Prospettive assistenziali, n. 74, aprile - giugno 1986
Notiziario dell'Associazione nazionale
famiglie adottive e affidatarie
OSSERVAZIONI DELL'ANFFA SULLA BOZZA DI PIANO
SANITARIO NAZIONALE PER IL TRIENNIO 1986-1988
1. Nella bozza di piano sanitario nazionale (versione
al 6.11.1985) non è prevista nel programma n. 10 «Potenziare
la tutela materno-infantile» la collaborazione del Servizio sanitario nazionale
(USL) e del relativo personale (psicologi, neuropsichiatri
infantili, psichiatri, ecc.) in materia di:
- affidamenti a scopo educativo a famiglie e persone
singole;
- comunità di tipo familiare;
- adozioni.
La legge 4 maggio 1983 n. 184 «Disciplina dell'adozione
e dell'affidamento familiare» prevede che i suddetti interventi devono essere
prioritari rispetto al ricovero in istituto in relazione
alle conseguenze negative derivanti dall'istituzionalizzazione dei
minori.
Tale collaborazione si esplica
attraverso:
- l'azione diretta a prevenire gli
abbandoni dei minori e ad evitare quelli differiti nel tempo (intervento sul
nucleo familiare d'origine);
- la segnalazione tempestiva e obbligatoria al
Tribunale per i minorenni dei minori «in situazione
di abbandono di cui vengono a conoscenza in ragione del proprio ufficio» (v. artt. 8-9 della legge 4 maggio 1983 n. 184 «Disciplina dell'adozione e dell'affidamento familiare»).
La segnalazione suddetta è obbligatoria - e
penalmente perseguibile in caso di omissione - per «i
pubblici ufficiali, gli incaricati di un pubblico servizio, gli esercenti un servizio
di pubblica necessità»;
- la selezione, preparazione delle famiglie adottive,
la preparazione e l'inserimento dei minori adottabili nelle famiglie adottive,
il sostegno durante l'affidamento preadottivo, ecc.;
- il reperimento, selezione e
preparazione delle famiglie affidatarie, l'assistenza tecnica durante
l'affidamento agli affidatari, al minore, alle famiglie d'origine.
2. Un problema che richiede particolare attenzione,
che non è stato affrontato nel piano sanitario
nazionale, è quello relativo al segreto del parto (le donne non coniugate, che non
intendono riconoscere i propri nati, hanno il diritto di tenere celata la
propria identità e i bambini risultano «figli di ignoti»).
Al riguardo va rilevata l'importanza di una idonea assistenza prima e dopo il parto alle gestanti
e madri in modo che, attraverso l'intervento degli operatori, esse possano
essere aiutate a scegliere responsabilmente se riconoscere o non riconoscere il
bambino. Ciò anche per evitare che le situazioni di abbandono
vengano accertate quando il bambino ha già subito, magari per anni, le
conseguenze del disinteresse o delle violenze dei suoi genitori.
3. Va rilevata anche l'importante ruolo che può avere
il personale sanitario nella vigilanza delle condizioni igienico-sanitarie
sulle strutturi; e sui minori ricoverati in istituto.
IN
MARGINE AD UN CONVEGNO SULLE PROBLEMATICHE PSICODINAMICHE DELL'ADOZIONE
DANIELA GIACOBBE (1),
MARIA MASSARI MARZUOLI (2)
La rivista Psichiatria
dell'infanzia e dell'adozione (Boria edit.) dedica un numero speciale alle «Problematiche
psicodinamiche nell'adozione» (volume 52, n. 4,
luglio-agosto 1985) uscito nel gennaio scorso.
Vengono riportati gli atti del V Convegno annuale dei «Corsi
per psicoterapeuti dell'età evolutiva» svoltosi presso l'istituto di
Neuropsichiatria infantile dell'Università di Roma,
«La Sapienza», il 28-29 giugno 1985.
Nella breve presentazione al convegno il prof. Gianotti, Responsabile del Servizio autonomo di
Psicoterapia dell'età evolutiva nello stesso istituto
universitario, ne definisce contenuti e finalità: «Il tema dell'adozione è un tema estremamente
intrigante per le notevoli complessità più o meno inconsce che propone sia
nella coppia adottante sia nel bambino, sia successivamente nello stabilirsi e
svolgersi della relazione adottiva. Lo scopo di questo convegno non vuole essere
una critica agli operatori che lavorano per l'adozione, ma uno sguardo
all'interno della refazione adottiva e ai contenuti
che questa pone quando il lavoro psicoterapico appprofondisce
e "svela" le dinamiche più profonde».
