DIRITTI DEI MINORI PRIVI DI UNA
IDONEA FAMIGLIA E RILANCIO DEGLI ISTITUTI DI RICOVERO
GIGLIA TEDESCO
In questi
ultimi tempi vi sono stati alcuni pesanti attacchi all'adozione e
all'affidamento familiare di minori a scopo educativo; nello stesso tempo l'istituto
di ricovero assistenziale è stato riproposto come una
soluzione accettabile e, a volte, anche auspicabile.
Il primo
intervento in ordine cronologico è stato quello della Senatrice Colombo Svevo che nell'articolo «Tutela dei diritti del bambino e servizi sociali», apparso sul n.
2/1985 di «Bambino
incompiuto» propone il ricovero in
istituto «come momento di passaggio o rispetto ad un bisogno
particolarmente acuto del ragazzo o ad una soluzione esterna che deve maturare
rapidamente».
A sua volta
Piero Pajardi, Presidente della Corte
di appello di Milano, nel libro «Per
questi motivi - Vita e passione di un giudice» Ed. Jaca Book, 1985 sostiene che «alle punte
estreme di difficoltà di una famiglia si può sopperire con soste
temporanee in quegli adeguati e benedetti istituti dove la famiglia d'origine
“sente” i figli come ancora propri e non ne perde l'affetto così come continua
a darlo» (1).
Ma l'attacco
più pesante contro l'adozione è stato portato da
Lamberto Sacchetti, Presidente del Tribunale per i minorenni dell'Emilia-Romagna che, ancora su «Bambino incompiuto» n. 1, 1986, sostiene che l'adozione legittimante, essendo «una scelta
politico-giuridica (...) la cui traumaticità morale
non cessa di drammatizzarne ogni applicazione concreta» (2), dovrebbe essere circoscritta «ai minori
non riconosciuti e orfani».
Per gli
altri minori, anche se in situazione di totale e prolungato abbandono materiale
e morale, nel caso esistano genitori o altri
familiari che si sono sempre disinteressati e che continuano a fare
assolutamente nulla, il Sacchetti propone soluzioni «come l'affidamento familiare, i gruppi-appartamento, le comunità alloggio, che permettono di
evitare l'istituzionalizzazione del minore e, nel contempo, di non recidere i
suoi legami con i parenti». In sostanza i
minori in situazioni di abbandono dovrebbero essere
degli assistiti permanenti e non delle persone aventi diritto ad una famiglia
vera.
Propone,
inoltre, l'affiliazione e l'adozione ordinaria, la cui presenza nella nostra
legislazione - Sacchetti l'ha dimenticato? - era stata la causa principale del
mercato dei bambini.
Infine
segnaliamo che il quotidiano cattolico «Avvenire», dopo aver pubblicato i 27
luglio e il 25 settembre 1985 due articoli di Piero Pajardi
favorevoli agli istituti di ricovero e contrari alla adozione (3), ha ospitato
in data 30 agosto 1986 un'inserzione dell'Associazione nazionale amici villaggi
SOS, diretta alla ricerca di «donne nubili o vedove senza figli, di almeno
30 anni», le quali sono informate che
«essere madre è difficile, sempre, esserlo di figli non propri lo è ancora di
più. Rasenta il sublime» (!?!).
Più avanti, però,
i problemi spariscono: « Qualcuna di
loro è diventata mamma, in un villaggio, per caso. Un
articolo su un giornale, un filmato in televisione, la frase di una famiglia, e
poi una famiglia SOS tutta sua ed un contratto di lavoro a tempo
indeterminato» (4).
Per la componente materna, i villaggi S0S non vanno tanto per il
sottile, in quanto sembra di essere in una società poligama: esiste una sola
figura maschile, quella «del
coordinatore dirigente del villaggio che vive con la sua famiglia (lui sì può avere figli, n.d.r.)
nel villaggio stesso».
Apriamo il
confronto sulle esigenze e sui diritti dei minori privi di una
idonea famiglia, pubblicando un intervento della Senatrice Giglia
Tedesco, Vice-presidente del Senato della Repubblica.
Ogni legge innovatrice incontra ostacoli sul suo cammino quando si tratta di elaborarla e approvarla; più
ancora, quando l'applicazione la pone a confronto diretto con la realtà
sociale e culturale. Non stupisce, dunque, che questa sorte tocchi anche alla
riforma dell'adozione e dell'affidamento. Stupisce, piuttosto, che le
ritrazioni e gli attacchi siano di segno apparentemente opposto eppure convergente
(*). Ma prima di cercare di spiegarsi il perché di ciò, vale la pena di censire
le obiezioni che vengono mosse.
