Prospettive assistenziali, n. 71
bis, luglio - settembre 1985
INTERVENTO
DI CLARA CAPELLO (1)
Premessa
Il problema della formazione
degli operatori sociali comporta un'analisi delle loro prassi di lavoro, in
rapporto ai profili professionali istituzionalmente
previsti per i loro rispettivi ruoli ed in rapporto alle esigenze delle organizzazioni e dei singoli operatori.
Il ruolo
dell'A.S. è emblematico
a questo riguardo poiché esiste uno stretto collegamento tra politica dei
servizi socio sanitari e professionalità
del Servizio Sociale, collegamento che ha da sempre rappresentato uno dei nodi
centrali della professione dell'A.S. In questo ruolo infatti sono stati
evidenziati elementi tecnici, politici e culturali, poiché l'A.S. dovrebbe
avere una visione globale ed integrata delle domande sociali della popolazione (Ponticelli dal Prà) e, parallelamente assolvere a funzioni di promozione, preparazione,
coordinamento delle iniziative attuate ad es., dal
volontariato, al fine di permettere una sua partecipazione
nel perseguimento degli obiettivi di prevenzione, cura e riabilitazione
del settore socio assistenziale.
La figura dell'A.S. per la tipica poliedricità
e polivalenza del suo ruolo, può
quindi essere considerata come un potenziale agente di cambiamento.
Infatti «il prodotto
finale dell'operatore non consente né si risolve meramente
nella prestazione tecnico-specialistica, ma si determina come un rapporto sociale perseguito a mezzo di rapporti e pratiche sociali» (Barbano F., 1982). Messo l'accento sull'aspetto
relazionale della pratica di lavoro dell'operatore,
risulta evidente lo stretto rapporto esistente fra formazione e cambiamento.
Il cambiamento dei contenuti e delle prassi di lavoro implica
infatti un processo che coinvolge l'operatore nella totalità delle sue
esperienze soggettive e dei suoi rapporti interpersonali. Un processo formativo non si può quindi
ridurre ad un accrescimento di competenze tecniche, per adeguarci
al nuovo assetto istituzionale dei servizi, ma, per avere efficacia nel
cambiamento della prassi lavorativa, deve tener conto dei soggetti, del loro
modo di vivere e rappresentarsi il lavoro e il loro ruolo e i loro bisogni di
formazione.
Ravvisata dunque la figura dell'A.S. come professione centrale sulla rete delle relazioni
tra istituzioni ed utenza, e tra gli stessi operatori delle équipes, abbiamo inteso
contribuire al problema della loro formazione professionale con una ricerca
sulla percezione del loro ruolo e sulla qualità del lavoro.
I dati emersi dal nostro lavoro potranno costituire
così un primo approccio conoscitivo, necessario preludio per ogni progetto di formazione.
La ricerca
Obiettivi e contenuti della ricerca
Gli obiettivi della ricerca sono nati dalla esigenza di verificare quale fosse la percezione soggettiva
delle A.S. circa alcuni aspetti della loro professionalità ed, in particolare,
in rapporto alle seguenti 4 aree
problematiche:
- identità professionale, ruoli sessuali e immagini
della femminilità;
- ruolo, operatività e contesto
organizzativo;
- qualità del lavoro e stress lavorativo;
- progetto lavorativo ed esigenze di formazione.
Come strumento preliminare
di indagine sono state effettuate interviste
libere ad A.S. e soggetti reperiti casualmente, al fine di identificare
quale potesse essere l'immagine sociale di questa figura professionale.
