Prospettive assistenziali, n. 74, aprile - giugno 1986

 

 

NUOVE POVERTÀ E STATO SOCIALE

GIOVANNI AVONTO (1)

 

 

Premessa

Nell'autunno del 1984 la FIM-CISL del Piemonte organizzò un primo convegno per individuare vec­chie e nuove forme di emarginazione, soprattut­to le nuove scomposizioni sociali originate dalla disponibilità o dall'assenza di lavoro.

Oggi vogliamo tentare di dare sistemazione alle esperienze e al dibattito di questi mesi, per inquadrare le povertà vecchie e nuove nel pro­getto di stato sociale che vogliamo sostenere; e quindi nella conseguente politica di tutela e promozione contrattuale.

Siamo all'inizio di un nuovo anno, che può aprirci prospettive in questo tentativo di lavo­rare per una nuova fase progettuale; ma è pur vero che non possiamo distaccarci dalle eredi­tà: soprattutto da quelle che pesano negativa­mente, come la perdita, di peso della forza lavo­ro dipendente, esemplificata dall'inefficacia della contrattazione confederale in settori classici co­me quello dell'industria, e dallo scambio in cor­so di alcune scelte economico-sociali, prima ten­denti alla uguaglianza e alla solidarietà, ed oggi spostate verso l'ineguaglianza e la competiti­vità.

C'è dunque in atto non solo una delegittima­zione della forma sindacato e della sua rappre­sentanza di interessi e valori collettivi, ma anche una omologazione della cultura sociale a quella proposta dalle classi dominanti; per cui lo Stato degli anni '80 avrebbe concluso storicamente la sua funzione mediatrice e riequilibratrice a so­stegno delle forze socialmente più deboli.

Dunque le eredità non sono né semplici, né po­sitive.

E tuttavia la prospettiva (naturale) di avere più ricchi, e contemporaneamente più poveri, di veder crescere i disoccupati, i giovani, i vecchi e le donne lasciati a margine dal lavoro e dallo sviluppo, pone al movimento sindacale la neces­sità di operare scelte di «giustizia», oltre che culturali e politiche.

I problemi a cui si trova di fronte non pos­sono essere semplicemente affrontati con la tra­dizionale dialettica e il conflitto di classe, ma richiedono una coscienza collettiva dei sacrifici e dei comportamenti coerenti necessari. Co­scienza che deve investire in particolare lavora­tori dipendenti e detentori del potere economico sulla non autonomia del profitto e del reddito personale a rappresentare e misurare il progres­so economico e lo sviluppo di una società; ma sulla loro dipendenza dall'obbligo sociale di com­battere le ingiustizie, ridurre le disuguaglianze e gli squilibri.

La società mantiene oggi le sue conflittualità sociali, ma queste si trasferiscono nella lotta per il miglioramento e la difesa degli strati corpora­tivamente più forti. In questo quadro i poveri e le loro povertà non hanno potere contrattuale, non sono né un soggetto sindacale, né un sog­getto politico in grado di inserirsi efficacemente in questa società conflittuale e corporativizzata.

Il movimento sindacale ha dunque un'altra scel­ta morale da fare: o riaffermare la propria utilità come strumento di promozione e di tutela a van­taggio solo dei già garantiti (che stanno quindi al di sopra delle fasce di povertà); oppure assu­mere i problemi della povertà, e quindi essere strumento di protezione e di sostegno più ampio per favorire la solidarietà fra strati sociali diversi, ed in particolare fra quelli che il movimento sin­dacale può proporsi di rappresentare.

 

Sintesi e valutazione sul rapporto della Commissione ministeriale per la povertà

La povertà è un fenomeno che persiste nelle società opulente e nell'occidente industrializza­to: anche nei paesi più sviluppati vi è una pre­senza di poveri oscillante fra il 10 e il 20%.

Ma non c'è un'adeguata presa di coscienza a livello sociale e politico; indifferenza e incre­dulità circondano i risultati sia della prima inda­gine sulla povertà in Italia, condotta nel 1979-80 sotto il coordinamento di Giovanni Sarpellon, in concomitanza con analoghe iniziative della CEE, sia quelli della Commissione di studiosi ed esper­ti, presieduta da Ermanno Gorrieri, resi pubblici nell'autunno '85 e che oggi proponiamo alla di­scussione.

C'è riluttanza verso ogni proposta di politica organica tesa a combattere la povertà, per il ti­more che sia elevato il rischio di sussidiare per­sone povere solo in apparenza.

