Prospettive assistenziali, n. 73, gennaio - marzo 1986

 

 

LA SITUAZIONE ALLUCINANTE DEL CARCERE MINORILE DI PALERMO
 

AURELIO GRIMALDI

 

 

Per gentile concessione della rivista «Segno» riproduciamo integralmente l'articolo apparso sul n. 53-54, ottobre-novembre 1984, della suddetta pubblicazione.

Abbiamo ritenuto di dover assumere questa iniziativa per sottolineare le gravissime carenze e le innumerevoli violazioni di diritti fondamen­tali denunciate dall'Autore, Aurelio Grimaldi.

Il Ministero di grazia e giustizia e le autorità giudiziarie, in particolare quelle minorili, che cosa hanno fatto, che cosa intendono fare per impedire o almeno combattere la sopraffazione e gli abusi che vengono perpetrati nel carcere minorile di Palermo?

Si vuol forse che il Malaspina prosegua nella sua funzione di università della violenza? Continueranno a tacere e quindi, in concreto, a sostenere che tutto deve continuare come se nulla fosse?

 

 

VIAGGIO IN UN GIRONE DELLA CITTÀ VIOLENTA (1)

 

Entrai a Malaspina il 5 ottobre 1983 come inse­gnante alla sua prima nomina. Avevo scelto quel­la sede su altre 400 disponibili con l'entusiasmo di chi raggiunge ciò che ha sempre desiderato. I miei studi sulla deprivazione ambientale final­mente avrebbero trovato il più vivo riscontro. Entrai per il portone di Malaspina con la solenni­tà e il batticuore che il momento richiedeva: stavo per entrare nel carcere minorile della città della mafia, dell'eroina, dei duecento omicidi l'an­no. Rammentai, più con compiacimento che con ribrezzo, che Palermo era al secondo posto in Europa occidentale, dopo Napoli, nella squallida graduatoria di delinquenza minorile. Stavo per entrare nel suo tempio.

Quel 5 ottobre oltrepassai il cupo muraglione di Malaspina - un muraglione da carcere - ras­sicurandomi con questi pensieri, autoconvincen­domi della mia ferrea preparazione in quel set­tore, della mia motivazione cristallina, e ripeten­domi l'articolo 27 della Costituzione che avevo già provveduto ad imparare a memoria («Le pene non possono consistere in trattamenti con­trari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato»). Ma tra tanti au­topensieri magniloquenti predominava la paura.

 

Nel girone dei detenuti

Malaspina, come forse gli altri carceri, è pie­no di corridoi lunghi e vuoti dove cupamente rim­bombano i passi, e di grate, di passaggi, di con­trolli; mi fecero oltrepassare l'ultimo controllo, l'ultimo portone di metallo con le telecamere, poi mi ritrovai nel girone dei detenuti. Proprio in quell'istante un gruppo di ragazzi effettuava il «movimento», ed osservai con sgomento alcuni volti, quello torvo e triste di Gaetano, con un occhio di vetro, che poi diventerà mio alunno; e quelli degli altri: mi accorsi solo delle cicatrici, degli occhi spenti, degli sguardi inebetiti, dei vestiti miseri. Pensai: «Ma dove sono capita­to?...», ma subito dopo mi accompagnarono in un ufficio, ed un educatore, con voce fredda e sicura, mi elencò i miei futuri alunni, snoccio­landone i reati: «Furto, rapina, associazione per delinquere...». Ascoltavo sforzandomi di appari­re calmo e compassato. «Tentato omicidio»: mi controllai a fatica, chiesi qualche dettaglio. «È una brutta storia...» mi disse. Quando la conobbi nei particolari era in verità una bruttissima sto­ria, di miseria e di violenza, come tutte le storie dei ragazzi di Malaspina. Mi condussero in clas­se e trovai 8 ragazzi seduti sui banchi, coi capi chini, in perfetto silenzio: sembravano santi. Pre­sentazioni, parole di rito; gli accompagnatori se ne andarono, finalmente: rimasi solo contro loro. E dimenticai tutte le paure e le apprensioni, di­ventai subito l'insegnante che sa come e che cosa vuole fare, e subito mi abituai ai loro aspetti sfigurati, al viso strabico di T. che non aveva mai conosciuto un oculista, al cranio schiacciato di S. caduto dal 3° piano quando aveva 8 anni ed inca­pace di leggere e scrivere in quarta elementare; alla cicatrice che tagliava in due la guancia de­stra di N., come uno sfregio mafioso, allo sguar­do torbido e assente di A.

Salvatore, invece, che con un complice aveva picchiato, torturato, violentato ed infine - cre­dendolo defunto - seppellito vivo un coetaneo, aveva uno sguardo triste ma umano, ed un sor­riso rado ma lucido. Salvatore fu il mio alunno più diligente, più rispettoso, più affettuoso di tut­ti i 31 che mi passarono in classe in tutto l'anno scolastico. Tutt'oggi mi scrive lettere dignitose, ma tristi e struggenti, raccontandomi di quello che farà quando sarà libero, di sogni e progetti onesti: uscirà tra 6 lunghissimi anni.

In pochi giorni là dentro mi accorsi che i ragaz­zi, tutti rozzi, incolti, depravati, irrispettosi e vio­lenti, erano esattamente come venivano descritti e studiati in saggistica e quindi come li prevede­vo. Ciò che invece non avevo minimamente im­maginato e contemplato, e che non viene preso in considerazione dagli studiosi, era che nel mio lavoro in quell'istituto dovevo dare conto anche agli operatori: direttore, educatori, altri insegnan­ti, agenti di custodia, più altre figure minori. Mi accorsi subito che il settore più problematico era quello degli agenti. Il secondo giorno di scuola alcuni alunni mi riportarono il commento degli agenti - Cu ci'u purtò a chistu? - più alcuni apprezzamenti sul mio aspetto, sul mio modo di vestire, sul mio accento forestiero. Mi avevano visto, quel primo giorno, nel breve tratto tra le aule e l'uscita, una sola volta e per alcuni secon­di: era loro bastato.

 

Il pestaggio

Dopo dieci giorni il dissidio divenne già insa­nabile. Era un mercoledì. Giovanni entrò corren­do nell'aula, dove li attendevo, sapendo di darmi una notizia che mi avrebbe scosso (in dieci gior­ni avevano già capito alcune cose): - Aurelio, stannu cafuddannu a Natale! - Scattai dalla se­dia: - Che cosa è successo? - Vieni! -. Nel corridoio che portava alle aule, stavano colpendo Natale con pugni e calci, con tutta la forza che avevano. Natale si era rannicchiato contro il mu­ro coprendosi il volto, ed era uno spettacolo pe­noso. Mi avvicinai mentre tutti gli altri ragazzi assistevano allo spettacolo con godimento e ap­prensione insieme. - Ma che succede?!? - gri­dai con tutta la voce che avevo. Il pestaggio fu interrotto. Natale, col viso rosso e disfatto, ten­tò una difesa verbale, ma gli veniva da piangere, lui così canaglia, e non riusciva a parlare.

In classe, con calma, mi feci spiegare l'acca­duto: pare che Natale avesse detto una parola sconveniente a una insegnante di scuola me­dia, ma Natale negò sempre, e l'insegnante inte­ressata mi disse di non aver sentito proprio nulla. Disgustato riferii agli educatori che simili sistemi educativi applicati sui miei alunni, o su chiunque altro, erano pedagogicamente intolle­rabili e giudiziariamente perseguibili. Iniziò la guerra.

In mia presenza non avvenne più nessun pe­staggio per tutti i 9 mesi successivi. Ma dopo pochi giorni i miei alunni mi fecero sapere che, attraverso il sistema della diceria, larghissima­mente in uso a Malaspina da tutti contro tutti, io ero stato bollato con una triade di aggettivi, rin­forzati da una serie di episodi, tutti inventati, che li suffragassero. I tre aggettivi erano: terrorista, invertito sessuale (per usare un eufemismo) e «drogato». Il primo aggettivo, accompagnato dal nome di Giovanni Senzani che mi fu attribuito come maître a penser, fu presto spazzato da un altro aggettivo, questo acquistato sul campo di «Aurelio il non-violento», che poco si confaceva ai metodi sanguinari e intolleranti del preceden­te. Il secondo aggettivo ebbe vita grama e con­troversa, anche grazie alla difesa che i miei alun­ni più coraggiosi non mi fecero mancare. Il terzo, invece, e nonostante i miei tre alunni tossicoma­ni si facessero quattro risate a chi mi attribuiva le loro stesse manie, non fu spazzato del tutto, e fino alla fine dell'anno scolastico qualche nuovo detenuto si intrufolava in classe e mi chiedeva, pateticamente, se gli potevo portare un po' di coca e di eroina perché non ce la faceva più, e solo io che sapevo queste cose lo potevo aiuta­re... lo mi ripetevo di non preoccuparmi, ché la verità esce sempre a galla, e che dovevo solo interessarmi del rendimento dei miei alunni. Fa­cile a dirsi: ma quelle manovre squallide di scre­ditamento mi abbattevano e intristivano e non era facile ingoiarle.

