Prospettive assistenziali, n. 72, ottobre - dicembre 1985

 

 

OBBLIGO ALIMENTARE E PRESTAZIONE ASSISTENZIALE

MASSIMO DOGLIOTTI (1)

 

 

1) L'obbligo alimentare è disciplinato dal ti­tolo XIII, libro primo del Codice civile, artt. 433 e segg. Si distingue in genere tra alimenti, che costituirebbero lo stretto necessario per mante­nere in vita il soggetto, e mantenimento, che si configura come nozione più ampia, quale com­plesso di prestazioni, che soddisfano le esigen­ze di vita dell'individuo, anche in relazione alla sua collocazione economico-sociale.

Da un lato dunque obbligo di mantenimento tra i coniugi e nei confronti dei figli minori, come contributo ai bisogni della famiglia, in propor­zione alle sostanze e alle capacità di lavoro pro­fessionale o casalingo di ciascuno (art. 143 e 148 c.c.). E in caso di inadempimento dei genitori, saranno tenuti a concorrere al mantenimento della prole, in ordine di prossimità, gli ascen­denti legittimi o naturali (art. 148 c.c.). L'obbligo di mantenimento tra i coniugi permane anche dopo la separazione, ove uno di essi non abbia adeguati redditi propri (art. 156 c.c.) tranne che non sia a lui addebitabile la separazione: in tal caso avrebbe diritto soltanto ad un assegno ali­mentare. Cessa ogni obbligo con il divorzio, an­che se è prevista la possibilità di un assegno, di natura composita, ma prevalentemente alimen­tare, a favore dell'ex coniuge, finché non passi a nuove nozze. È previsto infine un obbligo dei figli di contribuire al mantenimento dei genitori, in caso di convivenza con essi (art. 315 c.c.).

Se dunque la nozione di mantenimento è stret­tamente inerente al rapporto di coniugi o/e filia­zione, al contrario quella di alimenti si estende ad una più ampia fascia di parenti. All'obbligo di prestare gli alimenti sono tenuti, nell'ordine, il coniuge, i figli legittimi naturali, adottivi o, in mancanza, discendenti prossimi, l'adottante nei confronti del figlio adottivo, i genitori, o in man­canza gli ascendenti prossimi, i generi e le nuo­re, il suocero e la suocera, i fratelli (art. 433 c.c.). Ancora, il destinatario di una donazione è tenu­to, con precedenza su ogni altro, a prestare gli alimenti al donante (art. 437).

Il Codice civile detta una disciplina minuta e particolareggiata della materia: gli alimenti sono chiesti da chi versa in stato di bisogno e non è in grado di provvedere al proprio mantenimento, e sono assegnati in proporzione al bisogno ap­punto di chi li domanda e alle condizioni econo­miche di chi li deve somministrare (art. 438 c.c.). Mutando le condizioni economiche di chi som­ministra o di chi riceve gli alimenti, l'autorità giudiziaria può provvedere per la cessazione, ri­duzione, aumento, secondo le circostanze (art. 440 c.c.). Ancora, l'obbligo alimentare può essere adempiuto, a scelta del soggetto tenuto, median­te assegno periodico ovvero accogliendo e man­tenendo nella propria casa colui che ne ha di­ritto (art. 443 c.c.). Ma può la stessa autorità giudiziaria determinare il modo di somministra­zione, e quindi, secondo alcune interpretazioni, eventualmente disporre perché il soggetto ob­bligato, anche contro la sua volontà, accolga in casa il congiunto che ne ha diritto.

 

2) In realtà l'obbligo alimentare, e soprat­tutto la previsione di una così ampia fascia di parenti tenuti, appare indubbia espressione di una società assai diversa dall'attuale, nella quale era diffuso il modello di famiglia patriarcale, ca­ratterizzata da una solidarietà allargata, mentre l'«assistenza» pubblica era sostanzialmente ine­sistente. Assai differente il quadro delineato dalla Carta costituzionale (e che meglio rispec­chia l'odierno contesto sociale): è vero che si richiede correttamente a tutti i cittadini (e quin­di sicuramente anche ai familiari) l'adempimento degli obblighi di solidarietà (art. 2 Cost.), tutta­via le funzioni assistenziali sono assunte diret­tamente dallo Stato: servizi sociali (sanità, scuo­la, ecc.) per tutti i cittadini, sistema previden­ziale per i lavoratori, assistenza per gli inabili al lavoro sprovvisti dei mezzi di sussistenza (art. 38 Cost.). È noto altresì che a seguito del D.P.R. 616 del 1977 tutte le funzioni assistenziali, pre­cedentemente disperse tra i più diversi enti ed organi, sono state per gran parte attribuite ai Comuni, che naturalmente, in attesa di una leg­ge-quadro sull'assistenza, debbono fornire le loro prestazioni secondo le indicazioni e nei limiti della legislazione fino ad oggi vigente.

