Prospettive assistenziali, n. 69, gennaio - marzo 1985
FUNZIONI E COMPITI DEL GIUDICE
TUTELARE NELL'AFFIDAMENTO FAMILIARE
(1)
MARIA LIDIA DE LUCA RAIMONDI
Illustri giuristi hanno commentato e commenteranno
molto meglio di me gli aspetti giuridici del nuovo istituto dell'affido
familiare; la mia relazione cercherà quindi di inquadrare l'istituto dal punto
di vista dell'operatore del diritto e - perdonatemi il bisticcio di parole - di
un operatore che si sforza di operare, di ottenere cioè
che la norma giuridica si concretizzi, si attualizzi; il che, come tutti
sappiamo, è diventato nella nostra realtà italiana un fatto abbastanza
problematico ed avventuroso.
Tuttavia siccome non è possibile operare correttamente se non si è compreso appieno il senso della
norma da applicare, desidero chiarire preliminarmente a me stessa i motivi
ispiratori e le finalità che hanno guidato il legislatore nel disciplinare
l'istituto dell'affidamento familiare.
A mio avviso tutta la legge 184 deve essere letta ed interpretata alla
luce di quanto sancito nell'art. 1 della legge stessa: «Il minore ha diritto di
essere educato nell'ambiente della propria famiglia».
Si impongono a questo punto una serie di considerazioni.
Privilegiando - come luogo ottimale per la crescita e
l'educazione del minore - la famiglia di origine di quest'ultimo,
il legislatore della legge 184 ha dimostrato di ricordare che il nostro è uno
Stato pluralista e personalista, consapevole cioè che la realizzazione dei
suoi propri fini è subordinata alla realizzazione dei fini della persona umana
e delle forze associative che lo precedono, prima fra tutte la famiglia. È
appena il caso di ricordare che a norma dell'art. 2 della Costituzione la
Repubblica riconosce la famiglia come formazione sociale nella quale l'uomo
svolge la sua personalità. Ed indubbiamente la
famiglia ha una posizione prioritaria rispetto a tutte le altre formazioni
sociali e rispetto allo stesso Stato, che - come dicevamo - le riconosce tale posizione quale società naturale fondata sul
matrimonio.
La famiglia è dotata di proprie leggi, di un proprio
ordinamento interno che lo Stata si impegna a rispettare e
tale posizione dello Stato nei rapporti con la famiglia mi pare concordi
con una visione del diritto, concepito non come una sovrastruttura della
realtà, come un involucro pesante che la condizioni, ma come autentica garanzia
dell'azione umana orientata verso un fine del quale l'ordinamento, la norma si
fa strumento.
Mi ha colpito la circostanza che nei vari convegni,
organizzati per commentare la nuova legge - cui ho partecipato - ho sentito
parlare solo d'interesse del minore - quasi mai di interesse
della famiglia, come se nella loro dinamica fisiologica i due interessi: quello
del minore e quello della famiglia biologica non fossero identici e
convergenti.
Ciò posto occorre chiarire quali pretese giuridiche
nascono dal diritto riconosciuto al minore e chi
siano gli interlocutori di questo diritto.
Indubbiamente a fronte del diritto del minore di essere educato in seno alla propria famiglia sorge
l'obbligo del genitore di tenere il figlio con sé e di provvedere di persona
all'educazione del figlio stesso.
Mentre sino ad oggi il genitore aveva il potere, desumibile dall'art. 318 c.c.,
di assegnare una determinata dimora ai propri figli (ed è noto che tale potere
incontrava già un limite nella valutazione della condotta dei genitori da
parte dell'autorità giudiziaria): dalla norma in esame si evince che aggi i
genitori non hanno più un patere decisionale di collocamento esterno del
figlio, sia pure a scopo educativo o di istruzione. Difatti l'art. 9 della
legge sancisce l'obbligo del genitore il quale affidi - per un periodo
superiore ai sei mesi - il figlio a persone che non siano parenti entro il
quarto grado di segnalare l'affido al G.T. La
sanzione prevista è la possibile decadenza dalla potestà parentale
o l'apertura del procedimento di adottabilità.
Uguale obbligo incombe a chi ospiti un minore da oltre
sei mesi.
Va da sé che il menzionato obbligo del
genitore costituisce anche un diritto dello stesso, poiché quest'ultimo conserva il potere di richiamare pressa di sé
il figlio, dovendosi leggere entro questi limiti l'art. 318 c.c.
Viene da chiedersi a questo punto: è solo il genitore l'interlocutore del minore nella sua aspettativa a
veder realizzato il diritto all'educazione?
L'art. 2 della Costituzione - che abbiamo già
ricordato - stabilisce che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti
inviolabili dell'uomo nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità
ed ancora l'art. 3 della Costituzione stessa: «È compito della Repubblica
rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale,
che impediscono il pieno sviluppo della persona umana».
Sembra dunque delinearsi
dalla normativa costituzionale un altro referente del diritto del minore: la
stessa Comunità, che si esprime nel suo momento giuridico-organizzativo
nella amministrazione.
D'altro canto lo stesso genitore, per il quale
l'obbligo di educare il figlio costituisce anche un diritto ai sensi dell'art.
