Prospettive assistenziali, n. 73, gennaio - marzo 1986

 L'INFORMAZIONE AL BAMBINO DELLA SUA SITUAZIONE DI FIGLIO ADOTTIVO

GIANCARLO DURELLI (1)

 Vorrei iniziare con una favola che un bimbo un giorno mi ha raccontato, perché le favole ci esprimono la profondità e la saggezza dell'anima; una favola che narra la trasformazione di una tartaruga marina in tartaruga terrestre; una fa­vola di una nascita ed una trasformazione che inizia così:

«La piccola tartaruga si svegliò sulla sabbia calda, un'onda del mare che prima cullava il suo sonno, ora l'aveva gettata sulla riva e la tarta­ruga, risvegliandosi al mondo, si domandava chi era e da dove giungeva. Attorno, la ruvidezza della terra; in lontananza, l'eco di un ricordo che le evocava antiche sensazioni di pace e di sere­nità; di nuovo le si ponevano interrogativi senza risposta, ma quando la piccola tartaruga un po' spaventata di questa sua nuova vita si chiudeva nel guscio della sua casa, poteva risentire le armonie di profondità dimenticate che le ricor­davano la sua antica origine e allora poteva ad­dormentarsi e sognare».

Anche noi adulti, approdati ormai da tempo sulla spiaggia della vita, a volte affiorano antichi interrogativi che riguardano la nostra origine, la nostra provenienza e il senso del nostro esiste­re ed anche se consciamente non abbiamo ricor­di perché la nostra nascita si confonde nell'in­conscio, è sufficiente un gesto, un ambiente, un oggetto per evocare antiche sensazioni di sicu­rezza... e la paura, allora, svanisce, perché la ferita della mancanza si è trasformata nel segno della forza.

Un bimbo è entrato in una nuova famiglia por­tandosi sulle spalle il suo bagaglio di ricordi, più o meno pesante, forse solo un breve, ma brusco abbandono od anni di istituto e di frustrazioni...

Poi a poco a poco l'affetto dei due nuovi geni­tori ha trasformato la ferita dell'abbandono; egli ha trovato nuovi amici, nuove tenerezze che ave­va perduto o forse mai incontrato, ma a volte, nell'ora del silenzio, riappare l'antico fantasma dell'abbandono ed il bimbo si chiede chi è e da dove proviene; guardandosi attorno, troverà og­getti e volti familiari, ma lui sa che c'è un «pri­ma» che dovrà ritrovare per riacquistare la fidu­cia in se stesso; e così giovane Ulisse, inizierà quel viaggio che lo condurrà alla sua Itaca.

È questo un cammino che si compie nel proprio mondo interno, ma che a volte necessita anche di qualche verifica esterna ed allora il bambino, ormai già adulto vorrà incontrare realmente i luo­ghi, gli oggetti e le persone del «prima» e ci potrà chiedere di aiutarlo.

E noi genitori adottivi cosa facciamo?

Quello che noi certamente sappiamo è che il viaggio sarà suo e che lui dovrà essere il timo­niere della propria nave, ma sappiamo anche - e questa consapevolezza a volte può essere fatico­sa - che a noi spetta il compito di accompa­gnarlo in questa avventura, che ha avuto inizio, per noi e per lui, con la scelta dell'adozione.

Interroghiamoci allora insieme sul senso di questa scelta per poter poi essere chiari nelle nostre risposte quando nostro figlio ci chiederà i perché.

Riflettiamo allora sul senso rivoluzionario che ha l'adozione e, con essa, ogni forma di acco­glienza dell'altro; un senso che è stato più volte narrato dai miti nella storia dell'umanità e che propone la trasformazione del legame di sangue (vincolo inconscio perché basato solo sul rap­porto biologico) nella relazione adottiva, dialet­tica cosciente di genitorialità e figlità.

lo credo che la relazione tra genitori e figli, per essere completa, debba sempre essere una scelta adottiva, intendendo con essa una relazio­ne che superi il legame biologico per proporre un rapporto tra soggetti dove l'incontro dell'umano con l'umano, nell'accoglienza dell'altro, non solo generato, ma scelto, ci sveli l'incontro con l'universale.