In base ai dati di fac-ricerca
sono state formulate alcune ipotesi:
1) se la prevalenza
femminile nel lavoro dell'A.S. si
possa ritenere strettamente collegata ai requisiti di questa professione,
tradizionalmente ritenuti caratteristici
della femminilità;
2) nel caso delle A.S. verificare se sia la presunta particolare problematica del lavoro dell'operatore
sociale, in termini di stress, tenendo conto anche delle recenti ipotesi sul
tipico «burn-out» («operatore cortocircuitato») che
si verificherebbe nei servizi sociali;
3) se il vissuto soggettivo rispetto al lavoro offre
dati indiretti sul bisogno di formazione, come pre-sondaggio su questo
problema;
4) se il lavoro ed il ruolo effettivamente espletati
siano in rapporto col ruolo atteso e auspicato; in altre parole, quali siano
le caratteristiche di un lavoro ideale, in rapporto al lavoro
effettivamente svolto, nella rappresentazione delle A.S.
È stato così allestito un questionario strutturato, composto da 100
domande, suddiviso in 4 parti:
1) L'A.S. e la sua immagine: 20 domande sulla rappresentazione sociale
della figura professionale in rapporto alle caratteristiche della femminilità.
2) I problemi
di ruolo: 30 domande sullo stress nelle situazioni di lavoro, valutato sulla base di criteri quali la chiarezza, la conflittualità
dei compiti, il carico di lavoro, le relazioni interpersonali e le qualità
delle informazioni. Sono stati ravvisati: 10 indici di
stress: 1) distanze fra ruoli, 2) ristagno, 3) attese contrastanti, 4) erosione
di ruolo, 5) sovraccarico, 6) isolamento, 7) inadeguatezza personale, 8)
conflitto, 9) confusione o incertezze, 10) inadeguatezza di risorse.
3) La qualità
del lavoro: 20 domande centrate sull'autovalutazione
del proprio lavoro e sulla rappresentazione di ruolo, per rilevare quanto il
cambiamento sia percepito come parte integrante del lavoro sociale e se l'A.S.
vede il suo lavoro come un progetto di cambiamento continuo in rapporto alla
realtà sociale.
4) Importanza e soddisfazione associati a vari elementi del lavoro: 30
(15+15) domande circa le caratteristiche del lavoro ideale e quello del lavoro effettivamente svolto.
Ciascuna sezione del questionario prevede una serie
di domande le cui risposte vengono classificate in base a
una scala di accordo-disaccordo, oppure in base ad una scala di punteggi.
Per la costruzione del questionario si é preso spunto
da una ricerca svolta nel 1980 in Emilia Romagna, che si proponeva di
analizzare il nuovo assetto dei servizi e la professionalità dell'A.S., si è fatto inoltre
riferimento a M. Sashkin e J.J.
Lengermann in un lavoro comparso nel 1984 sulla
Rivista «Human Relations», a C. Chermis
(1983) e a G.P. Quaglino e G.P. Carrozzi (1983) e a C.
Capello e R. Vacchino (1985).
La ricerca è stata condotta dalle A.S., allieve della Scuola U.N.S.A.S.
di Torino, T. Borla, G. Dario, L. Diaferio,
S. Felone, M. Foti, P. Gaino, G. Internò, A. Marengo, C. Marinelli, D. Musso con la collaborazione per la
parte metodologica del Prof. G.P. Quaglino,
Associato di Psicologia Sociale dell'Università di Torino, della Dott. Sofia Conterno, psicologa.
L'elaborazione dei dati è avvenuta nel mese di
novembre 1984 presso il C.S.I. a Torino, con sistema Pasckage statistico S.P.S.S.
Il campione
La ricerca si è proposta di rilevare dati su un campione
rappresentativo delle A.S. operante in Piemonte, attraverso la somministrazione
di un questionario strutturato, anonimo che prevedeva la rilevazione di alcuni dati anagrafici.
Dal censimento dell'Ass. Naz.
A.S. del 1984 risulta che le A.S. impiegate in
Piemonte sono 738. La nostra ricerca ha preso in considerazione 400 soggetti
scelti con un campionamento di tipo casuale.
I questionari hanno avuto un ritorno del 60,25% (241 soggetti). Le variabili
prese in considerazione sono state 5: età, sede di
lavoro, località, anzianità di servizio, stato civile. L'età e l'anzianità di
servizio sono state ripartite in fasce di età, mentre
la sede di lavoro prevedeva la «pubblica amministrazione, le U.S.L., l'Azienda privata, Altri privati e la voce altro».
