Prospettive assistenziali, n. 71
bis, luglio - settembre 1985
INTERVENTO
DI ELIO GAVEGLIO (1)
Io mi vorrei subito agganciare alle cose dette in relazione al grosso lavoro che è stato fatto dalla
Commissione nazionale che ha dato una prima definizione sul profilo e sulla
professionalità dell'operatore sociale che noi chiamiamo educatore.
Questo è un fatto sicuramente importante e
interessante perché significa che questo mestiere così generico, così
difficile, così onnicomprensivo sta iniziando a diventare una professione.
La cosa è interessante perché avviene a livello nazionale e quindi c'è stata la possibilità di vedere
come in tutta Italia l'educatore sia stato impiegato, in quali ambiti, con
quali compiti, con che tipo di stipendio; il risultato di questo lavoro è una
prima definizione molto generale di quella che può essere una linea, una
indicazione di professionalità.
Scendendo a livello regionale, in Piemonte abbiamo
una situazione che è abbastanza schizofrenica rispetto a quella che è la
realtà dei servizi; perché se da una parte abbiamo una elaborazione teorica
che ci dice quello che dovrebbe essere l'educatore, quindi che tipo di compiti,
che tipo di aspetti sociali dovrebbe coprire, dall'altra
abbiamo una realtà di servizi che è invece molta diversa.
In più, abbiamo una sfalsatura
piuttosto consistente tra quella che è la programmazione di quello che è il
fabbisogno di questo personale e quella che invece è la capacità di produzione,
sempre da parte dell'Ente locale, di questo stesso personale.
Abbiamo in Piemonte 4 scuole di formazione per educatori,
di cui una istituita solamente l'anno scorso, che
hanno una capacità produttiva - diciamo così - di educatori pari a circa 120
persone ogni 3 anni. I dati che ha dato Giulia Arduino, anche se sono di lungo periodo, sono sicuramente
significativi, perché stanno ad indicare che da questo punto di vista c'è una
carenza molto grossa di operatori educativi.
La situazione è ancora più complicata perché i
servizi sono nati lo stesso: in questi anni abbiamo creato una rete di servizi
consistente e per avviare questi servizi abbiamo
utilizzato le persone che erano reperibili sul mercato a prescindere dalla
loro formazione.
Infatti, in questi anni come Enti locali - Provincia
e Comune di Torino, altri Comuni, Province e USL - abbiamo provveduto
a reperire una serie di persone che sono state impiegate in servizi
definiti educativi.
In realtà, è successo un fenomeno di reclutamento di
massa, rispetto a questo tipo di impiego, utilizzando
- ripeto - le persone che in quel momento erano disponibili. La
maggior parte di queste persane però non ha avuto un discorso di
formazione di base o ha avuto soltanto alcuni elementi, alcune tracce, alcuni
segmenti di formazione permanente.
I risultati di questa operazione,
che è stata comunque un'operazione giusta perché ha consentita di avviare una
serie di servizi: i servizi funzionano, danno una risposta ma questa è ancora
una risposta sostanzialmente quantitativa perché non c'erano le condizioni
oggettive per dare risposte che fossero maggiormente differenziate, più
qualitative.
Uno dei motivi per cui non è
stato possibile dare questo tipo di risposte - naturalmente parlo in termini
generali poiché in alcune situazioni ci sono anche delle risposte di qualità,
cioè differenziate - era che l'obiettivo prioritario da raggiungere era quello
di offrire dei servizi.
Un altro motivo era proprio dato dal fatto che le
persone che dovevano dare delle risposte di qualità non avevano nessuno
strumento, nessuna informazione, nessun tipo di
preparazione per poterle dare.
C'è stata comunque,
all'interno di questo processo di assunzione di personale da parte degli Enti
locali, una selezione di questo personale, che è avvenuta non tanto per via
tecnica o per via di indicazioni professionali, ma è passata attraverso un
discorso molto più semplice ma anche molto più duro: cioè il discorso della
disponibilità. In buona sostanza l'Ente ha assunto le persone che hanno
dimostrato di avere una disponibilità di lavoro in questo settore. Disponibilità
di lavoro che In qualche caso può essere stata confusa, ad esempio, con una
disponibilità al sacrificio; oppure, con una disponibilità a forme
«missionarie», anche se di tipo laico, creando situazioni che in tempi lunghi
hanno dimostrato di essere controproducenti.