La scelta di adozione diviene allora una scelta continua, nella consapevolezza che essa è l'uni­ca scelta cosciente della genitorialità, per que­sto essa è faticosa, perché ci costringe al con­tinuo rinnovamento.

Non dovrà, quindi, stupirci se molti genitori, anche adottivi, vi rinuncino, facendo sì che la loro famiglia divenga più naturale possibile, accen­tuando al massimo la normalità, invece di essere, come ogni famiglia dovrebbe, la più adottiva pos­sibile, sottolineando con questa scelta, la capa­cità trasformativa.

Crede, allora, che il considerare, come a vol­te accade, la famiglia adottiva come inferiore, sia il frutto di una paura, spesso inconscia, che i genitori hanno del cambiamento.

Da questo punto di vista, quello dell'immobili­smo e dell'uniformità, il figlio adottivo dovrà co­noscere il meno possibile sulle sue origini e sul­la sua famiglia biologica, e i genitori adottivi cercheranno di rendere il proprio figlio adottivo il più «naturale» possibile, attraverso una ope­razione di piatto adattamento.

Se ciò riesce - come a volte accade - no­stro figlio sarà diventato come noi volevamo, una copia conforme ai nostri desideri; egli potrà anche accontentarci per quieto vivere o per pau­ra di un ulteriore abbandono anche solo fanta­sticato ed indosserà l'abito di famiglia, che for­se noi stessi, nostro malgrado, abbiamo indos­sato perché ci era stato imposto dai nostri ge­nitori; ma sarà l'abito dell'identificazione che si sovrapporrà alla ricerca della propria individua­zione.

Ma se noi genitori saremo in grado di com­prendere il potenziale trasformativo dell'adozio­ne, potremo parlare di essa senza esserne «par­lati» e la scelta adottiva farà parte del nostro discorso, essa sarà una scelta naturale ed allora naturalmente, senza forzature, potremo discor­rere di adozione con i nostri figli e con gli altri.

 

L'informazione al figlio

Uno dei problemi di fondo che i genitori adot­tivi debbono affrontare è la corretta informazio­ne ai figli sulla loro provenienza adottiva.

I figli hanno il diritto di sapere e noi, come ge­nitori, abbiamo il dovere di informarli, ma per far questo correttamente occorre che prima noi stessi siamo stati chiari sulle nostre scelte ed una delle verifiche la affronteremo quando do­vremo rispondere ai perché che i nostri figli ci porranno.

Se l'adozione fa parte del nostro discorso di vita, queste domande saranno allora un ulteriore motivo di riflessione, che noi potremo fare in­sieme ai nostri figli, ma se l'adozione è stata per noi un evento eccezionale da normalizzare il più presto possibile, queste domande ci cree­ranno tensione ed imbarazzo e cercheremo di evitarle mascherando le nostre risposte e que­sto comportamento non potrà far altro che gene­rare in nostro figlio ulteriori curiosità ed ulteriori frustrazioni. Egli si troverà di fronte ad una porta chiusa che cercherà di forzare fantasticando ed idealizzando la storia della propria origine, che non può incontrare, perché sta dietro la porta sbarrata.

È quindi necessario che il figlio sappia, alme­no per quello che noi sappiamo, ma è anche ne­cessario che quest'informazione non divenga una rivelazione, ma che, come già ho detto, l'adozio­ne sia parte del nostro discorso affinché ogni nostro gesto, ogni nostro comportamento ne pos­sa, sempre, «parlare». Se l'adozione non è nella nostra famiglia un argomento tabù, nostro figlio troverà naturalmente le sue risposte perché po­trà formulare tranquillamente le sue domande. II timore che l'informazione possa creare con­seguenze negative è un timore assolutamente infondato, mentre possono essere gravi le con­seguenze di una rivelazione improvvisa, special­mente se fatta da persone estranee.

