Prospettive assistenziali, n. 69, gennaio - marzo 1985
PER
SILVANO PASQUINI (1)
Sul versante pedagogico e culturale tutto sembra,
non solo essere sotto controllo, ma addirittura
funzionare bene. Ce lo dimostrano puntualmente le
molte occasioni create da seminari, convegni ed esposizioni sempre più
frequenti e sempre più all'avanguardia. Nuovi modelli didattici, formativi e
riabilitativi vengono efficacemente impiegati un po'
dovunque, soprattutto per la spinta promozionale operata da alcuni centri,
derivati da una inderogabile e doverosa ristrutturazione dei vecchi istituti
per ciechi. Ma anche altrove, sensibilità, impegno e serietà hanno offerto
buoni motivi di soddisfazione collettiva e contribuito ad allargare il campo
delle esperienze, che ora debbono essere riunite, dopo
accurata e scientifica valutazione, affinché lo sforzo di ognuno possa essere
valido per tutti. La positività di questa evoluzione è
altresì confermata dal generale consenso dei genitori, salvo per quei casi in
cui non ci si creda abbastanza, o non si lavori con la dovuta serietà.
Il bambino non vedente, dunque, si
d:verte, socializza, impara e conduce, almeno in apparenza, una vita normale.
Ma al di là dell'handicap, delle tecniche e dei mezzi
speciali indispensabili per una funzionale operatività ad ogni livello, una
piaga morale appositamente procurata e sancita da un clamoroso svarione
costituzionale, rende il bambino non vedente «diverso» dai suoi coetanei: la
forzata appartenenza ad un ente (Unione italiana ciechi) che, solo, ha il
dovere e il diritto di tutelarne gli interessi materiali e morali (decreto
legislativo del Capo provvisorio dello Stato, 26 settembre 1947, n. 1047; G.U.
11 ottobre 1947, n. 234).
Il fatto, che è molto grave in quanto lesivo delle
libertà associative, assume dimensioni ancor più clamorose
per l'assurdità dei contenuti, delle metodologie e degli obiettivi che ancora
oggi caratterizzano il globale progetto di integrazione
del succitato ente. L'Unione italiana dei ciechi, sorta
intorno al 1920 con finalità sicuramente nobili considerati i bisogni e il
momento storico di allora, non ha conseguito nel tempo quella trasformazione
certamente pensata e auspicata dai suoi fondatori. Infatti,
le attuali proposte, ancorché accattivanti, continuano ad essere marginali e
in troppi casi, strumentalizzanti e lesive della dignità umana.
Ma come facciamo a sensibilizzare il bambino non
vedente all'impegno, a certi indispensabili sacrifici, a certe rinunce che
maturano le coscienze e al valore psicologico di una reale conquista se gli viene garantita una pensione dalla nascita alla morte, se
gli vengono garantiti (succede a Milano) persino i giocattoli dall'Amministrazione
provinciale, se gli si offrono, in virtù dell'handicap, gratuità d'ogni sorta:
dal cinema allo stadio, dal mezzo pubblico al ticket sui medicinali, e chi più
ne ha più ne metta? Come può non essere invidiato dai compagni e non essere
considerato un «diverso» per questi favoritismi? (E
quel che è peggio, a parte le pensioni che meriterebbero un discorso a sé,
lungo ed articolato, è che tutti questi ingiustificabili privilegi pietiti e ottenuti secondo la più squallida concezione
elemosiniera e con modalità che gridano scandalo e vergogna, vengono
considerati e imposti all'opinione pubblica come acquisizioni e diritti; affermazioni
senza dubbio discutibili che si possono comunque verificare consultando la
circolare n. 2, prot. n.
666-01 dell'U.I.C., sezione provinciale di Milano).