Perciò prevalgono due atteggiamenti:

- riduzione o rimozione del problema, con l'illusione che basti favorire la ripresa economi­ca per risollevare anche gli strati più sfavoriti; e

- «cultura della disuguaglianza», in con­trapposizione alla nozione di benessere assicu­rato a tutti negli anni '70.

Come sottolinea il rapporto della Commissio­ne Gorrieri, la rivoluzione informatica, e la com­petitività nel mercato mondiale in particolare, richiedono dinamismo, efficienza, un elevato gra­do di mobilità e competitività sociale. Ma com­battere la povertà non è in contrasto con effi­cienza, produttività e dinamismo economico, che sono necessari per garantire la crescita eco­nomica.

Tuttavia un punto, irrisolto dalla impostazione non ideologica del lavoro svolto dalla Commis­sione, è se debba prevalere lo stimolo al rie­quilibrio e al l'aggregazione, oppure l'incentivo alle diversificazioni delle condizioni di vita e quindi di reddito, seppur legate alle diversità degli apporti personali al progresso economico e all'organizzazione della società.

È comunque centrale il riconoscimento fatto inizialmente dalla Commissione che «l'esistenza della povertà non è un fatto naturale e ineluttabi­le, ma è prevalentemente frutto di un'organizza­zione sociale ingiusta». E quindi bisogna rifug­gire dalla rassegnazione.

Dunque dobbiamo innanzitutto riconoscere il valore e la funzione di questo «Primo rapporto» della Commissione: aprire una discussione e un confronto culturale e sociale sugli squilibri più gravi nella nostra società, e sui fini delle scel­te politiche ed economiche. Noi intendiamo uti­lizzare in questa chiave di catalizzatore il mate­riale prodotto dalla Commissione, con le sue ana­lisi e le sue proposte, senza scartare le possi­bili valutazioni critiche; sollecitiamo anzi che il «Secondo rapporto» sulle specifiche situazioni locali (a livello personale e familiare) e sulle conseguenti politiche delle Amministrazioni lo­cali, non rimanga un proposito della Commissio­ne, ma diventi un indispensabile completamento.

Il Rapporto ci descrive la povertà come un fe­nomeno complesso: che ha molte dimensioni e che si cumula, dando origine a una giungla di povertà.

Alla insufficienza del reddito monetario si ac­compagnano carenze di altre risorse (dall'istru­zione all'accesso ai servizi pubblici e privati), che oggi costituiscono i contenuti essenziali per un tenore di vita adeguato o accettabile.

In una società come quella italiana le risorse decisive sono prodotte e distribuite in almeno tre ambiti diversi, che vengono individuati nel mercato, nello Stato e nell'economia familiare.

Il mercato come principale distributore di red­dito monetario attraverso il sistema occupazio­nale.

Lo Stato come distributore di trasferimenti mo­netari, di beni pubblici collettivi e di servizi so­ciali attraverso il prelievo fiscale.

E la famiglia come cassa di compensazione di redditi e sistema attivo di solidarietà e di re­ciproco sostegno anche al di fuori dell'economia monetaria.

Questi diversi ambiti, pur con sollecitazioni e apporti diversi, forniscono strumenti di promo­zione umana e di concorso alla qualità della vita.

C'è un riconoscimento però che la povertà as­sume oggi carattere più variegato e investe strati sociali diversi dalla classe omogenea dei poveri del passato: stanno cioè emergendo forme spe­cifiche di povertà qualitativamente diverse dall'indigenza totale dei poveri di ieri. Cioè situa­zioni di vita e di subalternità sociale che diven­tano fattori di povertà, in particolare quando si cumulano ad una insufficienza del reddito; op­pure quando con i loro costi portano alla po­vertà economica le famiglie in cui questi feno­meni si presentano. Tutti abbiamo presenti le si­tuazioni di nuove povertà diffuse in una società campione come quella piemontese: dalla dequa­lificazione professionale alla cassaintegrazione, dalle invalidità o infermità prolungate alle de­vianze sociali come la tossicodipendenza.

Nel Rapporto della Commissione viene comun­que rimarcato il fatto che la «vecchia povertà», cioè quella economica o materiale, non è quanti­tativamente marginale: le famiglie o le persone in condizioni di disagio economico valutate su scala nazionale rispetto al totale della popola­zione, raggiungono il 19%, ossia rappresentano un quinto della realtà italiana.