30 della Costituzione e 147 c.c.,
potrà invocare nei confronti della Comunità organizzata il dettato
costituzionale di cui all'art. 2 al fine di poter realizzare il citato diritto
nell'ambito della formazione sociale in cui è inserito e di cui all'art. 31,
richiedendo all'amministrazione «le provvidenze» che questa deve assicurare
per l'adempimento dei compiti relativi alla famiglia.
Il diritto del minore ad essere educato nell'ambito
della propria famiglia di origine non potrà essere
realizzato se questa non è in grado di assicurargli adeguate cure materiali e
morali, apprestate nell'ambito di un valido rapporto affettivo.
Il genitore, quindi, deve essere messo in grado,
attraverso la predisposizione di adeguati mezzi e
servizi, di assolvere ai propri obblighi per il soddisfacimento del diritto del
figlio. Incomberà dunque all'Amministrazione di colmare i vuoti, le carenze, che si oppongono all'attualizzazione
del diritto del minore.
Il 2° comma dell'art. 1 della legge 184 ha enunciato
che le norme utili per la realizzazione del diritto del minore sono da
ricercarsi nella legge stessa, in particolare nelle disposizioni di cui
all'art. 2 nonché nelle disposizioni dettate dalle
leggi speciali. Qui si rinvia evidentemente alla legge statale di riassetto dei
servizi socioassistenziali, di cui si sente sempre
maggiormente l'urgenza, ed alle varie leggi regionali già approvate al
riguardo.
Tuttavia indipendentemente da una specifica
previsione e codificazione dei servizi o delle provvidenze che il minore o il
genitore - quanto meno in rappresentanza del minore - possono
esigere, viene da chiedersi se il diritto del minore di cui all'art. 1 legge
184, una volta recepito ed affermato dalla legge ordinaria, possa essere già
inteso come un diritto ad agire nei confronti dell'Amministrazione perché siano
rimossi gli ostacoli di ordine economico e sociale, che gli impediscono di
rimanere nella propria famiglia.
Mai come in questo caso viene da ricordare Jhering: il diritto è azione, non è vero diritto
ciò che non si realizza.
In definitiva il mancato soddisfacimento del diritto
del minore può trovare origine in una vasta e complessa gamma di situazioni,
che vanno dalla incapacità educativa ed affettiva
totale dei genitori - che giustifica la sostituzione della famiglia biologica
con la famiglia adottiva - ad una incapacità educativa per così dire parziale
e temporanea. Per far fronte a tale situazione è stato previsto e disciplinato
dalla nuova legge l'istituto dell'affido familiare, al fine di consentire il recupero della famiglia di origine del minore,
trapiantandolo - per uno spazio di tempo ben definito - in un altro ambiente
familiare idoneo.
A monte ancora di tale situazione ve ne possono essere
altre, riconducibili alla situazione di difficoltà temporanea di cui all'art. 4
della legge.
Quando tali situazioni possono essere fronteggiate
mediante determinate provvidenze o particolari servizi, già allestiti, non vi è dubbio che il minore vi ha un vero e proprio diritto, il
genitore se ne può anzi se ne deve fare interprete e l'Amministrazione deve
provvedere, salva una certa qual discrezionalità circa i modi più appropriati
di intervento. In definitiva il diritto del minore si risolve in questi casi
nel dovere dell'Amministrazione di corrispondere alle attese del
minore giusta una discrezionalità tecnica, che viene affidata alla
professionalità degli operatori sociali.
Il minore potrà esigere ad esempio di non essere
allontanato dalla propria famiglia solo perché uno dei genitori è ammalato e
l'altro deve recarsi a lavorare - dovendo l'Amministrazione provvedere ad una adeguata assistenza domiciliare ed infermieristica.
L'AFFIDAMENTO FAMILIARE - RUOLO DELL'ENTE LOCALE - IL
SENSO DELL'INTERVENTO DEL GIUDICE TUTELARE
Rimane possibile, anche in forza delle nuove norme,
un affidamento da parte dei genitori a terzi estranei, anche per un tempo
considerevole: superiore cioè ai sei mesi, come si
ricava dall'art. 9 della legge.
Presupposto legittimante di tale affido, nell'ambito
dell'autonomia riconosciuta alla famiglia, deve
ravvisarsi nella impossibilità temporanea dei genitori a portare a termine
personalmente e con le sole proprie risorse il compito di allevare ed educare
il figlio. Diversamente tale affido, che potremo definire «di fatto» contrapponendolo
a quello disposto dall'ente locale, maschererebbe una
dimissione dei genitori dal proprio ruolo e quindi lo stato di abbandono del
minore ovvero addirittura il triste commercio del figlio.
Indispensabile e penetrante perciò dovrà essere il
controllo del G.T. su ogni segnalazione di affido
pervenutagli. Nel silenzio della legge deve dunque ritenersi che il G.T., al fine di garantire la
realizzazione del diritto del minore sancito dall'art. 1 della legge, dovrà
svolgere un'approfondita richiesta sulle motivazioni poste a base dell'affido,
onde consentire al T.M. cui trasmetterà una
dettaglia relazione un efficace controllo sulla temporaneità dell'affido
stesso.
Ed arriviamo finalmente all'istituto dell'affido di cui
agli artt. 2 e segg. legge 184/83. Trascurando
l'affido conflittuale che si instaura con
provvedimento del Tribunale per i minorenni, mi limiterò a parlare di quello
consensuale, disposto dall'ente locale con il consenso dei genitori.
