Prospettive assistenziali, n. 72, ottobre - dicembre 1985
AVERE UN FIGLIO O
ESSERE GENITORI?
JOLE
BALDARO VERDE *
Ad una donna che reggeva un bambino al seno, Kahlil Gibran (1980, p. 39), il
poeta, disse:
«I vostri figli non sono i vostri
figli.
Sono i figli e le figlie della fame che in se stessa ha la vita.
Essi non vengono da voi, ma attraverso di voi. E non vi appartengono...».
Il poeta dunque, che come è
noto a tutti gli studiosi di psicologia del profondo, è in grado di attingere
dall'inconscio e sa esprimere sentimenti collettivi, ci dice che i figli non
ci appartengono, non si possono quindi «avere». Avere nel senso di cui parla Fromm (1976) il quale sostiene
che, nella nostra cultura consumistica, tutti devono possedere degli oggetti,
perché soltanto possedendo degli oggetti, tanti oggetti, danaro e suoi
equivalenti, sesso, amici, ecc. ci si sente di «essere» persone. Diversamente
la maggioranza della popolazione non avrebbe «identità». I figli peraltro
dovrebbero rappresentare qualcosa di diverso dagli «oggetti da possedere». Per
Freud ogni individuo conduce «una doppia vita, come
fine a se stesso e come anello di una catena di cui è strumento contro o indipendentemente
dal suo volere» (Freud, 1914, p. 446). Ogni persona cioè, nel suo programma genetico, ha come fine non solo la
propria sopravvivenza, ma la trasmissione del proprio patrimonio genetico che
attraverso la sessualità, la quale è al servizio della procreazione - e premia
l'uomo con il massimo piacere -, permetterà alla specie umana di continuare.
Noi tutti saremmo in questo senso «spinti» a procreare. Il figlio d'altra
parte, dal punto di vista psicoanalitico, rappresenterebbe la reviviscenza e la
riproduzione del proprio narcisismo.
«Il bambino deve appagare i sogni e i desideri irrealizzati dei suoi genitori: il maschio deve diventare un grand'uomo e un eroe
in vece del padre e la femmina deve andare sposa ad un principe in segno di
riparazione tardiva per la madre. Nel punto più vulnerabile del sistema narcisistico
- l'immortalità dell'io che la realtà mette radicalmente in forse - si ottiene
sicurezza rifugiandosi nel bambino» (Freud, 1914, p.
461).
Il desiderio di immortalità
rappresenta indubbiamente il desiderio conscio o inconscio più forte per
l'uomo perché fuga l'angoscia di morte. Questo desiderio appare infatti anche nel mito assieme alla proibizione di
appagarlo. Nella Genesi, infatti, l'uomo non desiderò soltanto, attraverso la
tentazione del serpente, di avere la conoscenza, ma anche la vita eterna che
l'avrebbe reso simile al creatore. «Guardiamo ch'egli
non stenda la mano e prenda anche il frutto dell'albero della vita, e ne
mangi, e viva in perpetuo» (Genesi 3-22) disse l'Eterno Iddio e noi quindi
ancora oggi dobbiamo affrontare l'ignoto della morte riponendo soltanto nella
fede la speranza di una vita eterna.
Mi sembra che la sfida, forse inconscia, che la
scienza pone all'uomo nel cercare di raggiungere «almeno» l'immortalità
biologica porti anche le coppie sterili a desiderare ad ogni costo un figlio.
Il problema è forse ancora più complesso se pensiamo
che soprattutto all'estero si inizia ad evidenziare la
tendenza, da parte di coppie fertili, a rinunciare volontariamente al piacere
legato alla procreazione naturale per volere un figlio «con la testa», come
Giove diede alla luce Minerva. Ancora un sacrificio occulto agli
dei in cambio dell'immortalità? II figlio infatti
sarebbe figlio della «volontà» dei genitori e della scienza di cui l'uomo si
ritiene signore e padrone.