Tutti sappiamo che l'operatore
sociale, e in particolare l'educatore, ha ad un certo punto del suo percorso la
sindrome del «burn-out», cioè si brucia, non riesce
più a reggere la situazione. Ecco, questo avviene anche perché si è forse forzato
troppo su questo operatore nel senso della disponibilità, cioè
si è preteso forse troppo da lui lasciandogli una serie di spazi, una serie di
possibilità che forse era meglio limitare all'inizio. E
questo è ancora un altro tipo di problema.
Tornando al fabbisogno di personale, è successo che
in questi anni nei nostri servizi abbiamo assunto un numero consistente di
persone. Per quanto riguarda la Provincia di Torino il
numero raggiunge le 400 unità: noi abbiamo 400 lavoratori che chiamiamo
educatori, hanno cioè la qualifica di educatori. Ora, queste persone - come
accennavo prima - non hanno avuto strumenti di formazione di base, hanno avuto tuttalpiù una serie di occasioni,
alcuni segmenti di formazione permanente.
Risulta evidente e necessario, anche in relazione a quanto
la Regione sta cominciando a fare, prevedere per queste 400 persone dei corsi
di formazione che dovrebbero andare a coprire quella formazione e informazione
che non hanno avuto prima.
Questo aspetto però comporta un'altra questione che
è altrettanto importante: comporta per certi versi una revisione
del funzionamento dei programmi e della quantità di educatori che si possono
formare nelle scuole di formazione di base; non possiamo infatti continuare a
pensare che le scuole di formazione di base abbiano, diciamo, una « produzione
» di educatori così bassa, quando il fabbisogno è così alto.
Quindi l'individuazione del profilo e del metodo per
i corsi di formazione per le persone che già lavorano necessariamente implica
anche una revisione e una ridefinizione
dei corsi di formazione di base, perché risulta evidente che le due cose, sia
dal punto di vista del metodo che da quello dei contenuti, devono esser
identiche.
Per quanto riguarda il discorso della Cooperazione
in questo disegno, è altrettanto evidente che la Cooperazione c'entra a pieno
titolo per il semplice fatto che nelle convenzioni tra Enti locali e
Cooperazione, vengono richieste le prestazioni nella
misura esattamente identica a quelle che vengono chieste all'Ente pubblico: di
conseguenza l'operatore della cooperazione deve avere esattamente la stessa
formazione che ha l'operatore pubblico, o perlomeno le stesse occasioni
formative; lasciando poi libera la cooperazione di individuare tutte le forme
organizzative, le articolazioni, ecc. che ritiene di dover attuare.
Quindi, da questo punto di vista uno degli utenti di questo
disegno è, insieme agli Enti locali, anche la cooperazione.
Per quanto riguarda in particolare questo tipo di organizzazione, cioè la cooperazione, sembra necessario e
anche ovvio che quest'ultima provveda poi con mezzi
propri a farsi promozione, cioè dire agli operatori sociali che esiste la cooperazione,
che ha certe caratteristiche e che è fatta in un certo modo, con certe ragioni
sociali, ecc.
Ora, per fare questo in modo forse più interessante
e utile, sarebbe giusto proporre che nell'ambito dei corsi di formazione di
base delle scuole ci sia ogni anno un seminario, un incontro fra i futuri
operatori sociali cioè gli educatori delle varie
scuole e un rappresentante delle organizzazioni della cooperazione che spieghi
loro che cosa è la cooperazione, a cosa serve, perché esiste e che tipo di
prospettive anche per quanto riguarda il lavoro questo tipo di organizzazione
può fornire loro.
Tornando alla situazione piemontese, possiamo vedere
come l'educatore, così scarsamente formato abbia trovato degli ambiti di
lavoro, degli spazi. Una prima considerazione è quella che l'educatore in
Piemonte è una figura che lavara prevalentemente con degli adulti.
Questo evidentemente è importante perché significa
che tutta una serie di indirizzi tecnici e di
strumenti devono esser dimensionati non già e non soltanto, come purtroppo è
tradizione storica, sul bambino, fingendo che l'adulto, col quale l'educatore
si trova a che fare, non sia altro che un bambino che non è cresciuto; sarebbe
invece il caso che si ragionasse sul rapporto educatoreadulto in quanto
adulto, anche se problematico, anche se in stato di bisogno.
In particolare, gli adulti che i nostri educatori
incontrano nel loro lavoro sono in misura abbastanza consistente persone
handicappate, con handicap psichico, e che hanno più di 14 anni. Dire
ultraquattordicenne diventa un eufemismo anche perché, in
base a nostre statistiche ed elaborazioni, risulta che quasi il 40% della
popolazione dei servizi ha un'età media che va dai 30 ai 35 anni. I nostri
servizi esistono ormai da circa 15 anni, e quindi, abbiamo una popolazione di
persone che è adulta, è adulta in senso stretto.
