Prospettive assistenziali, n. 73, gennaio - marzo 1986

BARRIERE SENSORIALI NELLO SPAZIO PUBBLICO

FABIO LEVI

 Ho già avuto modo in altra occasione di ana­lizzare le condizioni esterne che influiscono ne­gativamente sulla possibilità per il disabile vi­sivo grave di muoversi in piena libertà e autono­mia nel contesto urbano. I tre ambiti nei quali mi è parso allora si dovesse indagare, anche e soprattutto allo scopo di individuare adeguati principi di soluzione, sono:

- la scoperta e la definizione degli ostacoli (fissi e occasionali) che affollano di pericoli, a volte assai gravi, i percorsi cittadini;

- lo studio dei sistemi di orientamento cui, spesso in modo del tutto inconsapevole, ci si riferisce nella sistemazione degli spazi esterni e delle condizioni specifiche utili a favorire la mobilità di chi ha notevoli problemi visivi;

- la ricerca di nuovi sistemi di segnalazione, o magari più semplicemente la definizione di mezzi atti a migliorare i sistemi di segnalazione ampiamente diffusi nelle nostre città, nell'inten­to di creare una sorta di rete di protezione e sostegno pienamente accessibile a chiunque pre­tenda giustamente di valersi del proprio inalie­nabile diritto alla libera circolazione.

Molto si può dire e fare in questi ambiti, sia che si ragioni con il metro dell'architetto o dell'urbanista, sia che si scelga il punto di vista del pubblico amministratore o, ancora, più sempli­cemente quello del privato cittadino attento agli aspetti più minuti della convivenza fra le perso­ne. Qualsiasi strada si deciderà di percorrere, ci si renderà comunque conto di quanto ampio sia il pubblico interessato ad un miglioramento del­la fruibilità visiva dello spazio urbano. Anzi, pro­prio su questo terreno - per ora il meno consi­derato nel quadro delle ricerche relative alle co­siddette barriere architettoniche - è possibile a mio avviso sviluppare un massimo di sensibi­lità a nuovi criteri di progettazione e di sistema­zione degli spazi, al di là delle necessità pur imprescindibili ma spesso assai poco considera­te delle minoranze colpite dagli handicaps più gravi.

P- tuttavia proprio ai problemi della minoran­za dei disabili più gravi - nello specifico dei non vedenti e degli ipovedenti - che intendo rife­rirmi in questa relazione, sia per non ripetere cose già dette altrove, sia per poter recuperare appieno la dimensione soggettiva dell'handicap, tanto più importante e significativa nel caso di individui affetti da deficit sensoriali. È senz'altro utile discutere del miglior assetto da dare agli spazi esterni a condizione che ci si chieda con altrettanta attenzione come venga vissuta, da chi la subisce nei fatti, l'esclusione da quegli spazi e, ancora, se il problema della mobilità non pos­sa essere affrontato, oltre che intervenendo sull'ambiente, anche attraverso iniziative rivolte di­rettamente ai disabili interessati a un migliora­mento del loro rapporto con il mondo che li cir­conda.

 

La realtà attuale

Posso qui anticipare, in forma ancora del tut­to approssimativa, i risultati di un'indagine sul­la mobilità nell'ambiente urbano dei non veden­ti - con e senza residuo visivo - svolta a To­rino con la collaborazione della locale sezione dell'Unione italiana ciechi.

Dai 200 questionari finora spogliati (corrispon­denti a circa 1/5 degli iscritti all'Unione in To­rino) risulta che:

- quasi il 60 per cento degli intervistati ha più di 60 anni, poco più del 30 per cento ha fra i 40 e i 60 anni, il 15 per cento fra i 20 e i 40 e il restante 5 per cento meno di 20 anni;

- il 45 per cento non ha alcun residuo visivo, il 35 per cento ha meno di 1/20, il 20 per cento ha più di 1/20;

- il 75 per cento ha visto in un passato di solito non molto recente assai più di ora, il 25 per cento no;

- quasi il 40 per cento ha un'occupazione sta­bile, mentre ali altri sono pensionati, disoccu­pati e casalinghe;

- il 35 per cento dichiara di sapersi muove­re senza accompagnatore;

