facile modificare la sensazione del suo poco
valore sociale. La maggior parte di essi sono bloccati
nel proprio ruolo subordinato, e senza esigenze, di insufficiente mentale, ma
alcuni tra loro cominciano a criticare e a rendere esplicite delle esigenze
riguardo alle loro relazioni sociali.
L'inserimento fisico e funzionale apporta dunque
all'insufficiente mentale dei vantaggi apprezzabili sul piano personale, ma
non porta con sé automaticamente una realizzazione di
se stesso.
L'integrazione sociale è profondamente marcata dal
vissuto precedente. Una condizione importante per poter vivere in comunità
alloggio è l'apprendimento, delle attività quotidiane. Questo modo di vita
esige ugualmente un apprendimento nel controllo dei sentimenti, dei bisogni e
dei desideri, in particolare nei rapporti con gli altri.
Il personale che lavora nelle comunità alloggio si
sente più impegnato professionalmente di quello che lavora nelle case di cura.
Il suo lavoro gli dà più soddisfazione e la rotazione del personale è minore.
(Traduzione di Miriam Montalenti
dalla rivista Epanouir,
n. 90, ottobre 1977).
(*) Prospettive
assistenziali, n. 46, aprile-giugno 1979.
(1) Karl Grunewald, medico, dal 1961 è capo della Divisione svedese
per l'assistenza agli insufficienti mentali della Direzione nazionale della
salute pubblica e della previdenza sociale. È membro del Comitato consultivo sulla insufficienza mentale della Organizzazione mondiale
della sanità.
(2) Nel 1975, le abitazioni di tutti
gli insufficienti mentali adulti (23.000 persone) si presentavano come segue:
- in casa di cura 38%
- presso i genitori o parenti 33%
- abitazione indipendente 12%
- comunità alloggio 7%
- in ospedale 4%
- affidamenti familiari a non parenti 3%
- altre forme di abitazione 3%
LINEE PROGRAMMATICHE ED EDUCATIVE
DEL GRUPPO APPARTAMENTO DI VIA BORSI - MESTRE (*)
La relazione
che pubblichiamo potrebbe rappresentare il punto di partenza per la generalizzazione
di un'iniziativa isolata, frutto della disponibilità di un gruppo di operatori che aveva alle spalle una precedente esperienza
di comunità alloggio.
Purtroppo a quasi due anni dal suo avvio essa rimane ancora «una
precaria sperimentazione». È per superare questa fase di «stallo» che un
gruppo di operatori del territorio assieme a quelli
della comunità alloggio stanno organizzando un convegno.
A nostro
avviso i nodi che dovranno essere sciolti, e che nel convegno potrebbero
trovare la tribuna più qualificata, sono i seguenti:
- avvio di
una politica di interventi alternativi all'istituto,
che oltre alla generalizzazione delle comunità alloggio preveda tutta una serie
di altri servizi quali: quello di affido familiare (adeguatamente sostenuto),
di assistenza domiciliare, economica, ecc.;
- gestione
diretta da parte dell'Amministrazione provinciale oggi e dell'ULSS, non appena
funzionante, di tutti i servizi,
-
superamento della fase sperimentale e del rapporto di lavoro libero
professionale degli operatori che debbono essere
regolarmente assunti;
- programmazione ed immediato avvio di tutta una serie di corsi di
riqualificazione per riconvertire attuali operatori degli ospedali psichiatrici o
dell'istituto psico-pedagogico in operatori per
l'attuazione dei servizi alternativi al ricovero.
Qualora gli amministratori degli Enti locali non volessero
dare una risposta adeguata a queste legittime richieste, alle forze di base, ed
al sindacato non rimarrebbe altra soluzione che denunciare tali inadempienze
ed individuare i momenti di lotta più adeguati.
G.B.
RELAZIONE
Il gruppo appartamento di via
Borsi nasce come esperienza deistituzionalizzante
in quanto accoglie cinque minori provenienti dall'istituto psico-pedagogico
«Villa Pancrazio» di Marosco: ha caratteristiche
specifiche che lo pongono in alternativa all'istituto.
