DEGENZE IMPROPRIE IN CASE DI RIPOSO
E DIRITTI DEGLI ANZIANI CRONICI NON AUTOSUFFICIENTI
GIACOMO BRUGNONE
Stiamo assistendo ad una progressiva delegittimazione
della Costituzione e della vigente normativa in materia di sicurezza sociale.
Con la pratica degli atti amministrativi e dei decreti si stanno infatti mortificando i principi costituzionali secondo i
quali tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge (art. 2 Cost.) e devono
vedersi garantito dallo Stato il diritto alla salute (art. 32) e al mantenimento,
nei casi di invalidità (art. 38). Tutto ciò avviene nonostante il fatto che
questi principi siano attuati da ben precise norme legislative quali: la
riforma sanitaria, le leggi istitutive della pensione di invalidità
civile, dell'indennità di accompagnamento e della pensione sociale, nonché la
legge che regola le integrazioni degli importi pensionistici minimi.
In questo articolo limito la
mia analisi alle discriminazioni cui sono fatti oggetto gli ammalati cronici
non autosufficienti, ai quali vengono negate prestazioni sanitarie
direttamente e gratuitamente erogate dal Servizio sanitario nazionale. Questi
ammalati vengono scaricati al comparto assistenziale,
così che viene meno la continuità degli interventi terapeutici e riabilitativi,
e sono costretti a sopportare gran parte dei costi relativi a prestazioni
spesso inadeguate.
Per contestare la legittimità di queste scelte
politiche, vorrei proporre ai lettori alcune riflessioni sulla composizione
dell'attuale utenza delle case di riposo, al fine di rilevare l'alta percentuale
di degenze improprie, nonché sull'opportunità di
attuare una diversa politica a tutela di questi ammalati, includendo nel novero
anche quegli anziani che hanno perduto l'autosufficienza a causa dell'età
avanzatissima; oggi esistono in Italia oltre 1.250.000 ultraottantenni, e fra
questi 150.000 hanno superato i novant'anni.
Do per scontate tutte le
argomentazioni addotte a sostegno del diritto degli ammalati cronici non
autosufficienti all'assistenza
sanitaria, che condivido in pieno, e propongo un'analisi incentrata sulla
contrapposizione fra sicurezza sociale da un lato e pubblica beneficenza e
carità privata dall'altro, in luogo di quella tradizionale fra sanità ed
assistenza.
Prima di entrare nel vivo dell'argomento, vorrei
però analizzare brevemente i meccanismi che hanno contribuito a determinare la
situazione attuale.
Vecchie e nuove forme di povertà
Nel secolo scorso la miseria era la condizione in cui
viveva la stragrande maggioranza della popolazione;
operai e contadini traevano dal loro lavoro lo stretto necessario per
sopravvivere; e la situazione è rimasta pressoché immutata fino ai primi
decenni del nostro secolo. Il benessere che si é
progressivamente diffuso nel secondo dopoguerra, caratterizzato dal generale
incremento del reddito reale a disposizione della stragrande maggioranza
delle famiglie, ha fatto ottenere a moltissima gente ciò che una volta era monopolio
delle classi dominanti: casa, istruzione, salute e una certa protezione contro
il rischio di vecchiaia e malattie. La povertà di massa, depurata
sempre più dei suoi aspetti eclatanti di miseria
assoluta, riguarderebbe oggi l'11,1% dell'intera popolazione, cui andrebbe un
altro 7,9% di cittadini che, pur non essendo miseri, sono soggetti a notevoli
disagi economici (1).
Per avere un'idea dì come sono mutate le cose negli
ultimi quarant'anni, bastano alcuni dati. Nel 1946, 6 cittadini italiani su dieci si nutrivano esclusivamente
di pane, minestra e verdura; 3 si permettevano anche qualche uovo e qualche
fettina di carne; solo uno mangiava abbondantemente (2). Nello stesso
anno il reddito netto di cui poteva disporre ogni italiano, era in lire del
1985 quasi un settimo di quello attuale, quindi inferiore all'importo
dell'odierna pensione sociale. Nello stesso periodo è raddoppiato il numero
delle abitazioni, più che triplicato quello degli italiani che vanno in
villeggiatura; i consumi procapite di carne bovina
sono passati da 4 a 23 Kg. annui, da 3 a 23 quelli di
carne suina, da 27 a 117 di frutta, da 4 a 16 di formaggio, da 34 ad 84 litri
di latte e si potrebbe continuare a lungo (3).
