Prospettive assistenziali, n. 76, ottobre - dicembre 1986

 

 

DIRITTI DEI MINORI PRIVI DI UNA IDONEA FAMIGLIA E RILANCIO DEGLI ISTITUTI DI RICOVERO

GIGLIA TEDESCO

 

 

In questi ultimi tempi vi sono stati alcuni pe­santi attacchi all'adozione e all'affidamento fami­liare di minori a scopo educativo; nello stesso tempo l'istituto di ricovero assistenziale è stato riproposto come una soluzione accettabile e, a volte, anche auspicabile.

Il primo intervento in ordine cronologico è stato quello della Senatrice Colombo Svevo che nell'articolo «Tutela dei diritti del bambino e servizi sociali», apparso sul n. 2/1985 di «Bam­bino incompiuto» propone il ricovero in istituto «come momento di passaggio o rispetto ad un bisogno particolarmente acuto del ragazzo o ad una soluzione esterna che deve maturare rapida­mente».

A sua volta Piero Pajardi, Presidente della Cor­te di appello di Milano, nel libro «Per questi mo­tivi - Vita e passione di un giudice» Ed. Jaca Book, 1985 sostiene che «alle punte estreme di difficoltà di una famiglia si può sopperire con so­ste temporanee in quegli adeguati e benedetti istituti dove la famiglia d'origine “sente” i figli come ancora propri e non ne perde l'affetto così come continua a darlo» (1).

Ma l'attacco più pesante contro l'adozione è stato portato da Lamberto Sacchetti, Presidente del Tribunale per i minorenni dell'Emilia-Roma­gna che, ancora su «Bambino incompiuto» n. 1, 1986, sostiene che l'adozione legittimante, essen­do «una scelta politico-giuridica (...) la cui trau­maticità morale non cessa di drammatizzarne ogni applicazione concreta» (2), dovrebbe essere circoscritta «ai minori non riconosciuti e orfani».

Per gli altri minori, anche se in situazione di totale e prolungato abbandono materiale e mora­le, nel caso esistano genitori o altri familiari che si sono sempre disinteressati e che continuano a fare assolutamente nulla, il Sacchetti propone soluzioni «come l'affidamento familiare, i gruppi-­appartamento, le comunità alloggio, che permet­tono di evitare l'istituzionalizzazione del minore e, nel contempo, di non recidere i suoi legami con i parenti». In sostanza i minori in situazioni di abbandono dovrebbero essere degli assistiti permanenti e non delle persone aventi diritto ad una famiglia vera.

Propone, inoltre, l'affiliazione e l'adozione ordi­naria, la cui presenza nella nostra legislazione - Sacchetti l'ha dimenticato? - era stata la causa principale del mercato dei bambini.

Infine segnaliamo che il quotidiano cattolico «Avvenire», dopo aver pubblicato i 27 luglio e il 25 settembre 1985 due articoli di Piero Pajardi favorevoli agli istituti di ricovero e contrari alla adozione (3), ha ospitato in data 30 agosto 1986 un'inserzione dell'Associazione nazionale amici villaggi SOS, diretta alla ricerca di «donne nubili o vedove senza figli, di almeno 30 anni», le quali sono informate che «essere madre è difficile, sempre, esserlo di figli non propri lo è ancora di più. Rasenta il sublime» (!?!).

Più avanti, però, i problemi spariscono: « Qualcuna di loro è diventata mamma, in un villaggio, per caso. Un articolo su un giornale, un filmato in televisione, la frase di una famiglia, e poi una famiglia SOS tutta sua ed un contratto di lavoro a tempo indeterminato» (4).

Per la componente materna, i villaggi S0S non vanno tanto per il sottile, in quanto sembra di es­sere in una società poligama: esiste una sola figura maschile, quella «del coordinatore dirigen­te del villaggio che vive con la sua famiglia (lui sì può avere figli, n.d.r.) nel villaggio stesso».

Apriamo il confronto sulle esigenze e sui diritti dei minori privi di una idonea famiglia, pubblican­do un intervento della Senatrice Giglia Tedesco, Vice-presidente del Senato della Repubblica.

 

Ogni legge innovatrice incontra ostacoli sul suo cammino quando si tratta di elaborarla e ap­provarla; più ancora, quando l'applicazione la po­ne a confronto diretto con la realtà sociale e cul­turale. Non stupisce, dunque, che questa sorte tocchi anche alla riforma dell'adozione e dell'affi­damento. Stupisce, piuttosto, che le ritrazioni e gli attacchi siano di segno apparentemente oppo­sto eppure convergente (*). Ma prima di cercare di spiegarsi il perché di ciò, vale la pena di cen­sire le obiezioni che vengono mosse.