Questa messa in guardia ha avuto dei riflessi anche sui lavori preparatori di questo nostro Convegno. La lettura e la valutazione degli atti della Commissione ci ha suggerito di essere più prudenti ed equilibrati rispetto ad una prevalente attenzione dedicata oggi al tema delle nuove po­vertà, per il rischio di prendere in considerazio­ne (come è nell'opinione corrente) solo le pover­tà indipendenti dalla carenza di reddito.

Anche il titolo del nostro Convegno, che è ri­masto quello di alcuni mesi fa, prima del rinvio, andrebbe riequilibrato con «vecchie e nuove po­vertà». Tuttavia poiché vogliamo partire da una base comune di ricognizione, quale è quella ra­zionalizzata nel Rapporto della Commissione go­vernativa appare evidente che in questo nostro Convegno faremo riferimento al volto nuovo, cioè attuale e complessivo, con cui si presentano oggi le povertà.

Dunque se la situazione economica è da con­siderare una costante della povertà stessa, sarà anche importante esaminare come l'insufficien­za di reddito possa innescare il «circolo vizioso della povertà», e cioè la stabilizzazione dei sog­getti nella condizione di povertà: Usando l'illu­strazione del concetto riportata dalla Commissio­ne: dalla povertà economica della famiglia di ori­gine deriva minore possibilità di istruzione e for­mazione professionale; questa dà accesso ai la­vori meno qualificati e remunerati e, alla fine del­la vita lavorativa, a pensioni inadeguate; questa scarsità di risorse influisce sulle condizioni abi­tative e ambientali e nel godimento dei servizi sociali per sé e per i propri familiari.

Il peso della condizione reddituale come fatto­re di povertà chiama in causa la centralità dell'occupazione, della sua diffusione, della sua suf­ficienza e costanza: perché è la soluzione pri­maria del problema della povertà. Le altre forme di intervento assumono valore integrativo o sur­rogatorio quando sia gravemente indisponibile l'accesso al lavoro.

Il livello nazionale, che costituisce la fase di analisi e di indicazioni per una politica generale di intervento di questo «Primo Rapporto», vie­ne studiato dalla Commissione attraverso l'in­troduzione di indicatori (che sono individuati nel reddito e nella spesa per consumi) e nell'appli­cazione di un metodo di valutazione dei diversi gradi di povertà (basato sulle soglie di reddito e di consumo e sulla scale di equivalenza: ossia quella graduazione di livello di spesa che assicu­ra a famiglie di diversa composizione la stessa quantità e qualità di beni e servizi, tenendo con­to delle economie di dimensione).

Cioè la Commissione si è orientata a esami­nare il fenomeno della povertà secondo i diversi gradi di intensità che essa presenta, ricorrendo quindi al criterio di più fasce di povertà, per non enucleare dal corpo sociale una speciale cate­goria di sotto-cittadini stigmatizzati col marchio della povertà.

Sono state considerate tre aree sociali parti­colarmente esposte a rischia di povertà: e cioè coloro che sono in condizione di debolezza ri­spetto al mercato del lavoro, gli anziani e le fa­miglie numerose e monoreddito.

I risultati che ne sono scaturiti, e che verran­no illustrati da chi ha direttamente partecipato all'indagine, smentiscono alcune opinioni cor­renti: come la pauperizzazione degli anziani (la grande maggioranza - oltre il 75% - ha un li­vello di consumo superiore alla soglia della po­vertà); oppure l'opinione che nel Centro-Nord il problema della povertà riguardi soprattutto gli anziani (la povertà delle famiglie oscilla fra il Nord e il Sud intorno ai quattro quinti dei pove­ri); mentre viene messo in luce che il 40% delle persone povere si trova nelle classi centrali di età (fra i 25 e 65 anni); che il 28,4% dei poveri appartiene alle forze di lavoro (e di questi i due terzi sono costituiti da operai o figure assimila­te); che i tre quarti dei poveri non vanno oltre il titolo di studio della licenza elementare; che la femminilizzazione della povertà è sensibile a li­vello generale (le donne sono il 53,4% delle per­sone povere rispetto al loro peso del 51,3% sull'intera popolazione italiana), ma è fortemente maggioritaria nella fascia degli anziani (oltre i 64 anni).