E quali riscontri integranti possono avere quelle ignobili forme di accattonaggio in nome dell'handicap e dei bisogni ad
esso relativi, effettuati con cartelli e sacchettini
che tappezzano con frenetica periodicità le portinerie di molte città
italiane, creando un'immagine della cecità ed una visione assolutamente distorta
del problema e calpestando la dignità di tutti i ciechi, compresi i non
iscritti all'associazione? Quale rapporto hanno mai
con il processo di integrazione tutti quei sottogruppi, quali: la Federazione
italiana ciechi sportivi, l'Associazione radioamatori ciechi d'Italia,
l'Associazione degli scacchisti ciechi, quella dei donatori di sangue ciechi, e
via di questo passo? E quali messaggi integranti sono contenuti nei carnevali
per bambini non vedenti, come quello organizzato quest'anno dalla sezione di Milano dell'U.I.C., in cui la musica più nuova era rappresentata dalla
canzone «Son tutte belle le mamme del mondo?».
In tempi così lanciati verso prospettive di generale
progresso, a onor del vero, questa volontà di «intruppamento» è preoccupante, poiché riceve l'avallo per
la buona fede dei genitori e per quella un po' meno buona di chi non la ostruisce
soltanto per motivazioni riconducibili a esigenze politiche.
Ma c'è di peggio. Oltre a non essere capace di
organizzarla correttamente, l'U.I.C. cerca di impedire
l'integrazione sociale! Lo ha già fatto con successo in zona
8 a Milano, lo sta tentando a Cologno Monzese e ovunque non sia coinvolta in prima persona,
stendendo coltri di preoccupazione e di paura, persino fra molti iscritti, che
palesano tranquillamente di starci per ragioni di comodo e per il timore di
essere ostacolati nella ricerca di un posto di lavoro!
Una forma di arroganza,
questa, che sbarra la via ad ogni buona intenzione vecchia e nuova; ad ogni
proposta di cambiamento che venga dall'esterno si risponde negando il confronto
e squalificando pubblicamente chi lo richiede (vedasi circolare citata e un
articolo di Roberto Kervin, apparso ultimamente sul
«Corriere dei Ciechi», intitolato «La corte dei miracoli»).
C'è l'abitudine di non fidarsi e di dividersi la
torta in famiglia, come si può constatare osservando la composizione del
Consiglio d'amministrazione della biblioteca per ciechi «Regina Margherita» di
Monza, dove per altro, una commissione limitata nel numero sceglie la cultura
letteraria e musicale, la più consona e la più adatta ai ciechi di tutta
Italia.
E i giornali per bambini? Se
proviamo a consultare gli ultimi venti numeri di «Gennariello»,
stampato dall'Associazione per gli alunni della scuola elementare, possiamo
trovarvi elementi di notevole interesse, quali: la storia dell'Unione italiana ciechi, lettere a personaggi defunti, la vita dei non vedenti
più famosi o più sventurati, o la storia di Luigino, bambino inserito nella
scuola comune che, per mancanza di assistenza, non poteva raggiungere il
gabinetto; una favola, quest'ultima, che per
l'occasione colloca il suo autore, Roberto Kervin,
nel ruolo di «Andersen per ciechi». E la fila delle
«chicche» si potrebbe ulteriormente allungare, ma avrebbe il solo scopo di incrementare il rammarico e il disgusto.
D'altra parte, sono il primo a rendermi conto che non
è facile, per una qualsiasi associazione di questo tipo, caricarsi di simili
oneri. Ma perché, allora, doversene occupare in prima
persona?
Il nostro Movimento ha da tempo affidato al
Parlamento una proposta di legge per la creazione di
un centro nazionale che, gestito in collegamento con l'editoria e coadiuvato da
tecnologia ed esperienza, si occupi della risoluzione di questo spinoso problema,
ma... Siamo in coda e civilmente aspettiamo!
A margine di questa sintetica carrellata di denunce
che capovolte diventano proposte, non è mia intenzione produrmi in un discorso moralistico
né, tantomeno, chiedere poteri per me o per altri
privati cittadini. Ho però il dovere e la necessità, anche perché stimolato
dalle volontà emergenti all'interno del Movimento che temporaneamente presiedo, di fare pulizia nella mente dell'opinione pubblica
e di ricondurre nel pensiero di tanti non vedenti onesti le reali, obiettive
difficoltà che ci derivano dall'handicap, ovvero, l'accesso a tutto il campo
dell'informazione visiva e la parziale difficoltà di deambulazione. Ebbene, a
tutto questo si può ovviare (se si può) solo attraverso una fitta rete di
servizi, di ausili tecnici ed umani, non attraverso la
monetizzazione della menomazione fisica, non
attraverso la questua e il pietismo che, se mai, ne amplificano negativamente
l'immagine, relegandoci ad uno stato di ulteriore emarginazione!