Ma coi ragazzi le cose andavano bene: pur essendo di 4ª erano sprovvisti delle nozioni più elementari. A 16, 17 anni, non avevano mai senti­to nominare Venezia o Napoleone. Erano pigri, indolenti, annoiati, incapaci di reggere la con­centrazione. E violenti, violentissimi, ad ogni istante poteva esplodere la loro rabbia aggressi­va ed io tuonavo con le mie invettive, applicando il metodo attivo che la pedagogia teorizza da due secoli e che a Malaspina veniva scambiato per un metodo rivoluzionario. Ogni giorno entravano lamentandosi: «Ho mal di testa», «Voglio tor­nare in camerata», e talvolta minacciosi. «Oggi 'un fazzu nenti!», «Vogghiu essere levato d'a scola», «Nun mi rumpiri i cugghiuna picchì oggi nun ti sento!». Ma abituati alle lezioni «disegno, dettato, copiato», con drammatizzazioni, questio­nari, dibattiti, giochi di gruppo, competizioni di­dattiche, riuscivo a svegliarli dal torpore e ad im­pegnarli il più possibile. I progressi erano quo­tidiani.

 

La mafia e il giorno dei morti

Ma il 2 novembre, giorno dei morti, entrai in classe e scrissi alla lavagna: «Tema. Che cos'è la mafia?». Sorpresa generale. Poi proteste, ri­fiuti, malanni immaginari, «Nun sacciu nenti». Qualche giorno prima avevo chiesto ad una col­lega se anche lei e le altre volevano unirsi alla iniziativa, e se ne avevano fatte di simili in pas­sato. Mi aveva risposto che era tempo perso, che i ragazzi si sarebbero rifiutati: «ci sono tutti dentro fino al collo».

Invece tutti i miei alunni, eccetto uno che ri­mase inamovibile, dopo molte discussioni faticose finirono per consegnarmi il loro tema. Emer­geva una mafia «d'onore», che aiuta i ragazzi bisognosi e le loro famiglie, che punisce i vi­gliacchi e i traditori, «gli spiuna». Come primo impatto poteva bastare: mi limitai a qualche frec­ciata significativa ma non smontai, come mi sa­rebbe stato facile fare, le loro tesi: volevo rac­cogliere tutte le informazioni che potevo per or­ganizzare altre iniziative. Dopo l'intervallo rea­lizzammo un cartellone dal titolo «Le attività della mafia», ed alcuni di loro erano così com­piaciuti di essere bene informati sull'argomento che, ingenuamente, mi fecero comprendere non solo il livello di adesione, ma persino di com­partecipazione alla mafia. G. il tossicodipendente disse di aver partecipato, una notte, ad un com­mando mafioso per bruciare una macchina per 50.000 lire. R. fece saltare una saracinesca, ma gratis (egli disse), per fare un favore a un amico. Tornai a casa trionfante, con una valanga di in­formazioni.

Ma il giorno dopo mi attendeva una brutta sor­presa. Entrato in classe, un gruppo di alunni mi annunciarono che non avrebbero fatto niente, e che volevano essere tolti dalla scuola. Natale, ca­pobanda, scrisse alla lavagna: «Aurelio, Sciope­ro, Mafia». Faticosamente riuscii a convincere tutti a lavorare, eccetto Natale, che fu irremovi­bile. Più tardi scoprii delle scritte sul muro che recitavano «La mafia comanda» e «Con la mafia non si scherza». Riconobbi subito la scrittura, una era di Natale, ma entrambi gli autori afferma­rono recisamente di non avere scritto niente.

Nei giorni successivi Natale era trasformato. Intrattabile, violento, irrispettoso, non faceva niente delle attività scolastiche, in compenso im­pediva quelle degli altri ragazzi alcuni dei quali, di tanto in tanto, passavano dalla sua parte. Si erano interrotte le comunicazioni verbali tra me e lui: non mi ascoltava, mi rideva in faccia, co­minciò anche a darmi qualche spintone sorriden­do, come se scherzasse, poi cominciò a disegnar­mi le mani coi pennarelli, infine mi mollò qualche pugno sulle spalle, ridendo, come se scherzasse, ma che lasciarono il segno. Lo lasciavo fare, dopo la lezione lo chiamavo a parte, ma mi rideva in faccia e non mi ascoltava. La lezione sulla mafia, pensai, aveva smosso qualche meccanismo e do­vevo trovare il sistema per rimuoverlo. Natale era una delle canaglie dell'istituto e non avevo nessuna intenzione, come invece mi proposero gli educatori, di sospenderlo dalle lezioni come irrecuperabile.

Consultando testi, casi, precedenti, riflettendo­ci sopra, mi risolsi per la linea di rinforzo alle provocazioni di Natale, che anzi dovevo incenti­vare, ma facendo sempre uso del «mio» co­dice di linguaggio. Alle sue comunicazioni violen­te rispondere con le mie non violente e verbali. Bisognava provocare Natale per fargli oltrepas­sare la soglia del consentito: per tornare alla co­municazione verbale doveva trovare disgusto per quella violenta. Era in gioco non solo il nostro rapporto personale, e la possibilità di continuare ad essere costruttivamente insegnante/alunno, ma anche il suo livello di identificazione con la mafia come modello culturale e modello di vita. Natale, in effetti, come dicevano le mie colleghe per tutti, c'era dentro fino al collo per davvero.

Dovevo trovare l'occasione per provocare Na­tale, e spingerlo ad intensificare le sue forme di comunicazione distruttive. Non era, la mia, una forma di missionariato, ma un'occasione pedago­gica preziosissima. Natale non mi fece aspetta­re molto: il giorno dopo, durante un disegno, con un pennarello ricominciò a disegnarmi le mani. Lo lasciai fare: - Grazie, Natale. Vedo che le uniche cose che riesci a fare con me sono di sporcarmi ed umiliarmi. Sono molto deluso. Ma per quanto mi riguarda puoi continuare quanto vuoi, sono a tua disposizione -. Natale continuò l'operazione e cominciò a «mascariarmi» l'avam­braccio, lentamente, ridendo, guardando e aspet­tando le mie reazioni. Continuai a dirgli quello che pensavo dichiarandogli che ero comunque a sua disposizione. Lasciò perdere, si calmò un po' ma io non lo mollavo. Lo sgridai severamente perché disturbava un compagno ed egli tornò alla carica. Mi venne vicino e fece il gesto, timi­damente, di segnarmi il collo con il pennarello. Con sua enorme sorpresa gli dissi aspramente che ero disgustato del suo comportamento ma che, per quanto mi riguardava, poteva fare quello che voleva. Lentamente, con sorpresa e con go­dimento, si accorse che parlavo seriamente. Mentre era impegnato ad aiutare i compagni co­minciò a farmi di sfuggita qualche segno; io ri­spondevo con uno sguardo schifato e amareggia­to ma lo invitavo a continuare, provocandolo: « voglio vedere fino a che punto sei vigliacco ». Gli altri compagni cominciarono a lamentarsi, ad ammonirlo di non permettersi, ma Natale era uno dei boss dell'istituto e non aveva paura di loro.

 

La violenza

Superato il momento di sorpresa, superata quella soglia, Natale si trasformò: cominciò a sghignazzare, a cantare, dipingendomi il volto or­mai senza ritegno. I compagni erano allibiti, non tanto del comportamento di Natale, che comun­que ai loro occhi era gravissimo essendo io pur sempre un operatore dell'istituto, ma soprattutto della mia non-reazione. Natale, ormai bestialmen­te trasfigurato, proseguì la sua opera: tutti gli istinti condizionati, l'aggressività repressa lì den­tro, le violenze subite, sembrarono aprirsi ed esplodere in quel gesto di sfregio, che lui cari­cava di significati grandiosi. Io osservavo il suo ghigno animalesco, il suo godimento supremo nell'umiliarmi, e più volte fui sul punto di esplo­dere, di avvalermi del mio potere, di prenderlo a schiaffi e farlo gettare in isolamento. Mi salvò la campana ed improvvisamente Natale si accor­se di quello che aveva fatto: ora io sarei uscito dall'aula, tutti avrebbero visto, avrebbero sapu­to, io avrei di certo fatto un rapporto, una de­nuncia. Si fece prendere dal terrore, e lo sghi­gnazzo si trasformò in una smorfia. Ma non mi pregò. Mi chiese se l'avrei denunciato, perché in questo caso sarebbe andato lui stesso a co­stituirsi agli educatori. Poi, benevolmente, mi chiese se poteva andare a prendermi una spugna, ché lui aveva scherzato, ché se volevo potevo spaccargli la faccia (riecco la comunicazione vio­lenta!). lo gli dissi, soltanto, aspramente, che era meglio che se ne andasse. I compagni gli mor­moravano: «Ti sei voluto rovinare, noi te l'ave­vamo detto». Natale non voleva uscire dalla stan­za, era bianco in viso. Ma appena vide l'agente che raccoglieva i ragazzi ritardatari nel corridoio si precipitò fuori lanciandomi un'ultima occhiata pietosa e sgomenta, ricordai il suo sguardo sbat­tuto quando un mese prima era stato pestato. Con un fazzoletto mi lavai il viso, due minuti scarsi. Uscii ed andai subito dagli educatori per riferire quello che era successo e quello che vo­levo che seguisse.