Dalla ricognizione delle aree sociali di pover­tà la Commissione fa scaturire una scelta di fon­do relativa alla politica della povertà: cioè due aree di intervento,

a) la prima rappresentata dalle famiglie con nessun componente in età e condizioni di poter lavorare (cioè anziani e invalidi, che rappresen­tano pressappoco un quarto del totale dei pove­ri): a queste entità familiari dovrebbero essere offerti servizi e un minimo vitale in termini di reddito;

b) la seconda rappresentata dalle famiglie con almeno un componente idoneo al lavoro, verso le quali l'intervento fondamentale dovrebbe con­sistere nell'offerta di occupazione, accompagna­ta dall'offerta di servizi e, ove l'occupazione ri­sulti impossibile o insufficiente, da prestazioni monetarie finalizzate prevalentemente a garanti­re ai minori e agli anziani presenti in quelle fa­miglie livelli adeguati di vita.

Intorno a questa impostazione si articola poi la critica della Commissione alle normative in atto in campo previdenziale e assistenziale, e la ricerca di parametri selettivi da adottare per assicurare agli strati sociali più deboli il godi­mento di tre risorse fondamentali: cioè l'occu­pazione, il reddito ed i servizi sociali (questi ulti­mi intesi soprattutto come istruzione, sanità e casa).

I capitoli più impegnativi del Rapporto dovreb­bero essere gli ultimi due (cap. V e VI), dedicati alla ricerca di una politica di redistribuzione del­l'occupazione (causa principale della povertà eco­nomica) e alla redistribuzione del reddito a fini sociali (ossia il problema dello «stato sociale»). Dobbiamo dire che c'è una parziale caduta di tono nelle proposte finali, in particolare sul tema la­voro, giustificata anche dal fatto che i vincoli eco­nomici, già esistenti o che vengono introdotti nelle scelte generali, condizionano la politica contro la povertà; come pure dal fatto che le politiche redistributive monetarie e in servizi sono legate all'assetto complessivo che si vuole dare allo «stato sociale».

La linea realistica scelta dalla Commissione ci pare questa: dopo aver osservato che l'espan­sione economica, l'aumento dell'occupazione, del reddito e della spesa sociale sono condizioni es­senziali per vincere la povertà, constata che nel breve-medio periodo tale situazione non si veri­ficherà, perché i processi in atto peggiorano la situazione occupazionale ed il risanamento delle finanze pubbliche pone barriere ad incrementi della spesa pubblica. E dunque la lotta alla po­vertà andrà condotta in termini di più efficace ed equa distribuzione delle disponibilità esistenti e delle eventuali risorse aggiuntive disponibili (che avranno comunque tassi di incremento limitati). Quindi recupero di risorse finanziarie attraverso la razionalizzazione della spesa pubblica elimi­nando sprechi e privilegi inaccettabili (come ad esempio, nella stessa spesa sociale, la diffusione abnorme delle pensioni di invalidità, i pensiona­menti anticipati nei settori pubblico e priva­to, l'uso distorto della Cassa integrazione gua­dagni, ...).

Questo riordino della spesa pubblica per una politica di lotta alla povertà implica certo un ripensamento ed una riforma dello «stato socia­le». La Commissione manifesta la sua contrarie­tà alla riduzione delle prestazioni e/o privatizza­zione dei servizi sociali, che anzi dovrebbero es­sere estesi in modo da sottrarre ai rischi del mercato il soddisfacimento dei bisogni che con­corrono a formare i diritti di cittadinanza. Ma sottolinea che è inevitabile il ricorso a criteri di selettività, sia per le prestazioni monetarie che per il concorso degli utenti al costo dei servizi, distinguendo nettamente le prestazioni assisten­ziali da quelle previdenziali o assicurative.

Ne deriva la proposta finale di riforma-quadro degli interventi assistenziali, intrecciata forte­mente con una nuova impostazione dei sistema fiscale, e che prevede un sistema unificato di assistenza economica di base denominata «as­segno sociale». Sul terreno pratico questo indi­rizzo opererebbe su tre fasce di reddito:

a) la fascia della povertà, verso la quale con­vogliare il massimo delle risorse monetarie;

b) una fascia intermedia (al di sopra di un red­dito minimo imponibile di L. 600.000 mensili), beneficiaria di sgravi fiscali decrescenti;

c) una fascia esclusa da ogni prestazione as­sistenziale (al di sopra di un reddito imponi­bile di 911.000 lire mensili).