Tale tipo di affido che, in
vista delle sue finalità, è stato già definito «assistenziale», trae origine
dal ruolo primario della famiglia riconosciuto dal legislatore e dal
conseguente diritto del minore. Proprio perché riconosce che il destino
dell'uomo - la sua avventura risulta imprescindibile
dal destino della famiglia - il nostro legislatore interviene in aiuto alla
famiglia che manifesti difficoltà nel perseguimento dei propri fini
preoccupandosi di instaurare rapporti il più possibile imitativi di quelli
familiari: di qui la preferenza accordata nell'art. 2 della legge a famiglie
con figli minori, quindi a persone singole e solo in terzo luogo alle comunità
di tipo familiare.
Importantissimo appare dunque il ruolo dell'ente
locale cui competerà individuare il bisogno del minore - qualora questo
bisogno non venga rappresentato dallo stesso genitore
-, individuare e selezionare gli affidatari,
vigilare sull'affido con attenti e tempestivi interventi di mediazione tra le
due famiglie ed infine sopportare il costo del servizio.
Non concordo, pertanto, con chi ha visto nella disciplina
dell'affido un'eccessiva forma di intervento dello
Stato sulla famiglia, né con chi ritiene che l'intervento del G.T. - che
avrebbe la funzione di mitigare in qualche modo il carattere «eccessivamente
pubblicistico» dell'affido - avrebbe complicato la vita dell'ente locale.
Ribadito che nel caso in esame l'ente locale assolve alla sua
funzione di erogare servizi e prestazioni economiche per soddisfare un bisogno
del cittadino, è evidente che non si può assolutamente parlare di
prevaricazione della famiglia che, legata com'è strettamente all'interesse
del minore, deve essere considerata anch'essa destinataria del servizio.
Indispensabile però si profila l'intervento dell'autorità
giudiziaria e la motivazione del suo intervento è la stessa di quella individuata per il cosiddetto affido di fatto.
L'autorità deputata a garantire i diritti del minore è e non può essere altra
che l'autorità giudiziaria. Un atto amministrativo che disponesse
del minore, collocandolo fuori dalla famiglia - sia pure con il consenso
dei genitori -, che facesse sorgere - come accade nell'istituto in esame -
poteri sul minore in capo a persone estranee al minore stesso senza
l'intervento dell'autorità giudiziaria sarebbe in contrasto con i principi
dettati dall'ordinamento giuridico.
L'atto amministrativo di disposizione del minore - mi si passi la parola - non può infatti trovare la
sua legittimazione soltanto nel consenso dei genitori, poiché questi ultimi
non hanno più un potere decisionale di collocarlo presso terzi - come si è già
chiarito.
Inoltre dalle norme dettate per disciplinare l'affido
si ricava che gli affidatari divengono titolari di
poteri inerenti alla istruzione ed alla educazione
del minore. E se è vero che essi nello svolgimento di tali
compiti devono tener conto delle indicazioni dei genitori - per i quali non vi
sia stata pronuncia ai sensi degli artt. 330 e
333 c.c. - è pur vero che in caso di contrasto su questioni di particolare
importanza sono legittimati a ricorrere al giudice ex art. 316 c.c. Onde è
chiaro che il rapporto che si instaura tra il minore e
gli affidatari ha una sua rilevanza giuridica e
conseguentemente il provvedimento di affido viene ad incidere su diritti
personali e sui rapporti familiari dei soggetti interessati.
IL
PROVVEDIMENTO DI AFFIDO E LA NATURA DELL'INTERVENTO DEL GIUDICE TUTELARE
È indispensabile a questo punto esaminare quale sia la natura dell'atto amministrativo che costituisce
l'affido e quale la natura dell'intervento del giudice tutelare.
Quanto alla natura dell'atto di affido
di competenza dell'Amministrazione - se se ne esamina superficialmente il
contenuto - verrebbe da pensare che si tratti di una convenzione tra l'ente
locale e l'affidamento ai fini della gestione del servizio, né più né meno di
quanto avviene ad esempio tra l'USL ed i soggetti che gestiscono una casa di
cura privata. Tuttavia va rilevata che il legislatore ha fatto esplicito riferimento
ad un «provvedimento» dell'Amministrazione ed ha usato poi il termine «dispone»
che fa appunto pensare all'attributo dell'autoritarietà,
tipico dei provvedimenti amministrativi; se si riflette poi che, in forza del
provvedimento amministrativo, l'affidatario è tenuto
a provvedere al mantenimento, educazione ed istruzione del minore e quindi
anche ad esercitare i poteri inerenti a detti obblighi, che matura l'aspettativa
ai benefici ed alle previdenze di cui all'art. 80 della legge, se ne ricava che
sul provvedimento amministrativo potrebbe essere individuata una concessione
costitutiva, rilasciata al termine del procedimento amministrativo in cui si
inserisce la prestazione del consenso da parte dei genitori del minore.
Orbene, messo da parte un sottile dubbio (che pure si insinua) circa la legittimità costituzionale della norma
giuridica che prevede un atto amministrativo che venga ad incidere sui diritti
personali dei soggetti interessati - da tutto il discorso fatto prima
consegue che il decreto - con il quale il giudice tutelare rende esecutivo,
conferisce efficacia all'atto amministrativo di affido - presuppone per forza
di cose un sindacato penetrante su tutto l'iter amministrativo e sul provvedimento
che lo conclude.