Poi abbiamo delle nuove aree di intervento
che sono la tossicodipendenza - nella tossicodipendenza abbiamo una presenza
non ancora grossa ma comunque significativa di educatori -; abbiamo anche una
presenza significativa di educatori per quanto riguarda gli adolescenti o comunque
giovani marginali. E poi c'è tutto questo discorso cui si accennava
nell'intervento precedente: i nostri educatori non sono ancora gli educatori «della
strada» ma cominciano a muoversi anche in questo
settore.
Ora, rispetto alla situazione di lavoro abbiamo una forte presenza di educatori che lavorano in
situazioni in cui hanno una struttura d'appoggio che ha delle caratteristiche
fortemente istituzionali; e cioè abbiamo molti educatori che lavorano nei
centri socio-terapeutici, che sono una struttura con un'organizzazione, una
burocrazia, per cui si configurano come un'istituzione, anche se aperta, anche
se in qualche modo collegata col territorio ma comunque un'istituzione. Ci sono
poi le comunità alloggio che sono di nuovo una organizzazione
istituzionale molto precisa: i turni, gli orari, i ritmi, ecc.
Abbiamo educatori che lavorano in istituto; perché
noi ce lo dimentichiamo sempre, cioè non lo diciamo
mai o forse non lo vogliamo dire, ma in Piemonte, dove abbiamo tra l'altro una
situazione di deistituzionalizzazione molto più favorevole
che in altre Regioni, abbiamo ancora un numero consistente di persone che sono
in istituto; e in questi istituti ci sono anche degli educatori, che
naturalmente risentono dell'impostazione dell'istituto. Ma
non per questo sono educatori più cattivi o più brutti o più buoni di altri
insomma, sono educatori come tutti gli altri.
Poi abbiamo le Case protette
previste dalla Regione Piemonte, per fortuna ne abbiamo fatte poche, ma
comunque sono un tipo di struttura dove di nuovo è prevista anche la figura
educativa. E poi abbiamo il Carcere minorile: a Torino è il famosissimo
Ferrante Aporti dove tra l'altro sono stati attuati
una serie di interventi molto interessanti.
Poi abbiamo altre situazioni, in cui la consistenza
dell'educatore, in termini quantitativi è minore, perché sono servizi più
flessibili, con caratteristiche semi-istituzionali: l'esempio più classico è
l'ambulatorio psichiatrico. L'ambulatorio è una struttura semirigida, dove la
gente va, può anche non andare, dove ci sono delle
situazioni non troppo protette.
Abbiamo i Centri di accoglienza,
là dove ci sono i problemi di tossicodipendenza. Abbiamo il «Day hospital»,
esempio quello di corso Novara dove si stanno portando
avanti esperienze di «ateliers» e di psicomotricità
che sono interessanti; anche questa è una struttura non più rigida con
possibilità di ingresso e uscita abbastanza elastica.
Ci sono i Centri di incontro
che, anche se hanno avuto un inizio difficoltoso, sono comunque una risorsa
che, pur avendo certi orari, certe fasce di ingresso e di uscita, hanno le
caratteristiche di una struttura «aperta» in senso stretto.
E poi abbiamo qualche Laboratorio di quartiere,
qualche «ateliers», dove di nuovo c'è questa
possibilità di libertà.
Poi c'è un'ultima situazione, che è quella meno
presente ancora, e che è la situazione in cui l'operatore sociale - educatore
non ha nessuna struttura d'appoggio ma ha, come unico
punto di riferimento, l'équipe. E, in questo caso anche se la presenza
dell'educatore è molto, molto limitata, è comunque
un'esperienza estremamente interessante. In questa situazione l'unico punto di
riferimento dell'educatore è l'équipe, sono altre persone,
altri professionisti con i quali condivide, definisce e decide quello che è un
piano d'intervento, un piano di lavoro che riguarda una certa parte di utenza o
un utente solo; dopo questo, utilizza tutte le strutture di cui ho parlato
prima, si ha cioè un rapporto d'uso completamente diverso.
Quindi, mentre da una parte abbiamo una situazione in cui l'operatore sociale è quasi chiuso
dentro la struttura, dall'altra arriviamo a una situazione in cui l'operatore
sociale utilizza questa struttura. Allora, usare questa struttura vuol dire
fare una serie di inserimenti, vuol dire lavorare
sull'integrazione, cioè non più tanto con l'utente ma con gli altri
professionisti che devono farsi carico di dare delle occasioni, di dare delle
possibilità all'utente. Questo è certamente un lavoro molto
più difficile.