Stiamo quindi assistendo ad un'importante trasformazione
sociale: l'antica povertà va perdendo le sue connotazioni di fenomeno di
massa, per annidarsi prevalentemente fra gli occupati precari, i disoccupati
privi di altri sostentamenti ed i titolari di pensioni
inadeguate; contemporaneamente stanno sempre più assumendo consistenza le
nuove forme di povertà, che causano la emarginazione di soggetti colpiti da
disagi psicofisici e/o sociali. Costoro, disabili, etilisti, drogati,
appartenenti a famiglie disgregate, a minoranze
etniche, culturali, ecc., pur potendo contare su redditi che spesso non si
discostano dalla media, sono da annoverarsi fra i nuovi poveri a causa
dell'inadeguatezza dei servizi sociali che dovrebbero aiutarli a superare le loro
difficoltà, e della marginalizzazione culturale cui
vengono fatti segno.
Dello stesso avviso sono anche le conclusioni cui è
pervenuta la commissione Gorrieri, che ha analizzato
il fenomeno della povertà in Italia. I dati, che riporto nel corso
dell'articolo, smitizzano infatti il luogo comune che
vuole gli anziani prevalentemente poveri e soli, quindi bisognevoli di
ricovero in ospizio; ed avvalora indirettamente la tesi secondo cui le case di
riposo svolgono il ruolo sostitutivo di un intervento sanitario o comunque
sociale negato. Non sono cioè un intervento riparatore
dì vecchie forme di povertà, bensì contribuiscono a produrne di nuove. Secondo
dati riportati dalla suddetta indagine, gli anziani sono una categoria di
soggetti a rischio, non tanto per grave disagio socio-economico, quanto per
la perdita di autosufficienza psicofisica. Secondo
dati ISTAT nel 1980 (ultimi disponibili), il 44% degli ultrasettantenni, contro
il 14% di tutta la popolazione dichiarava di non godere buone condizioni di
salute e, fra costoro, il numero di quelli che a causa di tale motivo necessitavano di cure più o meno continue ammontava ad un
milione e mezzo.
Attualmente le condizioni economiche degli anziani sono
migliorate. Negli ultimi 18 anni infatti gli importi
delle pensioni sociali sono aumentati di quasi venti volte, di circa quindici
quelli delle minime. Nel gennaio 1985 le pensioni di importo
superiore al milione incidevano per il 2% sul totale di tutte quelle erogate
dal fondo lavoratori dipendenti dell'INPS; per il 9% quelle superiori alle
700.000 e per il 71% le minime. Se prendiamo poi in considerazione gli importi
delle sole pensioni liquidate nel triennio 82/84 dal medesimo fondo, possiamo
constatare come, anche se in misura ancora inadeguata, le condizioni economiche
dei nuovi pensionati stanno migliorando e miglioreranno ulteriormente per
quelli futuri; infatti, sempre al 1° gennaio 1985, quelle di
importo superiore al milione mensile incidevano per il 7% sul totale,
per il 20% quelle superiori alle 700.000 lire e per il 53% quelle minime, che
incidono rispettivamente per il 13%, 34% e 43% se riferite alle sole pensioni
di vecchiaia (4).
Ciò nonostante gli ultrasessantacinquenni
poveri sarebbero oggi, secondo la commissione Gorrieri, 1.360.000, cioè il 21% dì tutti gli anziani. Di
questi, 411.000 vivono soli, 653.000 in coppia e 295 in famiglie composte da oltre 2 persone. A parità di reddito essi sono però meno
poveri dei giovani, sia perché hanno minori esigenze consumistiche, sia perché
dispongono spesso di maggiori risorse economiche non
documentabili, trasferite loro da congiunti ed amici (indumenti smessi, cibo,
ospitalità occasionali, ecc.).
La povertà e la solitudine, pur continuando ad essere
un fenomeno rilevante fra questi soggetti, non costituiscono, a mio avviso,
elemento determinante ai fini del ricovero; lo divengono invece
quando la povertà assume una connotazione multidimensionale
e all'indigenza si assommano anche solitudine, età avanzata e perdita di
autosufficienza psicofisica.
La nuova utenza delle case di riposo
Questa affermazione è ampiamente confermata dai dati
relativi alle motivazioni che hanno indotto 4.188
cittadini veneti ad optare per il ricovero in case di riposo nel periodo
compreso fra aprile 1985 e aprile 1986 (5). I motivi principali (e non unici)
addotti dai neo ricoverati sono così sintetizzabili:
- perdita di autosufficienza
psicofisica nel 47% dei casi;
- solitudine nel 14%;
- situazioni di emergenza
dovute ad impossibilità dei congiunti di continuare ad occuparsi degli
anziani, che provocano ricoveri spesso temporanei, nel 13%;
- desiderio di tranquillità, nel 9%, che sono poi gli
unici casi di presunta libera scelta, o meglio di scelta
condizionata da precedenti situazioni insostenibili;
- rapporti familiari difficili nel
3%, o meglio rifiuto esplicito della famiglia di continuare a prendersi cura
del congiunto (un dato questo
chiaramente sottovalutato);
- alloggio inidoneo nel 3%;
- isolamento socio-abitativo nell'1%;
- sfratto esecutivo nell'1 %;
- disagiate condizioni economiche, che ricorrono quando l'anziano non è in grado di provvedere
decorosamente con il proprio reddito alle esigenze primarie della vita, nell'1
%.