Noi che vi abbiamo lavorato, non pretendiamo che la legge sia perfetta in ogni sua parte, al con­trario: vogliamo, noi per primi, verificarne, come giusto, la validità. Ciò che colpisce, tuttavia, è che le obiezioni non riguardino la coerenza e la operatività, ma i presupposti delle nuove norme. In altre parole la critica non viene mossa alle dif­ficoltà di interpretazione e alle applicazioni non sempre calzanti, ma alle finalità stesse che la legge intende perseguire.

La legge, si dice, ha estremizzato le soluzioni da dare ai problemi dell'infanzia in difficoltà, puntando essenzialmente su due poli: la difficol­tà temporanea, e dunque l'affidamento familiare; il verificato stato di abbandono, e dunque l'ado­zione piena.

Contro il primo istituto si muovono due ordini di obiezioni. L'affidamento, si sostiene, non cor­risponderebbe al costume e alla disponibilità. delle famiglie; l'affidamento stesso metterebbe i bambini in difficoltà, introducendo un doppio ri­ferimento nella loro esistenza.

Anche per l'adozione ex speciale, e cioè piena, due obiezioni convergono: da un lato si dice che vi sarebbero troppi ostacoli e burocrazie alla di­chiarazione dello stato di abbandono e quindi al­l'adottabilità; dall'altro, si afferma che la legge consentirebbe di procedere troppo sbrigativa­mente a questa dichiarazione, senza garanzie di difesa per la famiglia di origine, così da risultare nei fatti uno strumento teso a «togliere i figli ai poveri per darli ai ricchi».

È singolare, poi, che venga ora attaccata anche la norma di salvaguardia - pur minimale - in­trodotta dalla legge contro i falsi riconoscimenti, che, come noto, costituiscono, allo stato attuale, il veicolo principale per il commercio (oneroso o gratuito, non importa molto) dei bambini. Tanto che i magistrati, i quali doverosamente applicano quella norma, vengono spesso accusati di inde­bite intrusioni.

Accade così che campagne di stampa, attacchi politici e finanche interrogazioni parlamentari, convergono a volte nel presentare la legge, e la sua attuazione come una sorta di ostacolo preva­ricante alla libertà dei cittadini e alla loro volon­tà di dare un bambino alle famiglie che ne sono prive.

Prima di cercare di rispondere, mi sembra giusto suonare un campanello d'allarme contro lo spirito che, oggettivamente, permea queste obiezioni. La nuova legge, più ancora di quella originaria del 1967 istitutiva dell'adozione allora detta «speciale», assume come cardine l'inte­resse del bambino, e dunque modella gl'istituti in funziona di questo. Al contrario, le contestazioni che vengono mosse svelano, al fondo, il pericolo - consapevole o meno che sia - di riportare in primo piano non il diritto del minore alla famiglia, ma una sorta di distorto diritto della famiglia ad acquisire un minore. Diritto, questo, che davvero non vi sarebbe ragione di riconoscere e di sanci­re. Appare sintomatico, ad esempio, che si torni ad ipotizzare l'adozione ex ordinaria come modo per risolvere i conflitti fra gli adulti, senza sce­gliere: senza scegliere, appunta, l'interesse del bambino.

Per questa ragione il senso complessivo degli attacchi mossi alla legge preoccupa più delle specifiche questioni sollevate.

Ma veniamo al merito delle obiezioni. La con­testazione dell'affidamento ignora che presup­posto della legge è il diritto del minore a cresce­re e a essere allevato nell'ambito della propria famiglia, e che dunque impegno prioritario della società è garantire ogni sostegno al nucleo fami­liare di origine. Sappiamo che la politica sociale è oggi assai carente, anche, se non soprattutto, per la contestazione indiscriminata e quasi di principio di cui è attualmente oggetto la politica sociale; e che, dunque, vi sono evidenti insuffi­cienze nel sostegno alla famiglia di origine del minore. Ma ciò non può portare ad ignorare il fon­damento della legge, secondo cui il sostegno alla famiglia di origine precede ogni intervento sosti­tutivo. La critica, semmai, va appuntata in dire­zione della attuazione.

Quando la famiglia del minore è in comprovate difficoltà si pone il problema di come farvi fronte. La legge prevede come intervento di sostegno l'affidamento familiare, le comunità di tipo fami­liare e soltanto come extrema ratio il ricovero in istituto. Continuo, pervicacemente, a ritenere che si tratti di una scelta giusta. Pensiamo dav­vero che il ricovero in istituto, magari «ben fun­zionante», sia preferibile? Lo nego. Certo, si trat­ta di scegliere bene le famiglie (non a caso, ab­biamo scritto, «preferibilmente con figli, e della zona in cui vive il minore»). Le famiglie non sono disponibili, perché mosse sempre da una propen­sione possessiva totale? Dubito anche di questo. Certamente disponibilità all'affidamento è un processa da incoraggiare, guidare, sostenere, è il risultato di una crescita culturale da determina­re. Vi sono esperienze più che positive di nume­rose amministrazioni locali.