Esaminiamo i dati letterali. Si parla nell'art. 4
della legge di un decreto che rende esecutivo il provvedimento, il che farebbe
pensare ad un controllo di legittimità formale. Tuttavia
è anche detto che il G.T. deve essere costantemente informato dal servizio
locale circa l'andamento dell'affido. Inoltre, come si legge nel 5° comma
dell'art. 4 citato, il G.T. ha un potere sostitutivo, sussidiario rispetto
all'Amministrazione nel valutare l'interesse del
minore circa la convenienza della prosecuzione dell'affido, qualora questo gli
rechi pregiudizi ovvero qualora sia venuta meno la situazione di difficoltà
della famiglia. In base a tale valutazione il G.T. può
richiedere al T.M. - se lo ritiene necessario -
l'adozione di ulteriori provvedimenti nell'interesse del minore.
Onde questo potere di vigilanza del G.T., che si esprime nel momento
conclusivo dell'affido oppure in qualsiasi momento dell'affidamento stesso
nella possibilità di individuare una situazione di pregiudizio del minore,
induce a ritenere che una valutazione del G.T. circa l'interesse del minore al
provvedimento non può essere esclusa proprio nel momento costitutivo dell'affido.
D'altro canto, come si è già detto, è l'autorità
giudiziaria - in questo caso il G.T. - a dover garantire il diritto del minore
ad essere educato nell'ambito della propria famiglia. Onde il G.T. non potrà
trascurare di verificare, prima di rendere esecutivo il provvedimento, la legittimità
del consenso dei genitori: verificare cioè che il
consenso dei genitori tragga origine da una reale situazione di difficoltà (e
non dalla volontà di dimettersi dal proprio ruolo o a cedere il proprio figlio
ad altri), il che significa anche verificare la temporaneità della difficoltà
che giustifica l'affido, ed infine che gli affidatari
siano idonei ad assicurare il reinserimento del minore nella propria famiglia.
Non si può però parlare a tale proposito di un
sindacato di merito del G.T. sul provvedimento amministrativo, poiché, com'è
noto, i controlli amministrativi di merito sono tipici e non vi è nulla nel
dettato letterale della norma in esame che faccia pensare ad un controllo di
merito da parte di una autorità diversa da quella
amministrativa.
In ogni modo appare evidente che il controllo
esercitato dal G.T. dovrà investire non solo la conformità del provvedimento
amministrativo alle norme giuridiche: verificare cioè
che tutto il procedimento sia stato esaurito in conformità a quanto disposto
dal legislatore (che i genitori abbiano prestato il consenso - che gli affidatari abbiano accettato di accogliere il minore prendendo
atto degli obblighi e dei poteri scaturenti dall'affido - che sia stato indicato
il periodo di presumibile durata - che sia stato sentito il minore che abbia
compiuto gli anni dodici), ma dicevamo, il G.T. dovrà controllare che il
provvedimento amministrativo raggiunga il suo fine istituzionale, escludendo
un eventuale eccesso di potere da parte dell'ente locale. Nell'adempimento
della propria funzione garantista il G.T. potrà
chiedere chiarimenti ed indicare le modifiche da apportare al provvedimento in
vista della legittimità del provvedimento stesso.
Diversamente, se si dovesse ritenere che il sindacato
del G.T. debba investire la mera regolarità formale del procedimento e
dell'atto amministrativo, dovrebbe concludersi che le
norme che disciplinano l'affido sono incostituzionali, conferendo all'autorità amministrativa
una funzione garantista che è propria dell'autorità
giudiziaria.
LA
NUOVA LEGGE E LA ISTITUZIONALIZZAZIONE
Mi sembra importante ora esaminare se ed in quale
misura le nuove norme si siano poste l'obiettivo
della deistituzionalizzazione dei minori.
Si è detto invero che la nuova disciplina normativa
sia finalizzata esclusivamente al conseguimento di detto obiettivo - io ribadisco che la legge ha detto qualcosa in più - e se è possibile
usare uno slogan in un consesso così serio, dirò con il legislatore: non solo
bando all'Istituto ma viva la famiglia, il che, al di là della battuta,
significa l'obiettivo che la famiglia viva, abbia la possibilità di esprimere
la sua intima essenza che è la coesione - l'unità - che vuol dire ancora operare
nel senso della prevenzione - considerare fondamentale l'azione preventiva per
non creare minori da istituzionalizzare.
Secondo obiettivo della legge. Il legislatore parte
dal riconoscimento che il miglior servizio che si possa
prestare in favore di un minore «temporaneamente privo di un ambiente familiare
idoneo» è collocarlo in un'altra famiglia. Difatti solo nell'ambito della
famiglia potrà allacciare quei rapporti personali - rinvenire quei modelli
imitativi indispensabili per la sua crescita trovando sicurezza nell'auctoritas delle figure parentali - di coloro
che esercitano cioè questo servizio dell'autorità, destinato (come
suggerisce l'etimologia della parola) ad augére - far
crescere il minore.