Si è detto talora che la disciplina alimentare si porrebbe in contrasto con un avanzato siste­ma di sicurezza sociale: in realtà sembra potersi affermare che non sussiste contrasto, in quanto obbligazione alimentare e prestazione assisten­ziale rispondono a logiche e si muovono in pro­spettive tra loro totalmente differenti, l'una pri­vatistica, l'altra pubblicistica, senza possibilità alcuna di collegamento o - ancor peggio - di contaminazione. Non si potrebbe dunque soste­nere, come pure è stato fatto, che l'assistenza pubblica si indirizzi ai «poveri», solo in via sus­sidiaria, quando non esistono parenti tenuti agli alimenti. E ciò, come si diceva, perché l'assi­stenza è funzione fondamentale dello Stato mo­derno, e i suoi compiti non possono essere de­legati o meglio scaricati esclusivamente sulla famiglia. Tale esigenza trova un preciso riscon­tro di carattere processuale: non è data possi­bilità all'ente erogatore di assistenza di chia­mare in giudizio i parenti tenuti agli alimenti per sentirli condannare all'adempimento della pre­stazione nei confronti del congiunto povero. Si tratta di un rapporto privato tra il soggetto che ha diritto e il parente obbligato, senza possibi­lità alcuna di interferenza da parte dell'ente pub­blico. Spetterà solo a chi è privo di mezzi di so­stentamento, ancorché destinatario di prestazio­ni pubbliche, decidere discrezionalmente se agi­re o meno nei confronti degli obbligati per gli alimenti. Ogni sostituzione processuale sarebbe inammissibile.

Esclusa dunque ogni possibilità di azione da parte dell'ente erogatore, che non è legittimato a rivalersi sui parenti tenuti, esso potrebbe even­tualmente indirizzare il «povero» al gratuito pa­trocinio (ma sempre che questi intenda promuo­vere il giudizio alimentare); più ampio spazio di manovra vi sarà soltanto nel caso che il povero non appaia in grado di provvedere ai propri inte­ressi; l'ente potrà inviare un rapporto alla Pro­cura della repubblica, che, ove lo ritenga oppor­tuno, promuoverà una causa di interdizione. In tal caso spetterà comunque al tutore la scelta discrezionale sulla richiesta degli alimenti. È pur vero infine che i parenti tenuti, se inadempienti alla relativa prestazione, potrebbero incorrere in responsabilità penale per violazione degli obbli­ghi di assistenza familiare (art. 570 c.p.) ma an­cora una volta solo su querela del diretto inte­ressato.

3) È appena il caso di osservare che i tenta­tivi di giustificare un potere di sostituzione pro­cessuale dell'ente erogatore, di fronte alla chiara dizione della legge sono destinati al fallimento. Così il riferimento all'art. 7 della legge del 1890 n. 6872, per cui spetta alla congregazione di ca­rità (poi ECA, oggi Comune) la cura degli inte­ressi dei poveri e la loro rappresentanza legale dinanzi all'autorità amministrativa e a quella giu­diziaria. La norma è stata da sempre interpre­tata (e non poteva che essere così) come pre­visione di salvaguardia e protezione verso i «po­veri» visti come classe, collettività (ad es. pro­curando che la volontà di testatori o donanti ge­nericamente a favore dei poveri fosse piena­mente attuata) e non nei confronti del singolo individuo. miglior fortuna potrebbe avere l'uso di uno strumento privatistico, come l'azione per ingiustificato arricchimento, cui in genere ci si riferisce come extrema ratio... quando non si hanno altre risorse, cui richiamarsi. In ogni caso il riferimento è del tutto errato. Non si potrebbe parlare di ingiustificato arricchimento per il pa­rente tenuto agli alimenti finché questi non sia­no richiesti appunto dal soggetto che ne ha di­ritto.

Dunque, per concludere, nessuna possibilità di sostituzione o rivalsa da parte dell'ente ero­gatore. Non si vuole evidentemente, con queste affermazioni, incoraggiare la famiglia ad infran­gere gli obblighi verso un suo componente che sono senza dubbio morali prima ancora che giu­ridici, si vuole invece ancora una volta ribadire che obbligo alimentare e prestazione assisten­ziale rispondono a logiche diverse e non vanno confusi (anche se confusioni e commistioni fa­rebbero molto comodo a chi - e sono oggi in molti - sull'onda della crisi economica, predica la fine dei sistemi di sicurezza sociale).

 

 

(1) Giudice del Tribunale di Genova e Docente all'Uni­versità della Calabria, Facoltà Scienze economiche.

 

www.fondazionepromozionesociale.it