Noi che vi abbiamo lavorato,
non pretendiamo che la legge sia perfetta in ogni sua parte, al contrario:
vogliamo, noi per primi, verificarne, come giusto, la validità. Ciò che
colpisce, tuttavia, è che le obiezioni non riguardino la coerenza e la operatività, ma i presupposti delle nuove norme. In altre
parole la critica non viene mossa alle difficoltà di
interpretazione e alle applicazioni non sempre calzanti, ma alle finalità
stesse che la legge intende perseguire.
La legge, si dice, ha estremizzato le soluzioni da
dare ai problemi dell'infanzia in difficoltà, puntando essenzialmente su due
poli: la difficoltà temporanea, e dunque l'affidamento familiare; il
verificato stato di abbandono, e dunque l'adozione
piena.
Contro il primo istituto si muovono
due ordini di obiezioni. L'affidamento, si sostiene, non corrisponderebbe
al costume e alla disponibilità. delle famiglie;
l'affidamento stesso metterebbe i bambini in difficoltà, introducendo un doppio
riferimento nella loro esistenza.
Anche per l'adozione ex speciale, e cioè piena, due obiezioni convergono: da un lato si dice che
vi sarebbero troppi ostacoli e burocrazie alla dichiarazione dello stato di
abbandono e quindi all'adottabilità; dall'altro, si
afferma che la legge consentirebbe di procedere troppo sbrigativamente a
questa dichiarazione, senza garanzie di difesa per la famiglia di origine, così
da risultare nei fatti uno strumento teso a «togliere i figli ai poveri per
darli ai ricchi».
È singolare, poi, che venga
ora attaccata anche la norma di salvaguardia - pur minimale - introdotta dalla
legge contro i falsi riconoscimenti, che, come noto, costituiscono, allo stato
attuale, il veicolo principale per il commercio (oneroso o gratuito, non
importa molto) dei bambini. Tanto che i magistrati, i quali doverosamente
applicano quella norma, vengono spesso accusati di
indebite intrusioni.
Accade così che campagne di stampa, attacchi politici
e finanche interrogazioni parlamentari, convergono a volte nel presentare la
legge, e la sua attuazione come una sorta di ostacolo
prevaricante alla libertà dei cittadini e alla loro volontà di dare un
bambino alle famiglie che ne sono prive.
Prima di cercare di rispondere, mi sembra giusto
suonare un campanello d'allarme contro lo spirito che, oggettivamente, permea queste obiezioni. La nuova legge, più ancora
di quella originaria del 1967 istitutiva dell'adozione
allora detta «speciale», assume come cardine l'interesse del bambino, e dunque modella gl'istituti in funziona
di questo. Al contrario, le contestazioni che vengono
mosse svelano, al fondo, il pericolo - consapevole o meno che sia - di
riportare in primo piano non il diritto del minore alla famiglia, ma una sorta
di distorto diritto della famiglia ad acquisire un minore. Diritto,
questo, che davvero non vi sarebbe ragione di riconoscere e di sancire.
Appare sintomatico, ad esempio, che si torni ad
ipotizzare l'adozione ex ordinaria come modo per risolvere i conflitti fra gli
adulti, senza scegliere: senza scegliere, appunta, l'interesse del bambino.
Per questa ragione il senso complessivo degli
attacchi mossi alla legge preoccupa più delle specifiche questioni sollevate.
Ma veniamo al merito delle obiezioni. La contestazione
dell'affidamento ignora che presupposto della legge è il diritto del minore a crescere e a essere allevato nell'ambito della propria
famiglia, e che dunque impegno prioritario della società è garantire ogni
sostegno al nucleo familiare di origine. Sappiamo che la politica sociale è
oggi assai carente, anche, se non soprattutto, per la contestazione
indiscriminata e quasi di principio di cui è attualmente
oggetto la politica sociale; e che, dunque, vi sono evidenti insufficienze nel
sostegno alla famiglia di origine del minore. Ma ciò non può portare ad
ignorare il fondamento della legge, secondo cui il sostegno alla famiglia di origine precede ogni intervento sostitutivo. La critica,
semmai, va appuntata in direzione della attuazione.
Quando la famiglia del minore è in comprovate
difficoltà si pone il problema di come farvi fronte. La legge prevede come
intervento di sostegno l'affidamento familiare, le comunità di tipo familiare
e soltanto come extrema ratio il
ricovero in istituto. Continuo, pervicacemente, a ritenere
che si tratti di una scelta giusta. Pensiamo davvero che il ricovero in
istituto, magari «ben funzionante», sia preferibile? Lo nego. Certo, si tratta di scegliere bene le famiglie (non a caso, abbiamo
scritto, «preferibilmente con figli, e della zona in cui vive il minore»). Le
famiglie non sono disponibili, perché mosse sempre da una propensione possessiva totale? Dubito anche di questo. Certamente
disponibilità all'affidamento è un processa da
incoraggiare, guidare, sostenere, è il risultato di una crescita culturale da
determinare. Vi sono esperienze più che positive di
numerose amministrazioni locali.