Una scelta di questo tipo sembra proprio appartenere
alla componente onnipotente, narcisistica infantile e
non alla componente adulta. È forse diverso il caso della donna francese che ha
chiesto di essere inseminata
con gli spermatozoi del marito morto. Questo desiderio di un figlio postumo
potrebbe psicologicamente essere inserito nel bisogno di mantenere in vita una parte della persona investita di libido ed a cui non si
sa rinunziare. Ma di quante aspettative, dolore,
rimpianto ed a quali confronti sarebbe stato sottoposto questo bambino se fosse
nato?
Desiderare un figlio dovrebbe rientrare nella componente narcisistica «egosintonica»
della personalità, componente integrata con le istanze sociali e morali del
Super-io che sono alla base dei valori dell'io.
Ma possiamo considerare frutto della componente
narcisistica egosintonica il dono alle banche del
seme di vincitori del premio Nobel i quali indubbiamente desiderano che il loro
patrimonio genetico, ritenuto con ogni evidenza preziosissimo, sia trasmesso a
quanti più figli possibile e la richiesta da parte di donne che, a loro volta,
ambiscono ad un figlio «eccezionale»?
Il grande cambiamento
culturale avvenuto in materia di sessualità negli ultimi vent'anni
ha profondamente modificato i ruoli e gli stereotipi maschili e femminili e
sempre più si sente parlare di maternità e paternità «responsabili», la qual
cosa comporta la capacità di «essere genitori». Questa conquista impedirebbe
che i figli rappresentino la possibilità di realizzare i desideri dei genitori
di cui parla Freud. Ma la
richiesta di procreazione a tutti i costi fa pensare che questa conquista non
sia generalizzata. Se un figlio nato da inseminazione eterologa,
che non può quindi rappresentare l'unica certezza di immortalità,
viene ugualmente desiderato, che cosa rappresenta?
L'impossibilità, sia per l'uomo che
per la donna, di concepire un figlio, provoca certamente nella persona una
ferita sull'integrità biologica e, in questo caso, sull'identità sessuale che
comprende la capacità di procreare. Una ferita di tale
entità comporta l'instaurarsi di meccanismi di difesa.
Se la persona frustrata ha raggiunto l'integrazione
del Sé, dovrebbe essere in grado, di fronte all'ostacolo frustrante, di far
emergere «una nuova virtù o forza vitale» (Erickson,
1978, p. 47). Questa capacità è peraltro legata anche al rapporto esistente
all'interno della coppia che a sua volta dipende dai motivi inconsci che hanno
portato ciascuno dei due partner a scegliere ed a decidere insieme un «progetto
di vita» (Baldaro Verde, Pallanca,
1984).
Crescere insieme, continuare ad avere per anni un
rapporto autentico, non condizionato da bisogni infantili irrisolti che portano
alla dipendenza dal partner ed alla incapacità di
separazione anche quando la convivenza è in pratica un continuo e doloroso
compromesso, è già difficile per ogni coppia. Le difficoltà sono indubbiamente
maggiori quando uno dei due si sente colpevole di
impedire un progetto che comprende la nascita di uno o più figli.
La «procreazione senza sessualità» con l'aiuto di
una persona diversa dal partner, ha dato la possibilità a
molte coppie di «avere» ugualmente un figlio. Questi figli, prima
ipotizzati soltanto dalla fiaba moderna rappresentata dalla letteratura di
fantascienza, sono oggi una realtà frutta del
progresso della scienza medica.
Nati i primi dalla inseminazione
artificiale quasi sempre eterologa perché l'omologa
ha dato scarsi risultati, praticata sulla donna, sono poi clamorosamente
apparsi i bambini nati in provetta da embriotransfert
e fecondazione omologa ed eterologa in vitro. Negli
ultimi tempi sono venuti alla ribalta, attraverso gli scoop giornalistici, i
casi di bambini concepiti con il seme del padre, ma il cui ovulo, ed in alcuni
casi l'intera gestazione, rappresentano il a dono » di un'altra donna.
Quali problemi psicologici possono indurre queste
scelte nei genitori legali? Quali problemi psicologici questa scelta
comporterà per lo sviluppo psicosessuale del bambino?