Ora, in queste situazioni di lavoro si è comunque
determinata in questi anni una certa cultura dei servizi socio-assistenziali e
sanitari - preferisco dire socio-assistenziali perché quando dico sanitari mi
viene sempre in mente il medico col camice bianco il che è un'altra cosa -; questo
tipo di cultura naturalmente ha risentito di una serie di circostanze alle
quali si è già accennato: una di queste è che tutt'oggi manca a livello
nazionale un riferimento a dei modelli pedagogici che abbiano un carattere non
scolastico; cioè non esiste in Italia una Università, un qualcuno che si sia
occupato di questo problema in termini scientifici, ma esistono risorse diverse
che però vanno sempre poi a finire in un campo che é scolastico. Ci sono
sicuramente esperienze di gruppi, di docenti, ecc. ma
manca una scuola di riferimento su questo tipo di problema estremamente
importante.
E questo come conseguenza ha dato che lo spazio che
dovrebbe essere occupato dalla pedagogia per gli adulti, in realtà è stato
occupato, per certi versi, dalle scuole di psicologia che sostengono che la
pedagogia come scienza ormai non ha più ragione d'essere perché non è altra
che una forma di psicologia applicata. È una teoria rispettabilissima che credo
possa avere avuto spazio anche in relazione a una
mancanza, cioè alla non presenza di una pedagogia per adulti in Italia.
Tutto ciò perché, secondo me, tornando alla
situazione in Piemonte, noi abbiamo avuto e abbiamo un'influenza piuttosto
massiccia, a causa delle relazioni piuttosto strette che noi abbiamo avuto in
questi anni con il mondo della psichiatria e con il mondo della psicologia che hanno diffuso dei modelli applicativi, di lettura del
sociale, di lettura della realtà, di lettura del caso, che sono o di natura psicodinamica oppure di natura storico-esistenziale; cioè
tutto il discorso della psichiatria democratica, ecc.
Ora, questo discorso ha fatto sì che il nostro
operatore educativo, senza alcun strumento informativo
di base, avesse alcuni problemi di comprensione quando, per esempio, si è
trovato in contatto con l'équipe del quartiere 89, che non esiste per fortuna,
dove lo psicologo primario, per caso ma solamente per caso, è uno psicoanalista.
Naturalmente, in questa équipe lo stile di lavoro, di funzionamento è basato su un modello di
lettura della realtà che è di tipo analitico. L'educatore che non ha nessuna
conoscenza che cosa fa? Si associa, dice «va bene, se lo stile è questo o.k.», cioè si crea un
rapporto che molto spesso può anche essere, nel peggiore dei casi naturalmente,
di sudditanza culturale, oppure può essere di adesione: la cosa mi piace e
allora anch'io mi metto a leggere il mondo secondo modelli analitici.
Ecco, questo ha prodotto dei problemi perché si é
ingenerato un equivoco per cui molti nostri educatori
pensano, in buona fede io spero, che fare educazione sia fare terapia. E non è
vero, cioè fare educazione, non è fare terapia: sono
due cose completamente diverse. Oppure pensano che sia
l'unico modo di non fare assistenza che è considerata, anche per una serie di
ragioni obiettive, in maniera negativa, in maniera dequalificante; quindi «io
educatore non voglio fare assistenza perché fare assistenza è un compito degli
operatori d'appoggio, e quindi per fare l'educatore devo gioco-forza entrare in
un discorso che sia terapeutico». Ecco, questo non è vero perché fare
una buona assistenza è uno dei modi di fare educazione
e quindi entrare in un discorso che sia educativo.
Questo equivoco di fondo
permane, esiste ed è difficile scioglierlo naturalmente, perché, nel momento in
cui alcuni nostri operatori hanno «sposato» delle scuole di tipo psicologico,
di tipo clinico, diventa estremamente difficile dire loro: tu fai l'educatore e
non il terapeuta. Perché questi signori, con percorsi
personali, stanno diventando terapeuti; a questo punto però dovrebbero
cambiare lavoro, cioè dovrebbero mettersi a fare i terapeuti, e non fare gli
educatori travestiti da terapeuti, perché la cosa non funziona.
Proprio il mese scorso, la Società
Italiana di Psicologia ha terminato una ricerca qui in Piemonte,
in cui è andata a vedere, rispetto alle scuole psico-dinamiche,
quali fossero le percentuali di psicologi che si occupavano di questi problemi
e, cosa interessantissima, è andata a vedere a quale scuola questi psicologi
appartenessero. È risultato che abbiamo qualche cosa come 8 o 10 correnti
operative in Piemonte, ognuna delle quali ha la verità in tasca, ognuna delle
quali ha un suo modello di lettura ovviamente differente dall'altro.
