CONSIDERAZIONI SUI
PROBLEMI PENITENZIARI
MICHELE TEDESCO (*)
Nel 1975 venne promulgato il
nuovo «Ordinamento penitenziario» (legge 354) che, riconoscendo una serie di
diritti al detenuto, allineava l'Italia ai paesi civili del mondo - almeno
sulla carta - perché a tutt'ora la 354 viene applicata solo in minima parte.
In quell'occasione venne
completamente dimenticato chi quella riforma doveva contribuire ad attuare e cioè il personale di custodia, che era ed è rimasto soggetto
ad un regolamento che risale al 1937.
Ancora oggi gli agenti di custodia non godono di alcuni diritti fondamentali acquisiti da tutti gli
altri lavoratori negli ultimi 50 anni. L'organico attuale
di circa 22 mila unità costringe gli agenti a turni massacranti che vanno dalle
9 alle 11 ore al giorno e vede sistematicamente ignorato il diritto al riposo
settimanale ed alle licenze.
Ci sembra opportuno riferire che le ore di prestazione
straordinarie - obbligatoriamente prestate - vengono
retribuite con lire 2.250 orarie lorde. Di fronte a questo sfruttamento ogni
altra categoria di lavoratori potrebbe protestare; agli agenti non rimane che
l'autoconsegna, perché in qualità
di militari non possono mettere in atto nessuna forma di protesta.
Anche la preparazione professionale non tiene conto
dei compiti che la 354 li chiama ad eseguire, non considera che sono gli
operatori maggiormente a contatto con i detenuti e perciò quelli che hanno maggiori possibilità di contribuire alla
«rieducazione» o comunque al miglioramento dei rapporti reciproci nelle
strutture e quindi all'instaurazione di una atmosfera più vivibile all'interno.
Gli agenti vengono reclutati con la sola licenza
elementare, il corso di formazione a cui vengono avviati è limitato ad un
periodo che va dai tre ai sei mesi, in scuole di tipo militare dove apprendono
a marciare ed a dire signorsì.
Finalmente nel 1985 il Governo ha approntato un
progetto di riforma che prevede la smilitarizzazione
del corpo e la costituzione di un corpo di «polizia penitenziaria» in tutto simile
a quello della polizia giudiziaria. Il progetto prevede anche la soppressione
del ruolo delle vigilatrici penitenziarie (art. 2) ed il loro arruolamento nel costituendo «nuovo corpo», ignorando il
fatto che, come tutto il personale civile dello Stato, a tutt'oggi
le vigilatrici godono dei diritti sindacali e civili, sanciti dalla
Costituzione, e non sono soggette ad un «regolamento» speciale come quello che
prevede la riforma, bensì alle disposizioni previste dal Testo Unico dei dipendenti
civili dello Stato.
Il progetto all'art. 16 prevede inoltre la possibilità
di «associazione sindacale» ma solo al «sindacato di polizia penitenziaria».
Dal tutto si evince che anche con la riforma
prospettata i componenti continueranno ad essere
lavoratori diversi dagli altri, continueranno ad essere cittadini per i quali
alcuni diritti non sono validi e le vigilatrici, per le quali il Parlamento
con la promulgazione dei profili professionali ha previsto un ruolo civile,
verranno incastrate in un corpo di polizia penitenziaria.
È ovvio che gli organismi sindacali non possono accettare queste limitazioni e che quindi continueranno
a pretendere la modifica degli articoli indicati e l'estensione delle norme che
regolano il rapporto dei lavoratori civili, anche ai componenti del futuro
corpo di «polizia penitenziaria».
Altra macroscopica carenza è
rappresentata dal fatto che il progetto riguarda solo il personale di custodia
ignorando tutti gli altri operatori del settore.
Un progetto armonico - come lo vedono i sindacati -,
avrebbe dovuto prendere in considerazione le qualifiche professionali dal
personale di custodia a quello direttivo, da quello dell'area amministrativa a
quello psico-pedagogico e sociale, il tutto inserito
in un programma contemplante in toto il settore
penitenziario e quindi anche quello relativo ai
detenuti.
