Prospettive assistenziali, n. 67, luglio - settembre 1984

 

 

PROGRAMMAZIONE E PIANI DI LAVORO

 

 

Nel nostro paese si parla molto di programma­zione, ma le esperienze in materia non sono sod­disfacenti.

Fallito miseramente il programma economico nazionale per il quinquennio 1966-1971 (1), rima­sto nei cassetti il progetto 80, attualmente la programmazione viene da molti prospettata come il toccasana per l’economia e per i servizi.

Tuttavia, il piano sanitario nazionale per il trien­nio 1980-1982 è stancamente esaminato dal Par­lamento, fra una interruzione e l’altra richiesta dal Governo per poterlo «aggiornare».

Le Regioni, a loro volta, hanno predisposto piani sia sanitari, sia sanitario-assistenziali. Non si tratta però di piani veri e propri, ma di lunghi e spesso meticolosi elenchi di cose da fare, senza indicazioni dei tempi previsti e degli strumenti occorrenti.

È persin nata, da alcuni anni, una teoria secon­do cui la gestione dei servizi deve essere di com­petenza di un organismo (ad esempio l’Associa­zione dei Comuni per i servizi sanitari e socio­assistenziali), mentre la programmazione è una funzione spettante ad un altro ente (Provincia o Comprensorio o Provincia-Comprensorio).

In sostanza, chi «fa le cose» non può e non deve sapere come, dove e quando farle e quanto costano; chi le programma, non può e non deve «sporcarsi le mani» con le prestazioni concrete.

La programmazione più comunemente usata è ancora quella che abbiamo definito occulta (2): non vengono predisposti programmi o non se ne tiene conto. I piani sono e restano nella mente degli amministratori, che in questo modo hanno più ampie possibilità di manovra.

Si procede alla emanazione di provvedimenti caso per caso che però nel loro insieme hanno finalità ben precise. Spesso, per mascherare que­sto modo di agire, si nominano commissioni di lavoro, magari pletoriche e articolate in sotto­gruppi, facendo in modo che procedano il più lentamente possibile.

Con la programmazione occulta, le forze sin­dacali e sociali e gli operatori hanno notevoli difficoltà a capire quali siano gli obiettivi real­mente perseguiti.

A nostro avviso, la programmazione non con­siste nella confezione di un inutile libro dei so­gni: deve costituire invece il metodo di lavoro praticato dalle amministrazioni. In questo senso preferiamo parlare, per essere più chiari, di ge­stione programmata, da contrapporre alla gestio­ne «caso per caso».

Presupposto di questa metodologia è la defini­zione delle linee di intervento e delle relative priorità da parte dell’ente interessato (3).

Una programmazione seria richiede, inoltre, che siano precisati gli strumenti indispensabili per attuare i servizi, i tempi occorrenti, la quan­tità e la qualità del personale necessario, le ne­cessità di formazione, aggiornamento o riquali­ficazione degli operatori, i finanziamenti previsti per le spese di investimento in strutture e attrez­zature, e quelli occorrenti per la gestione dei ser­vizi, la verifica dell’efficacia ed efficienza delle prestazioni.

 

I piani di lavoro

La programmazione e le verifiche di efficacia e di efficienza non devono riguardare solo gli aspet­ti generali, ma anche i singoli interventi sui nu­clei familiari e sulle persone. In tal modo si evi­terà ciò che quasi sempre avviene oggi: l’attua­zione di prestazioni decise caso per caso, in cui spesso sono lasciati senza seguito gli interventi di emergenza.

Vi è dunque la necessità che gli operatori pre­dispongano piani di lavoro precisi, con l’indica­zione di tutte le prestazioni da fornire, le modali­tà scelte, i tempi previsti, le responsabilità di ciascuno e di tutto il personale coinvolto nell’a­nalisi e nella soluzione del caso. La verifica dell’attuazione dei piani di lavoro e il loro aggior­namento sono elementi che consentano di accer­tare la validità degli interventi attuati e di indivi­duare i cambiamenti da apportare ai contenuti, al metodo, all’organizzazione, agli impegni di spesa.

La predisposizione di piani di lavoro consente inoltre - nel caso di trasferimento o di malat­tia prolungata di uno o più operatori - a chi li sostituisce, di non dover ricominciare tutto da capo e di sapere quali siano state le analisi svol­te, gli interventi previsti e quelli attuati, i risul­tati raggiunti. L’eventuale sostituzione, pur sem­pre problematica, può così aver luogo limitando al massimo le conseguenze negative per gli utenti.

Inoltre, dall’esame dei piani di lavoro possono essere tratte indicazioni concrete riguardanti la modifica di deliberazioni, l’adattamento o il cam­biamento dei criteri di intervento decisi a livello politico, la ricerca di nuove metodologie, il coin­volgimento di operatori con capacità professio­nali diverse da quelli che sono precedentemente intervenuti.

L’analisi dei piani di lavoro è anche un ele­mento importante, se non determinante, per la impostazione di corsi o seminari di aggiornamen­to professionale degli operatori (e dei volontari) e per altre iniziative formative. Infine, per quanto riguarda l’assistenza, i piani di lavoro consentono di accertare se, come, in che misura e con quale tempestività, son intervenuti i settori della casa, del lavoro, della scuola, della sanità, ecc., nella ricerca della soluzione dei problemi (4).

 

 

(1) Legge 27 luglio 1967, n. 685.

(2) Cfr. l’editoriale di Prospettive assistenziali, n. 35 luglio-settembre, 1976.

(3) Questo pronunciamento va assunto con un atto che abbia valore e cioè con leggi per le Regioni e con delibera­zioni per i Comuni singoli o associati.

(4) Cfr. l’editoriale di Prospettive assistenziali, n. 56, ottobre-dicembre 1981.

 

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