- si tratta del 15 per cento sul totale dei ciechi assoluti interrogati, del 35 per cento di chi ha un residuo visivo di meno di 1/20 e dell'80 per cento di chi ha un residuo visivo supe­riore a 1 /20;

- quanto all'età, dicono di andare in giro da soli il 60 per cento degli interrogati fino ai 20 anni, il 50 per cento fra i 20 e i 40 anni, il 35 per cento dai 40 ai 60 anni e il 25 per cento oltre i 60 anni;

- di questi, i due terzi si muovono da soli più di due volte la settimana;

- poco più della metà di chi va in giro da solo esce dal proprio quartiere di residenza;

- la disponibilità a recarsi da soli in quartieri diversi da quello di residenza è funzione diretta della necessità di spostarsi per recarsi sul luogo di lavoro;

- non tutti quelli che dichiarano di sapersi muovere da soli per la città - anche se tuttavia si tratta di una larga maggioranza - affermano di servirsi dei mezzi pubblici senza accompagna­tore;

- in generale, sia chi va anche in giro da solo, sia chi si muove unicamente con qualcun altro, sceglie come accompagnatore preferibilmente un parente (circa l'80 per cento dei casi);

- il 70 per cento dichiara di non cambiare con frequenza il proprio accompagnatore;

- più del 70 per cento dichiara non essere facile accompagnare un cieco;

- poco più della metà dichiara di ricevere un aiuto valido dagli estranei con cui viene in con­tatto;

- poco più del 25 per cento degli interrogati dichiara di andare a sentire musica, al cinema o al teatro; solo l'8 per cento dice di andarci più di 10 volte l'anno.

Al di là del carattere ancora provvisorio dei risultati di cui ho appena detto, si tratta comun­que di dati destinati a non mutare di molto alla fine della ricerca. C'è da dire inoltre che il cam­pione considerato è sufficientemente ampio da offrire un'idea abbastanza attendibile della mo­bilità nell'ambiente urbano dei non vedenti tori­nesi nel loro insieme.

Senza voler trarre a questo punto conclusioni affrettate, mi sembra tuttavia possibile descrive­re l'impressione generale suscitata, a mio avvi­so, dalle cifre appena citate. Ci si trova di fronte a un quadro in cui sembrano coesistere da una parte una diffusa condizione di scarsa mobilità sul territorio e quindi di ridotte possibilità di so­cializzazione, mitigata solo in parte dall'abitudine di farsi accompagnare per lo più da parenti stret­ti e quasi sempre dagli stessi; dall'altra la pre­senza attiva di giovani, ma non solo, che sovente a partire dall'avvenuto inserimento nel mondo del lavoro, cercano di configurare in modo diver­so il proprio rapporto con la città.

 

Lo spazio pubblico

L'impostazione della ricerca condotta a Tori­no - sulla quale peraltro mi riprometto di tor­nare più avanti - presuppone un'idea dello spa­zio pubblico, inteso non già come mero spazio fisico a disposizione del pubblico, ma come luogo costituito dalle relazioni - possibili o reali, sta­bili o occasionali, soddisfacenti o meno - che gli individui intrecciano fra loro.

Cercherò di chiarire meglio il mio pensiero a questo proposito.

Qualcuno ha affermato di recente - e credo non a torto - che la città dei nostri giorni si sta trasformando in un intrico di percorsi che conducono gli individui, attraverso spazi sem­pre più ampi ma relativamente privi di stimoli e di interesse, da un luogo circoscritto a un altro luogo pur esso circoscritto (dalla casa al lavoro, dalla scuola alle case di amici, da un qualche ufficio pubblico al supermercato, ecc.). Si trat­ta ovviamente, più che di un processo compiuto, di una tendenza destinata peraltro a scontrarsi, soprattutto nelle molte città italiane di piccola e media dimensione, con le abitudini di una vita sociale direi quasi «di strada» ancora assai ra­dicate, una tendenza però destinata ad avere non poche conseguenze sulla vita della gente.

Così, sono in molti oggi a sperimentare, anche se alla lontana, un tratto piuttosto comune alla condizione di chi ha gravi problemi di vista, abi­tuato assai spesso a concepire i propri sposta­menti come un mero trasferimento, in sé più ricco di problemi e difficoltà che non di effettivo interesse, da un punto della città ad un altro, direi quasi da un'isola a un'altra isola. Non a caso per un non vedente o un ipovedente lo studio e la scelta - non di rado definitiva o quasi - dei «percorsi» assume un'importanza tutta particolare.

