Prospettive assistenziali, n. 72, ottobre - dicembre 1985

 

 

IL RECUPERO FUNZIONALE DELL'ANZIANO CRONICO NON AUTOSUFFICIENTE LIMITI DELL'ATTUALE PRASSI RIABILITATIVA(1)

GIACOMO BRUGNONE

 

 

Tralascio intenzionalmente ogni discorso sull'organizzazione della fisiatria e sulle tecniche riabilitative, argomenti che qualsiasi fisiatra trat­terebbe sicuramente meglio di me; mi sia inve­ce consentito dire alcune cose che questi tace­rebbe in quanto estranee alle sue tradizionali competenze. Qui parlerò del recupero funzionale dell'anziano cosiddetto «cronico non autosuffi­ciente», un aspetto del problema ancora scarsa­mente recepito fuori dall'ambito geriatrico. A confermarmi in questa convinzione sta il fatto che, se è pur vero che negli ultimi decenni la fisiatria ha compiuto passi da gigante, è altret­tanto vero che questi progressi non si sono tra­dotti - come era legittimo attendersi - in omo­genei benefici per tutti i disabili, alcuni di essi ne sono stati addirittura esclusi. Tale disfunzione non è però tecnica, bensì culturale.

I cittadini sono stati di fatto suddivisi per ca­tegorie. Da un lato i «privilegiati», cioè cere­brolesi in fase acuta, traumatizzati, mutilati ed ogni altro invalido per il quale la prognosi sia ottimistica, tanto da far prevedere un più o meno completo recupero funzionale; è a questi pazienti che i riabilitatori riservano ogni loro zelo.

Dall'altro i «discriminati», cioè gli ex acuti, bocciati dalla fisiatria di «serie A» in quanto cronicizzati, ed in genere tutti i pazienti con pro­gnosi meno favorevoli; a questi vengono riser­vate pigre prestazioni di routine, o ancor peggio l'archiviazione in quanto refrattari al trattamento.

Vi sono infine i «diseredati», cioè gli esclusi a priori, per i quali la possibilità di recupero fun­zionale non viene neppure presa in esame; mi riferisco ai pazienti che, pur avendo estremo bi­sogno di riabilitazione, non sono in grado di col­laborare, agli arteriosclerotici confusi o debili­tati da un lungo periodo di allettamento, agli am­malati in fase terminale, o più semplicemente ai grandi senili, cioè persone molto anziane che, pur essendo sufficientemente sane e lucide, non sono in grado di compiere da sole le abituali fun­zioni della vita quotidiana a causa dell'età avan­zata.

Questa classificazione, frutto di criteri ispirati ad una pseudo-oggettività clinica, non tiene in al­cuna considerazione la sofferenza ed il disagio degli esclusi dal trattamento, ai quali non rimane che augurarsi o che le cose mutino, o che il Pa­dreterno mandi loro un bell'ictus, così da aver diritto a pieno titolo alla riabilitazione.

Fortunatamente però queste logiche non ven­gono universalmente condivise e sono molti i riabilitatori che interpretano in maniera esten­siva il loro ruolo, rifiutandosi di subordinare l'op­portunità dell'intervento alla consistenza tecnica delle prestazioni richieste ed al fatto che la pro­gnosi sia più o meno favorevole. Secondo costo­ro, ogni disabile ha diritto ad un adeguato trat­tamento riabilitativo che si differenzi da caso a caso, in armonia con gli obiettivi che si vogliono perseguire, tenuto conto della patologia che ha prodotto il deficit funzionale e delle condizioni psicofisiche del paziente. Uniche eccezioni do­vrebbero essere costituite da quei casi che non ne trarrebbero alcun beneficio o qualora lo scon­sigliassero controindicazioni specifiche.

Entrando ora nel vivo dell'argomento, vorrei far cenno agli aspetti del problema che conside­ro più qualificanti:

- obiettivi della riabilitazione e sua utenza;

- riabilitatori ed altri protagonisti del pro­cesso di recupero funzionale;

- adattamento dell'habitat.