Il ricovero
in istituto è soltanto consentito:
sono parole del legislatore: mi riferisco al 2° comma dell'art. 2 della legge
184 - consentito, dicevamo, quando le altre soluzioni, indicate nella stessa
disposizione di legge, non siano possibili; il che vuol dire
che dette soluzioni non possono essere scartate a priori - ma devono essere
quanto meno cercate, tentate.
Questo perché, una volta effettuata dal legislatore
la scelta prioritaria dei servizi da erogare al minore, la discrezionalità
dell'amministrazione - per il noto principio di legalità
- trova un limite in questa scelta.
L'organizzazione del servizio di affido
è divenuta obbligatoria per l'amministrazione. A molti di voi sembrerà
superflua questa mia affermazione: tuttavia devo ripetere che molti amministratori
stanno ancora disceptando sulla convenienza di un
servizio rispetto alla cui organizzazione non hanno più alcuna possibilità di
scelta: beninteso non mi riferisco al modo in cui organizzarlo ma alla
possibilità di realizzarlo o meno.
Dirò di più anche la famiglia, i genitori sono tenuti in certo qual modo a rispettare la scelta
effettuata dal legislatore per il soddisfacimento del bisogno del minore.
Come il servizio locale non potrà
soddisfare il bisogno del minore ricoverandolo sic et
simpliciter in istituto, così il genitore in
difficoltà non potrà immotivatamente e
reiteratamente preferire l'istituto. Una volta offerta completamente al
genitore la possibilità di risolvere le sue difficoltà (sottolineo
però che il genitore deve avere una concreta e reale possibilità di scelta) mediante
una collocazione del minore che non sia l'istituto - il suo rifiuto reiterato
ed immotivato - potrà essere valutato dall'autorità giudiziaria come
comportamento pregiudizievole per il minore, ed in tal caso l'affido verrà
costituito con provvedimento del T.M.
L'affido all'istituto è comunque
un collocamento extra familiare, e come tale, dunque, deve essere segnalato
al G.T. Ciò ha luogo mediante la trasmissione semestrale degli elenchi dei
minori ricoverati da parte degli istituti di assistenza pubblici o privati -
come stabilisce l'art. 9 della legge.
A questo proposito va rilevato che l'art. 9 fa
riferimento ai soli minori ricoverati in istituto; è evidente perciò che deve
essere segnalato al G.T. soltanto l'affido all'istituto con carattere residenziale.
Nell'art. 70 che prevede la
sanzione per la omissione della trasmissione degli elenchi, torna invece la
distinzione, di cui all'art. 314/5 c.c. oggi abrogato, tra minori ricoverati ed
assistiti. Il termine «assistito» stava ad indicare, come si ricava dall'art.
401 in relazione all'art. 404 c.c. - disposizioni
anche queste entrambe abrogate - quei minori assistiti, mi si perdoni il bisticcio
inevitabile, dall'istituto di pubblica assistenza per il mantenimento
educazione ed istruzione mediante affido a persona di fiducia. Attualmente dopo l'abrogazione dell'art. 404 c.c. per
minori assistiti devono intendersi quelli affidati ad un ente diverso, da
quello che ne cura l'assistenza, forse anche quelli in affidamento familiare. Anche
se mi sembra in realtà superflua la trasmissione degli elenchi semestrali, relativi
ai minori in affido familiare, in ordine ai quali il
servizio loca-le deve comunicare al G.T. costanti informazioni ai sensi
dell'art. 4 della legge.
Il genitore, dal canto suo, è tenuto a segnalare
l'affido, quando colloca il figlio in un istituto o collegio, che dir si voglia, sopportandone il costo, pagandone la retta.
Obbligo principale dell'affidatario
è quello di favorire il reinserimento del minore nella sua famiglia di origine. Tale obbligo incombe ai sensi dell'art. 5 ultimo
comma anche agli Istituti di Assistenza ed è inteso
evidentemente alla realizzazione del diritto del minore sancito dall'art. 1
della legge.
Ne consegue che anche quando il bisogno del minore viene soddisfatto attraverso tale tipo di servizio, l'ente
pubblico che provvede al ricovero, deve stabilire - d'intesa con i genitori -
il periodo di presumibile durata del ricovero, sia quando gestisce direttamente
il servizio sia quando il servizio viene gestito mediante convenzionamento.
Va ricordato a questo punto che la Regione ha
ereditato dall'ONMI - in forza della legge 698/75 - le
funzioni (previste dall'art. 4 punto 4 del R.D. 24.12.34 n. 2386) di vigilanza
sull'applicazione delle disposizioni legislative e regolamentari in vigore per
la protezione della maternità e dell'infanzia. Onde è
auspicabile che, nell'assolvere a tale compito in riferimento alle norme che
stiamo commentando, la Regione provveda ad un censimento di tutti i minori istituzionalizzati,
onde - previo coordinamento con gli enti che assistono detti minori, verificare
la possibilità, delle soluzioni alternative, previste dalla legge 184.
Quanto poi ai minori, ricoverati in istituti di assistenza privati con retta a carico di benefattori, è
da ritenersi che la Regione, cui sono stati trasferiti in forza della citata
legge anche i poteri di vigilanza e controllo sulle Istituzioni di assistenza e
protezione dell'infanzia, sia tenuta a segnalare detti minori al Servizio locale.