Perché continuare ad essere falsi
anche con noi stessi, obiettando che molti ciechi non lavorano e che molti
altri arrivano a lavorare con molta maggiore fatica rispetto a chi vede? Negli oltre sessant'anni di «operosa
esistenza», l'U.C.I. ha fatto ben poco per la ricerca di sbocchi
occupazionali, eccettuati quei pochi che ormai stanno assumendo le
caratteristiche di «lavori per ciechi...». E
nulla, d'altro canto, ha fatto per abrogare leggi che fanno del cieco un invalido
al cento per cento!
Al contrario, facendo leva proprio su questa assurdità, è stato ritenuto più comodo e più efficace
far piovere soldi e favoritismi nelle case e nella mente della gente che, sulla
scorta di questa «Manna», è corsa in massa ad ingrossare le fila, procurando
falsi invalidi a dismisura e facendo scattare analoghi meccanismi in altre associazioni.
Meccanismi che prelevano somme spropositate dalle casse dello Stato (e anche
degli enti locali) e, unitamente a macchie ben più serie di cui lo Stato
medesimo si rende responsabile, contribuiscono ad aumentare le tasse dei
cittadini, i quali, fra l'altro, subiscono «tagli» sempre più gravosi, anche e
soprattutto laddove, se mai, la spesa pubblica andrebbe
incrementata, come ad esempio, l'istruzione e la sanità.
La protezione dell'invalido, dell'inabile non è un
compito da affidarsi ad una associazione, ma allo
Stato, dal momento che lo prevede la Costituzione della Repubblica italiana,
la quale, all'art. 38, fra l'altro recita: «Ogni cittadino inabile al lavoro e
sprovvisto dei mezzi necessari per vivere, ha diritto al mantenimento e all'assistenza sociale».
Cari genitori, spero che questo «mondo da ritoccare»
non vi suoni di disperazione e di sconforto, ma che al contrario vi dia la
voglia e la forza di reagire, per promuovere quel riscatto sociale che
moltissimi ciechi italiani da tempo si attendono.
Cari operatori, cari
tecnici, la vostra opera, le vostre ricerche e il vostro impegno ci consentono
molto di più di una tenue speranza. Ma se l’avvenire dei ciechi vi preme in ogni senso, occorre che troviamo insieme anche i
modi per sganciarsi da questo inutile e pericoloso «carrozzone», che non è
certo il mezzo più adatto per portare voi e noi, sicuri e lontani.
E infine a voi, amministratori e politici: lo sappiamo tutti e bene che concedere, se non costa più
che tanto, è molto più facile che promuovere e operare; e siamo anche a
conoscenza di quanto impervia sia la via della politica. Ma sappiamo,
altresì, che siete i delegati della nostra volontà,
la quale ieri vi ha chiesto la legge sull'integrazione e che oggi vi chiede di
osservarla e di farla osservare. Vi chiede gli strumenti, le strutture, l'aggiornamento, la riflessione personale, la consultazione
pluralistica; insomma, la nostra volontà vi chiede competenza, che è sicuramente
un elemento prioritario per svolgere al meglio il compito di delegato.
Nessuno vi chiede la risoluzione o l'annientamento
di problemi fisici, ma quelli connessi all'essere
cittadini sono di esclusiva vostra pertinenza e pertanto avete l'obbligo, se
non altro, di vigilare che orologi e sveglie tattili non finiscano fra le
protesi, nonché di riordinare il nostro assetto costituzionale, spingendo,
affinché da «oggetti» di diritto privato possiamo riappropriarci della
qualifica di «pubblici soggetti».
(1) Presidente nazionale del MOLCES,
Movimento operativo per la lotta contro l'emarginazione sociale.
www.fondazionepromozionesociale.it