Questi livelli individuano un salario minimo vitale e un salario minimo contrattuale, che pos­sano costituire utili punti di riferimento anche per l'azione del sindacato.

In conclusione dunque la povertà non può aspettare che un'ampia crescita dell'occupazio­ne e del reddito estenda i suoi benefici anche agli strati sociali svantaggiati; e quindi la redi­stribuzione di risorse che crescono in modo mol­to limitato non è politicamente facile, e non è socialmente indolore: anzi richiede scelte in qualche misura traumatiche.

Orbene per quanto riguarda l'intervento contro la povertà da carenze di lavoro la Commissio­ne, dopo aver constatato che esistono difficoltà e opposizioni ad una riduzione generalizzata de­gli orari di lavoro, basa le sue indicazioni sulla mobilità ed elasticità nell'utilizzo della forza la­voro nell'arco della vita (nel settore privato e in quello pubblico); il che comporterebbe una di­versificazione dei livelli retributivi, ma anche una riduzione del costo del lavoro per far posto a una maggior occupazione nelle fasce più basse di prestazione.

Da questa impostazione nasce il rischio di di­soccupazione temporanea o prolungata, e quindi la necessità di mettere in moto dei sussidi che prevengano il rischio successivo di povertà; sug­gerendo anche il ricorso a lavori temporanei so­cialmente utili, al posto della pura assistenzia­lità per giovani e anziani (come il salario mini­mo garantito e il pensionamento anticipato). Con queste ipotesi viene rimesso in questione anche il sistema di pensione retributiva (cioè rappor­tata alla retribuzione dell'ultimo periodo lavora­tivo), che andrebbe sostituito ritornando al si­stema assicurativo-contributivo.

Ma non si capisce come nel punto d'incontro fra le esigenze dell'uomo e quelle della produ­zione, ossia nella contrattazione, sarebbe possi­bile realizzare una maggior giustizia redistributi­va di lavoro e di reddito a favore dei singoli e delle famiglie.

 

La riqualificazione dello stato sociale

Se non c'è dibattito e valutazione critica in­torno a queste proposte, il Rapporto della Com­missione corre il rischio di un uso strumentale. Cioè quello di stabilire una linea di separazione fra povertà e non, che dividendola stigmatizze­rebbe una parte della società, riversando su di essa le politiche sociali come assistenzialità

Il problema centrale ritorna allora quello dello «stato sociale». Cioè una sua impostazione che, riteniamo, non possa svincolarsi dalla combi­nazione e coniugazione di:

a) redistribuzione del reddito, e

b) solidarietà sociale;

e quindi un sistema di protezione sociale che sia ampio ed articolato da comprendere la grande maggioranza dei cittadini.

Questo significa scartare l'opzione di uno «sta­to sociale residuale», in cui l'obiettivo dell'inter­vento pubblico in campo sociale sia esclusiva­mente e principalmente la redistribuzione del reddito, attraverso un sistema puramente «assi­stenziale» di sostegno agli indigenti e ai biso­gnosi. È questo un sistema che stigmatizza la povertà e crea una frattura fra gli strati sociali.

All'opposto ci sta uno stato sociale e quindi un sistema di sicurezza sociale di tipo «universali­stico» (come realizzato ad esempio in paesi del Nord Europa), dove più che ricorrere a trasferi­menti di tipo assistenziale si fa affidamento ad un'estesa rete pubblica di servizi, e si favori­sce la solidarietà tra i vari strati sociali, in par­ticolare tra quelli socialmente più consistenti.

In effetti però l'equazione economico-sociale da risolvere è più complessa e riguarda tre fat­tori, ossia:

- redistribuzione di reddito

- solidarietà sociale

- rapporto costi/benefici (cioè efficienza ed efficacia nella gestione).

È certo che un sistema «universalistico è più costoso, nel breve periodo è meno in grado di assolvere ad una funzione redistributiva, ma agi­sce soprattutto nel medio-lungo periodo perché cerca di mettere tutti i cittadini nelle stesse con­dizioni di partenza». Perciò con una pressione fiscale elevata, che può giustificare un «welfare» molto esteso se si è in grado di raggiungere standards elevati e quindi di soddisfare anche le aspettative dei ceti sociali più svantaggiati dal punto di vista del reddito. Perché non c'è alcuna cultura della solidarietà che possa tenere di fron­te agli sprechi, ai privilegi ed a prestazioni pub­bliche insoddisfacenti o inadeguate!