Questo tipo di intervento,
anche se lascia inalterati i fattori che hanno determinato quelle situazioni
di emarginazione, mantiene le contraddizioni all'interno della società: il
quartiere dovrà prendere atto del gruppo appartamento, che denuncia attraverso
la presenza dei suoi ospiti il processo di esclusione sociale.
Il quartiere diventerà la realtà del gruppo appartamento
attraverso due momenti fondamentali di confronto:
a) il coinvolgimento da parte degli operatori di
tutte le forze che operano nel territorio;
b) le relazioni vissute dagli
ospiti con il vicinato, la scuola, i coetanei, le famiglie, i gruppi, ecc.
Il gruppo appartamento non dovrà essere una iniziativa isolata ma una indicazione da seguire in un
contesto più globale dei servizi sociali per i lavoratori: la medicina
scolastica e i poliambulatori di quartiere, gli
asili nido, gli interventi per gli handicappati, la tutela sanitaria e sociale
degli anziani, il servizio domiciliare e la medicina preventiva dei
lavoratori.
Dal punto di vista giuridico, tutto ciò significa
applicare ed attuare i principi ed i diritti della Costituzione.
Il nostro sarà quindi un piccolo contributo al
cambiamento del servizio socio-sanitario.
In istituto la giornata é prefissata da determinati orari; l'utilizzazione degli spazi è rigida, in
funzione dell'istituto stesso.
Nell'appartamento, a parte il necessario rispetto
dei tempi scolastici e di lavoro dei ragazzi stessi, ogni momento sarà riempito
sulla base degli interessi, dei bisogni, delle motivazioni di chi lo abita. Gli
spazi e i tempi saranno a misura d'uomo.
L'istituto per funzionare ha bisogno della gerarchizzazione dei ruoli. I ragazzi verificano subito
che c'è chi dirige e chi esegue; più o meno
consapevolmente ubbidiscono ai primi e sottovalutano i secondi.
Nell'appartamento tutti i problemi di conduzione e gestione sono a carico
degli educatori. Tutti siamo responsabili di ogni
aspetto della vita comunitaria e nessuno è più responsabile degli altri.
L'intervento pedagogico è qualificante ed educativo
quanto il momento delle pulizie della casa. Scopo dell'istituto è continuare se
stesso.
Scopo del nostro gruppo appartamento è, al limite,
esaurirsi: esaurire la sua necessità per i ragazzi per cui
si è costituito.
Il gruppo appartamento deve essere una struttura
dinamica pronta a modificarsi rispetto ai bisogni del momento. Il cambiamento
della struttura dovrà essere garantito dal confronto tra operatori sociali e
operatori politici, tra gli educatori stessi e i ragazzi ospiti
dell'appartamento. Questi momenti dovrebbero evitare il rischio dell'instaurarsi di un processo di istituzionalizzazione
della micro struttura.
Gli educatori
L'azione dell'educatore inizia dall'accettazione
totale del minore, del suo vissuto e di tutto quello che egli vuole esprimere.
L'educatore deve saper accettare e gestire anche
lunghe fasi di conflittualità, evitando il pericolo
di una rottura psicologica tra il presente e il passato del ragazzo, aiutandolo
ad una elaborazione progressiva del suo vissuto fino alla conquista positiva
della sua identità.
L'educatore deve essere un possibile modello di identificazione per il ragazzo, deve garantirgli la
soddisfazione di bisogni affettivi e deve essere in grado di porsi come norma,
come autorità capace di portarlo a delle esperienze di sicurezza e autonomia.
Questo si configura come un rapporto terapeutico
continuativo, e necessita perciò di momenti di
aggiornamento e di supervisione.
Rapporto tra educatori - équipe
Gli educatori operano collegialmente
con la esclusione di ogni rapporto gerarchico per l'attuazione del rapporto
educativo terapeutico. Le osservazioni e le decisioni, sia a carattere psicopedagogico che
amministrativo verranno prese collegialmente. Per alcuni aspetti della conduzione ci si servirà della consulenza dell'équipe e per altri si
richiederà il parere dei ragazzi stessi. Tenendo pur conto della facilità di incontri informali tra educatori si prevede una riunione
settimanale.
Il cammino dei ragazzi ospiti in comunità sarà seguita
e valutato criticamente con tutti gli strumenti del caso, anche quelli più
strettamente tecnici.