La località prevedeva la risposta Torino e Fuori-Torino.
Risultati
I risultati della ricerca sono ancora in fase di elaborazione: sono al momento attuale disponibili
tabulati, percentuali dei dati raccolti in ogni domanda in rapporto alle
variabili prese in esame: manca ancora una sintesi globale sui dati del
questionario e un ulteriore lavoro di interpretazione sul senso, oltre che
sulla significatività statistica, dei risultati stessi.
Non è perciò possibile avanzare delle conclusioni
che non risultino intempestive, affrettate e
soprattutto, parziali.
Avanziamo tuttavia alcune considerazioni di tipo
qualitatîvo circa le prime due sezioni del questionario relativo: A)
all'identità professionale in rapporto ai ruoli sociali femminili, e B) allo
stress lavorativo.
A) - La figura dell'A.S. rappresenta una classica figura femminile tra le professioni del settore
terziario: il suo ruolo è investito da rappresentazioni sociali che implicano
il tema dei ruoli femminili, se non altro perché è rappresentato di fatto per
la stragrande maggioranza, da donne. Gli A.S. uomini operanti in Piemonte sono infatti meno di 10. Inoltre la prevalenza femminile tra
questi operatori è confermata dall'aspettativa
dell'«uomo della strada» (che ripropone uno stereotipo a tutt'oggi
molto vivo) che ritiene che l'A.S. sia, per definizione,
una donna.
Come si pongono, allora le
A.S. di fronte a questa rappresentazione sociale?
Dai nostri dati sembra emergere un tentativo di
prendere le distanze da questo modello di lavoro «al
femminile» se non un netto rifiuto di considerare le valenze femminili
eventualmente presenti nel lavoro. Forse questa tendenza si spiega col bisogno
di considerare il proprio lavoro di A.S. appunto «un
lavoro», una professione vera e propria, che prescinde, come tale, dalla
individualità/personalità e identità sessuale di chi la esercita.
L'istanza di
professionalizzare il proprio lavoro sembra molto forte, forse per contrastare
l'immagine di una attività svolta per generiche o volontaristiche motivazioni
umanitarie-filantropiche, per rifiutare, in poche
parole, l'immagine «vocazionale» dell'A.S. che aveva probabilmente influenzato
il modello più tradizionale della professione. Pare tuttavia che per
difendersi da questa immagine intrisa di emotività,
vissuta come inopportuna o comunque inessenziale, si tenda globalmente a
prendere le distanze dalle implicazioni affettive presenti nel lavoro. Sembra
di riscontrare, al riguardo, una generale tendenza a connotare, in senso forte,
il criterio di «neutralità affettive» (Parsons) inteso forse come la principale garanzia di
professionalità. Una identità professionale
relativamente nuova, come quella dell'A.S., e
soprattutto in costante trasformazione sembra temere il confronto con gli
aspetti soggettivi, personali e privati di chi la esercita; per riaffermare,
innanzitutto, una immagine sociale, omogenea e dotata dei requisiti della
«professionalità».
Più in dettaglio, le A.S. (in particolare nelle fasce
intermedie di età e anzianità di lavoro) tendono a
negare tutto quanto sa di «tradizionalismo» e di «vecchio modello». È curioso notare, però che in alcuni casi le più giovani (la fascia
23/25) e le meno giovani (4ª fascia, oltre i 40 anni) assumono posizioni
simili. Le «anziane» danno comunque l'impressione di
porsi in modo meno conflittuale nei confronti del proprio ruolo, non negano
atteggiamenti emotivi per il timore di andare «contro corrente»; viene quindi
da chiedersi se alcuni valori ritornino ad essere utilizzabili, oppure
soprattutto le «anziane» siano più disponibili ad una analisi delle componenti
affettive presenti nel loro lavoro, o meno preoccupate di essere adeguate ad
un modello «moderno».
