Prospettive assistenziali, n. 70, aprile - giugno 1985

 

 

Specchio nero

 

 

BELLI PER DECRETO

 

«Un figlio sano e bello. Che cosa fai per me­ritartelo?». È lo slogan con cui il Ministero del­la Sanità ha lanciato - attraverso giornali e TV - la sua campagna promozionale a favore della prevenzione.

D'accordo sul figlio «sano». Anche se an­drebbe detto chiaramente che, per raggiungere questo obiettivo, non tutto dipende dalla coppia e dalle abitudini di vita della futura madre, ma molto coinvolge in prima persona proprio lo Sta­to e gli enti pubblici (e poi, perché «colpevoliz­zare» i genitori se nasce un bimbo Down, oppu­re se dalla sala-parto il neonato esce con una lesione cerebrale?). Ma che il figlio debba anche nascere «bello»... per decreto, ci sembra pro­prio una scemenza!

«Un bimbo non, cresce né per noi, né per gli altri; cresce per se stesso», ha scritto qualche filosofo. Ma il Ministero non lo sa e lancia il suo messaggio: «Che cosa fai per meritarlo?». Per­ché se non è «sano e bello», la colpa è tua, sol­tanto tua.

 

 

LA «RIVOLUZIONE» DI LUCA GOLDONI

Lettera al «Corriere della Sera», sabato 9 mar­zo 1985, p. 3: «Sono una che sarebbe rimasta sordomuta se, grazie a una scuola speciale - che speciale non è più dal 1979 - non avessi supe­rato il mio handicap: se sono in grado di condur­re una vita normale senza l'ausilio delle sofisti­cate apparecchiature per l'udito, lo devo unica­mente al fatto di aver appreso la lettura labiale e di essere stata educata con appassionata dedi­zione dalle mie insegnanti di allora. Oggi, per quanto mi risulta, con l'annullamento delle scuo­le speciali i sordi profondi sono posti allo sbara­glio nelle scuole normali, senza più insegnanti altamente specializzati e con quelli "di sostegno" del tutto impreparati».

Liliana Trevisan Pozzoli (Seregno)

 

Risposta di Luca Goldoni: «Uno dei terrorismi che affliggono questo paese è quello delle paro­le. Da quando, per esempio, si è affermato il verbo "colpevolizzare", il colpevole "colpevoliz­zato", diventa una vittima e la colpa si trasferi­sce in chi lo accusa. Per questo tanti rinunciano ad educare i figli: hanno paura di colpevolizzarli. Non si può più neppure scrivere che un TIR a 130 è una strage potenziale: insorge l'intera ca­tegoria che, più che colpevolizzata, si sente cri­minalizzata.

Un'altra espressione che ha seminato il terro­re è "diverso". Un bel giorno i diversi sono stati aboliti perché il concetto di normalità era razzi­sta. I malati di mente erano dolorosamente di­versi dai sani e per tale ragione venivano isolati. I manicomi italiani erano ignobili: sarebbe stato giusto trasformarli da luoghi di pena in luoghi di assistenza. Ma tale trasformazione richiedeva denaro, impegno, intelligenza e soprattutto non era sufficientemente rivoluzionaria. Più semplice decidere che i pazzi non erano più diversi e, in assenza di adeguate strutture pubbliche, li si rimandò a casa. Superfluo ricordare le tragedie che sono accadute. Oggi i rivoluzionari sono co­loro che parlano dell'eventualità di riaprire mani­comi più civili.

Da quando si è strombazzato ai quattro venti che anche il bambino handicappato non doveva essere considerato diverso dagli altri, nelle scuo­le si è diffuso il terrore di passare per nazisti e non si è battuto ciglio di fronte alle situazioni più assurde: ragazzi incontrollabili che hanno aggre­dito gli insegnanti, che hanno sconvolto i com­pagni con i loro accessi di furore, che hanno mo­nopolizzato l'attenzione del professore costretto ad abbandonare il resto della classe per dedicarsi al recupero improbabile di un unico alunno.

Per anni nessuno ha osato eccepire alle dispo­sizioni che stabilivano l'inserimento nelle classi normali di qualunque tipo di handicappato (fisico e mentale). Gli insegnanti si limitavano a chie­dere suggerimenti di comportamento agli esperti "di sostegno" che però si rifiutavano di entrare in particolari, di avvicinare direttamente il sog­getto "difficile" (questa espressione era tollera­ta) e si limitavano a definire incapace l'insegnan­te in cerca di lumi.

