Prospettive assistenziali, n. 73, gennaio - marzo 1986
INTERDIZIONE E INABILITAZIONE,
TUTELA E CURATELA: NECESSITÀ DI UNA RIFORMA
MASSIMO DOGLIOTTI
1. - Com'è noto, il nostro, come quasi tutti gli
ordinamenti contemporanei, conosce due forme di capacità: giuridica, come
attitudine ad essere titolare di poteri ed obblighi giuridici, e di agire, come
idoneità a svolgere l'attività e compiere atti giuridici, nonché
ad esercitare da sé i propri diritti.
Nel diritto italiano la capacità giuridica spetta ad
ogni cittadino per il fatto della nascita e si collega sostanzialmente al
principio di uguaglianza, sancito dall'art. 3 della
Costituzione. La capacità di agire spetta invece ad un numero più ristretto di individui: venute tuttavia meno alcune discriminazioni,
esistenti ancora in un periodo non lontano, in ragione della razza (il Codice
civile, alla sua entrata in vigore nel 1942, prevedeva notevoli diminuzioni di
capacità per i cittadini di razza ebraica) o del sesso (limitazioni di
capacità della donna, ad es., nella famiglia e nel
rapporto di lavoro, superate soltanto nel corso degli anni settanta),
l'esclusione o la limitazione della capacità di agire è oggi prevista soltanto
per cause tassative: minore età, infermità mentale, grave condanna penale.
A parte quest'ultima
ipotesi, imposta come sanzione, le prime due (minore età ed infermità di mente)
sono almeno formalmente ispirate dall'esigenza di protezione di soggetti
considerati deboli e non in grado di provvedere a se
stessi, e tuttavia troppo spesso tali condizioni hanno soddisfatto esigenze
differenti: l'incapace diventa così l'«altro», il «diverso», oggetto delle
scelte degli adulti o della maggioranza «normale», e la situazione di
apparente favore e privilegio si trasforma in strumento di controllo e difesa
sociale, di isolamento ed emarginazione.
2. - Sulla condizione minorile, molto è stato detto e
scritto nell'ultimo decennio. Assai minor importanza è stata dedicata all'altro
profilo dell'incapacità di agire (l'infermità di mente) e alle problematiche
inerenti l'interdizione e l'inabilitazione, la tutela
e la curatela. Interdizione e inabilitazione sono
disciplinate dagli art. 414 e segg. del Codice civile. La prima presuppone che
il soggetto si trovi in condizione di abituale infermità
di mente, che lo renda incapace di provvedere ai propri interessi; la seconda,
che l'infermo di mente non si trovi in uno stato di tale gravità da richiedere
l'interdizione: si precisa che in tal caso la persona può compiere gli atti di
ordinaria amministrazione, pagamenti, riscossioni ed ogni altra operazione,
volta alla conservazione del patrimonio, ma non quelli straordinari
(alienazioni, acquisti, e in generale qualsiasi atto che comporti una radicale
trasformazione del patrimonio stesso). L'inabilitazione è altresì possibile per
tutti coloro che espongono se stessi o la loro
famiglia a gravi pregiudizi economici per prodigalità, o abuso di bevande alcooliche o sostanze stupefacenti, nonché per sordomuti o
ciechi, che non abbiano ricevuto un'educazione sufficiente. Come si vede, la
disciplina dell'interdizione e inabilitazione, è
improntata ad una logica esclusivamente patrimoniale, a scapito dei profili
personali, scelta che, del resto, è comune a tutto il Codice civile.
Il procedimento è caratterizzato da una netta
preminenza dell'interesse pubblico. Il giudizio può essere promosso da parenti
o, in mancanza, dal Pubblico ministero. La domanda originaria di interdizione può dar luogo ad una pronuncia di
inabilitazione o viceversa. Il giudice istruttore può nominare, ove lo ritenga
opportuno, un tutore o un curatore provvisorio. Scarse garanzie sono
assicurate all'interdicendo (o all'inabilitando) nel
corso del procedimento. Vi è una contraddizione palese: si discute sulla sua
incapacità e invece di assegnargli subito un difensore che possa, all'occorrenza
contrastare la domanda avversaria, si lascia a lui la scelta di difendersi o
meno (e nella gran parte dei casi, l'incapace rimane privo
di un difensore).
È ammessa la revoca di interdizione
e inabilitazione, quando ne siano cessati i presupposti. Il giudizio è
promosso ad istanza dei parenti, del tutore, del
curatore, del Pubblico ministero, ma non dell'interessato. Ed è questa forse la
ragione (si pensi a parenti, che potrebbero aver interesse
alla permanenza dello stato di incapacità del loro congiunto) per cui le
revoche rappresentano una percentuale irrisoria rispetto al numero di
interdizioni e inabilitazioni.
3. - Come si è detto, all'interdetto viene
nominato un tutore, all'inabilitato un curatore: il tutore rappresenta
l'incapace in tutti gli atti, ordinari e straordinari (a rigore l'interdetto
non potrebbe neppure acquistare un giornale o il biglietto dell'autobus), il
curatore assiste e controfirma, ove occorra, gli atti di straordinaria amministrazione
compiuti dall'inabilitato (per quelli ordinari non è necessaria alcuna
assistenza). Vi è un generale controllo sull'attività del tutore e del curatore
da parte dell'autorità giudiziaria. E per alcuni atti
sono previste specifiche autorizzazioni.