B) - Analizzando il problema relativo
al «disagio lavorativo» delle A.S., emergono
innanzi tutto da parte delle intervistate, numerose contraddizioni, che si
rilevano nelle risposte date, che sembrano suggerire una scarsa consapevolezza
del problema.
Si può ipotizzare che tale quadro piuttosto indefinito,
sia causato da un atteggiamento di difesa che le intervistate possono aver
manifestato, soprattutto quando i problemi proposti
coinvolgevano in prima persona l'operatore.
Sulla base di tale ipotesi ci sembra di poter affermare che tale
difesa può essere stata causata non solo da un generico timore di mettersi in
discussione, ma anche dalla effettiva presenza
del «disagio
lavorativo» che ha come prima conseguenza, appunto, la «negazione» di tale problema.
Tenendo conto di tutto ciò è possibile comunque
evidenziare alcune tendenze rilevate da una prima analisi dei dati.
Le A.S. fra i 31 e i 40 anni risultano essere quelle
che fanno emergere un quadro più definito, che si
distacca notevolmente da quello indistinto e indifferenziato, costituito dalle
risposte delle altre intervistate.
Queste A.S. paiono vivere in modo più conflittuale il rapporto col proprio lavoro: pare questa, tra i 30 e i 40
anni l'epoca di una verifica del proprio progetto lavorativo, di un bilancio
della reale situazione rispetto all'immagine ideale del lavoro che poteva aver
contrassegnato le prime fasi dell'esperienza lavorativa, quella che è stata
definita tra l'altro, la «crisi di mezza età» per quanto riguarda l'evolversi
della creatività (Jaques E., trad. it., 1983).
Una maggiore serenità nell'affrontare i problemi
proposti si nota invece, ad una prima visione dei dati, per le A.S.
«giovanissime» (sotto i 25 anni) e per le A.S. oltre i 40 anni.
Questi due gruppi di A.S.
hanno comunque una posizione differente, in quanto le più giovani probabilmente
risentono della carica emotiva e idealistica del neofita, mentre le
ultraquarantenni vivono con tutta probabilità una situazione di aspettativa
della conclusione dell'attività lavorativa; si tratterà quindi per queste
ultime di giungere ad un «bilancio conclusivo», libero dalle ansie connesse ad
un «bilancio» che presuppone un progetto per il proprio futuro lavorativo.
È quest'ultima la
situazione tipica delle A.S. tra i 31 e i 40 anni, che traggono la conclusione
di quanto già fatto per progettare il «domani lavorativo».
Si può ulteriormente rilevare come chi risente meno
del «disagio lavorativo» siano le A.S. operanti nel privato: queste infatti, pur risentendo naturalmente del problema
dell'erosione di ruolo, sono quelle che avvertono con più chiarezza quale sia il
loro ruolo all'interno della struttura, probabilmente in quanto esistono
funzioni più chiaramente definite e delimitate, che non implicano una grave
ansia legata alla discrezionalità.
Ci pare opportuno sottolineare
come dal quadro generale piuttosto indefinito di cui si è parlato, emerga
comunque per tutte le A.S. un comune accordo sulla presenza del problema del
sovraccarico lavorativo e, legato ad esso, quello del l'inadeguatezza di
risorse.
Che tali problemi siano presenti nella realtà dei servizi è scontato; tuttavia è importante precisare che
questo dato può essere letto alla luce dell'ipotesi formulata relativa alla
difesa e cioè meno coinvolgente identificare l'origine del disagio in fattori
esterni che interrogarsi in prima persona; la proiezione delle cause del
disagio sulle risorse strutturali e sul carico di lavoro avrebbe cioè la
funzione di difendere il soggetto dall'ansia circa la propria inadeguatezza.
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(1) Ricercatore presso il Dipartimento
di Psicologia dell'Università di Torino.
www.fondazionepromozionesociale.it