Conosco il caso di una bambina sorda: ha tre­dici anni, un buon inserimento nella classe (si dice così), gioca con i suoi compagni, è bravissi­ma in ginnastica. Ma non sa leggere, non astrae concetti; vive una vita associativa solo quando si tratta di applicare esperienze dirette e imme­diate, ma è completamente isolata quando deve fare riferimento a cose che non ha mai appreso. Ride delle movenze comiche di un clown; mai di una battuta scritta e tanto meno detta. Il suo fu­turo è oscuro, preoccupante, eppure la sua intel­ligenza è normale. Assistita, come la lettrice, in una scuola specifica, avrebbe avuto un'adolescen­za più solitaria ma una vita più accettabile.

Non c'è nulla di più deleterio dell'imbecillità rivoluzionaria che razzola al self service dei con­cetti: si sceglie, si indossa, non c'è neppure da pagare. Qualche giorno fa ho visto un servizio televisivo su una celebre scuola materna dove l'attività principale dei bambini consisteva nel "prender coscienza del proprio corpo" (altro ec­citantissimo dogma della moderna pedagogia), impiastricciandosi faccia mani e piedi con dei colori (ad acqua, spero) e stampando poi su muri e pavimenti le relative impronte. Nel praticare questa attività altamente liberatoria i pargoli se­guivano i gesti quasi ieratici di una maestra gio­vane e ispirata, pitturata anche lei di giallo, ros­so e blu. Siccome non tutti i bambini avevano un'aria soddisfatta mi son chiesto come si fa a stabilire che gli infanti in genere godano da mo­rire a sporcarsi e a sporcar muri: io per esempio non potevo sentirmi le mani imbrattate di mar­mellata e sarei impazzito se all'asilo mi avessero costretto a questa appiccicatissima presa di co­scienza. (I bambini hanno un'inventiva che è dif­ficile interpretare e incanalare. Per esempio, con i cosiddetti "giochi intelligenti": una volta ho osservato un bimbo di un anno il quale, dopo aver cercato di infilare nei buchi appositamente sagomati i solidi geometrici che aveva a dispo­sizione, si è intelligentemente stufato, ha tolto il coperchio del barattolo e li ha buttati dentro alla rinfusa).

Torniamo agli scolari disgraziatamente diversi e che un'ideologia rampante considera uguali agli altri. Lentamente il loro doloroso problema è stato affrontato con più buon senso e più co­raggio: insegnanti e genitori hanno osato distin­guere i casi in cui un bambino handicappato può trarre vantaggio dalla convivenza con i compagni e quando invece questa è un'inutile parentesi che non lascerà traccia nella sua formazione. Forse, prima o poi, si tornerà alle famigerate scuole speciali. Ma quanti handicappati non po­tranno mai citare per danni i demagoghi che ri­nunciarono all'unico modo di aiutarli, rispettando cioè la loro diversità, valutandola e assicurando­le un'assistenza tecnica ed umana?

Un luogo comune sostiene che nella vita è fa­ticoso costruire e semplicissimo distruggere. Ma le vere rivoluzioni sono quelle che faticosamen­te riescono a smantellare quanto è stato costrui­to dai rivoluzionari idioti».

 

Morale della favola. Se siete dei «diversi» (o tali vi riteniamo) che ci possiamo fare noi «normali»? Forse, dividere il nostro spazio vi­tale con voi? Farvi largo e considerarvi eguali agli altri? La pietà, nei secoli, non ha previsto luoghi appositi per voi (e per il vostro bene, s'in­tende!)? Se un giorno sarete «recuperati» un posto lo troveremo... E che vogliono questi de­magoghi? Pretendere che gli insegnanti, tutti gli insegnanti, tengano conto anche delle vostre esigenze? Battersi perché si faccia ogni sforzo affinché la scuola sia veramente di tutti e non solo un parcheggio, una forma più sottile di emarginazione? Suvvia!

Imparate prima a camminare. Per andare dove? Lo vedremo poi.

Imparate prima a parlare. Per parlare con chi? Lo decideremo poi.

Non so se lo sapete che il coltello dalla parte del manico ce lo abbiamo ancora noi, i «nor­mali»?

 

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