Va da sé che l'affidamento non può e non deve essere un modo surrettizio per precostituire condizioni improprie per un'adozione. Ma ciò di­pende dalla concreta politica che si realizza nel campo dell'affidamento familiare. Il visto di ese­cutività del giudice tutelare è, nella legge, un ul­teriore filtro e controllo proprio per evitare abusi. Ma fondamentalmente resta il giusto orientamen­to dei servizi sociali.

Quanto alle dichiarazioni dello stato di abban­dono, e dunque delle condizioni per l'adozione piena: so bene quali siano le difficoltà, e non nego che nell'applicazione si verifichino esitazioni e difetti, per eccesso e per difetto. Debbono raffor­zarsi le garanzie, anche legali, per la famiglia di origine? Creiamone le condizioni. Il patrocinio ai non abbienti, che pure la legge ha agevolato an­ticipando in parte le misure più generali che ur­gono, muove in questa direzione. Ma mescolare i vari istituti, e soprattutto ipotizzare scorciatoie per conciliare tutto - tale è la riproposizione, aperta o surrettizia, del ricorso all'adozione cosiddetta ordinaria - non giova davvero né al­la chiarezza dei rapporti, né, soprattutto, all'inte­resse del minore. In questo caso il dualismo fa­miliare sarebbe non solo incentivato, ma addirit­tura codificato.

Circa i falsi riconoscimenti, stupisce, per non dire di più, che si giunga a rimproverare i giudici perché applicano la legge al fine di prevenire e reprimere, quando necessario, un reato in sé gra­ve quale la falsa attestazione di stato. La questio­ne non è soltanto di rigore penale: pensiamo dav­vero che sia positivo per un minore dargli una famiglia fittizia, solo perché «disponibile»? E che gli si dirà della madre naturale? Che egli è stato sottratto a questa; oppure che è stato og­getto di una contrattazione? Si può davvero con­cepire, legge penale a parte, che così si tutela un minore e gli si dà una famiglia vera? No, fanno bene i giudici a essere severi; saremmo colpevo­li se li scoraggiassimo, imperdonabili se consen­tissimo di vederli quasi accusati di imporre, con il rispetto della legge, l'interesse del minore.

E dunque, mi sembra, il discorso torna, in ogni caso, proprio a questo interesse. Perseguirlo non è semplice in via pratica, eppure questo principio non può essere violato. A meno di non considera­re che il minore sia una «merce» e che il desi­derio di bambino da parte degli adulti sia da se­condare in ogni caso; ma in tal modo si rovesce­rebbero non soltanto i presupposti e le prescri­zioni di una legge, ma prima di tutto e soprattutto i diritti dei minori. Non vorrei che proprio il pri­vatismo avesse la meglio. Il bambino non può essere trattato dalla legge e dalla società come oggetto di desiderio, ma come portatore di diritti suoi, che è responsabilità e dovere degli adulti tutelare e far valere.

 

 

(1) P. Pajardi riporta nel libro alcuni casi, senza però mai fornire elementi che rendano possibile la verifica della autenticità. Non si è nemmeno in grado di dare una valu­tazione in merito alle decisioni assunte dall'autorità giudi­ziaria.

(2) Noi continuiamo a ritenere che per il bambino sono drammatiche le conseguenze dell'abbandono morale e ma­teriale, conseguenze spesso non rimediabili con l'inseri­mento in famiglie adottive anche ottime sul piano educa­tivo.

(3) Viene nuovamente riproposto il «parcheggio tempo­raneo in istituto» come «soluzione intermedia asettica». Pajardi sa quali sono i bisogni vitali dei bambini? Crede forse che per uno sviluppo equilibrato la stabilità dei rap­porti affettivi non sia determinante?

(4) In merito ai villaggi SOS, si veda Prospettive assi­stenziali n. 15 luglio-settembre 1971, «I villaggi SOS: ghet­ti di lusso»; n. 55, luglio-settembre 1981, «I villaggi SOS: una vecchia forma di beneficenza»; n. 74, aprile-giugno 1986 «Il volontariato: lotta all'emarginazione o sostegno all'assistenzialismo?».

(*) Voglio ricordare che la elaborazione legislativa fu preceduta da una consultazione di ampiezza senza prece­denti, anche attraverso la indagine parlamentare della Commissione Giustizia del Senato.

 

 

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