A queste trasformazioni sociali si sono adeguate le
funzioni e l'utenza delle case di riposo che, nonostante le buone intenzioni,
sono da sempre luogo di emarginazione dei più deboli.
Infatti, sino a non molto tempo fa, esse, volute dalla munificenza dei
benefattori quale atto di «giustizia» e di «amore»,
erano luogo di accoglienza per indigenti e disabili poveri; oggi, volute da
interessi privati e/o politici, sono divenute un grosso business economico e clientelare, sovente un atto di ingiustizia
nei confronti dei cosiddetti «cronici» espulsi dal Servizio sanitario nazionale,
che vi entrano spesso benestanti per divenire, altrettanto spesso, mendicanti
a causa degli alti costi delle rette.
Se riteniamo che questi cittadini abbiano diritto
alla sicurezza sociale, ogni sforzo deve essere proteso al superamento e non
alla razionalizzazione delle case di riposo, pena il
rischio di trovarsi di fronte ad un ordinato e lindo sistema di pseudocase di cura private, scollegate dal Servizio
sanitario nazionale, in cui si praticano esclusivamente cure minime ed
assistenza generica; la qual cosa sarebbe doppiamente negativa, in quanto da
un lato si disincentiverebbe la corretta pratica della medicina e della
geriatria, per relegarle al ruolo di medicina dì «serie B», affidata agli operatori
esclusi dall'esercizio dell'attività all'interno della sanità ufficiale; e dall'altro
si incentiverebbe quest'ultima a produrre cronici,
così da potersi liberare di pazienti poco gratificanti, curabili ma non
guaribili. Si verrebbe così a legittimare la creazione di serbatoi per cronici
non riabilitabili, nei quali morire senza rompere le scatole al resto del mondo, ed a costi i più contenuti possibile.
Per sancire l'illegalità del ruolo svolto da queste
strutture è indispensabile dimostrare come la loro
utenza tende sempre più ad essere composta prevalentemente da ammalati e/o
comunque da non autosufficienti ai quali la vigente legislazione riconosce
già, indipendentemente dai virtuosismi semantici e burocratici di molti tecnici
e politici, il diritto alla sicurezza sociale, quindi a prestazioni
direttamente erogate dal Servizio sanitario nazionale, o comunque dallo Stato.
Consistenza dei non
autosufficienti e loro incidenza sui ricoverati in case di riposo
Mentre esistono dati quantitativi, non esistono dati qualitativi sull'utenza delle case di riposo
italiane. Quelli riportati, relativi alla Regione Veneto
ed al Comune di Venezia, non dovrebbero però scostarvisi
di molto: danno comunque una idea della consistenza del fenomeno e delle sue
peculiarità.
Negli ultimi dieci anni il numero degli ospiti delle
case di riposo del Veneto è aumentato del 14%,
passando dai 18.230 del 1976 (6) ai 20.755 del 1986, corrispondenti al 3,7% di
tutti gli ultrasessantacinquenni residenti nella
regione. Nello stesso periodo l'incidenza dei non
autosufficienti é passata dal 37 al 52% di tutta l'utenza, per portarsi al 63%
dei ricoverati nel periodo aprile 1985 - aprile 1986. L'indice di saturazione
delle case di riposo del Veneto è del 94,1%; ciononostante esiste una lista di attesa di complessivi 1.297 aspiranti al ricovero.
Quanto alla situazione del Comune di Venezia, non
esistono dati ufficiali complessivi, tuttavia è a mio
avviso credibile una stima di 2.000/2.200 residenti ricoverati in istituti
della Regione e (in minima parte) di altre Regioni.
Per cogliere però tutta la gravità del fenomeno, è
opportuno prendere in considerazione anche il luogo dei decessi, che coincide
con quello in cui ha generalmente vissuto l'anziano nel periodo immediatamente
precedente la morte, elemento questo indicativo del nostro modello di organizzazione sociale.