Mi sembra questa l'occasione di dare consapevolezza alla scienza medica di un
problema che non può essere affrontato soltanto da un punto di vista tecnico,
parcellare e parziale, ma che deve contemplare le implicazioni etiche, legali
e psicologiche consce ed inconsce dei protagonisti di queste storie.
La frustrazione legata all'infertilità
maschile e la reazione ad essa
L'infertilità maschile, pur rappresentando una grossa
ferita perché non permette l'immortalità biologica ed in alcuni casi non
permette un «erede del sangue» cui affidare il patrimonio familiare che
continui il lavoro del padre, può essere compensata dall'attività professionale
che procura una soddisfazione particolare, se è una attività
liberamente scelta (Freud, 1929) nei campi creativi
della ricerca scientifica e dell'arte o nell'esercizio del potere, attività
tutte che permettono di «dislocare le mete pulsionali»
e quindi difendono da un destino avverso.
È vero peraltro che questa possibilità non è di
tutti; ma generalmente le persone che ricorrono ad un «signore delle nascite»
per risolvere il loro problema di infertilità
appartengono ad un ceto sociale medio-alto, che di
solito corrisponde ad un lavoro del tutto soddisfacente. Si
tratterà quindi per l'uomo di superare la possibile regressione legata al
dover ricorrere ad un medico il quale simbolizza la figura del padre-onnipotente
che concede, attraverso il dono di un altro uomo, fratello-buono, di dare alla
moglie il figlio negato dalla natura-madre.
La paternità «putativa», che d'altra parte la
religione cattolica, che rappresenta la religione dominante nel nostro paese e
ne impregna quindi la cultura, esalta attraverso la
figura di San Giuseppe, può essere accettata abbastanza facilmente anche
perché la paternità è comunque e sempre prevalentemente psicologica.
Il pericolo maggiore è dovuto
ad una possibile invidia inconscia per il donatore-potente e per la partner
sana. La Klein (1957, p. 9) ritiene che «l'invidia
sia uno dei fattori che maggiormente mina l'amore e la gratitudine alle loro
radici, perché essa colpisce il rapporto più precoce, quello con la madre».
L'invidia può provocare una reazione di aggressività
che può essere mascherata e spostata, ma che comunque esiste.
L'uomo per poter superare questo pericolo, dovrà
portare i suoi sentimenti aggressivi a livello conscio
e riuscire quindi a gestire l'ambivalenza, la coesistenza cioè di sentimenti
di amore e di odio rivolti verso la stessa persona.
Il sentimento di ambivalenza
è normale in ogni essere umano, nasce nel periodo in cui entrano in conflitto i
bisogni primari di dipendenza dalla madre e di una propria autonomia che prevede
il distacco da lei. La risposta a questo tipo di frustrazione può essere
rappresentata da forti impulsi aggressivi-distruttivi
verso la madre i quali comporteranno un'angoscia
profonda nei confronti della sicurezza di chi si ama (Bowlby,
1976) oppure aggressività verso se stessi, con sentimenti di inadeguatezza e
sindromi psicosomatiche.
Le conseguenze sul bambino
L'aggressività che nasce dalla ferita sulla capacità
procreativa, che spesso viene vissuta come ferita
sulla «virilità», concetto legato ad uno stereotipo ancora presente e duro ad
essere estirpato, può essere spostata sul bambino.
In questi casi il padre putativo eserciterà su di lui
quella che viene chiamata una «sovrapprotezione
severa». Al bambino si chiederanno: un ottimo rendimento scolastico, spesso
prestazioni sportive ad alto livello e soprattutto una scelta di lavoro che
corrisponda alle aspettative paterne. Alla femmina si
chiederà bellezza, affetto, tenerezza e «riconoscenza».
Entrambi infatti dovranno ricompensare il padre putativo
di avere loro «permesso» di nascere. Quando le aspettative sono deluse questo
tipo di padre ricorre alle punizioni o
all'indifferenza, che per il bambino è un'altrettanto grossa punizione.