 

Obiettivi della riabilitazione e sua utenza

A mio avviso un intervento riabilitativo tecni­camente e socialmente adeguato, per essere tale, dovrebbe prefiggersi i seguenti obiettivi:

- il recupero delle funzioni perdute e la va­lorizzazione di quelle conservate;

- il coinvolgimento motivazionale del pazien­te nelle varie fasi del processo riabilitativo e la sua educazione alla convivenza con quella parte di deficit motorio eventualmente non recupera­bile;

- la sua risocializzazione, nel senso di fina­lizzare l'intervento alla possibilità di svolgere attività lavorative e del tempo libero, di abitare attivamente la sua casa, il suo quartiere e pos­sibilmente la sua città, nonché di intrattenere rapporti interpersonali in maniera adeguata;

- il prevenire l'instaurarsi di posture scor­rette, piaghe da decubito ed altre complicazioni;

- l'alleviare le sofferenze, cioè la terapia del dolore;

- ed infine, come corollario degli obiettivi precedenti, la riduzione del carico di assistenza e del disagio sofferto dall'entourage del pazien­te, cioè dalle persone che si prendono abitual­mente cura di lui. L'impegno per il conseguimen­to di questo obiettivo deve essere inversamente proporzionale alle possibilità di recupero, cioè tanto maggiore quanto queste sono minori.

Tale diverso modo di intendere la riabilitazio­ne - estesa a coloro che ne sono esclusi -, se attuato, costituirebbe un avvenimento di non poco conto. Si pensi ad esempio all'importanza del conseguimento di un minimo di autosuffi­cienza del paziente allettato, che gli consenta di svolgere completamente o in parte le seguenti funzioni:

- voltarsi e girarsi per mutare posizione;

- alzarsi e sedersi;

- prendere il bicchiere o altro oggetto dal comodino;

- servirsi da solo degli ausili per soddisfare i propri bisogni corporali;

- farsi un minimo di toilette;

- scendere dal letto e risalirvi;

- trasferirsi da questi alla poltrona o alla se­dia a rotelle.

Lo stesso discorso vale anche per il consegui­mento dell'autosufficienza nello svolgimento del­le più elementari funzioni della vita quotidiana: alimentarsi, vestirsi e spogliarsi, prendersi cura della propria persona, salire e scendere le scale, percorrere ed attraversare le strade, servirsi dei mezzi pubblici, svolgere attività occupazionali, ecc.

Questa banalissima - ma non meno impor­tante - riabilitazione è attualmente trascurata dai servizi sanitari, dai terapisti in quanto consi­derata povera di contenuti tecnici e dagli altri operatori in quanto non prevista dal mansiona­rio. A trarne vantaggio è la pseudofisiatria pri­vata che riconosce eguale dignità a tutti i non autosufficienti trattandoli senza tanti scrupoli, spesso con scarsa professionalità e conseguen­do ciononostante buoni risultati degni di miglior causa.

La fisiatria ufficiale dal canto suo si limita a trattare quasi esclusivamente i disabili di «serie A», riservando loro - nella migliore delle ipo­tesi - un trattamento precoce al letto e presta­zioni in palestra per poche decine di minuti al giorno, che si riducono generalmente in aride esercitazioni motorie scarsamente motivanti. In alternativa a questa inadeguata prassi si potreb­be, da subito, trasformare l'intero ospedale pri­ma, e la casa del paziente e (se possibile) il ter­ritorio poi, in una immensa palestra (aperta indi­stintamente a tutti i non autosufficienti) nella quale fare riabilitazione a tempo pieno, vivendo secondo canoni compatibili col recupero funzio­nale e dove tutte le persone che intrattengono relazioni col disabile svolgessero il ruolo di te­rapisti, sotto la puntuale regia di riabilitatori qua­lificati che potrebbero così limitare il loro inter­vento diretto alle sole prestazioni non delegabili e assolvere un ruolo di supervisori per le altre.

 

Riabilitatori ed altri protagonisti del processo di recupero funzionale

Da quanto sin qui detto risulta evidente come la fisiatria si limiti oggi a dare una risposta pre­valentemente chinesiterapica ad alcuni dei biso­gni di poche categorie di disabili, ignorando tutto il resto; nella prospettiva del superamento di questa carenza la riabilitazione va intesa come un intervento interdisciplinare (esteso indistin­tamente a tutti i soggetti con deficits funziona­li), curato da differenti figure professionali, cia­scuna delle quali vi contribuisce per la parte di sua competenza. A questo punto i fisiatri dovran­no decidere se farsi carico della regia di tutto l'intervento o ritirarsi in palestra e collaborare con le figure professionali che necessariamente li soppianterebbero (geriatri, neurologi, ortopedi­ci o altre inventate per l'occasione). È natural­mente sottinteso che questo ruolo di «regista» deve intendersi in termini culturali e non di po­tere.

I sanitari non sono però gli unici protagonisti del processo di recupero funzionale; un ruolo altrettanto importante può infatti essere svolto anche da non tecnici, quali congiunti ed amici del paziente, operatori socio-assistenziali gene­rici, ecc.