Ora si può facilmente comprendere che cosa tutto ciò,
ribaltato sui servizi, sulle équipes e nel nostro
settore, significhi; significa che nei nostri servizi abbiamo modelli di
lettura dello stesso problema che si differenziano in
base allo psicologo che c'è in quel quartiere o in quell'équipe,
e senza avere momenti di confronto, perché va benissimo che ci siano molti modi
di leggere la realtà ma credo sia giusto mettere a confronto questi modi di
leggere la realtà.
Ora questo non avviene. Ed è
un problema non soltanto per i nostri servizi educativi; insomma è un problema
più complessivo che riguarda anche l'équipe. Ora tutta questo discorso mi fa dire che in questi corsi di primo impiego diventa
assolutamente necessario fornire agli operatori educativi le informazioni che
servono loro per potersi muovere in questo complesso di modelli.
Naturalmente se questo tipo di discorso vale per le
persone che già lavorano, a maggior ragione vale per gli allievi delle scuole
di formazione, per le persone che ancora non lavorano e che in futuro si
troveranno in queste situazioni.
È quindi necessario che l'operatore educativo abbia
una serie di informazioni che riguardano sia i modelli
pedagogici contemporanei, e cioè quali sono, come si differenziano e a che cosa
sostanzialmente servano; sia quali sono i modelli psicologici, perché
ovviamente c'è una stretta inter-connessione tra un modello e l'altro; sia qual
è la storia della organizzazione dei nostri servizi, cioè come mai siamo
passati dal Centro di lavoro protetto al Centro socio-terapeutico; come mai
abbiamo chiuso il manicomio, ecc. Naturalmente storia fatta non in termini
mistici, o in termini idealistici, ma fatta in termini di organizzazione del
lavoro, in termini di funzionamento dei servizi, in termini di ruoli, in
termini di professionalità.
Senza queste informazioni io credo che l'operatore
educativo non abbia le condizioni per operare perché sarebbe in balia di altri
che possiedono queste informazioni e che quindi le
possono usare mentre l'educatore deve soltanto mettere in atto un processo di
adattamento. L'educatore invece deve essere un personaggio che è in grado di
scegliere, in grado di fare analisi critiche, anche
in grado di dire: «Il tuo modello è questo, lo conosco, però non mi sta bene»,
oppure «Mi sta bene», ossia ci vuole un tipo di rapporto paritario che ancora
non c'è.
Poi ci sono le famigerate e famose tecniche educative
di cui tutti parliamo e che poi in realtà nessuno però
conosce a fondo, o perlomeno chi le conosce se ne sta ben zitto e non lo dice a
nessuno.
Ora, abbiamo diverse tecniche che riguardano
l'intervento sull'adulto: la psicomotricità e la bioenergetica,
l'intervento ecologico-comportamentale, che in certe
aree dà dei risultati se non altro di efficacia; il
discorso della espressività, della musica, della manualità; e poi ci sono altre
tecniche più vicine ad un discorso di tipo psicologico ma che sono in effetti
strumenti educativi come le tecniche di colloquio, che l'educatore deve
conoscere soprattutto quando non è inserito in una struttura ed entra in
relazione con altre persone, con genitori, con altri operatori, ecc.
E ancora le tecniche di osservazione;
cioè, per fare un intervento è necessario che una persona abbia in mano
strumenti scientifici, perché non si può continuare a pensare che
l'osservazione sia solamente guardare uno in faccia e dopodiché dire: va beh,
mi sei simpatico e allora facciamo qualche cosa insieme. Cioè
deve essere qualcosa di più specifico, di più oggettivo.
Infine c'è tutto il discorso della conduzione di
gruppi: l'operatore educativo è un personaggio che fa la maggior parte del suo
lavoro in gruppo e molto spesso deve conoscere le regole di dinamica di
gruppo, perché se no, di nuovo, non è un professionista, è uno come tanti, cioè è una persona che sta lì in mezzo e che poi con buon
senso e con buona volontà può anche portare avanti un piano di lavoro. Ma noi riteniamo che sia ora che l'educatore cominci a fare
tutte queste cose con professionalità sempre maggiore.
(1) Funzionario dell'Assessorato alla
Sicurezza sociale della Provincia di Torino, Servizio Promozione e Ricerca.
www.fondazionepromozionesociale.it