Questo tipo di comportamento paterno condiziona a
sua volta quello della madre, stabilendo una transazione negativa. La madre
potrebbe sentirsi colpevole di aver chiesto troppo al
proprio partner, o essere delusa dal suo comportamento che può apparire come
rivendicativo del dono fatto. In questi casi il figlio diventerebbe per la
madre l'oggetto d'amore «privilegiato» con tutte le note conseguenze che
questo tipo di atteggiamento materno ha sullo
sviluppo psicosessuale del bambino.
La frustrazione legata all'infertilità
femminile e la reazione ad essa
Il figlio a cui si dà vita
rappresenterebbe, secondo Freud (1914), per la
donna, che più che amare desidera essere amata, una parte del proprio corpo al
quale, a prescindere dal suo narcisismo, ella può offrire in dono «il più
pieno amore oggettuale». La possibilità di amare nel modo più completo e totale
un'altra persona sarebbe quindi, per moltissime donne, rappresentato soltanto
dalla nascita di un bambino.
La nostra cultura da secoli indica nella maternità
la massima realizzazione femminile ed anche dopo
aver, in questi ultimi anni, permesso alle donne la realizzazione attraverso il
lavoro, sembra oggi ritornare ad individuare nella maternità e nella cura dei
figli, il compito più importante e più soddisfacente per la donna.
Va notato ancora che, rispetto agli uomini, le donne
che hanno un lavoro gratificante che permetta l'espressione della creatività o
l'esercizio del potere, rappresentano una netta minoranza. La maggior parte è
invece costretta a lavori di secondo piano, gregari ed insoddisfacenti. Mi
sembra questo il primo motivo per cui molte donne
costrette in pratica ad un doppio lavoro, desiderino il ritorno al focolare.
Si deve ancora sottolineare
come altre donne, ancora oggi, ricorrano alla nascita di un figlio sia per
riempire il vuoto lasciato da una carenza materna (il rapporto madre-figlia è
infatti, per quanto riguarda l'accettazione della madre, meno soddisfacente di
quello tra madre-figlio) sia per tener legato l'uomo che amano.
Il secondo motivo è a sua volta
legato ad un vissuto soggettivo di carenza materna il quale spinge, a
livello inconscio, alla scelta di un partner che rappresenta la madre a cui
attaccarsi (Baldaro Verde, Pallanca,
1984). Queste donne temono soprattutto l'abbandono, perdere il partner significherebbe per loro perdere la sicurezza e l'identità
in quanto non sono in grado di «dare espressione alle proprie facoltà e
talenti, alla molteplicità di doti che ogni essere umano possiede, sia pure in
vario grado» (Fromm, 1976, p. 120).
Viene rimossa e negata la constatazione, ampiamente
dimostrata dalla realtà, di come un figlio sia soltanto un baluardo illusorio
eretto contro la paura dell'abbandono. Nessun figlio ha infatti impedito ad
un uomo di lasciare la donna che non ama più ed a cui nessun sentimento lo
lega. Inoltre quando una donna ha strutturato un
Ideale dell'lo che si discosta notevolmente dal suo lo reale, essa tende a ipervalutarsi per dimostrare a se stessa ed agli altri di
essere quella persona eccezionale che vorrebbe essere. Sono queste indubbiamente
le ragioni che spingono alla perigliosa scelta di accettare il «dono» della
sorella, fecondata artificialmente con il liquido seminale del marito, o
chiedere ad una donna estranea che, sempre con questa tecnica, non solo
concepisce, ma porta a termine la gravidanza, offrendo alla madre legale il bambino al momento della nascita.
Le conseguenze sul bambino
Se la donna ha accettato il figlio-dono per non
perdere il partner, i sentimenti della propria inadeguatezza e della propria
inferiorità possono prevalere ed essere rivolti come invidia, a livello
inconscio, sia verso il partner che verso il bambino.
Il comportamento verso il partner sarà quello di un
ricatto affettivo che la porterà in una perenne
«illusione di potere».
Il comportamento verso il bambino sarà quello della «madre
di fil di ferro», normativa e giusta in apparenza, inaccettante e rifiutante a livello
analogico.