Se siamo concordi sul fatto che nostro figlio debba conoscere la sua condizione di figlio adot­tivo dobbiamo ora domandarci quando tale infor­mazione debba essere fatta.

Una risposta potrebbe essere subito; se noi possiamo parlare di adozione naturalmente, no­stro figlio, anche se piccolissimo, potrà ascolta­re i nostri discorsi ed a poco a poco prender coscienza della sua condizione di figlio adottivo che per lui corrisponderà semplicemente alla con­dizione di figlio. Ma ci sarà un momento dove l'informazione dovrà essere più precisa e più diretta; il ritardare troppo questo momento può essere sbagliato perché può farci sentire in colpa verso i nostri figli e ciò può creare un'atmo­sfera familiare poco serena. lo credo che l'età giusta per poter parlare ai nostri figli della loro adozione sia dai due ai quattro anni; è questa l'età dove iniziano a sorgere i primi interrogativi perché il bimbo inizia a prendere coscienza della propria individualità; egli cioè dovrebbe iniziare a superare la conflittualità edipica per giungere in una fase, quella della latenza, dove le tensioni interne sono più moderate e dove si possono incontrare i primi momenti di riflessione.

Come già ho detto non dovrà trattarsi di una ri­velazione, ma di una graduale informazione che stimoli nel bimbo la presa di coscienza.

Quello che è importante è che la condizione di figlio adottivo non risulti né migliore né peg­giore di quella di figlio biologico, ma solamente diversa per quanto riguarda l'origine. All'inizio queste informazioni, purché sempre chiare e sem­plici; saranno sufficienti a soddisfare la curiosità del bambino e l'adozione per lui sarà una bella favola che ogni tanto gli verrà raccontata, come ad esempio questa:

«La mamma ed il papà non potevano aver bimbi o volevano un altro bambino e così sapen­do che tu eri sola in istituto sono venuti a pren­derti e sono diventati la tua mamma ed il tuo papà e tu sei diventato il loro figlio».

In fondo non è altro che il racconto della gra­vidanza vissuta dalla coppia aspettando il nuovo figlio... e poi l'incontro è la nuova nascita; e que­sta gravidanza simbolica, a volte sofferta quan­do i tempi di attesa sono lunghi ed indefiniti, porta, nella scelta adottiva, tutti í segni del no­stro amore, e tutto questo nostro figlio deve saperlo.

Proprio alcuni giorni fa una mia collega ed amica mi raccontava di una bimba adottiva che aveva problemi di identità e mi parlava della dif­ficoltà della madre nel raccontare alla figlia la storia del suo arrivo in famiglia, il momento dell'attesa, il viaggio nel paese straniero, il momen­to dell'incontro ed ancora adesso questa madre deve spesso ripercorrere nei suoi ricordi questi momenti perché ha ancora difficoltà nell'incontra­re e nel riconoscere dentro di sé la propria figlia.

Tutto ciò dovrebbe farci riflettere, perché se noi genitori adottivi abbiamo difficoltà a ricono­scere e a dichiarare nostro figlio, per lui sarà molto difficile incontrare il suo autoriconoscimento e dichiarare la sua soggettività.

In seguito il bimbo porrà domande più precise e vorrà sapere i motivi del suo abbandono. Anche in questo caso il discorso va fatto con semplicità e con chiarezza evitando specialmen­te di dire che non sappiamo ed evitando di dare giudizi sulla parola «abbandono», perché nessu­no di noi è in grado di sapere le motivazioni pro­fonde dei genitori che hanno abbandonato.

Il fantasma del genitore biologico come «ri­vale» può esistere solo quando noi, non com­prendendo il senso dell'adozione, ricadiamo nel vincolo del «legame » di sangue e proponiamo il possesso dell'altro al posto dell'accoglienza.

Solo se noi abbiamo superato la conflittualità edipica verso i nostri genitori divenendo, in quan­to adulti, genitori di noi stessi, potremo vivere la relazione adottiva come una relazione di cre­scita che trasformando il figlio adottivo che ab­biamo accolto, trasformerà noi stessi e ci aprirà ad una più ampia visione del mondo.