Con l'équipe dell'istituto medico-psico-pedagogico «Villa Pancrazio» si avranno
rapporti quindicinali, per un confronto sul valore di quanto si va attuando,
contribuendo così a chiarire agli operatori diretti le problematiche emerse
nella pratica quotidiana relativamente alle dinamiche
del rapporto con i ragazzi.
In questo contesto abbiamo
sentito l'esigenza di un momento di supervisione e formazione comune con gli
operatori del Servizio Igiene mentale provinciale e con i collaboratori del Prof. Morpurgo. Il collegamento
con l'équipe dell'Istituto M.P.P. di Marosco, acquista anche il senso di una continuità reale e
concreta tra le prospettive del superamento dell'istituto e diviene uno strumento
intermedio di inserimento del minore nella realtà del
territorio.
Intervento educativo
Il gruppo appartamento ha lo scopo di «far cadere»
comportamenti istituzionalizzati nei ragazzi ospiti.
La «ricostruzione» della personalità di ogni ragazzo avviene attraverso la relazione con gli
adulti disponibili ad accettarli, ed altrettanto disponibili a mettersi in
discussione.
Nel gruppo appartamento la relazione affettiva tra
gli educatori e i ragazzi dovrà permettere una diversa
«lettura» dei comportamenti che si manifesteranno. Questa relazione affettiva
favorirà l'individuazione di bisogni mai espressi o insoddisfatti.
Si prevedono due fasi comportamentali: in seguito
alla caduta dei ruoli istituzionali ci sarà un periodo di regressione
comportamentale e di reazioni violente, naturale conseguenza della struttura
liberante e della presenza di adulti disposti ad
accettare un comportamento diverso.
A questa fase seguirà quella della ricostruzione vera e propria della personalità che vede adulti e
ragazzi confrontarsi con l'esterno: vita di relazione scolastica, lavorativa,
coi coetanei, coi gruppi, ecc.
In questa fase è molto importante il ruolo dell'educatore
che di nuovo sostiene gli scontri con la vita quotidiana e mantiene un
atteggiamento comprensivo di fronte agli eventuali episodi provocatori dei
ragazzi nei confronti della realtà esterna.
In questa dimensione positiva
di disponibilità e interrelazione con l'esterno il ragazzo ospite si troverà
gradualmente ad organizzarsi i tempi e gli spazi personali raggiungendo così la
propria autonomia.
Nessuna esperienza terapeutica, individualizzata, di
gruppo o comunitaria viene iniziata e continuata se
non esiste una reciproca scelta, se non viene vissuto un rapporto di stima e
fiducia sia personale, sia sul lavoro che si condurrà insieme.
Nessun istituto assistenziale
accetta i suoi ospiti indiscriminatamente dal tipo e dalla gravità dei bisogno
a meno che il ricovero non significhi l'approdo all'ultima desolante spiaggia
della morte assistenziale.
A maggior ragione si deve tener conto di questo
nelle esperienze di piccoli gruppi e comunità, laddove la dinamica
dei rapporti è molto stretta e le emozioni, in particolare empatiche,
vengono avvertite sensibilmente e immediatamente, dove la presenza, l'umore, i
disturbi della personalità e del comportamento di uno dei qualsiasi soggetti,
minori o adulti, va ad interessare necessariamente quello di tutti gli altri
(vedi le pubblicazioni sulle comunità antipsichiatriche inglesi e quelle di B.
Bettelheim della Orthogenic
School).
Ai minori dovrebbe essere data possibilità di scelta
e di decisione sulla propria sistemazione, al contrario di come
è avvenuto finora dove il ricovero in istituto ha avuto la caratteristica
di essere la soluzione unica e il più delle volte coatta.
Così gli educatori, essendo impegnati in rapporti
interpersonali profondi con i soggetti a loro affidati, non possono essere
costretti ad operare al di fuori di un campo di
conoscenza e di competenza, senza vivere il disagio di tale situazione, senza
difendersi con un rapporto distaccato e strettamente «professionale».
Organizzazione interna del gruppo appartamento
Il gruppo vivrà un'esperienza di tipo familiare. Ci
si propone che tutti i ragazzi abbiano un'occupazione quotidiana all'esterno
dell'appartamento: scuola o lavoro.