Quest'ultimo verrà in tal modo a conoscenza delle
situazioni familiari e dei bisogni dei minori, che hanno provocato la istituzionalizzazione, mettendo conseguentemente a
disposizione dei minori stessi i servizi alternativi.
Alla luce delle nuove norme il ricovero in Istituto
deve, dunque, ritenersi illegittimo quando non siano stati esperiti, tentati
gli altri interventi assistenziali, previsti dalla
legge secondo un ben preciso ordine prioritario o quando non ne sia stabilita
la presumibile durata.
LE
ISPEZIONI DEL GIUDICE TUTELARE
In ordine all'attività che il G.T. svolge in relazione agli
Istituti di Assistenza pubblici e privati ritengo che la legge 184 sia venuta
a colmare un vuoto normativo preoccupante.
Tanto più preoccupante nella nostra realtà
meridionale, in cui la mancanza pressoché totale di un'azione preventiva
collegata ad un progetto di deistituzionalizzazione
ha fatto sì che - sino ad oggi - i minori in istituto siano ancora tanti,
troppi.
La maggiore parte di essi
appartengono ovviamente a famiglie indigenti e culturalmente deprivate, per
cui si è sempre sentita l'esigenza di una forma di vigilanza, che investisse
soprattutto gli obiettivi dell'educazione, riabilitazione culturale ed
inserimento nel mondo del lavoro.
Tale obiettivo rientra senza alcun
dubbio tra i campiti della Regione, cui sono stati trasferiti - come
abbiamo già detto - i poteri di vigilanza e controllo sugli Istituti, che erano
dell'ONMI.
Quanto alla Regione Campania va detto però che dal
1975 - epoca cui risale lo scioglimento dell'ONMI e l'attribuzione delle citate
competenze alla Regione - si deve attendere il 1983 perché la Regione Campania
si decida ad istituire un'apposita commissione di
vigilanza e controllo.
Va premesso a questo punto che il G.T. ai sensi
dell'art. 344 c.c. sovrintende alle tutele e quindi ha nella sostanza il potere
di indirizzo, scelta e controllo istituzionale sulla
gestione dei poteri tutelari nei suoi vari aspetti. Orbene già sotto l'impero
della vecchia normativa, l'istituto esercitava ai sensi dell'art. 402 c.c. i
poteri tutelari sul minore ricoverato o assistito - nel caso si dovesse aprire
la tutela fino a quando non si provvedesse alla nomina
di un tutore - ed inoltre in tutti i casi nei quali l'esercizio della patria
potestà fosse impedito. Ne consegue che già prima dell'entrata in vigore della
legge 184, il G.T. avrebbe potuto entrare nell'istituto
per esercitare la forma di vigilanza, cui si è accennato, quanto meno in
relazione ad una parte dei minori ricoverati, cioè quelli soggetti ai poteri
tutelari dell'Istituto. Tuttavia, poiché la legge non prevedeva un potere
ispettivo del G.T., la
vigilanza, esercitata da quest'ultimo, si è spesso
limitata ad un controllo delle carte: cioè degli elenchi trasmessi semestralmente
dagli Istituti con qualche raro riscontro operato mediante «visite».
La legge 184/83 ha innovato introducendo il
potere-dovere del G.T. di procedere ad ispezioni periodiche e straordinarie
degli Istituti.
L'ispezione appare solo ad
una prima lettura finalizzata all'unico obiettiva del reperimento di minori in
stato di abbandono.
Occorre infatti rilevare che
l'istituto esercita tuttora, ai sensi dell'art. 3 della legge 184, i poteri
tutelari nei casi già previsti dall'art. 402 c.c. oggi abrogato. Comunque - e questo è il dato più significativo - in virtù
delle nuove, norme l'istituto è in ogni caso affidataria
del minore con gli stessi obblighi e poteri derivanti dall'affido familiare,
come si ricava dagli artt. 3 e 5 della legge. Se si
considera poi che anche all'Istituto incombe l'obbligo, come si è già
accennato, di adoperarsi per il reinserimento del minore nella famiglia di origine e che il G.T. è l'autorità che garantisce il
diritto del minore di cui all'art. 1, ne consegue che l'ingresso del G.T.
nell'Istituto è finalizzata anche alla vigilanza sull'adempimento di tali
obblighi da parte dell'Istituto stesso.
Si impone quindi tra l'altro la verifica degli obiettivi
psico-pedagogici che l'Istituto deve porsi per la
crescita e lo sviluppo del minore.
Aggiungo, per esemplificare, che proprio in forza
dell'interpretazione sopra descritta del proprio potere di vigilanza,
l'ufficio del G.T. - invocando le norme già citate - ha censurato ed ottenuto
la modifica dei criteri di gestione di un brefotrofio
napoletano. Detto istituto di fatti era gestito con criteri ed obiettivi
pressoché esclusivamente sanitari con evidenti conseguenze sullo
sviluppo fisio-psichico dei piccoli ricoverati.
Quanto alla individuazione
di situazioni di abbandono, la cadenza di trasmissione degli elenchi è
divenuta da trimestrale a semestrale. Forse proprio perché tale trasmissione è
l'equipollente della segnalazione dell'affido di fatto, il cui obbligo scatta, per l'appunto, decorsi sei mesi dall'affido.