Ho già avuto modo di verificare come i meccanismi
inconsci di aggressività siano presenti in molte madri
che hanno adottato un bambino per desiderio espresso del marito. Questi bambini
sono diventati in realtà dei «capri espiatori» e le
punizioni continue che hanno subito per la loro opposizione a richieste
ingiuste, sono state giustificate da metodi educativi applicati per il loro
bene.
Una mia paziente vittima del comportamento inaccettante della madre adottiva finì con lo sposarsi
soltanto per fuggire da una situazione, divenuta intollerabile alla morte del
padre che l'aveva sempre protetta ed amata. Questa donna, diventata madre, ha
trasmesso la sofferenza subita ai suoi figli, con gravissime conseguenze per
loro.
Quando invece il bambino viene
desiderato per una ipervalutazione, i sentimenti di
aggressività si trasformano nel contrario e danno luogo ad una sovrapprotezione indulgente. I sentimenti di colpa che
certamente una persona con un alto Ideale dell'io, che fa parte del Super io,
certamente prova a causa dell'aggressività, provocano ansia per la salute del
bambino.
La sovrapprotezione
indulgente frustra gravemente il bisogno di autonomia,
allo stesso tempo l'ansia di una madre che trasforma nel contrario il suo
inconscio sentimento aggressivo genera ansia nel bambino.
Questi sentimenti ambivalenti si possono verificare
anche quando la nascita di un bambino è vissuta come un evento eccezionale,
come può essere vissuto anche quello della fecondazione artificiale omologa.
Ricordo un figlio del «miracolo»
nato dopo sedici anni di matrimonio la cui madre, dopo quattro gravidanze non
portate a termine, aveva perso ogni speranza di avere un bambino. Questi, che era stato segnalato e quindi immesso
in una classe differenziale scuola media (Baldaro
Verde, 1968), non era mai uscito da solo, poteva frequentare solo bambine in
quanto più educate e gentili; la madre lo vestiva, lo spogliava, lo
accompagnava a scuola portandogli la cartella. Non era mai stato al cinema o in
un bar perché i genitori temevano che, in un luogo chiuso e molto frequentato,
potesse essere contagiato da malattie o avere cattivi esempi! La casa che
Michele disegnava era una prigione o un cimitero!
Quale sarà stato il destino di questo ragazzo?
Conclusioni
«Essere» genitori rappresenta un compito molto
difficile anche per le coppie fertili che si sono reciprocamente scelte per
amore. La paternità e la maternità responsabile
volevano condurre tutti ad «essere» genitori. La miseria, l'ignoranza, i
pregiudizi, l'incapacità del legislatore di attuare nella scuola un adeguato
programma di «educazione sessuale», permettono oggi
sia la nascita di bambini indesiderati ed a cui non é possibile provvedere, che
un numero crescente di aborti.
Il palleggiamento di responsabilità tra scuola e
famiglia nasconde una resistenza profonda degli adulti
ad occuparsi della sessualità unita al piacere. Non si vuol capire che la
conoscenza dello sviluppo psicosessuale in tutti i
suoi aspetti permetterebbe rapporti autentici di scambio e non scelte
effettuate nell'età adulta sulla base di bisogni
infantili non risolti e quindi dannosa per tutti.
Peraltro dopo anni in cui si discute sul significato
ed il senso da dare a questo insegnamento, dopo
sperimentazioni più o meno selvagge ed utopistiche, che hanno «bruciato» gli
operatori perché legate a domande ambigue e contraddittorie, stiamo ancora
attendendo decisioni in merito.
Forse, anche alle resistenze verso una sessualità
armoniosa e soddisfacente, dobbiamo la ricerca di una «procreazione senza
sessualità» e quindi senza piacere.
Non vi è alcun dubbio che l'impossibilità di avere un
figlio rappresenti un dispiacere, una frustrazione, una ferita
ma abbiamo detto come neanche nel mitico Giardino dell'Eden l'uomo possedesse
tutto, tanto è vero che, per possedere quello che gli era stato negato, sfidò
l'ira del Creatore. Si deve continuare per questa strada?...