L'appartamento verrà quindi prevalentemente utilizzato
dai minori nel pomeriggio dei giorni feriali e nelle festività.
La presenza, di almeno uno degli educatori verrà
assicurata permanentemente nelle ventiquattro ore per l'organizzazione della
giornata, dei servizi domestici e in previsione di necessità di permanenza
diurna dei minori (malattia, attesa di occupazione
lavorativa, ecc.). Si eseguiranno turni di lavora nei
quali, a rotazione, saranno presenti due educatori nei momenti significativi
della giornata: pranzo, pomeriggio, cena; un educatore si fermerà a dormire
la notte.
Scuola
Verranno tenuti con la scuola rapporti mensili e comunque,
quando se ne presenta la necessità, in forma tempestiva.
Il ragazzo verrà seguito per
i compiti che gli verranno assegnati e per la loro esecuzione con
sistematicità, in particolare nelle materie in cui egli viene a trovare più
difficoltà.
Lavoro
A seconda che il ragazzo sia
più o meno autosufficiente, lo si aiuterà nella ricerca di un impiego, a
seconda delle sue intenzioni e la possibilità che il mercato del lavoro offre.
Saranno da stabilire e mantenere rapporti di cordialità e collaborazione con i
datori di lavoro. Si controllerà il denaro in modo che ogni ragazzo, dopo aver
soddisfatto i bisogni primari, ne conservi una parte a
titolo di risparmio.
Tempo libero
Il vissuto di esperienze
felici e positive insieme scioglierà le resistenze e le difese personali e rafforzerà
i rapporti sociali.
I momenti di divertimento, saranno considerati
importanti, sia nell'aspetto organizzativo che
espressivo.
I mezzi di informazione
sociale (radio, televisione, riviste, cinema, libri, musica, ecc.), verranno
sottoposti ad un interesse critico dei contenuti e delle forme espressive.
Gruppi spontanei e associazioni giovanili esistenti nel quartiere verranno individuati e considerati
nella prospettiva di un inserimento nelle loro attività dei ragazzi ospiti
dell'appartamento.
Le fasi di conoscenza reciproca
dei ragazzi appartamento-quartiere, e di
rafforzamento delle relazioni, saranno non forzate e proposte in base agli
interessi e ai tempi di maturazione dei ragazzi stessi. Importante sarà il
nostro intervento preparatorio e di attenzione
continua affinché non si verifichino episodi di rigetto onde evitare che
l'approccio all'esperienza socializzante risulti fallimentare.
Pulizie e ordine personale
I minori verranno
interessati alla cura e alla pulizia della propria persona, delle proprie cose
e alla partecipazione dell'ordine e delle pulizie degli ambienti di uso comune.
Ruolo del responsabile
Specifiche attribuzioni di responsabilità sono state
affidate a uno di noi in ordine a particolari esigenze
burocratiche. A tale proposito, al responsabile, identificata nella persona di
C.F., viene corrisposto un
assegno mensile comprendente tutte le spese di gestione e la retribuzione
mensile degli educatori.
Nota
L'appartamento, di proprietà della Provincia di Venezia, situato in Via Borsi
14 - quartiere Carpenedo - Mestre, ospiterà cinque
ragazzi ed è provvista di una cucina, soggiorno, tre camere, doppi servizi,
ripostiglio e garage.
(*) Prospettive
assistenziali, n. 47, luglio-settembre 1979.
LA COMUNITÀ ALLOGGIO DI
IVREA (*)
La nostra comunità ha ormai quasi 10 anni di vita,
essendo sorta nel 1974 per iniziativa di un gruppo di privati cittadini.
Essa si poneva e si pone
tuttora come obiettivo di evitare l'istituzionalizzazione dei minori e quindi
offrire l'accoglienza il più possibile temporanea.
Fin dall'inizio il gruppo di privati si è riunito in
associazione formale e si è preoccupato di responsabilizzare per la gestione
della comunità anche l'Ente pubblico.
I comuni, che nel 1974 usufruivano del servizio (passati
rapidamente da 4 a 9 e poi a 10), si impegnarono a
farsi carico delle spese di gestione, ripartite secondo il numero di abitanti
di ciascun comune, a partecipare al Consiglio direttivo dell'Associazione,
eleggendo un numero di rappresentanti comunali pari a quello dei rappresentanti
dei soci.