Certamente è necessario per nostro figlio, co­me lo è per noi, che egli possa accettare le proprie origini senza timori e senza vergogne anche se a volte tale accettazione, specialmente nei bimbi adottati più grandicelli e con una lunga storia di istituzionalizzazione è molto faticosa.

Egli deve conoscere il suo antico stato di ab­bandono senza che per questo vengano dati giu­dizi nei confronti dei genitori biologici, egli deve sapere che vi possono essere persone che per condizioni di vita particolari non possono avere una casa, allevare i propri figli e procurar loro quanto è necessario per la loro sicurezza, come deve sapere che certi padri e certe madri non possono riconoscersi tali perché loro stessi si portano dietro i pesi di abbandoni subiti.

Un ricordo non mitizzato dei genitori biologici permetterà a nostro figlio di affrontare meglio le tappe critiche della sua evoluzione quando, con maggior insistenza, lui si porrà l'interroga­tivo sulle proprie origini nella ricerca della pro­pria identità.

In questi momenti di forte spinta evolutiva egli dovrà cercare di avere della propria vita una visione di insieme; per questo desidererà recu­perare i ricordi più antichi; egli infatti, per poter strutturare un adeguato senso di identità e giun­gere ad un'effettiva autonomia, dovrà essere in grado di non rifiutare il suo passato, ma renderlo parte integrante della sua vita, dovrà cioè poter dare alle sue origini ed alla sua esperienza pri­ma dell'adozione lo stesso valore delle espe­rienze fatte nella nuova famiglia adottiva, senza che tra esse vi sia un senso di frattura od un senso di priorità.

Certamente ciò non è facile perché questo passato del prima adozione rischia di essere vis­suto come una esperienza da dimenticare, ma proprio perché tale, noi dovremo aiutare nostro figlio a non rimuoverla, affinché quella che fu la ferita per una mancanza si trasformi da segno di debolezza ed insicurezza in segno di forza e di vitalità e così nostro figlio potrà vivere pie­namente il suo cammino di individuazione.

 

Conclusione

Se nell'arco della nostra vita lo spazio ci dà la dimensione dell'essere, mentre il tempo ne determina il suo divenire trasformativo, noi con la scelta adottiva, dando uno spazio affettivo a nostro figlio gli permettiamo di riconoscere la propria identità e di riappropriarsi del senso del suo essere.

La nostra vita familiare, accanto ai nostri figli, permette a noi ed a loro, di vivere pienamente il tempo evolutivo della trasformazione, che inizia con la nascita e, almeno, per quello che ci è concesso di conoscere, termina con la morte, ma che a volte si interrompe perché perdiamo il senso del cammino. Tempo e spazio, sappiamo, si compenetrano segnando l'uno il divenire, l'al­tro la stabilità, l'uno la conquista del nuovo, l'al­tro il senso dell'esperienza vissuta.

Noi genitori, attraverso l'adozione, diamo a nostro figlio il senso dello spazio affettivo che lui aveva perduto o mai incontrato, lui ci porta il senso del nuovo, il continuo movimento del bambino che sollecita i tempi della trasforma­zione.

L'adozione, quindi, come accoglienza dell'altro estraneo e nuovo, permette al bimbo di ritrovare il suo giusto spazio affettivo e permette a noi genitori di ritrovare il tempo del rinnovamento che a volte la quotidianità un po' ripetitiva della vita, ci può aver fatto perdere.

E così, questo viaggio affascinante ed avven­turoso che è l'adozione ci porterà, attraverso gli interrogativi che essa ci pone, a riscoprire il senso del nostro esistere, e porterà nostro figlio a ritrovare il senso della propria individualità.

.... e così la piccola tartaruga della favola ini­ziale potrà riprendere a camminare sulle strade del mondo.

 

 

 

(1) Relazione tenuta in occasione del dibattito «L'in­formazione al bambino della sua situazione di figlio adot­tivo o affiliato», organizzato dall'ANFAA (Torino, 25-11-85).

 

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