«Ogni individuo deve trovare da sé la maniera
particolare in cui può essere felice. Fattori i più diversi contribuiranno a indicargli la strada da percorrere. Questa dipende da
quanto reale soddisfacimento egli può aspettarsi dal mondo esterno e fino a che
punto è disposto a rendersi indipendente da esso;
infine, anche, da quanta forza crede di avere per modificarlo secondo i propri
desideri» (Freud, 1929, p. 575).
I punti su cui riflettere, a mio parere, sono due:
1) Quanto «reale» sia la soddisfazione che una coppia può aspettarsi da un figlio che si desidera
«avere» a tutti i costi;
2) Quale è il rischio che
corre il bambino. Un figlio pagato con la mobilitazione di meccanismi inconsci
ed arcaici di difesa corre l'altissimo rischio d'essere un «oggetto da possedere»
e non una persona; uno specchio che rifletta il Falso Sé di due persone
incapaci diversamente di dare un senso alla loro
vita.
«Per la maggior parte di noi, tuttavia, rinunciare
all'atteggiamento dell'avere risulta troppo difficile,
e ogni tentativo in questo senso ha per effetto di determinare l'insorgere di
uno stato di intensa ansia, la sensazione di far gettito della sicurezza, di
essere scagliati nell'oceano senza saper nuotare. Chi si trovi in questa condizione ignora che, una volta gettate via le stampelle della
proprietà, può finalmente cominciare a servirsi delle sue proprie forze, a
camminare con le sue gambe. A trattenerlo è l'illusione che non è in grado di
camminare da solo, la paura di crollare qualora non sia più sostenuto dalle
cose che possiede» (Fromm, 1976, p. 121).
Anche un laico può condividere valori fatti propri dalle
religioni. La chiesa cattolica, ad esempio, chiede al suo clero la rinuncia
alla paternità ed alla maternità biologica in favore della capacità e del desiderio
d'essere genitori per tutti coloro che hanno bisogno
di aiuto e di sostegno.
Certamente il chiedere questo a coloro
che non sono sorretti dalla fede richiederebbe alla società, alla
cultura di mutare alcuni suoi atteggiamenti legati alla procreazione favorendo
lo sviluppo di una identità sessuale che non venga negata o ferita perché la
meta della sessualità è diversa o la capacità di procreare impedita dalla
natura.
La lotta contro le forze ostili della natura e contro
la malattia, che rappresentano per l'uomo due tra gli ostacoli frustranti più
gravi, non deve significare «creare» una vita a tutti i costi, la qual cosa
può essere certamente molto gratificante per la componente
narcisistica di onnipotenza dei «signori delle nascite» che possono dire, come
Dio disse a Noè ed ai suoi figli, «Crescete,
moltiplicatevi e riempite la terra» (Genesi 9-1) e permettere agli uomini di
farlo. La scienza dovrebbe oggi combattere per migliorare
la qualità della vita.
Volere a tutti i costi un figlio
implica, lo si è detto, «limitazione, prigionia, ovvero controllo dell'oggetto
che si ama» (Fromm, 1976, p. 69). Essere genitori
significa acquistare la capacità di offrire strumenti, i talismani che nelle
fiabe fate e maghi donavano ai protagonisti in difficoltà
nel raggiungere le loro mete, ai figli del domani, a tutti i figli del domani.
Questo forse permetterebbe ad essi di conquistare un
nuovo valore che non abbiamo ancora: la capacità di vivere insieme in pace,
rispettandoci ed amandoci come persone.
«Chi ama davvero ama il
mondo intero, non soltanto un individuo in particolare» (Fromm,
1976, p. 138).
BIBLIOGRAFIA
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delle classi medie differenziali, Basile, Genova.
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Milano, 1977 (tr. it.).
KLEIN M. (1957), Invidia
e gratitudine, Martinelli Editore,
Firenze, 1969 (tr. it.).
* Prof.
Ass. Cattedra di Psicologia B. Facoltà di Lettere e
Filosofia, Università di Genova. Presidente della Società Italiana di
Sessuologia Clinica.
www.fondazionepromozionesociale.it