Miracoli di un carcere: in pochi minuti tutti già sapevano. Nel corridoio ragazzi ed agenti mi osservarono in religioso silenzio osservando le mie mosse. Entrai nell'ufficio degli educatori che già sapevano tutto, direttore compreso. Fatico­samente, discutendo per due ore, cercai di con­vincere gli educatori a non prendere nessuna iniziativa; avevo calcolato tutto secondo i prece­denti: Natale doveva avere la sensazione di ave­re commesso un'infamia, ed aspettarsi una puni­zione del tipo del suo modello di comunicazione: schiaffoni e pugni, o cella di rigore, o aggrava­mento della pena. Invece nulla: l'insegnante che si sarebbe limitato a ripetere gli stessi concetti «verbali»: che era un vigliacco, un violento, ma che stavo aspettando che capisse, che accettas­se, che riconoscesse a parole e non con violen­ze. Secondo le tecniche pedagogiche la violenza dei devianti deve fluire senza mai ricevere iden­tica risposta, fino al rifiuto consapevole del sog­getto che deve giungere ad identificarsi nella per­sona e nelle comunicazioni dell'operatore non­violento che ha subito le sue violenze.

Malaspina esplose: agenti, ed altri, tornarono alla carica. «Noi l'avevamo detto da subito, ecco chi ci hanno mandato, un incapace, un rivoluzio­nario, un mezzo uomo, che sa solo insegnare ai suoi alunni a mettergli i piedi in faccia. Di questo passo i ragazzi si crederanno in un albergo. Lo fa apposta per fare nascere le rivolte».

Furono giorni difficilissimi, non solo perché l'esperimento con Natale mi era costato molto nervosismo ma anche perché, per giorni, vissi sotto l'incubo che le ben articolate strumentaliz­zazioni conducessero veramente al mio allonta­namento. Mi accorsi di avere dato l'occasione ai miei detrattori di attaccarmi facilmente da tut­ti i lati; nessuno aveva letto gli esperimenti di Ausubel o di Mc Vicker, ed anche se li avessero letti ci avrebbero fatto quattro risate sopra.

Natale tornò in classe il giorno dopo cupo e immalinconito, senza dire una parola. Non fece nulla: prese un libro e si mise a leggere per tutto il tempo senza partecipare ma senza infa­stidire nessuno. Io, sia chiaro, ero tutt'altro che sicuro del buon esito del mio esperimento, e que­sto aumentava la mia tensione nervosa; contem­poraneamente mi arrivarono alle orecchie tutti gli attacchi cui ero sottoposto, e le manovre che si stavano montando.

Ma il secondo giorno Natale entrò trasformato. In silenzio prese il quaderno e iniziò a lavorare. Si alzò dal banco e mi fece vedere, col volto compunto e la voce costruttiva, quello che aveva fatto; mi chiese se andava bene. lo gli avrei get­tato le braccia al collo, ma continuai nel mio at­teggiamento distaccato e professionale come do­veva essere. Natale si trasformò in un alunno modello. Un mese dopo fu trasferito a Ucciardo­ne avendo compiuto 18 anni (da dove mi scrisse lettere bellissime e toccanti), nonostante io avessi fatto richiesta di permanenza a Malaspina per continuità didattica, ed il direttore mi avesse risposto che io mi facevo troppe illusioni sulle possibilità educative dei miei alunni.

La metamorfosi di Natale distrusse sul nasce­re le forti manovre che pretendevano il mio allon­tanamento, e ai miei detrattori non rimase che accreditare quella stessa metamorfosi «a cause esterne» non identificabili.

 

Una lettera al sindaco

Natale la canaglia era diventato un alunno im­pegnato ed amico, e le lezioni continuarono sere­namente in crescendo. Ma i conflitti, a Malaspi­na, nascono dietro gli angoli apparentemente più innocui. Un pomeriggio, discutendo casualmente del ruolo della donna, che per i deprivati, si sa, è quello di madre-moglie-serva, per difendere le mie tesi feci loro notare, polemicamente, che il sindaco di Palermo era una donna, e si chiamava Elda Pucci, e se avevano il coraggio provassero a scrivere a lei quello che avevano detto sul ruolo delle donne. I ragazzi si entusiasmarono: «Io gli scrivo che è una pulla e una arrusa», «Io gli scrivo che è una pompinara». Sapevo il fatto mio. Mi consegnarono le lettere: «Sara Elda, chi ti scrive è Alfonso che ti pensa sempre» (inve­ce, ovviamente, non l'aveva mai sentita nomina­re). Raffaele le scrisse che le voleva molto bene, e se poteva farlo uscire da Malaspina. Alfonso le chiese se poteva venire a trovarci e portare in regalo dei palloni, e se poteva costruire una pi­scina per i ragazzi di Malaspina. Nino le mandò un cuoricino con le frecce. Gaetano le scrisse concludendo «Ti mando un bacio sulle labia» (sic). Confezionammo una grande busta, aggiun­gendo una copia del nostro giornalino di classe che avevano appena stampato, e che si rivelò il primo giornalino di classe della storia di Mala­spina, e spedimmo il tutto al «Giornale di Sici­lia», con una lettera di accompagnamento, scrit­ta dai ragazzi stessi che ci provavano ormai gu­sto. Speravano davvero che Elda Pucci potesse portare dei regali e farli uscire prima del tempo. Il «Giornale di Sicilia» inoltrò la lettera al sin­daco come avevamo chiesto, e pubblicò un arti­colo molto simpatico in cui si riportavano alcuni brani delle letterine dei ragazzi, ed alcuni degli articoli del nostro giornalino, in cui i ragazzi rac­contavano col loro stile disadorno e sgrammati­cato le loro vite, miserabili e squallide, senza pudori.

Quel giorno stesso fui convocato dagli educa­tori che mi aggredirono come non era mai acca­duto. Il ministero di grazia e giustizia proibiva agli operatori di dare dettagli sulla vita interna delle carceri ed io avevo commesso un reato, prestandomi peraltro alle strumentalizzazioni dei giornalisti affamati di scandali. Ma non vi era alcuno scandalo né strumentalizzazione. Qualcu­no fece notare, invece, che era la prima volta che i ragazzi di Malaspina comparivano sul giornale per eventi positivi, e non per i loro reati. Il di­rettore rincarò la dose. Io mi difesi ribadendo che mi ero limitato a svolgere le mie funzioni di insegnante, e che la lettera era stata una norma­le procedura didattica. Ed inoltre che ritenevo di vivere in uno stato democratico dove un cittadi­no può scrivere al sindaco o ad un giornale. Il direttore si alterò e minacciò che se avessi con­tinuato con questi atteggiamenti sarebbe stato costretto a chiedere il mio allontanamento.

Alcuni giorni dopo Elda Pucci venne veramen­te a trovarci, portò alcuni regali, fece un breve discorso che mi colpì per la sua capacità di co­municare coi ragazzi, contrariamente alle altre «personalità» politiche che giunsero successi­vamente, che parlarono lungamente senza far ca­pire una parola ai ragazzi, e non solo a loro. II direttore accompagnò il sindaco diligentemente per l'istituto, ma non ritenne necessario pre­sentargli i ragazzi che gli avevano scritto, né tan­tomeno l'insegnante.

Coi ragazzi proseguì abbastanza bene. Ogni giorno la campana mi liberava di un gran peso, però ero felice dei risultati ottenuti. Ogni eser­cizio, ogni tema, ogni problema, era una con­quista.

 

I ragazzi del Cep

Quando entrarono i tre ragazzi del Cep nella mia classe cominciarono giorni duri. Prima di en­trare a Malaspina conoscevo il Cep solo di nome, non sapevo nemmeno dove si trovasse. Invece quel quartiere sforna devianti a piene mani, ed è il maggiore fornitore di Malaspina e - tra que­sti - dei soggetti più impenetrabili ed ostinati. Ora però quel quartiere lo conosco benissimo, per tutti gli alunni che ho avuto e per quello che per me hanno significato.

Furono mesi di lotte quotidiane. Dapprima Gae­tano, uno spilungone che avevo notato dal primo giorno per il suo sguardo fisso e maligno, accen­tuato da un occhio di vetro per una fucilata di un gioielliere durante un furto notturno: un ragazzo violentissimo e iracondo, intrattabile, irrispetto­so, incomunicabile. Poi Alfonso, un ragazzino di sedici anni scherzoso e simpatico, sempre sor­ridente come un monello, in fondo buono di ani­mo, ma con un retaggio di violenza quasi invin­cibile. E Salvatore, un personaggio dostoievskia­no, 16 anni, complesso ed inestricabile, ora co­raggiosissimo e leale, ora sporco e traditore, un leader nonostante la sua giovane età, una vita di violenze inaudite, fatte e subite da fare tre­mare, decine di reati che mi raccontò segreta­mente, quasi tutti impuniti, compreso quello più irraccontabile: 16 anni violenti e disperati.