Proprio la possibilità di scegliere percorsi par­zialmente o totalmente alternativi; o ancora le occasioni di incontrare e non solo di essere in­contrati; l'opportunità di reagire cori iniziative non previste alla partenza a eventuali sollecita­zioni dell'ambiente: tutto questo, come è ovvio, è concesso al cieco in misura assai meno estesa che non a chi dispone tranquillamente dei propri occhi.

Lo stesso atteggiamento psicologico verso il percorso rischia di subire mutamenti significati­vi. Un conto è vivere con ansia il problema di arrivare a destinazione e concentrare sull'obiet­tivo e sul modo di raggiungerlo tutte le proprie energie o verificare momento per momento le capacità dell'accompagnatore di svolgere con di­ligenza il suo compito; un altro conto è - ma qui la condizione del non vedente è largamente penalizzata - assaporare appieno il piacere di lasciarsi condizionare dagli innumerevoli stimoli prodotti dall'ambiente.

Mi rendo conto che, in una sede come questa, affermazioni di tal genere possono essere intese come ben note - e non per questo drammati­che - ovvietà. Ciononostante, da un lato mi sem­bra utile riproporle nell'intento di sottolineare lo strettissimo rapporto esistente fra il quanto e il come il disabile visivo grave si muove nell'am­biente urbano e le sue reali possibilità - oltre alla sua effettiva disponibilità - ad avere rela­zioni con gli altri; dall'altro mi pare importante ribadire quelle osservazioni perché sia chiaro quale grave disparità possa prodursi fra chi vede e chi no, proprio nello spazio pubblico inteso come spazio di relazione.

Dicevo poca fa che molto si può fare per mi­gliorare lo spazio fisico nel quale ci muoviamo. Ma forse molto di più si può fare per potenziare la capacità di tutti, compresi non vedenti e ipo­vedenti, di ampliare giorno per giorno il proprio sistema di relazioni. Lo spazio pubblico si crea quotidianamente nei rapporti fra gli individui, nella loro capacità di agire in pubblico alla pari con gli altri, nella loro capacità di vedere gli altri in azione e di essere visti in azione dagli altri.

Ma proprio qui sta il problema essenziale. La parità con gli altri è una condizione essenziale perché esista effettivamente uno spazio pubbli­co fra gli individui. D'altra parte la mancanza del­la vista finisce per snaturare profondamente una dimensione così eminentemente visiva come quella del «pubblico», tanto da intaccare altret­tanto profondamente la possibilità di rapporti alla pari fra chi vede e chi no.

 

Qualche indicazione in positivo

I risultati dell'inchiesta svolta a Torino danno conto, nella loro concretezza, di problemi gene­rali come quelli che ho appena posto; lo scarso grado di mobilità riscontrata è una misura, fra le altre, delle difficoltà sperimentate dai non ve­denti nel loro sforzo di integrazione nella socie­tà. Una simile conclusione sarebbe però poca cosa se non fosse possibile ricavare, da indagi­ni come quella, indicazioni più precise sulle for­me specifiche in cui tali difficoltà si manifesta­no. Vediamone dunque alcune.

- Colpisce in primo luogo la contraddizione fra il livello di mobilità generalmente assai bas­so nei nostri intervistati e l'alto numero di non vedenti che pure hanno visto in passato assai più di ora; come se la sopravvenuta cecità li avesse costretti a fermarsi, a rinunciare una volta per tutte alle proprie abitudini di un tem­po. In questo può aver avuto un ruolo determi­nante - a tal proposito varrebbe la pena avviare una ricerca specifica - lo scarso aiuto ricevuto da altri che non fossero i congiunti più stretti, nel complesso lavoro di elaborazione dell'incom­bente disabilità e di adattamento alle nuove con­dizioni di vita. La solitudine patita in quelle cir­costanze può essere stata in molti casi la pre­messa dell'isolamento successivo.