Si richiede dunque capacità di razionalizzazio­ne e aggiornamento nei diversi settori (previ­denza, assistenza, servizi pubblici) tanto da par­te degli amministratori dello «stato sociale» quanto da parte della classe politica; si richiede un ampio decentramento sia della potestà di im­porre tasse e contributi, sia della gestione dei servizi in modo da porre in rapporto diretto - si direbbe faccia a faccia - il cittadino che è con­tribuente e utente, e gli amministratori pubblici che sono impositori fiscali ed erogatori dei ser­vizi e si richiede ancora un'organizzazione del lavoro e della prestazione lavorativa in questi servizi che sia impostata con criteri programma­tori, ma anche di flessibilità e di produttività.

Dunque la realizzazione di un sistema avanzato di protezione sociale comporta la ricerca di un equilibrio delicato fra obiettivi di redistribuzione, solidarietà, gestione efficiente e costi.

La legislazione sociale degli ultimi anni, ma soprattutto gli intendimenti manifestati con la impostazione della legge finanziaria, hanno mes­so in moto una strategia «anti-stato sociale» a favore del mercato e del privato: una campa­gna, demagogica ma sapiente, contro lo stato sociale, che drammatizza i suoi costi e la sua efficienza, e che individua nella sua impostazio­ne l'unico responsabile dell'amplissimo deficit dello Stato.

Come rilevavano in documenti unitari fin dal settembre scorso le tre organizzazioni confede­rali CGIL, CISL e UIL, si va precisando sempre meglio a livello culturale e politico un obiettivo di smantellamento dello stato sociale e di con­quiste dei lavoratori che hanno costituito fatti rilevanti di civiltà, in particolare per quanto ri­guarda la natura del servizio sanitario nazionale e la funzione del sistema previdenziale.

Secondo questa impostazione, che ha trovato progressiva affermazione nelle linee di politica economico-sociale proposte dal governo, l'inter­vento pubblico dovrebbe essere di tipo assisten­ziale-selettivo a favore di una fascia di «poveri», e dovrebbe tendere a ridurre il prelievo fiscale e contributivo che grava sui ceti medio-alti, dirot­tando poi il reddito che così si libera verso il set­tore delle assicurazioni e dei servizi privati. Questa linea diventa tanto più concreta quanto più si aumentano tariffe e ticket per i servizi pubblici e non si opera per migliorarne produtti­vità ed efficienza: perché in questo modo si sca­rica sugli utenti parte dei costi per improdutti­vità e inefficienza.

Indubbiamente la spesa sociale complessiva è salita rapidamente in Italia, fino ad arrivare al 24,8% misurato rispetto al Prodotto interno lordo (PIL); ma all'interno della spesa pubblica la quota della spesa sociale è rimasta abbastanza costante intorno al 43%.

Se poi guardiamo alle singole voci di spesa sociale, la spesa sanitaria - oggetto principale degli attacchi di stampo neo-liberista - è da di­versi anni su valori oscillanti intorno, al 6% dei PIL, che è un valore tra i più bassi in Europa e all'interno dell'OCSE.

Invece la spesa per l'istruzione e quella pre­videnziale (rispettivamente il 6% e il 17% rispet­to al PIL) sono entrambe a livello europeo.

Ma è altresì vero, come hanno fatto notare le Confederazioni nei loro documenti citati, che la spesa sanitaria negli ultimi due anni è cresciuta meno del PIL ed il contributo dello Stato alla spesa sanitaria nell'arco di cinque anni è sceso di oltre due terzi, per cui oggi il finanziamento della sanità è coperto per oltre l'85% dai contri­buti dei cittadini, e in quest'ambito circa il 70% è garantito dai contributi a carico dei lavoratori dipendenti.

Mentre per la spesa previdenziale è altrettanto vero che essa è scesa negli ultimi due anni sia rispetto al PIL che rispetto alle uscite correnti della pubblica amministrazione.

Lo scarto sostanziale nei confronti degli altri paesi europei è dato invece dalla spesa per il pagamento degli interessi passivi del debito pub­blico (a un livello intorno al 10% del PIL, e quindi più che doppio rispetto agli altri paesi).

Da questa rapida valutazione del peso che as­sumono per il bilancio dello Stato le voci legate al «welfare» risulta che dal punto di vista dei costi, il nostro sistema non è in una posizione peggiore rispetto a quella della maggior parte dei paesi industrialmente avanzati. Esiste, sì, un pro­blema di efficacia e di riforma organizzativa nel settore dei servizi sociali per aumentare il loro rendimento complessivo.