Per denominatore comune quel quartiere così abbandonato e trascurato: una fucina di violenza ed emarginazione. E vite penose e miserabili, il cui sbocco nella devianza era l'unico necessario. I ragazzi del Cep furono i miei alunni più irridu­cibili e, per questo motivo, quelli cui mi affezio­nai di più, con i quali giocai tutte le carte.

Con Gaetano trascorremmo due mesi di infer­no. Successe di tutto: mi derubò, mi maltrattò, mi minacciò; se avesse dovuto mettere in pra­tica una piccola parte delle sue minacce per il dopo detenzione, a quest'ora non sarei qui a scri­vere queste pagine, ma sarei già violentato, mu­tilato, ed infine seppellito. Ma anche messaggi, lettere, crisi di identità, incontri, dialoghi: Gaeta­no mi derubava le penne e poi me le restituiva. Mi maltrattava ed insultava e poi mi scriveva messaggi di promesse. Diceva che io come in­segnante non valevo niente e che voleva essere cambiato di classe, ma finita la lezione si ferma­va perché «t'haiu a parlari»; ed una volta che lo sospesi per un giorno fece come un pazzo per rientrare in classe. Fino all'ultimo giorno questo snervante duello continuò senza pause. Fu tra­sferito ad Ucciardone da dove mi scrisse una lettera bellissima, che non dimenticherò mai, e che da sola vale un anno a Malaspina. Fu scarce­rato per perdono giudiziale in appello, venne a trovarmi e non solo non mise in atto le sue mi­nacce più crudeli ma mi apparve come non l'ave­vo visto mai: quieto e calmo, persino affettuoso. Ora è da 10 mesi che lavora come muratore e forse non ruba più. Ma il Cep è un inferno, nulla cambia, e resta mondo di nessuno, ed è inutile farsi prendere dalla speranza.

Alfonso, spiritoso ed allegro, non voleva sa­perne né della scuola né dell'insegnante. La mia collega che l'aveva avuto in precedenza lo riem­piva di bacchettate perché non voleva fare nien­te di buono, e perché faceva «porcherie» in classe di cui non mi ha fornito i dettagli perché «non si possono dire». All'inizio fu dura, poi io e Alfonso cominciammo a comunicare, ed anche se era un pigrone capace di addormentarsi sul banco, preso per il verso giusto, senza bacchet­tate, lo si poteva convincere a fare qualunque cosa: persino i riassunti. Tentò anche da me qualche «porcheria» ma con qualche battuta scherzosa era facile fargli passare subito la smania. Mi affezionai a lui. È uscito da Malaspina da otto mesi e per ora non si è fatto arrestare, e lavora come lattoniere, per quattro soldi. È an­che lui un figlio del Cep: lasciate ogni speranza voi ch'entrate.

Infine Salvatore: rimase con me sette mesi ed è ancora rinchiuso a Malaspina avendo appena 16 anni e perché deve scontare una pena seve­rissima per un reato pesantissimo. Credo che nessun ragazzo abbia vissuto in soli 16 anni tutto quello che ha vissuto Salvatore. Il padre mi rac­contò che a suo figlio aveva cercato di inse­gnargli l'educazione, e di raddrizzarlo sin da pic­colo, e mi aveva raccontato, con spietato reali­smo, tutte le maniere con cui l'aveva ammazza­to di botte, usando le tecniche più spaventose e repellenti. Una vita di legnate, ospedali, istituti, fughe, reati, ruberie, violenze: il ritratto del «de­viante irrecuperabile», come lo descrivono inse­gnanti di scuola, di istituti, educatori, operatori, assistenti sociali. E, per non smentirli, Salvatore aveva costruito a Malaspina, nonostante i suoi 16 anni, una leadership astuta e solidissima, mi­schiando ipocrisia e terrorismo. Tutti lo temeva­no, ragazzi ed operatori. Quando un giorno, dopo lunghe riflessioni, decisi di punirlo con l'isola­mento, Salvatore mi sputò in faccia le minacce più violente, e molte minacce anonime mi rag­giunsero in quei giorni. Gli operatori, e li mi ac­corsi di quanto Salvatore era temuto da tutti, mi dissero che ero stato un imprudente, e che Sal­vatore aveva legami tali da poter far mettere in atto le minacce anche rinchiuso in un istituto. Naturalmente non mi accadde nulla, e dopo sette mesi di duelli quotidiani, di azioni imprevedibili frutto di un'intelligenza astuta e straordinaria, temprata dalle esperienze più squallide, credo che Salvatore si affezionò molto a me, ed io a lui, e negli ultimi due mesi cessò i boicottaggi e le congiure e divenne uno dei miei alunni più fe­deli, come vedremo. E anch'io, nella mia vita, non ho mai incontrato persone così coraggiose, così lucide, capaci di vigliaccherie inaudite ma che, quando decidono di essere leali, lo sono fino in fondo, a qualunque prezzo e senza limiti. Sal­vatore uscirà fra alcuni anni; deve trascorrere 2 anni a Malaspina, il resto a Ucciardone, in nes­sun caso qualcuno si occuperà di lui.

Ogni lezione bisognava conquistarla, ma mi ci impegnavo con fervore. Non ho mai creduto di essere perfetto ma alla fine, anche se commet­tevo qualche errore, i risultati mi confortavano e tornavo a casa entusiasta quando giungeva un se­gnale positivo dai miei ragazzi, di effettivo cam­biamento o di rimessa in discussione. Mi porta­vano regalini, progredivano negli studi, control­lavano le violenze.

Ma incombevano gli «altri» che proseguivano la loro paziente azione distruttiva, ma ormai non era una novità. Ingoiavo qualche amaro boccone ma in classe, quelle dicerie, non le credeva pro­prio nessuno. Un giorno, per una drammatizza­zione, ci dipingemmo i volti e ci travestimmo: i ragazzi, ed io stesso, eravamo allegrissimi, e fu un pomeriggio memorabile. Ma gli agenti si sca­tenarono, volevano andare dal procuratore a dire che io non facevo scuola ma bordello. Un'educa­trice mi disse che io con questi metodi mi co­privo di ridicolo. Tutti questi incidenti mi lascia­vano il segno. Persino la drammatizzazione non era un metodo didattico ormai universalmente utilizzato ma un metodo sovversivo. Dover spie­gare tutto, dovermi difendere sempre, dovermi guardare da ogni attacco mi stancava e mi ama­reggiava; ma non ero venuto a Malaspina per fare «disegno, dettato, copiato», e cercavo di andare avanti.

 

Lettera aperta rinchiusa

Ma quando uscì il secondo numero del giorna­lino si riaprirono i fulmini. Comparivano, accanto agli articoli sulle loro storie, e a un articolo con­tro i missili ed uno di ecologia, tre articoli: «Se io fossi il direttore», «Lettera aperta agli agenti di custodia», «Lettera aperta agli educatori».

Ogni alunno aveva scritto il suo pensiero e gli articoli raccoglievano tutti gli interventi. «Se io fossi il direttore farei...» ed i ragazzi avevano scritto i loro bisogni più ingenui, «costruirei una piscina, farei uscire i ragazzi, farei colloqui tutti i giorni...». Ma anche richieste precise e giuste, per esempio sulle condizioni igieniche dei gabi­netti, sugli impianti sportivi inesistenti, sugli ora­ri interni.

Nella «Lettera aperta agli agenti» un mio alun­no fece riferimento preciso e circostanziato (per ovvi motivi avevamo deciso che gli articoli sa­rebbero comparsi non firmati a nome di tutta la classe) ad un episodio che gli era accaduto in passato, quando era stato picchiato e aveva avu­to fracassata la faccia ed un occhio e aveva do­vuto fare ricorso alle cure mediche ed era stato sospeso dalla scuola. Quello stesso alunno, nel­la «Lettera aperta agli educatori» aveva ripre­so l'episodio, accusando che si era fatto finta di niente, che si era lasciato che venisse picchiato, che non si erano presi provvedimenti. Inoltre un alunno faceva accuse di alcune «infamità», ed un altro sottolineava i sistemi di collusioni, di favoritismi, di ricatti, che venivano praticati ver­so alcuni ragazzi «raccomandati» chissà da chi e chissà come.

Appena presentai il giornalino già battuto a macchina dai ragazzi, gli educatori mi diedero dell'irresponsabile e mi dissero che un giornalino così non poteva essere assolutamente diffuso nemmeno nell'interno o nelle altre classi. Il diret­tore, tanto per cambiare, mi accolse scandalizza­to. Mi ripeté astiosamente il vecchio concetto che io non avevo ancora acquisito la minima idea di che cosa fosse un carcere. Mi minacciò per la seconda volta direttamente (le minacce indirette furono decine) di allontanamento se non avessi cambiato sistema. Di quel giornalino mi resta soltanto la copia originaria coi segni autografi di chi aveva censurato tutte le parti «scandalose», quelle che non bisognava far conoscere. Perché accettai quelle censure e quelle limitazioni? Per­ché il nostro giornalino era soprattutto uno stru­mento per comunicare, e con quegli articoli, an­che se censurati e mai comparsi in pubblico, co­municammo quello che ci stava a cuore, e quelli che dovevano intendere intesero. Ma anche quei giorni, come gli altri, furono giorni di tensioni, di incontri, di mediazioni, di dicerie, di attacchi e di minacce.