L'amministrazione della comunità anche se finora è
stata tenuta da soci volontari, è in base allo statuto espressa dal Consiglio
direttivo, ed è sottoposta alla supervisione dello stesso e quindi anche dei rappresentanti
dei comuni.
Dal settembre del 1982 fra le comunità alloggio e
l'USSL n. 40 di Ivrea (Torino) è stata stipulata una
convenzione, tuttora in vigore, che regola con una semplice normativa i
rapporti fra le due parti e garantisce alla comunità la copertura delle spese
di gestione. In base a tale convenzione, del
Consiglio direttivo fanno parte rappresentanti nominati dall'Assemblea
dell'USSL.
Fra gli scopi essenziali della comunità, sorta per
realizzare una valida alternativa all'istituzionalizzazione
dei minori, vi è quello di offrire ai ragazzi ospitati un ambiente di tipo
familiare, dove gli educatori siano per essi delle figure simili il più
possibile a quelle parentali (genitori - fratelli maggiori).
Da sempre le ammissioni dei bambini avvengono tramite le assistenti sociali competenti del
territorio, le quali debbono impegnarsi a mantenere i contatti con le famiglie
da cui essi provengono e con gli operatori della comunità.
Gli educatori, cinque attualmente,
si avvalgono anche della collaborazione di uno o due obiettori di coscienza e
garantiscono ovviamente una presenza continua di una o due persone 24 ore su
24. Le ore più impegnative della giornata (dalle 16 alle 21 e gli interi fine
settimana) sono coperte da due educatori presenti più un obiettore o una
collaboratrice domestica.
Dal 1974 sono passati nella comunità alloggio più di
un centinaio di bambini e ragazzi, con periodi di permanenza
variabili da pochi giorni a diversi anni.
L'impegno educativo è molto vasto e diversificato a seconda delle esigenze dei ragazzi e dei vari momenti
della giornata: accompagnare i più piccoli a scuola, collaborare alla
preparazione dei pasti, fare la spesa, assistere i ragazzi nei compiti,
organizzare il tempo libero, partecipare alla loro vita rendendosi disponibili
all'ascolto di qualsiasi loro richiesta.
Va qui ancora sottolineata
la disponibilità ad accogliere utenti di età variabile da meno di due anni a
18, comprendendo quindi anche i così detti «adolescenti a rischio». Inoltre
dalla fine del 1976 a tutt'oggi é presente in comunità una handicappata psichica medio-grave, per la quale non è stata trovata finora una
sistemazione alternativa.
Alcuni
dati statistici
Gli utenti appartengono ad un territorio di circa
50.000 abitanti. Dal 1974 a tutto il 1983, sono stati ospitati:
n. 115 minori di cui 66 maschi e 49 femmine, di 75
famiglie diverse. Considerando l'età al mo(diversi in anni mento del primo
ingresso in comunità casi sono stati ospitati più volte, anche successivi) la
suddivisione è:
- da zero a 3 anni n.
20
- da 4 a 6 anni n. 25
- da 7 a 10 anni n. 26
- da 11 a 13
anni n. 27
- da 14 anni in su n. 27
La durata della permanenza totale è stata
(eventualmente in più volte):
per 76, inferiore a tre mesi
per 21, da tre mesi a un anno
per 7, da uno a due anni
per 11, oltre due anni
Dopo la permanenza in comunità:
102 sono rientrati in famiglia (fra questi quelli con
brevi permanenze)
2 sono stati adottati
4 hanno iniziato la loro vita autonoma (maggiore
età, matrimonio)
1 è stato affidato ad una famiglia
2 sono passati ad altra comunità
4 sono presenti a fine 1983.
Le presenze totali nel 1983 sono state 2836 giornate
(con 28 minori diversi) e quindi la spesa media giornaliera è stata L. 29.975 (per minore).
Il consuntivo 1983 ha dato una
spesa complessiva di L. 85 milioni circa, di cui:
64% personale; 27% vitto, trasporti, varie; 9% per i locali (affitto, utenze
varie, riscaldamento).
(*) Prospettive
assistenziali, n. 66, aprile-giugno 1984.
www.fondazionepromozionesociale.it