Infatti i problemi del settore, ovvero di un polo (custodi),
si ripercuotono immancabilmente sull'altro (custoditi). L'organico degli agenti
di custodia non è cresciuto proporzionalmente alla popolazione
carceraria, che è arrivata in questi ultimi tempi, intorno alle 45 mila unità,
ristretta in carceri che all'origine potevano contenere solo 25-26 mila
detenuti.
Quest'enorme sperequazione ha origine anche in altre cause,
quali la disfunzione della giustizia, l'inadeguatezza dei nostri codici ecc.
Dei 45 mila detenuti in carcere, circa il 70% è in attesa della conclusione dell'iter processuale.
Le statistiche riportano che alla definizione del
giudizio, il 50% di questi imputati tornerà in libertà. Ciò sta a significare che se la giustizia fosse messa in condizione
di funzionare meglio, se i tempi della conclusione di un giudizio fossero più
brevi (ecco la necessità di una riforma dei codici!), ci sarebbero meno
detenuti all'interno delle strutture carcerarie, con conseguenti riflessi
positivi nei settori che ci riguardano. Avremmo inoltre una riduzione di spesa,
una possibilità di lavoro più accettabile da parte del personale, un recupero
sociale più apprezzabile, con una ripercussione positiva
tanto sul personale quanto sui detenuti.
Queste considerazioni ci portano ad evidenziare il
secondo polo del problema, quello relativo ai
detenuti. La legge 354, ancora non completamente applicata per carenze di personale, di volontà politica e di strutture,
andrebbe riformata in considerazione del principio costituzionale che vuole
le condanne e quindi le pene non semplicemente applicate dal punto di vista retributivo-afflittivo, ma da quello rieducativo
e, pertanto, si dovrebbe tendere a ridurre l'incidenza della pena detentiva a
favore di sanzioni alternative e sostitutive.
Nel mondo occidentale, l'Italia è uno dei paesi in
cui l'incidenza delle condanne alla carcerazione è
una delle più alte.
In base a queste considerazioni alcuni istituti della 354
andrebbero modificati e il sindacato, per completezza, porta avanti anche
questo discorso. Solo per fare degli esempi, sarebbe necessario modificare
l'istituto dei permessi, dell'affidamento in prova al servizio sociale, della
liberazione anticipata ecc.
L'istituto dei permessi, dal 1977 ha subito delle restrizioni; dovrebbe essere ripreso, modificato per
diventare uno degli elementi più validi del trattamento rieducativo,
permettendo al detenuto meritevole di coltivare interessi umani, professionali,
oltre che consentire una vita di relazione che contribuisca a favorire il
corretto reinserimento sociale. Darebbe inoltre un contributo alla soluzione del rilevante problema sessuale all'interno
delle strutture carcerarie.
L'affidamento in prova al Servizio sociale, per la
cui applicazione oggi è richiesto un periodo di
osservazione, dovrebbe poter essere applicato direttamente dal magistrato
durante il dibattito, nei casi di reati di scarsa rilevanza sociale.
La semilibertà, che costituisce un valido momento
del reinserimento, per il livello di controllo che consente, andrebbe
raccordata all'affidamento in prova e potenziata
mediante parziale sottrazione delle restrizioni attuali.
Per queste due misure dovrebbe essere prevista una
forma di controllo-aiuto, affidato al Servizio sociale che naturalmente
dovrebbe essere messo in condizione di operare con la necessaria
professionalità e non ridursi - come si verifica oggi
- ad una forma di semplice controllo dell'osservanza delle prescrizioni.
Infine, sarebbe necessario ampliare l'istituto della
libertà anticipata, con possibilità che il periodo (giorni di liberazione
calcolati a semestre), possa essere utilizzato allo scadere di
ogni semestre e non a fine pena, il tutto naturalmente in relazione alla
collaborazione dell'utente al programma di rieducazione-trattamento; il
periodo trascorso ogni sei mesi in libertà, favorirebbe il graduale
reinserimento sociale del soggetto.
(*) Coordinatore CISL, settore
penitenziario, per la regione Piemonte.
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