 

Salvatore l'infame

I ragazzi progredivano continuamente. Ma quel­l'infame di Salvatore del Cep, con la concomi­tanza della scarcerazione del suo fraterno amico Gaetano, e della condanna durissima commina­tagli in quei giorni, con l'amico che tornava alla libertà e lui con la certezza di 5 lunghi anni rin­chiuso come un topo, divenne più canaglia di pri­ma, nervoso, falso, violento. Del resto, secondo il metodo, io non rispondevo con violenze ai suoi misfatti, ma lo provocavo e lo scoprivo, gli dicevo in faccia quello che era senza mezze parole, gli smontavo la leadership terroristica che cercava di esercitare in classe e che esercitava in isti­tuto. I nostri rapporti erano diventati impossibili. Studiavo il suo caso per pomeriggi interi: l'effet­to-choc tentato con Natale non poteva essere ri­petuto perché già conosciuto, ed anche perché Salvatore era astutissimo e mai si sarebbe pre­stato: tutto quello che mi combinava lo tramava alle mie spalle ed era difficilissimo scoprirlo in flagrante.

Io seguivo la tecnica pedagogica del coinvolgi­mento educativo, necessaria per i devianti, an­cor più per un deviante così ostinato ed intelli­gente come Salvatore. Così decisi che avrei con­venuto con Salvatore la tecnica disciplinare da usare contro di lui. In un dialogo memorabile, fatto dei suoi sorrisi falsi, di allusioni, ma anche di domande incalzanti che non ammettevano le sue ambiguità, lo informai che avrei punito il suo prossimo misfatto con la cella di isolamento. Lo misi così alle strette che lui accettò il patto leal­mente. Si controllò per alcuni giorni ma un po­meriggio la sua furia violenta, il suo gusto innato del comando, il suo godimento di essere obbedi­to, evidente riflesso del padre autoritario che l'aveva picchiato tutta la vita con le catene ed i bastoni, esplosero nuovamente. Distrusse un mio libro rilegato sulle teste dei compagni, mi lanciò libri e quaderni alle spalle, poi legò il collo dei compagni con un filo trovato chissà dove, poi organizzò un canto collettivo di canzoni oscene trascinando gran parte della classe, infine scris­se insulti pesantissimi contro di me e contro i miei genitori. Il tutto col suo torbido sistema di fare tutto alle spalle, di scaricare sui compagni le colpe, di costringerli col terrorismo che ema­nava, ad incolparsi in vece sua o a piegarsi alle sue trame.

Gli annunciai che intendevo mettere in pratica gli accordi, e cominciai a stendere il rapporto. Si tramutò in un animale incontrollabile: con la sua voce rauca, col suo viso capace di smorfie e di contorcimenti, gridò la sua falsa innocenza, col solito tono minacciosissimo fece testimonia­re i compagni a suo favore, tutti si incolparono al posto suo, ma io, lucidamente, smontavo le sue falsità.

 

Cella d'isolamento

Era diventato «un pazzo ». Il suo gusto tor­bido del comando e del potere non gli faceva sop­portare di essere punito, rinchiuso, sottomesso. Annaspava con impotenza: contro la mia logica ferrea (la logica della verità) cercava nuove ver­sioni e nuove falsità. Alla fine si lasciò andare, abbandonò ogni linea difensiva, e mi sputò in faccia tutto il suo disprezzo impotente. Col suo sguardo crudele, con le sue smorfie disgustanti, cominciò a descrivermi con paurosi dettagli quel­lo che avrebbe fatto a me e alla mia famiglia ap­pena uscito da Malaspina. Lo ascoltavo fingendo indifferenza e freddezza ma le sue parole mi sca­varono per davvero, del resto sapevo con preci­sione in che giro lui fosse inserito nell'inferno del Cep.

In serata Salvatore, su ratifica del consiglio di disciplina, fu punito con 3 giorni di isolamento e con la perdita del colloquio del sabato che coin­cideva col terzo giorno di punizione: quella era la pena più gravosa che potesse colpire un ra­gazzo di Malaspina.

Furono tre giorni troppo difficili, sia perché, seppur inserita nella tecnica del coinvolgimento pedagogico, avevo fatto ricorso ad una sanzione disciplinare estrema ed in fondo violenta: avevo costretto Salvatore alla cella, gliel'avevo impo­sta. Sia perché temevo che tra me e Salvatore potesse essere finito tutto. Mi dissero che Sal­vatore, quando in serata fu condotto in cella, aveva pronunciato e rinnovato le minacce più fo­sche e più nere verso di me, aveva ripetuto che mi avrebbe reincontrato solo per metterle in pra­tica, che avrebbe atteso cento anni pur di riu­scirci. Tutti gli operatori in istituto mi guardava­no con compunzione, persino gli agenti, e mi misero in guardia che Salvatore non era uno che parlava a vanvera. Ma ciò che mi colpì furono le minacce anonime che mi giunsero, e che non po­tevano essere di mano di Salvatore essendo rin­chiuso. Una recitava: «Farai la fine du surci», e un'altra «Ti troveranno in un portabagagli». Le minacce non mi spaventarono ma mi turbarono immensamente. Razionalmente escludevo che Salvatore potesse dare ordini a personaggi ester­ni per farmi maltrattare; ammesso che pensasse veramente quello che diceva avrebbe provveduto lui stesso quando sarebbe uscito dal carcere, non era tipo da delegare simili incarichi, ed in ogni caso se ne sarebbe riparlato tra anni. Razio­nalmente ero tranquillo ma emotivamente ero turbato e colpito.

Entrai in istituto, quel lunedì, cupo e sfiduciato. Avrei chiesto, come previsto, il colloquio con Salvatore, ma mi aspettavo che l'avrebbe rifiu­tato. Solo se lui mi avesse dato la possibilità di parlargli avevo qualche piccolissima speranza di ottenere qualche risultato; ma ero convinto che non mi avrebbe concesso nemmeno questa possibilità. Ma anche a Malaspina accadono mi­racoli imprevedibili. Avevo studiato il caso Sal­vatore per giornate intere ma mai avrei potuto prevederne l'epilogo.

Era accaduto che il sabato mattina il padre di Salvatore era venuto in istituto per il colloquio, e lo avevano informato che Salvatore era punito in isolamento e non poteva parlare con nessuno, tantomeno coi genitori. Il padre di Salvatore ave­va chiesto chiarimenti ed un educatore gli aveva letto il mio rapporto. Andò su tutte le furie ma, incredibile a dirsi, non con me che l'avevo fatto punire, ma col figlio che si era permesso di mi­nacciare ed insultare me ed i miei genitori (gli altri episodi l'avevano colpito molto meno). Chie­se un colloquio straordinario con Salvatore per il lunedì mattina, e gli fu concesso. Quella mat­tina stessa, alla presenza di un educatore, cercò di picchiare Salvatore, gliene disse di tutti i co­lori: che si vergognava di avere un figlio simile, che approfittava di me perché lo rispettavo e lo trattavo con umanità, e che lui, Salvatore, un in­segnante così buono non l'avrebbe mai visto (sic!). Gli ingiunse di rientrare subito a scuola, di chiedermi scusa, di non riprovarci mai più.

Il padre di Salvatore non era riuscito, con le sue tecniche violente, a «raddrizzare» suo figlio. Ma era riuscito a farsi temere ed obbedire da Sal­vatore, ed era certo l'unica persona al mondo ad avere questo potere. Salvatore era un ragazzo violentissimo, ostinato, falso, autoritario. Quan­do mi raccontarono quella scena non potevo cre­dere alle mie orecchie. Un problema pedagogico che a me pareva pressoché insolubile e dispe­rato, quel pomeriggio me lo trovai felicemente risolto. Il mio prestigio interno si accrebbe a vista d'occhio: non solo avevo avuto il coraggio di sfidare e punire Salvatore la canaglia, ma ave­vo anche risolto la questione a mio totale van­taggio e senza alcun segno di cedimento.

Ma a me interessava Salvatore. Lo chiamai, lui entrò come un cagnolino abbattuto, con gli occhi bassi, ed io mi limitai a raccontargli che cosa avevano significato per me quei tre giorni, e che cosa mi aspettavo per il futuro. Fu un dialogo sommesso, a voci basse, tra due amici leali. Sal­vatore mi disse, con un sorriso aperto e non ipo­crita, così raro anzi rarissimo, che in camerata doveva farmi leggere una cosa. Occorre sapere che a Malaspina 80 ragazzi sono divisi in due lun­ghissime, squallide camerate coi lettini uno ap­piccicato all'altro. Ho sempre immaginato che 30 docenti universitari costretti a convivere in que­sta situazione, dopo 24 ore mostrerebbero se­gnali di conflitto e di dissociazione: figurarsi 30 devianti. Una vita d'inferno, una lotta mafiosa e terroristica per la leadership interna, pagata du­ramente con sfregi, minacce, umiliazioni, comandi. Una scuola supplementare di violenza per quei ragazzi che in questo campo erano e sono specialisti insuperabili. Non ero mai entrato in quell'inferno, protetto da grate pesanti che la­sciano intravedere lo squallore che emanava. Salvatore mi disse: - Aspettami. Entro in came­rata e torno subito -. - No, entro anch'io -.