Poiché poi il 70% circa della spesa sociale si qualifica in termini di trasferimenti di redditi, il sistema redistributivo si rivela non solo altamen­te criticabile, ma pieno di distorsioni e sprechi, come viene ben evidenziato nelle analisi e nel tentativo di riordino che la Commissione Gorrieri propone. Cioè si possono verificare processi re­distributivi «alla rovescia» a favore di soggetti che, per le loro condizioni di reddito, non ne avrebbero necessità o diritto. Ritenendo attendi­bili le prime stime dell'INPS e della Commis­sione Gorrieri, appare indebita una quota rilevan­te (dall' 8 al 20% circa) delle pensioni sociali, di invalidità e delle integrazioni al minimo.

Ma l'analisi di questi effetti di redistribuzione del reddito dovuti al sistema di «welfare», con i suoi servizi e trasferimenti, va completata con un approfondimento anche sulle entrate, fornite dal prelievo contributivo e da quello fiscale.

Chi è che paga lo «stato sociale» nel nostro Paese? La situazione da noi è diversa da altri Paesi del Nord Europa, perché la contribuzione previdenziale incide in misura più forte rispetto al prelievo fiscale. Quindi non solo vi è un limite ai possibili effetti redistributivi realizzati attra­verso il fisco, ma le contribuzioni essendo rap­portate percentualmente ai differenti redditi dei contribuenti non assumono il carattere di pro­gressività del fisco.

La giungla dei contributi evidenzia poi spere­quazioni a vantaggio dei lavoratori autonomi, tan­to nel settore pensionistico, come nel settore della sanità.

Orbene un sistema moderno di protezione so­ciale, che voglia comprendere una fascia di pre­stazioni di natura assistenziale per i cittadini meno favoriti, oltre ad alcuni servizi sociali of­ferti a tutti, non può seguitare a fondarsi pre­valentemente su entrate di tipo contributivo: que­ste vanno mantenute con i regimi previdenziali, nei quali i benefici sono rapportati ai redditi da lavoro dei contribuenti.

Ma le prestazioni assistenziali ed i servizi so­ciali con carattere universalistico vanno finanzia­ti dallo Stato tramite l'imposta generale sui red­diti: ed è a sostegno di questa impostazione che CGIL, CISL e UIL hanno richiamato il Governo all'applicazione delle norme già previste dalla leg­ge 833/1978.

In questo contesto non si può però trascurare di mettere in rilievo altri effetti distorcenti pre­senti nel sistema fiscale e contributivo che auto­rizzano quelle situazioni che alcuni economisti hanno ultimamente chiamato di «benessere fi­scale»: cioè le mancate entrate dovute a quell'insieme di agevolazioni ed esenzioni fiscali che lo Stato concede ai cittadini, soprattutto delle fasce medio-alte, per svariate ragioni, e che equi­valgono ad un trasferimento monetario. Anche qui si verifica una redistribuzione alla rovescia che riduce li reddito imponibile e quindi le risor­se per lo Stato. Non è solo la mancata tassazione dei titoli del debito pubblico (BOT, CCT) o degli edifici di nuova costruzione, ma anche gli oneri deducibili (come interessi passivi per mutui, pre­mi sulle assicurazioni sulla vita, spese mediche specialistiche, ecc.); ed ancora la riduzione dei contributi per la salute e la previdenza al di sopra di un certo tetto (nella legge finanziaria '86 fis­sato a 30 milioni).

Il risultato dei cambiamenti che si vanno deli­neando con la legge finanziaria e con i provve­dimenti connessi nel campo delle pensioni, dell'assistenza e della finanza locale, può essere un modello di stato sociale di tipo «residuale», in cui i servizi sociali pubblici sono per le fasce di povertà, mentre per i ceti medio-alti si provve­de a lanciare il mercato dei servizi privati.

In questo scontro di impostazioni culturali e sociali occorre che il movimento sindacale ripro­ponga con forza la linea di un progetto che sia di lotta alla povertà ma anche di coesione soli­dale degli strati sociali.