L'elenco deve contenere inoltre una serie di informazioni
circa le condizioni psicofisiche del minore ed i suoi rapporti con la famiglia,
che non erano previste dall'art. 314/5 c.c. Tali informazioni devono essere
accuratamente vagliate e controllate dal G.T., nel
corso delle ispezioni, stimolando i responsabili degli Istituti ad approfondire
le reali capacità educative e la validità dei rapporti genitori-figli al di là
del fatto formale della visita o del dono.
Si richiede perciò un grosso impegno dei servizi
sociali e dello stesso G.T. al fine di rendere consapevoli i responsabili degli
Istituti che essi costituiscono una indispensabile
cinghia di trasmissione dei bisogni del minore agli organi competenti. Se
manca l'informazione o se questa è alterata, per superficialità o per un
malinteso nei confronti delle famiglie, le situazioni si
incancreniscono ed il giudice interviene troppo tardi, quando cioè recidere i
legami familiari risulta problematico e rischioso per il minore.
CONSIDERAZIONI
OPERATIVE - LA SITUAZIONE IN CAMPANIA
Viene naturale dopo aver analizzato nelle varie componenti l'affido familiare - questo «nuovo strumento» che
gli operatori sociali e gli operatori del diritto si trovano a dover adoperare
- viene naturale - dicevo - chiedersi se funzionerà.
Ho già ricordato che l'ordinamento giuridico non è
una sovrastruttura della realtà, bensì una garanzia dell'azione umana secondo
le sue esigenze di sviluppo; che il diritto non è autenticamente
tale se non si rispetta la natura e la finalità dell'azione dell'uomo.
Ciò premesso, bisogna riconoscere che l'affido
familiare ha per così dire, tutte le carte in regola.
È infatti un mezzo di supporto, sostegno alla famiglia
che ha una sua matrice naturale, una sua ragion d'essere a monte dello Stato.
Istituendolo inoltre il legislatore si è dimostrato attento ai fermenti
culturali e sociali. Si è reso conto della necessità di mettere in moto un
processo di rivalutazione della famiglia da opporre al dilagante processo di
frammentazione della società. Si è reso altresì conto di potersi appoggiare in
tale compito, di poter ottenere la collaborazione di un nuovo modello di
famiglia: «famiglia-comunità di affetti» in armonia
con il modello di famiglia che si legge nella riforma del '75. Tale famiglia
diventa sempre più consapevole del proprio compito di promozione sociale.
Compito che si realizza, oltre che con l'educazione dei figli allo spirito di
servizio, con l'attenzione ai bisogni degli altri e l'accoglienza verso le altre famiglie.
Tuttavia la norma giuridica, nel momento della sua
attuazione, deve confrontarsi, «fare i conti» per
così dire con la realtà sociale e culturale in cui è destinata a calarsi.
Mi sia dunque consentito un breve esame della realtà
in cui mi trovo ad operare onde valutare le
possibilità concrete di «riuscita» - tra virgolette - dell'affido.
Ci troviamo in Campania - in particolare nell'area
napoletana (parlo di quest'ultima con maggior
cognizione di causa perché vi opero) in una zona di forte depressione
economica. Non ho svelato alcun mistero. A tale depressione economica si accompagna però un crescente degrado morale, una
banalizzazione dei valori, che ha finito di scardinare la pur debole forza di
coesione della famiglia fortemente indigente.
Non ultima causa - nel fallimento della scuola che,
quando non respinge, si limita ad essere un parcheggio per i minori di
determinate condizioni socio-culturali - non ultima causa dicevo il
consumismo, capillarmente diffuso dai mass-media, che va a braccetto con un
certo tipo di assistenza, anzi di assistenzialismo
deresponsabilizzante, il cui slogan (lo rubo al collega Ciampa
che lo ha coniato qualche giorno fa) potrebbe essere «consumate tutto, tanto
ci pensiamo noi».
Il ragazzo della 167 di Secondigliano
non si presenta quasi mai lacero e sporco, anzi indossa il giubbotto all'ultima
moda. Molti dei minori che ho in tutela vivono di modestissime pensioni di
reversibilità, il loro futuro è estremamente incerto, tuttavia trovano
naturale e legittimo l'acquisto di costosissimi stereo. Il ritmo di vita di
molte famiglie, che si arrangiano a campare alla giornata, è scandito (a volte
fino a tarda notte) dai programmi della TV, vero diffusore di droga per nuclei
familiari.
Più crescono i bisogni del superfluo, laddove non sono soddisfatti
i bisogni essenziali: casa, salute, lavoro.
Attraverso un processo di reificazione dei rapporti si indeboliscono i legami familiari e personali. Si
moltiplicano i nuclei familiari, nel senso che uno dei genitori - a volte
entrambi - si legano successivamente a più partners, procreando. I figli nati da tali unioni, nel
migliore dei casi, vanno in istituto, altrimenti vivono sulla strada ai margini
della nuova famiglia che i genitori si sono fatti.
Se questo è il contesto in
cui dobbiamo operare, è chiaro che l'affido è soltanto uno dei tantissimi
mezzi da adoperare e non sempre il più indicato, data la natura delle
«difficoltà» (tra virgolette) familiari che abbiamo descritte.
Occorre piuttosto una programmazione, che parta da precise scelte di politica sociale e non si lasci
fuorviare da esigenze clientelari o demagogiche ed una maggiore incisività
dell'autorità giudiziaria.