Entrammo. La camerata ammutolì. Erano pas­sate soltanto un po' di ore dalle tremende mi­nacce di Salvatore e non solo di Salvatore, sulla mia testa, ed io entravo nel «lor » regno a fian­co a lui, ad uno dei boss incontrastati. Fu un'e­mozione intensissima e soverchiante. Percorrem­mo tutta la camerata fino al letto di Salvatore, in fondo al salone, sotto gli occhi stupefatti di tutti. Ci sedemmo sul letto da amici, estrasse dal comodino una lettera.

 

Cadute e risalite

Era accaduto che quel sabato anche G., la fidan­zata di Salvatore, era venuta a Malaspina per il colloquio, ed anche lei aveva saputo della vicen­da. Miracolo delle poste, gli aveva scritto un espresso che quel lunedì mattina era già arri­vato a destinazione. Salvatore mi fece leggere la lettera: G., che non mi aveva mai visto e che mi conosceva tramite le lettere di Salvatore, at­taccava il fidanzato con toni durissimi: che dove­va vergognarsi di quello che mi aveva fatto, che un insegnante così non lo avrebbe trovato mai, eccetera, eccetera. Rimasi stupefatto: tutta quel­la vicenda era stupefacente da ogni punto di vi­sta. Salvatore l'irrecuperabile infame era tornato a me col capo chino. La sua fidanzata, anche lei del Cep, gli aveva scritto una lettera così, e lui me la faceva leggere con pentimento, come ulte­riore espiazione, e con l'orgoglio di avere una fidanzata così, che scriveva queste cose. Ed il suo ripensamento era stato suffragato dal nostro ingresso in camerata, sorridenti, a chiacchierare seduti su un letto, davanti agli occhi di tutti: mi aveva concesso questo trionfo a prezzo della sua sconfitta.

Nessuno è irrecuperabile, e Salvatore dimo­strava che persino uno come lui era un essere umano, umanissimo, capace di rimettersi in di­scussione fino a quel punto. Ero felicissimo, mi illusi che con Salvatore i conflitti erano finiti. In­fatti dopo una settimana il suo desiderio smodato di comando e di violenza riaffiorò, ricominciarono le manovre e le congiure, ed i nostri conflitti. Ormai ero disarmato: la punizione dell'isolamen­to era stata l'ultima spiaggia. Lo chiamai a col­loquio più volte ma ormai era diventato un rito vuoto. Ripetevamo gli stessi concetti, teorica­mente era tutto chiaro, ma i conflitti riesplo­devano subito. Come un circolo vizioso senza uscita.

Gli operatori dell'istituto, tutti sostenitori del­l'«irrecuperabilità» di Salvatore e di tutti i ragaz­zi, ribadirono trionfanti che dopo la vicenda dell'isolamento io mi ero illuso come mio solito, e continuavano ad accreditare il loro chiodo fisso: che ero un povero idealista, uno sprovveduto, uno che del carcere non ha capito niente. Con­fesso che quando ricominciarono i conflitti con Salvatore mi sentii indifeso e senza vie d'uscite. L'isolamento non aveva prodotto la svolta defini­tiva che avevo auspicato. Ripetere la sanzione sarebbe stato assurdo. I colloqui a due erano di­ventati un rito inutile. Salvatore sembrava invin­cibilmente costretto ad un comportamento ostile, intollerante, violento, di cui comprendeva l'ina­deguatezza, ma che esplodeva ugualmente ed ine­sorabilmente nella nostra classe e nei miei con­fronti. Un pomeriggio, un pomeriggio difficile, al­l'uscita gli annunciai freddamente che lo sospen­devo dalle lezioni per una settimana. Ne fu sor­preso: tutte le volte che lui mi chiedeva di so­spenderlo avevo rifiutato con enfasi: «Sopporte­rò le tue violenze fino all'ultimo, sono venuto in questo istituto per vedere i violenti come te fino a che punto arrivano, se saranno esseri violenti per sempre». Lo sospesi senza una strategia, solo perché non sapevo cosa fare, perché ero stanco e distrutto, perché ormai non ci credevo più. Pensai veramente, per la prima volta, che Salvatore, come dicevano tutti, era davvero il deviante irrecuperabile.

Terminò la settimana di sospensione. Speravo con immensa attesa di vedermelo tornare ami­chevole e ben disposto. Così cercò di essere, ma subito, il primo pomeriggio in cui rientrò, e c'era­no in programma giochi collettivi con piccoli premi, imbrogliò falsamente, ricattò mafiosamen­te i compagni perché dividessero con lui i premi che loro vincevano, trasformò i giochi in una camorra. Per completare l'opera, all'uscita, poi­ché mi rifiutavo di aprire la porta finché non aves­sero fatto un po' di calma, la fece saltare nono­stante fosse chiusa a doppia mandata, ed uscì trionfalmente. Gli dissi, infuriatissimo, che sape­va benissimo che le porte non si toccano, che era vietato dal regolamento, che era uno scasso, oltre che una vigliaccata nei miei confronti. Gli dissi che sarei andato a riferire agli educatori e lui mi minacciò che era l'ultima volta che veniva a scuola. Gli educatori ribadirono che Salvatore era un caso irrecuperabile, e che le mie tecniche pedagogiche non facevano che peggiorare la si­tuazione. Ormai non sapevo come difendermi, ero demoralizzato. Il giorno dopo Salvatore si rifiutò di entrare in classe e gli educatori deci­sero di accogliere la sua richiesta. Era la fine. La classe senza Salvatore era tranquilla e quieta, si respirava. Ma la sua assenza mi turbava co­me un fantasma, significava il mio fallimento, mi ripetevo che non restavano che due possibilità interpretative: che le mie metodologie così me­ditate e analizzate avevano fallito; che esisteva­no devianti irrecuperabili, violenti e assassini per tutta la vita, come Salvatore. Entrambe le ipotesi mi risultavano inaccettabili, ma una delle due era necessariamente vera. Seguirono giorni tranquilli, senza incidenti, con gli altri operatori in forzata convivenza, persino con gli agenti.

Finite le vacanze di Pasqua, mentre mi trovavo nel salone ricreativo casualmente, si avvicina Salvatore. Col suo sorriso angoloso, un po' di sfida, ma con un tono un poco sommesso, mi chiese a freddo: - Se ti chiedo di tornare a scuola che cosa mi rispondi? -. Parole dolcis­sime per le mie orecchie! Riuscii a mantenere la calma: - Ti chiederei delle spiegazioni -. - Ah va', Aurelio. Io voglio tornare a scuola. Ma non ho spiegazioni -.

Tornò a scuola. Dopo 5 mesi di lotte continue e di conflitti eterni, di risalite e di cadute, di ma­novre e di congiure, era avvenuta la svolta. Di­venne un mio prezioso collaboratore. Per ogni problema interno mi rivolgevo a lui e gli chiedevo che fare, cosa mi consigliava. Talvolta riesplode­vano le scintille che prima ci avrebbero condot­to alla rottura. Ma ora si controllava, ci guarda­vamo in faccia. In due mesi ci fu qualche piccolo screzio ma nessun vero conflitto.

La vicenda di Salvatore - si capisce - mi sta a cuore più di tutte. Salvatore per me ha rappre­sentato il modello precostituito di «deviante al massimo livello», di quelli che la gente dice (e lo disse qualche operatore, persino uno che sti­mavo molto) «bisognerebbe metterli al muro e farla finita per sempre». E io, con pedagogico entusiasmo, posso ancora continuare a ripetere che non esistono irrecuperabili. Salvatore non è affatto recuperato, e temo moltissimo per il suo futuro. Ma se si fosse proseguito nel coinvolgi­mento educativo, nella responsabilizzazione, nel­la partecipazione attiva, la sua ipotizzabile futura carriera di leader della malavita potrebbe non aver luogo. Non creda di essere uno che regala la sua stima facilmente. lo, quel 1óenne canaglia ed infame, l'ho stimato e lo stimo moltissimo.

 

Scrivere di mafia

Mi aiutò moltissimo nella realizzazione del 3° numero del giornalino di classe interamente de­dicato alla mafia. I ragazzi avevano sempre posto ostacoli a scrivere e parlare di mafia nel chiuso della classe, figurarsi all'idea di scriverne pub­blicamente in un giornalino. Quando convinsi Salvatore che sarebbero stati liberi di dire sulla mafia tutto quello che volevano, e che non avrei scritto i loro nomi (atavica, invincibile paura an­che dei più coraggiosi), il gioco fu fatto. I miei alunni, appena videro che Salvatore era disposto a partecipare, nessuno di loro si rifiutò, e in un memorabile pomeriggio, davanti a un registrato­re parlammo di mafia a ruota libera; poi ripor­tammo il colloquio nel giornalino, disegnammo sulla copertina un teschio con sotto scritto «Ma­fia pericolo» e il giornalino era fatto. Il mio estre­mo tentativo di convincerli a scrivere il loro no­me fallì, ma il successo ottenuto fu comunque enorme.