Il successo di questa collaborazione non può però essere affidato al caso o alla buona volon­tà dei singoli, bensì rientrare in un progetto che contempli un minimo di formazione per i tera­pisti dilettanti, regoli i rapporti fra questi e i tecnici, stabilisca i rispettivi ambiti di intervento e garantisca i supporti atti a consentire un ade­guato assolvimento del loro compito.

Anche qui, come per il lavoro dei tecnici, si impone la figura di un «regista» che coordini i vari interventi, curi i rapporti con i sanitari ai quali chiedere lumi per la prosecuzione del loro compito, provveda (direttamente o indirettamen­te) affinché venga eseguita la riabilitazione di routine e i vari momenti della vita quotidiana del disabile non vengano vissuti in maniera in­compatibile col processo di recupero funzionale. lo identificherei tale figura di regista con quella del «curatore», cioè il congiunto, l'amico o l'operatore generico che più di ogni altro si prende cura del paziente.

 

Adattamento dell'habitat

Attualmente le prognosi dei medici, cioè i ver­detti sul destino dei disabili, sono condizionate da tre fattori: il quadro clinico legato alle condi­zioni psicofisiche del paziente, la disponibilità di protesi ed ausili riabilitativi ed il fatto che questi conservi o meno un suo ruolo sociale. Scarsa attenzione viene invece dedicata alla possibilità che sia l'habitat ad adattarsi alle ri­sorse del disabile. Qui do per scontata la rimo­zione delle macrobarriere architettoniche (rego­lata dal D.P.R. 384/78) e mi riferisco a non meno importanti adattamenti di strutture, oggetti ed apparecchi con i quali il paziente viene quotidia­namente a contatto.

Per sopperire a questa carenza i fisiatri ed i terapisti non possono inventarsi tout-court una professionalità e conoscenze che non hanno; essi potrebbero però crearsele un po' alla volta sul campo, assieme ai tecnici che dovranno tra­durre i bisogni espressi dai pazienti ed i loro suggerimenti in oggetti e strutture accessibili. Fortunatamente non si dovrà iniziare da zero in quanto esiste già una ricca letteratura cui far ri­ferimento ed una fornitissima banca dati messa a disposizione dal S.I.V.A. di Milano (2), dalla quale attingere le informazioni necessarie al re­perimento del materiale adattato o a come adat­tarlo in proprio.

Molte di queste trasformazioni, poverissime di contenuti tecnici, potrebbero da subito entra­re nella prassi riabilitativa, affidate alla super­visione dei terapisti e dei fisiatri. Si pensi ad esempio quanto potrebbero dimostrarsi utili al­cuni accorgimenti quali:

- l'adattamento di pulsanti, interruttori, chia­vi, maniglie ed altri oggetti di uso corrente alla residua motricità delle mani del paziente;

- la modifica dell'altezza di letti, tavoli, se­die, piani di lavoro, mensole, ecc.;

- l'installazione di un secondo corrimano lun­go le scale e di maniglioni ed altri appigli in casa

- l'adozione di telecomandi ed altri accorgi­menti tecnici che facilitino operazioni quali ac­cendere e spegnere lampade, radio, televisione, fornelli, impianto di riscaldamento; aprire porte, cancelli e finestre; servirsi del telefono; segna­lare stati di bisogno, ecc.

Riassumendo il senso della mia comunicazio­ne, alcuni fra i punti da tener presenti nella pro­spettiva della rifondazione dell'attuale, obsoleta fisiatria, sono i seguenti:

- associare i concetti di riabilitazione e riso­cializzazione, estendendo questo intervento, an­che se con modalità diverse, a tutti i soggetti con deficits funzionali, quindi anche agli anziani cronici non autosufficienti;

- mettere in discussione il ruolo dei tecnici quali depositari di un sapere non divulgabile e coinvolgendo i non tecnici quali attivi protago­nisti del processo di recupero funzionale;

- operare affinché l'emarginazione dei disa­bili non trascini con sé le persone che gli gravi­tano intorno e si prendono cura di lui.

Concludendo, mi auguro di essere riuscito ad assolvere il compito assegnatomi, cioè porre in termini politici esigenze che spetta ora agli am­ministratori ed ai tecnici approfondire e tradurre in risposte concrete.

 

 

 

 

(1) Sintesi di relazione svolta al Convegno «Per una corretta politica sociale e sanitaria a favore degli anziani autosufficienti e non, in Valle d'Aosta», Aosta, 8-9 novem­bre 1985.

(2) S.I.V.A., c/o Istituto Don Carlo Gnocchi, via Gozza­dini 7, Milano.

 

www.fondazionepromozionesociale.it