L'operatore sociale - che sia utilizzato nel modo più
corretto e produttivo possibile - non può limitarsi ad accogliere le richieste di assistenza dell'utente. Occorre invece partire da una analisi approfondita dei bisogni e delle risorse di ogni
quartiere e promuovere negli utenti un processo di maturazione, di scelta, cui
far corrispondere l'erogazione dei servizi.
Tutto questo, però, richiede un atteggiamento di
recettività dell'ente pubblico che - partendo dalle esigenze segnalate dagli operatori sociali - programmi e concretizzi i
servizi, consapevole della doverosità dei propri
interventi.
Ciò che nella realtà napoletana quasi mai si verifica.
Il pericolo che già vedo concretamente delinearsi è
che le norme, che abbiamo ora commentate, servano da
alibi agli amministratori.
Al Giudice tutelare di Napoli non è stata richiesta
sinora l'emissione di alcun decreto di esecutività di
affido familiare. Il Comune di Napoli va limitando
le ammissioni nell'istituto residenziale appellandosi alla nuova legge, che impone
il ricorso prioritario alle altre soluzioni previste dalla legge stessa. Nello stesso
tempo alcuni semiconvitti, validi centri di aggregazione
in quartieri come Miano - alludo all'Istituto Don Guanella -, mandano vari S.O.S.:
sono costretti a chiudere perché il Comune non paga.
Non vorremmo si ripetesse qui la
storia della legge 180: si svuotano i manicomi senza apprestare le strutture
alternative, le famiglie sono lasciate sole a fronteggiare il loro dramma;
risultato: pare che i manicomi stiano per riaprire.
Anche la Provincia di Napoli è rimasta muta sull'affido.
Anzi in materia di assistenza agli illegittimi,
riconosciuti dalla sola madre, è ancora in vigore un regolamento, risalente al
1954. In esso è prevista in forma alternativa l'erogazione
di un sussidio alla madre nubile o il ricovero del figlio in istituto. Il
sussidio erogato alla madre nubile è di lire 2000 mensili. Qualche mese fa
sembra sia stata fatta una proposta di delibera perché le duemila lire
divengano da mensili, giornaliere. Viene comunque da interrogarsi circa la legittimità di un simile
regolamento che, in contrasto con la nuova legge, anteporrebbe in ogni modo
alla famiglia il ricovero in Istituto: infatti la retta corrisposta per ciascun
minore ricoverato ammonta a circa lire 150.000 mensili a fronte delle
sessantamila lire che verrebbero erogate alla madre.
Anche la regione, cui competono
i compiti e le funzioni - già citate - in forza della legge di scioglimento
dell'ONMI, dovrebbe uscire dal suo silenzio e chiedersi: cosa è stato fatto e
cosa si va facendo per l'applicazione della legge 184? Ma
soprattutto dovrebbe provvedere alla legge di riassetto dei servizi sociali
onde rendere attuabile il diritto del minore di cui all'art. 1.
Occorre dunque un'analisi dei bisogni, una
programmazione; occorre un coordinamento tra gli enti ai fini della deistituzionalizzazione in vista della quale, peraltro, non
risulta formulato alcun progetto.
E la cosa più singolare è che gli istituti vengono
ancora accusati con anacronistiche e fantasiose teorie di trattenere i bambini
per lucrare le rette. Questa analisi non si attaglia quanto
meno alla realtà napoletana dove gli enti pubblici pagano male quando
pagano.
È vero invece che molto spesso quando un istituto, un
servizio viene gestito direttamente dall'ente
pubblico, il bisogno del minore passa in secondo piano, perché prevale
l'interesse occupazionale: non è rara infatti la circostanza che
un'istituzione venga mantenuta in piedi anche se non risponde più o risponde
male alle esigenze dell'utente, perché non si sa come sistemare il personale o
addirittura questo rifiuta una diversa collocazione.
Ho accennato prima, e concludo,
ad una maggior incisività dell'autorità giudiziaria. Si parla
molto di riforma della giustizia minorile, non intendo a questo punto
affrontare il problema.
A mio avviso, però, in
attesa della riforma, è quanto meno necessario che chi si occupa di minori, per
così dire a tempo definito come il G.T., entri
nell'ordine di idee che fare giustizia non è soltanto dirimere un conflitto,
decidendo sulle relative pretese giuridiche. Esiste una conflittualità meno
appariscente, ma senz'altro più drammatica, tra l'attesa di chi vanta un
diritto e non ha la capacità, la cultura, la forza di farlo valere e dall'altro
lato l'inerzia di chi tale diritto dovrebbe soddisfare.
Mi va bene per chiudere un passo di un notissimo
discorso di Calamandrei sulla Costituzione: La
Costituzione - qui potremmo dire in generale la legge - è un pezzo di carta,
se la lascio cadere non si muove. Perché si muova ogni
giorno bisogna metterci dentro il combustibile: cioè
il nostro impegno, la volontà di mantenere le promesse della legge, in
definitiva la nostra responsabilità.
(1) Relazione presentata da Maria Lidia De Luca Raimondi,
Giudice tutelare di Napoli, al Convegno sul tema «Per una cultura dell'infanzia
e dell'adolescenza» indetto dalla Provincia di Napoli e svoltosi a Napoli il
29, 30 e 31 marzo 1984.
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