La peculiarità e la specificità del tema e dello
scopo di queste due giornate dedicate soprattutto alla valutazione e alla
terapia delle patologie che possono nascere e svilupparsi nell'adozione
costituiscono un contributo importante e utile per una riflessione critica da
parte degli operatori che si sono occupati e si occupano a vario titolo di questa area di interventi.
È come scoprire, ci sembra, l'altra faccia possibile
di un pianeta conosciuto ma non abbastanza esplorato
specie nelle sue non poche zone d'ombra di cui certamente da tempo si parla ma
senza sapere (volere?) affrontarle con maggiore incisività ed efficienza.
Sarebbe troppo lungo in questa sede entrare nel
merito delle otto relazioni cliniche, quasi tutte corredate
dall'analisi dei «casi» più significativi e i cui titoli sono suggestivi ed emblematici:
così è per «Riflessioni sulla patologia nell'adozione» (A. Giannakoulas), «Il sé del bambino adottivo» (M.A.
Fenu, C. Federici, R. Chiarelli), « Dinamiche di coppia nell'adozione » (P. Natali,
E. Bari, B. Carau),
«Collusione di coppia e scelta adottiva» (B. Carau, A. Nicolò),
«Complementarietà delle fantasie inconsce nella relazione adottiva» (D. Colajanni, E. Spano), «Adozione e adolescenza» (S. Grimaldi,
A. Maltese), «Aspetti della funzione terapeutica sul
trattamento del bambino adottivo» (A.M. Chagas Bovet, A.M. Lanza), «La cancellazione della memoria, ovvero
la scelta impossibile» (C. Menghi, M. Rossetto).
Il nostro invito ad una lettura attenta e costruttivamente
critica delle relazioni cliniche è motivato dalla
portata e dalla qualità delle esperienze cliniche e umane elaborate in un
intenso lavoro di consultazioni e di interventi psicoterapici per adottati e
adottanti.
Per quanto ci riguarda come operatori la partecipazione
al convegno ha suscitato non pochi interrogativi e riflessioni a conferma o disconferma delle nostre esperienze sul campo.
Paradossalmente ci siamo chiesti, ad esempio, se la
scarsità, l'irrilevanza dei dati (catamnestici)
sull'andamento e sulla qualità delle numerose storie adottive (quarantamila in
Italia dal 1967 ad oggi) siano testimonianza implicita
di un'alta incidenza di piena riuscita.
Né solo da oggi ci chiediamo come leggere «il
silenzio» di molti nuclei adottivi dopo l'anno di affidamento
preadottivo o quantomeno la loro fuga da quei servizi
pubblici che ne avevano seguito l'iter e la conclusione: se sono espressione
della naturale esigenza della coppia di uscire dal clima degli «esami mai
finiti» per potere ritrovare nel privato la capacità di misurarsi - senza
intermediazioni - nella crescita complessiva dei nuovi rapporti; oppure se
silenzio e fuga della coppia sono l'unica difesa possibile dal timore di
incorrere in ulteriori giudizi - questa volta di inadeguatezza - proprio da
parte di chi, giudici e operatori, l'aveva ritenuta idonea all'adozione.
La riflessione va anche sugli atti e sulle decisioni
che convergono negli abbinamenti, ovvero sulla
individuazione di un certo minore adottabile per una certa coppia ritenuta
valida: troppo spesso, forse solo in passato, il bambino, la sua storia, il suo
vissuto d'abbandono e/o i ricordi fragili o consistenti delle origini, venivano
tradotti nello stereotipo del bambino abbandonato, come tale considerato
pronto ma raramente preparato per la nuova famiglia.
Se poi l'abbinamento riguarda preadolescenti e
adolescenti adottabili, quello stereotipo risulterà più riduttivo e
superficiale, lontano dalla realtà delle loro complesse fasi di crescita che
alimentano la piena consapevolezza di un fallimento
relazionale rispetto a quelle origini che nessun atto giuridico può
interiormente cancellare.