I ragazzi di Malaspina parlavano, scrivevano di mafia, facendo affermazioni importanti: che preferivano la mafia allo Stato, che la rispettava­no di più. Ma manifestavano anche l'aspirazione, tutt'altro che sotterranea, ad una Palermo senza mafia, senza violenza, senza omicidi. Ed una ras­segnazione cupa verso lo Stato inefficiente, quel­lo che divide la città in una Palermo-bene dei ric­chi e in una Palermo-violenta di loro; con i giu­dici e i poliziotti che si fanno comprare dalla mafia, con l'Antimafia che «non sa fare un caz­zo». E il sogno visibile di una città pulita, di uno Stato, loro così nemici del famigerato «guvier­nu», vivibile.

Consegnai trionfante il giornalino al direttore. Non emanò commenti, né negativi né positivi. Gli chiesi che proponevo di diffondere il giorna­lino nelle altre classi dell'istituto e di organizza­re un incontro tra tutti i detenuti, magari divisi in gruppi di età e reati, per discutere le afferma­zioni dei loro compagni di 4ª. Mi rispose, col suo tono eternamente scettico, con una delle sue fra­si famose: «I ragazzi meno parlano meglio è». Infatti non se ne fece nulla.

E già incombeva un nuovo incidente, che tut­t'oggi considero incredibile, inqualificabile, avvi­lente. Le premesse: i ragazzi, come già detto, hanno un senso inesistente dello Stato, del col­lettivo. Ciò che è di tutti è di nessuno, quindi bisogna appropriarsene. Seconda premessa: ave­vamo condotta un'unità didattica molto riuscita, che aveva appassionato i ragazzi, sul corpo uma­no, la sua migliore alimentazione, le sue malat­tie. Quando mi giunse a casa un bollettino della Lega contro i tumori, approfittando del fatto che i ragazzi, tra le malattie, erano rimasti impres­sionatissimi soprattutto da questo morbo, pro­posi di scrivere in un foglietto la propria firma a tutti coloro che erano disposti a versare 1000 lire da mandare alla Lega. Sottolineai il concetto che per la prima volta non dovevano derubare un ente pubblico, ma dovevano loro stessi finan­ziarlo: fare un sacrificio per lo Stato. Firmarono tutti, subito, entusiasti (e Salvatore, come al solito, firmò per primo e mi spianò la strada). Sal­vatore, ancor più entusiasta, mi disse: - Pos­siamo andare nell'altra classe? Ti giuro che fac­cio firmare tutti -. Accettai.

Dopo qualche minuto udii parole grosse dal corridoio. Salvatore, il mio collega, e una educa­trice, parlavano accesamente. Fui investito da un tono aggressivo: - Chi ti ha dato il permesso di prendere simili iniziative! -. II mio collega mi gridò che io ero ammalato di protagonismo, e che prendevo queste iniziative «umanitarie» per met­termi in mostra, e per mettere in cattiva luce gli altri operatori. L'educatrice mi aggredì afferman­do che i ragazzi non possono disporre liberamen­te del proprio denaro, che bisognava chiedere la autorizzazione nientemeno che al ministro, e che se il direttore l'avesse respinta (come era certo) io avrei fatto la figura di quello che ha le idee buone e generose, e gli altri dei cattivi che impe­discono le iniziative (parole sante). Restai a boc­ca aperta. Ormai era chiaro che anche le no­stre strade erano diverse, che mi ero stancato anch'io.

 

Il convegno del futuro e dei pidocchi

Al convegno tenutosi nell'istituto, alla presen­za delle massime personalità politiche e giudi­ziarie della Sicilia, la corda si ruppe per sempre. Quando chiesi come mai in un convegno in cui si doveva discutere sul futuro dei detenuti di Malaspina, che si teneva dentro Malaspina, gli unici assenti fossero proprio i diretti interessa­ti, vale a dire i ragazzi stessi, mi risposero che motivi di sicurezza lo impedivano. Proprio così. Ed al convegno, dopo i barbosi interventi di alcu­ni, dopo molta retorica e buoni propositi, dopo le promesse di assessori e del nuovo sindaco, chiesi al presidente del tribunale dei minorenni Antonio Marino se potevo leggere un documento scritto dai miei alunni. Il presidente, l'unico, in­sieme al cappellano padre Domenico, tra coloro che incontrai a Malaspina che dimostrò sempre un po' di fiducia per il futuro di questi ragazzi, mi diede la parola presentandomi, affettuosamen­te, come «la voce dei ragazzi». Lessi il docu­mento, scarno, disadorno, ma preciso. Si chiede­vano aiuti per il futuro, per chiuderla con vita violenta della disoccupazione, della miseria, del lavoro nero, della mancanza di alternative alla rapina. Ma si chiedevano anche aiuti per il pre­sente, tre cose: basta con le camerate-topaie am­massati in 35 in uno stanzone senza armadi e ta­volini, stretti come conigli; una sala di lettura e di scrittura per avere un po' di silenzio, un po' di pace; nuovi gabinetti nei cortili dove ce n'era­no due per tutti gli 80 ragazzi nel cortile piccolo, e due, entrambi rotti, nel cortilone grande. «Ci sono stati molti casi di pidocchi, piattole, epa­tite». L'assessore al lavoro, Culìcchia, appena finii il mio intervento, si alzò: - Trovatemi un terreno e costruiremo una casa-scuola per questi ragazzi -. E il presidente aggiunse: - Ecco la prima proposta concreta di questo convegno -. Fu anche l'ultima, e rimase una proposta. Culic­chia mi scrisse poi una lettera in cui, risponden­do alle mie sollecitazioni, diceva che per realiz­zare quel progetto era necessario attendere «più solide concordanze politiche».

All'uscita gli educatori mi aggredirono. Mi in­sultarono per la prima volta. Uno mi disse, seria­mente, che era spiacentissimo che non esistesse la pena di morte per gli insegnanti. Un'altra, che sarebbe stato necessario presenziare alle mie lezioni per impedirmi di fare scrivere ai ragazzi simili idiozie. Che avevo rovinato il convegno, avevo fatto scandalo, avevo deturpato l'immagi­ne di Malaspina dopo che loro per mesi avevano lavorato per questo convegno, ed ora Malaspina era diventato (lo era sempre stato) il posto dei pidocchi e delle piattole. I panni sporchi si lava­no in famiglia.

In serata, operatori bene identificati si precipi­tarono nelle camerate alla ricerca di quei folli che avevano scritti simili turpitudini. In breve tutti i ragazzi di Malaspina erano informati che io mi ero alzato e davanti a politici, giudici e gior­nalisti avevo detto che i ragazzi di Malaspina era­no tutti pidocchiosi e lordi.

Il pomeriggio successivo, oltrepassato il por­tone con le telecamere, udii subito la voce che girava: «È arrivato Aurelio». Ero atteso. Tutti i detenuti ce l'avevano a morte con me perché li avevo insultati fino alla vergogna. Quella matti­na il «Giornale di Sicilia» aveva scritto del con­vegno, ed aveva anche riportato le richieste dei miei alunni, compresa quella, legittima, di condi­zioni igieniche più umane per impedire pidocchi, epatite, ecc. Tutto giusto e tutto vero.

I ragazzi, aizzati a dovere, affermavano che dal «Giornale di Sicilia» si capiva che loro erano pidocchiosi, e a Palermo ora tutti sapevano quel­lo che erano, ed anche i loro genitori, e tutti avrebbero letto il giornale, e si sarebbero vergo­gnati e non sarebbero venuti al colloquio, ecce­tera, eccetera. L'atmosfera era tetra, i ragazzi minacciosi; mi arrivavano dalle camerate minac­ce anonime ed insulti pesantissimi.

I miei alunni entrarono in classe spaesati, mol­ti erano già stati costretti, nella camerata, a rin­negarmi, a fingere di essere anche loro schifati del loro insegnante. Non tutti mi avevano rinne­gato ma tutti erano perplessi. Non era mai capi­tato a Malaspina che tutti gli operatori unanimi fossero contro di me. Per il gioco dei partiti av­versi, ogni volta che era accaduto qualcosa cen­trata su di me, qualcuno dei partiti si era sempre schierato, per contrapposizione, nelle mie vici­nanze. Stavolta invece, ogni settore era concor­de nell'affermare che avevo gettato fango sul­l'istituto.

Spiegai facilmente ai miei alunni che al conve­gno avevo letto esclusivamente il loro intervento scritto, senza alcuna aggiunta né alcun commen­to; e che esisteva la registrazione degli interven­ti e, chi voleva, avrebbe potuto riascoltarla per sapere la verità. Ma c'erano operatori che aveva­no giurato ai ragazzi di avermi sentito dire al con­vegno che avevo definito i ragazzi di Malaspina sporchi e pidocchiosi. Cominciò a circolare la voce che il direttore aveva spedito una denuncia nei miei confronti alle autorità. Mentre passavo per il corridoio alcune voci anonime mi dicevano che finalmente sarei finito all'Ucciardone, e lì mi avrebbero fatto la pelle.