E se interdetto e inabilitato compiono atti vietati?
Tali atti potranno essere annullati dal giudice, su istanza
del tutore o dell'inabilitato stesso; naturalmente tali soggetti chiederanno
l'annullamento dell'atto, solo se questo sia dannoso all'incapace, non se
eventualmente è vantaggioso. Né potrebbe domandarlo
l'altra parte (ove l'atto fosse bilaterale) in quanto l'annullamento è
previsto ad esclusiva protezione dell'incapace.
Si parla infine di incapacità
naturale, per il soggetto che non sia in grado di provvedere a se stesso (anche
temporaneamente), senza che vi sia stata sentenza di interdizione e inabilitazione.
Vi è una disciplina diversa per gli atti compiuti da tali persone: è necessario infatti contemperare la tutela dell'incapace con quella
della controparte, che ha concluso un contratto con lui e non sempre è in grado
di avvedersi della sua incapacità (al contrario, in caso di interdizione o
inabilitazione, l'altra parte, con media diligenza, potrebbe accertarsi presso
i registri dello stato civile dello stato di incapacità del soggetto).
L'annullamento è dunque ammesso in generale, se risulta
un grave pregiudizio all'incapace e, specificamente, per i contratti quando
risulti la malafede dell'altro contraente.
4. - La disciplina di inter-dizione,
inabilitazione, tutela e curatela presenta aspetti positivi e negativi (più
negativi che positivi, per la verità): è vero che l'incapace è tutelato, ma più
verso i terzi che verso i parenti o il tutore. E in ogni caso, emerge tutta
l'inadeguatezza di tali figure, come si diceva, prevalentemente, se non
esclusivamente volte ad una protezione di tipo patrimoniale e non personale, e
caratterizzate da una rigidezza eccessiva (da un lato totale incapacità,
dall'altro una semicapacità, senza alcuna possibilità intermedia, laddove la
realtà è assai più complessa e insofferente di precisi
inquadramenti). Per il tutore la preoccupazione
principale, sulla base della vigente normativa, è la conservazione e l'accrescimento
del patrimonio dell'incapace, mentre questi, il più delle volte, avrebbe
bisogno di sicurezza ed appoggio psicologico, e magari... di essere convinto a
spendere una parte del suo patrimonio, perché gli sia assicurata una vita più
agiata e comoda. (È noto il fenomeno dell'imponente
patrimonio appartenente ai ricoverati degli ex-ospedali psichiatrici - magari
costituito dall'accumularsi per anni ed anni delle rate di pensione -
immobilizzato presso le direzioni perché i titolari non si preoccupano di
utilizzarlo). E problemi vi sono pure per la scelta
del tutore.
In genere è nominato un parente (ma
la scelta talora può rivelarsi pericolosa e nociva per l'incapace: può
accadere che questi sia trascurato, senza contare le vere e proprie
appropriazioni indebite del suo patrimonio). In mancanza, o quando i parenti
non siano affidabili, il giudice in genere si regola, scegliendo un nominativo dall'albo degli avvocati e procuratori o magari
tra gli assistenti sociali, e il più delle volte tali soggetti accetteranno
l'incarico assai malvolentieri.
5. - Si paria da tempo di modifica
della disciplina, anche se spesso le idee non sono abbastanza chiare. Si ipotizza la istituzione di un ufficio di pubblica tutela,
espressione della realtà del territorio, í cui componenti sarebbero quindi
eletti dall'assemblea delle Unità sanitarie locali, ma con precise garanzie di
professionalità, autonomia e responsabilità. L'ufficio potrebbe
controllare in modo più capillare ed incisivo l'attività dei tutori e
curatori, e svolgere direttamente tali funzioni, quando non vi siano parenti o
non li si ritenga idonei all'ufficio. In una prospettiva più generale sarebbe
opportuna una soppressione delle figure della interdizione
e inabilitazione; forse converrebbe parlare di limiti alla capacità, da
definire caso per caso, in stretta collaborazione tra giudice e ufficio di pubblica
tutela, soprattutto esaltando l'esigenza di protezione personale, aiuto e
sostegno al soggetto più debole.
Tuttavia qualche cosa è forse possibile fare subito, in attesa di una riforma del settore: la legge 13 maggio
1978 n. 180 sui trattamenti sanitari obbligatori prevede che in caso di
ricovero dell'infermo di mente, il Giudice tutelare adotti i provvedimenti
urgenti per conservare ed amministrare il suo patrimonio. Ancora un intervento
improntato ad una logica patrimoniale e, alla lettera,
strettamente limitato al tempo in cui l'infermo è ricoverato. Alcuni giudici
ne hanno dato peraltro un'interpretazione estensiva: e hanno ritenuto così di
provvedere, non soltanto in ordine ai profili
patrimoniali, ma pure a quelli personali, e non limitatamente al periodo di
ricovero, ricercando la collaborazione del servizio sociale, con interventi
tempestivi e differenziati (tenuto conto che la norma lascia ampio spazio di
autonomia, parlando genericamente di provvedimenti, senza indicare di che tipo
essi debbano essere) a sostegno ed aiuto dell'incapace, spesso prevenendo e
scongiurando un procedimento di interdizione o inabilitazione. Certo si tratta
di un palliativo, in attesa di una nuova disciplina,
ma un palliativo, in linea con una più accettabile protezione dell'incapace,
pienamente rispettosa della sua dignità.
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