Si potrà - si dovrà? -
operare perché gli abbinamenti assomiglino sempre meno a
incontri predisposti di soggettività valutative esterne (gli operatori, i
giudici) e sempre più a progetti preparati e condivisi con la piena
partecipazione dei protagonisti.
Tornando al convegno, il campione pur ristretto di
situazioni difficili riferite ha fatto intravedere, tra l'altro, la possibile
prevedibilità, già nei lunghi tempi preliminari, all'abbinamento di una patologia
specifica nell'adozione. Da questa prospettiva gli operatori hanno percepito
diverse sollecitazioni:
- a rimettere in gioco alcune delle premesse -
individuali e collettive - di una certa cultura dell'adozione, operando tra
l'altro per liberarle dalle residue, persistenti connotazioni di rimedio unico
all'abbandono per un minore, e/o di soluzione «totale» all'infelicità delle
coppie infertili;
- a confermare la validità della regola adottiva
anche attraverso l'eccezione fallimentare che può e deve comunque
essere prevenuta;
- a creare un allarme che esplicita la portata del
rischio connesso soprattutto alle carenze e alle
inadempienze passate e presenti in questa area di interventi.
È indicativo il fatto che l'incidenza della patologia
specifica dei nuclei adottivi non è ancora stata oggetto di ricerche mirate,
tali da consentire anche l'estrapolazione di dati
statistici significativi. L'unico dato citato con cautela da uno dei relatori
del convegno si riferisce ad una ricerca americana che quantifica solo le
richieste di psicoterapia per gli adolescenti adottati in «cinque volte in più»
di quelle per gli adolescenti figli biologici.
Come si vede, troppo poco per generalizzare dubbi e
interrogativi, ma abbastanza per non sottovalutare le implicazioni che non
solo questo convegno ha fatto emergere sull'adozione utilizzando una
valutazione psicodinamica per riconsiderarne alcuni
presupposti.
L'adozione - è stato sottolineato
nel convegno - si pone come l'incontro di due mancanze, «il vuoto della
sterilità» (la maggior parte delle coppie adottive che non ha figli propri) e
«il vuoto dell'abbandono» (il fallimento della relazione primaria): due
esperienze di sofferenza che se non vengono elaborate e accettate sul piano di
realtà possono moltiplicarsi producendo ulteriore sofferenza, disarmonie,
patologia specifica alla relazione adottiva nel suo insieme e nei singoli
protagonisti tra i quali l'adottivo è certamente il più vulnerabile.
Peraltro, è stato detto, analogamente a quanto
avviene nella famiglia «naturale» con la nascita di un bambino, l'adozione può
avviarsi e svolgersi come «reciproco arricchimento» - come
confermano le non poche storie adottive riuscite - quando «amore e qualità
mature» dei genitori consentono sia la piena assunzione dei ruoli adulti, in
questo caso consapevolmente sostitutivi, sia la crescita di «spazi emotivo-affettivi» flessibili, «a misura» dell'adottato,
del suo primo romanzo familiare e di quello «nuovo» da vivere.
Nel breve spazio concesso al dibattito ci è parso significativo un primo commento di un'assistente
sociale di Roma indirizzato ai relatori del convegno, neuropsichiatri
infantili e psicologi: «Arrivano i nostri!», ci è
sembrata un'espressione di sollievo mista a forti aspettative, ma anche alle
antiche frustrazioni di chi in questo campo ha lavorato spesso in solitudine o
con scarsi momenti di interazione e confronto tra professionalità diverse e
complementari.
La riprova di ciò è venuta da un altro commento che
in quella sede sottolineava addirittura «il divario
tra chi pensa e chi opera» come se la «mente» fosse una presenza lontana e rarefatta
mentre il «braccio» costituisse l'unico strumento (giuridico-sociale)
che finora «ha fatto adozioni».
Senza condividere questi bilanci amari pensiamo comunque che su tutti i temi del disagio minorile e delle
risposte più adeguate anche per gli operatori gli esami ma soprattutto la preparazione,
l'aggiornamento e il confronto non devono finire mai.
(1) Psicologa.
(2) Neuropsichiatra
- Psicologa.
www.fondazionepromozionesociale.it