Va da sé che l'affidamento non può e non deve essere
un modo surrettizio per precostituire condizioni improprie per un'adozione. Ma ciò dipende dalla concreta politica che si realizza nel
campo dell'affidamento familiare. Il visto di esecutività
del giudice tutelare è, nella legge, un ulteriore filtro e controllo proprio
per evitare abusi. Ma fondamentalmente resta il giusto
orientamento dei servizi sociali.
Quanto alle dichiarazioni dello stato di abbandono, e dunque delle condizioni per l'adozione
piena: so bene quali siano le difficoltà, e non nego che nell'applicazione si
verifichino esitazioni e difetti, per eccesso e per difetto. Debbono
rafforzarsi le garanzie, anche legali, per la famiglia di origine? Creiamone
le condizioni. Il patrocinio ai non abbienti, che pure la legge ha agevolato anticipando
in parte le misure più generali che urgono, muove in
questa direzione. Ma mescolare i vari istituti, e
soprattutto ipotizzare scorciatoie per conciliare tutto - tale è la riproposizione, aperta o surrettizia, del ricorso
all'adozione cosiddetta ordinaria - non giova davvero né alla chiarezza dei
rapporti, né, soprattutto, all'interesse del minore. In questo caso il
dualismo familiare sarebbe non solo incentivato, ma
addirittura codificato.
Circa i falsi riconoscimenti, stupisce, per non dire
di più, che si giunga a rimproverare i giudici perché
applicano la legge al fine di prevenire e reprimere, quando necessario, un
reato in sé grave quale la falsa attestazione di stato. La questione non è soltanto di rigore penale: pensiamo davvero che
sia positivo per un minore dargli una famiglia fittizia, solo perché
«disponibile»? E che gli si dirà della madre naturale?
Che egli è stato sottratto a questa; oppure che è
stato oggetto di una contrattazione? Si può davvero concepire, legge penale a
parte, che così si tutela un minore e gli si dà una famiglia vera? No, fanno
bene i giudici a essere severi; saremmo colpevoli se
li scoraggiassimo, imperdonabili se consentissimo di vederli quasi accusati di
imporre, con il rispetto della legge, l'interesse del minore.
E dunque, mi sembra, il discorso torna, in ogni caso,
proprio a questo interesse. Perseguirlo non è semplice in via pratica, eppure questo principio non può
essere violato. A meno di non considerare che il minore sia una «merce» e che il desiderio di bambino da parte degli adulti sia da secondare
in ogni caso; ma in tal modo si rovescerebbero non soltanto i presupposti e le
prescrizioni di una legge, ma prima di tutto e soprattutto i diritti dei
minori. Non vorrei che proprio il privatismo avesse la meglio. Il bambino non può essere trattato dalla
legge e dalla società come oggetto di desiderio, ma come portatore di diritti
suoi, che è responsabilità e dovere degli adulti tutelare
e far valere.
(1) P. Pajardi
riporta nel libro alcuni casi, senza però mai fornire elementi che rendano
possibile la verifica della autenticità. Non si è nemmeno in grado di dare una
valutazione in merito alle decisioni assunte dall'autorità giudiziaria.
(2) Noi continuiamo a ritenere che per
il bambino sono drammatiche le conseguenze dell'abbandono morale e materiale,
conseguenze spesso non rimediabili con l'inserimento in famiglie adottive
anche ottime sul piano educativo.
(3) Viene nuovamente riproposto il «parcheggio temporaneo in istituto»
come «soluzione intermedia asettica».
Pajardi sa quali sono i bisogni vitali dei bambini?
Crede forse che per uno sviluppo equilibrato la stabilità dei rapporti affettivi non sia determinante?
(4) In merito ai villaggi SOS, si veda Prospettive assistenziali n. 15
luglio-settembre 1971, «I villaggi SOS: ghetti di lusso»; n. 55,
luglio-settembre 1981, «I villaggi
SOS: una vecchia forma di beneficenza»; n. 74, aprile-giugno 1986 «Il
volontariato: lotta all'emarginazione o sostegno all'assistenzialismo?».
(*) Voglio ricordare che la
elaborazione legislativa fu preceduta da una consultazione di ampiezza senza
precedenti, anche attraverso la indagine parlamentare della Commissione
Giustizia del Senato.
www.fondazionepromozionesociale.it