Tra un «welfare residuale» (cioè solo per i poveri), ed un «welfare integrale» (cioè tutto a tutti), come forse l'avevamo ipotizzato e perse­guito negli anni '70, occorre un punto di equili­brio. La universalità dei servizi sociali, nel senso che debbono essere offerti a tutti i cittadini sen­za distinzione alcuna, è una conquista irrinuncia­bile: si deve distinguere fra quei servizi che de­vono mantenersi sostanzialmente gratuiti per­ché fanno parte dei diritti di cittadinanza garan­titi a tutti dalla Costituzione e quindi contribuiscono a risolvere il problema delle «nuove po­vertà» e dei «nuovi bisogni» (e fra questi ser­vizi ci sono almeno l'istruzione e la tutela della sanità), e quelle prestazioni per le quali è ri­chiesto il concorso degli utenti al costo dei ser­vizi stessi. E così pure per il servizio di base previdenziale la linea della solidarietà deve es­sere ben superiore a quella della povertà; in modo che l'ammissibilità di una previdenza inte­grativa individuale o di categoria non intacchi il rapporto stretto tra redistribuzione e solidarismo (o mutualità) orizzontali.

Riteniamo siano queste le condizioni in base alle quali è possibile un rapporto di equilibrio fra Stato e mercato, fra pubblico e privato.

 

Un giudizio sulla legge finanziaria

Sulla base di questi obiettivi è possibile allora precisare la critica alla legge finanziaria per I'86, di cui riprende ora la discussione in sede parla­mentare, non solo per i provvedimenti specifici, ma anche per la sua impostazione. Essa è co­struita su tre vincoli:

- la presenza tributaria non è aumentabile, perché avrebbe raggiunto la soglia della tolle­rabilità;

- la incomprimibilità dei tassi di interesse;

- il trasferimento del livello di deficit (il co­siddetto «fabbisogno pubblico») da un anno a quello successivo, salvo limitati aggiustamenti. Orbene su questi tre vincoli occorre precisare che:

a) se è vero che negli ultimi anni la pressione tributaria in Italia è sensibilmente aumentata, dal confronto con i dati riferiti ai principali paesi industrializzati forniti dalla stessa relazione pre­visionale e programmatica del Governo appare che è possibile applicare una linea di politica tributaria che amplii di alcuni punti il gettito, con un adeguato trattamento di tutti i redditi oggi esenti o sottoposti a pressione tributaria ridot­ta. Il varo per decreto della Visentini-bis sul­I'Irpef, oltre a essere un provvedimento pattuito per alleggerire la maggior pressione fiscale de­terminata dall'inflazione sui redditi da lavoro di­pendente, in effetti non si accompagna all'allar­gamento della base imponibile, come rivendicato in particolare per i patrimoni e le rendite finanzia­rie. Quindi, a parte il parziale recupero fiscale realizzato con la maggior tassazione della ben­zina, il provvedimento si risolve in una caduta delle entrate fiscali sul reddito (soprattutto sui redditi medio-alti), che può così giustificare una riduzione della spesa pubblica;

b) la predeterminazione dei tassi di interessi (e quindi degli oneri finanziari) fino a 6 punti al di sopra del tasso di inflazione, insieme alla pre­determinazione della pressione fiscale e del defi­cit pubblico, fissa di fatto il livello ammissi­bile per tutte le altre voci di spesa pubblica. Di qui discendono i tagli di spesa e gli aumenti ta­riffari, che alla fine appaiono diretti a sostenere un fisco ingiusto e una elevata remun-erazione dei prestiti allo Stato. Bisogna riprendere una politica di riduzione dell'inflazione - oggi fer­ma alla metà del gradino che era stato program­mato per l'anno terminato - in modo da rendere agevole anche la fissazione di tassi di interessi reali in diminuzione;

c) occorre sottolineare infine la già richiamata importanza dell'intervento pubblico in alcuni cam­pi in forma universale e non selettiva (come la istruzione e la sanità), cioè non subordinando l'accesso a questi servizi alle condizioni di red­dito, e garantendo a tutti gli utenti un adeguato livello qualitativo. Questo comporta il manteni­mento di una pressione fiscale generale non ri­dotta, come abbiamo prima indicato, mentre il fi­nanziamento diretto da parte dell'utente che accede alle prestazioni non può che essere uno strumento limitato di copertura dei costi.

 

 

 

(1) Relazione introduttiva al Convegno della FIM CISL, Sindacato Metalmeccanici Reg. Piemonte, del 9 gennaio 1986 «Nuove povertà, stato sociale e tutela contrattuale», di cui non riportiamo solo la parte relativa alla tutela con­trattuale.

 

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