 

La «cappotta» fallita

Un agente disse testualmente ai boss di Ma­laspina: «II professore ha detto che siete pidoc­chiosi e sporchi, e tutta Palermo ride di voi». Qualcuno aggiunse che meritavo una «cappotta». Tutti i detenuti di Malaspina, eccetto alcuni dei miei alunni, accompagnavano i miei passaggi per i corridoi con voci e urli di disprezzo e di minac­cia. Non conoscevo al momento le manovre de­gli agenti anche se ero stato avvertito di evitare di andare nei cortili dell'«aria», o nelle camera­te, o nel salone ricreativo, perché mi poteva suc­cedere qualcosa. Io chiesi agli educatori un col­loquio con 5 boss di Malaspina perché mi dices­sero in faccia tutto quello che avevano da dirmi, senza minacce anonime e voci nascoste. Gli edu­catori mi risposero, in tono di guerra, che non po­tevo avere rapporti con ragazzi non iscritti alla mia classe.

Ma quel sabato mi capitò un'occasione utile, e la sfruttai subito. Se avessi saputo delle mano­vre forse avrei agito con maggiore prudenza; ma passando davanti alla camerata dei «grandi», E., mi disse, con un tono minaccioso di sfida, senza guardarmi negli occhi, parlandomi in ita­liano: «Ehi, ti devo parlare. Se non sei un vigliac­co entra». M., un altro dei cani, rinforzò: «Ma lascialo perdere... Non lo vedi che si caca...». Io, con calma: «Lascio la mia borsa ed entro, se l'agente di guardia mi il permesso». Il per­messo mi fu prontamente concesso. Mi apriro­no l'ingresso di sbarre della camerata, che fu richiuso pesantemente alle mie spalle: ero nel loro regno. E. mi disse di seguirlo nel suo letto. Salvatore, il mio alunno, non era in camerata per­ché era ai colloqui coi genitori. Io ed E. ci sedem­mo sul letto e 25 ragazzi si sedettero a capan­nello: ero circondato dai loro corpi e dalle loro facce. Se avessi saputo della proposta di «cap­potta» avrei tremato, invece mi sentivo sicuro di me, della mia forza di persuasione verbale, della mia aura di rispettabilità di non violento che dice quello che pensa e che non ha paura.

Non ci fu «cappotta». Se avessero voluto avrebbero potuto facilmente saltarmi addosso e farmi a pezzi, ed io non avrei potuto denunciare nessuno o tutti e 25, e così l'avrebbero fatta franca tutti quanti come succede in questi casi. Io ed E. cominciammo a parlare, lui aggressivo e accusante, io persuasivo e sicuro, ma improv­visamente, alle mie spalle, mi arrivarono degli scappellotti sulla nuca. Mi alzai e proclamai: «Io sono venuto per parlare, soltanto per parlare. Al prossimo schiaffo mi alzo e me ne vado». Qual­cuno dei boss fece la voce grossa: «Lasciatelo stare! Sbirro chi alza le mani». Ma dopo un mi­nuto gli schiaffi, leggeri e ingiuriosi, velocissimi, senza che io potessi nemmeno intuire da quali mani venissero. Ricominciarono. Mi alzai per an­darmene. M. mi trattenne: «Il primo che alza le mani è sbirro e spione. E' fíggh'i 'arrusa». Un po' di calma, ma poi ricominciarono. Mi alzai di­sgustato: «Non c'è niente da fare con voi, voi non sapete che cosa significhi usare la bocca, sa­pete usare solo le mani». Cominciammo ad alter­care, ma appena si avvicinavano ricominciavano gli scappellotti velocissimi, che non mi facevano nessun male, con le loro mani leggere da scippa­tori. Basta. A passo veloce, seguito dalle loro gri­da ed insulti, mi avviai verso l'uscita della came­rata lunghissima. Tra le grida e gli insulti e le mi­nacce mi vidi arrivare scarpe tra i piedi. Nessuna mi colpì con precisione, mi rimbalzavano attorno nelle vicinanze. Mi voltai: tutti immobili, nessu­na mano levata. Gli gridai che erano dei vigliac­chi, che non avevano nemmeno il coraggio delle loro azioni, nemmeno dentro la loro camerata. L'atmosfera divenne ancora più sconvolgente, mi fermai, mi circondarono tutti, mi misi a gridare con agitazione anch'io, che erano dei vigliacchi, dei violenti, questo era il ringraziamento per ave­re chiesto al convegno, io e i miei alunni, di farli vivere in condizioni un po' più umane. Ma erano sordi, io che gridavo, circondato da loro, tutti più alti e più robusti di me, avevo di fronte solo le loro facce che urlavano e inveivano, più sfigu­rati che mai. Ricominciarono gli scappellotti. Lan­ciai le mie ultime invettive inutili. Chiesi al­l'agente, che non aveva alzato un dito per tutto il tempo (e del resto, contro 25 di loro, nessuno avrebbe potuto fare nulla), di farmi uscire. Estras­se lentamente le chiavi, il tempo di arrivarmi un'altra scarica di scappellotti, leggeri e deboli, ed un ultimo lancio di scarpe che mi rimbalzaro­no ai piedi.

La porta si richiuse e mi trovai sano e salvo, senza fiato e coi nervi a pezzi. In quella stessa mattinata mi arrivarono altre minacce anonime che mi annunciavano tristi destini.

Salvatore fu mio salvatore per davvero. In quella bolgia squallida e pericolosa, con quei ra­gazzi che alcuni avevano facilmente istigato, Sal­vatore la canaglia iniziò un lavoro difficilissimo di persuasione. Salvatore è ancora rinchiuso a Malaspina, e non posso parlare con lui da mesi e mesi; e forse non ci rivedremo mai più, ma alcuni miei alunni ora liberi, che sono venuti a trovar­mi, me l'hanno ripetuto più volte: «Tu a Salva­tore dovresti baciare le mani. Lui ha rischiato più volte di buscarle per te». Non mi rinnegò. Di fronte a tutti gli altri boss che mi circondavano come cani ripeté sempre che lui credeva alla mia versione, che io non avevo fatto altro che legge­re il loro messaggio, che io e i miei alunni ave­vano chiesto solo delle condizioni di vita più giuste ed umane per i ragazzi di Malaspina. Fu insultato e minacciato anche lui. Tutta questa storia ridusse i nervi in uno straccio a me che passavo a Malaspina 4 ore al giorno, e ne avevo altre 20 per recuperare. Salvatore ci viveva 24 ore al giorno, passava la notte in quell'inferno, il giorno e tutte le ore. Non so perché né come ci riuscì. Cinque giorni dopo alcuni boss di Mala­spina, puta caso proprio quelli (eccetto uno) cui avevo chiesto i colloqui di chiarimento agli edu­catori e loro me li avevano rifiutati, vennero in classe a stringermi la mano. Io rifiutai, dicendo che avevo bisogno di tempo e di prove per ac­cettare la mano di chi mi aveva tirato scarpe e schiaffeggiato. Ma anche quella storia, almeno coi ragazzi, era finita e risolta.

Era accaduto che Salvatore l'irrecuperabile li aveva lavorati ai fianchi, li aveva messi alle stret­te, aveva scommesso stecche di sigarette sulla verità. Ed un agente stimabile, uno dei pochi, aveva fatto ascoltare la registrazione del mio in­tervento ad un paio di loro, e la verità era venuta a galla, e Salvatore vinse un sacco di stecche di sigarette. Come gli chiesi di fare, le rifiutò tutte.

 

La fine

Mancavano pochi giorni alla fine della scuola. Li passai lavorando sodo coi miei alunni in vista degli scrutini e degli esami, e sentendo dicerie che garantivano che dopo questa ultima storia la mia vicenda con Malaspina si era conclusa, e che per di più ero stato denunciato, e che il pros­simo carcere che avrei conosciuto sarebbe stato Ucciardone. Da rinchiuso, non da «professore».

Salvatore, ed altri alunni, fecero l'esame di licenza, e dalla quarta elementare passarono alla prima media con pieno merito. Erano più bravi di molti ragazzi di quinta. Gli altri miei alunni furono promossi in quinta e fu anche questa una conquista.

Il 30 giugno, mio ultimo giorno di servizio, fui bloccato all'entrata dal custode dicendo che io non potevo essere ammesso in custodia per una circolare interna. Errore: il mio servizio scadeva proprio quel giorno, ed il direttore, imbarazzato, mi fece entrare tra la sorpresa generale di agenti ed educatori.

Il 27 settembre 1984 il provveditorato confer­mava la mia nomina a Malaspina anche per l'an­no scolastico 1984-85. Il giorno dopo mi presentai dal direttore. Rigirò tra le mani la mia nomina, in­fine mi comunicò che non intendeva farmi entra­re in istituto per assenza di alunni da affidarmi. Telefonata col mio direttore didattico; fu costret­to a farmi entrare in istituto accompagnato da un educatore che tre mesi prima mi aveva detto apertamente che avrebbe fatto tutto il possibile per non farmi rimettere piede lì dentro.

Vidi per l'ultima volta alcuni miei ex-alunni che riuscirono a sgattaiolare per salutarmi festosa­mente. In giornata il direttore inoltrò una comu­nicazione al provveditorato in cui diceva che si sopprimeva una classe in istituto (la mia). Come perdente posto fui trasferito d'autorità in altra sede. Non ho più messo piede a Malaspina.

 

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