- In secondo luogo la scarsa dimestichezza con l'ambiente urbano rivelata dalla ricerca en­tra in contrasto con una presenza a Torino che, per la maggioranza degli interrogati, data da di­versi anni. Qui pesa probabilmente, fra le altre cose, una scarsa conoscenza della città, una co­noscenza resa ancor più povera dal decrescente interesse a scoprirne luoghi e possibilità, pro­dotto da una diminuita capacità di muoversi; ma anche dall'assenza di qualsiasi intervento teso a compensare la ridotta esperienza dell'ambien­te connessa con il difetto visivo.

- In terzo luogo risultano assai significativi, più ancora dei dati relativi al numero dei ciechi o degli ipovedenti che si spostano da soli, quelli che danno conto della scelta degli eventuali ac­compagnatori: più che altro risulta non trattarsi - e qui sta il problema - di una vera e propria scelta, mancando qualsiasi supporto alternativo che non sia il parente stretto o, assai più rara­mente, l'amico fedele o, ancora, l'aiuto episodico e non di rado piuttosto goffo di qualche estraneo.

A conclusione del mio discorso sono giunto così a porre tre questioni, come avevo annun­ciato all'inizio, tutte legate allo sviluppo della soggettività del non vedente: tre questioni com­plesse e proprio per questo difficili da affron­tare con proposte semplicistiche o unilaterali. Ma se è vero che il sopravvenire, più o meno improvviso della cecità, o la scarsa esperienza di luoghi che non è possibile vedere con i pro­pri occhi, o la forzata dipendenza dai parenti sono problemi che rinviano a una molteplicità di aspet­ti e di interventi possibili, è anche vero che po­trebbero essere vissuti più serenamente dai di­retti interessati se fosse offerto loro un soste­gno più efficace in tema di mobilità e di rapporto con l'ambiente.

Quale sostegno? Le proposte a questo ri­guardo sono varie. Ne cito alcune non certo al­ternative fra loro. C'è chi parla di rendere meno oneroso l'uso del taxi. Altri potrebbero pensare a corsi specificamente rivolti a chi é avviato a una irreversibile perdita della vista, tesi ad ar­ricchirne la conoscenza e l'esperienza dell'am­biente esterno e in particolare della città. An­cora, potrebbe essere progettato un servizio di ausilio personale che vada oltre una funzione di mero accompagnamento, in grado di garantire - sulla base di una opportuna preparazione che sappia contrastare ogni eventuale tentazione del cieca ad accrescere la propria condizione di di­pendenza - uno sviluppo dell'autonomia del non vedente nel rapporto con l'ambiente circostante.

Queste ed altre iniziative potrebbero contri­buire a qualificare l'apporto dei poteri pubblici in un ambito in cui fino ad ora sono prevalsi in­terventi troppo generici per poter venire incon­tro alle specifiche necessità delle diverse cate­gorie di disabili. La stessa indennità di accompa­gnamento, se da un lato si propone come un giusto risarcimento a carico della società per una invalidità irrimediabile, dall'altro rinvia ad una necessità, quella appunto di essere accompagna­ti, rispetto a cui ogni iniziativa, compresa la pre­parazione tecnica e psicologica degli accompa­gnatori, viene del tutto abbandonata all'inventiva dei singoli.

Ho accennato poco fa come la dimensione emi­nentemente visiva del «pubblico» - tanto più evidente nella società dominata dalle comuni­cazioni video - si scontri in modo apparente­mente irriducibile con la cecità. È proprio per fronteggiare una tale contraddizione che si ren­de necessaria una attenta riflessione sui modi per facilitare una adeguata traduzione dei mes­saggi visivi, non ultimo quello di offrire ai non vedenti un aiuto personale stabile e qualificato da parte di una figura che, a questo punto, solo per l'inerzia del linguaggio ha senso definire «ac­compagnatore».

D'altra parte che cos'altro se non questo dif­ficile compito di traduzione si trovano a dover svolgere coloro che quotidianamente hanno a che fare con un cieco? - e con questo conclu­do - si tratta qui di una problematica limitata al piccolo mondo di chi non vede. La questione del rapporto fra comunicazione visiva e altre for­me di comunicazione è pienamente all'ordine del giorno nella società di tutti. Come d'altronde ogni questione relativa a una qualche piccola minoranza che non venga racchiusa in una di­mensione ristretta e corporativa. E allora perché non impegnarsi in iniziative in grado, subito, di alleviare la condizione di chi è stato punito dalla sorte e, in prospettiva, di offrire occasioni di riflessione e di studio utili a tutti?

 

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