Secondo una nostra recentissima indagine, che
costituirà oggetto di una prossima pubblicazione, nel 1985 su 2.680 decessi di ultrasessantacinquenni
veneziani, l'89,11% è avvenuto in strutture residenziali collettive, l0 0,93%
in luoghi pubblici non residenziali e solo il 9,96% in abitazioni private.
Confrontando questi dati con quelli analoghi relativi
al 1981 (7), si può notare una lieve riduzione dell'incidenza dei decessi in
abitazioni private, dal 10,26 al 9,96% (-0,30%), e di quelli in case di
riposo, dal 12,96 al 10,94% (-2,02%), ed un incremento di quelli in ospedale,
dal 70,27 al 71,75% (+1,48%) e in cliniche convenzionate col Servizio sanitario
nazionale, dal 2,2 al 6,42% (+4,22%).
I 293 decessi in case di riposo, pari al 10,94% di
tutti i decessi, sono una cifra considerevole; non danno però la dimensione del
dramma esistenziale dei soggetti appartenenti alla cosiddetta «quarta età».
Nel 1985 sono, infatti, morti in queste strutture assistenziali
un ultraottantenne ogni 5,7, cioè il 17,5% di tutti i decessi relativi ai
soggetti appartenenti a queste classi di età; che divengono rispettivamente uno
ogni 4,6, pari al 21,78% se riferiti ad ultraottantacinquenni,
e uno ogni 3,75, pari al 26,64%, se riferiti ad ultranovantenni. Se vogliamo
poi prendere in considerazione lo stato civile dei deceduti, constatiamo che
solo il 4,23% di tutti i coniugati, contro il 18,32% di tutti i non coniugati
ed il 14,26% di tutti i vedovi è morto in casa di
riposo.
Questa tendenza, che per Venezia è relativamente positiva se comparata ad altre realtà d'Italia (incremento
dell'incidenza percentuale dei ricoveri sanitari e decremento di quelli assistenziali),
rischia però di essere vanificata, qualora dovesse prevalere, a livello
nazionale, la filosofia dell'espulsione degli ammalati cronici dal comparto
sanitario. Se ciò accadesse, la casa di riposo diverrebbe
sempre più il luogo in cui andare a passare gli ultimi anni (o giorni o mesi)
di vita per poi morirvi. Un triste modo di concludere la propria vita per
l'uomo comune, una vendetta della storia per quanti si sono fatti promotori
di questa politica e per quanti, avendone i mezzi, non l'hanno contrastata.
La deportazione assistenziale
Con questo termine intendo lo sradicamento
dell'anziano ricoverato dal suo contesto socioambientale
ed il suo trapianto in realtà che gli sono estranee; la qual cosa si traduce in
un suo allontanamento da amici e congiunti che, a causa delle distanze, diraderanno
le occasioni di visita, sino a troncarle (non di rado) definitivamente.
Non esistono dati complessivi sulla consistenza di
questa deportazione; gli unici di cui possiamo disporre sono quelli relativi agli assistiti dall'Amministrazione comunale di
Venezia, che nel 1985 ammontavano a 1.529 unità (8). Di questi il 77,8% era
accolto in strutture site nello stesso comune, il 6,1% in altri comuni della provincia, il 15,5 in altre province del
Veneto e l'1,1% fuori regione.
Quanto all'esodo dei ricoverati paganti in proprio,
è lecito presumere che la sua consistenza sia
superiore; ciò a causa delle rette più contenute praticate dalle strutture
situate in zone decentrate, che presentano anche altri «vantaggi» quali un
clima più salubre e dimensioni ridotte cui fa riscontro un trattamento più casalingo.
Le caratteristiche di queste strutture, povere di
servizi sanitari, lasciano, presumere che la loro utenza sia costituita
prevalentemente da soggetti autosufficienti o comunque
affetti da patologie modeste; ne è una conferma l'esiguo numero di veneziani
deceduti in tali strutture nel 1985 (18 in tutto).
Il costo dell'esclusione
I tagli della spesa pubblica, imposti dalle nuove
politiche finanziarie, penalizzano doppiamente gli anziani
non autosufficienti, una prima volta con l'espulsione dal comparto sanitario e
con il rifiuto delle prestazioni dovute, una seconda volta facendo pagare
loro, sempre più frequentemente, il costo della retta di ricovero in
casa di riposo. Il caso del Comune di Venezia è emblematico di questa
situazione. Nel 1985, per assistere 1.529 ricoverati, esso ha speso poco più
di 15 miliardi cui vanno aggiunti oltre i 4 miliardi
di contributi dei ricoverati e circa 715 milioni di contributi dei familiari
per un costo medio annuo di 13 milioni per assistito, coperto al 75% dal
Comune, al 21,5% dagli interessati ed al 3,5% dai contributi dei parenti. A
questi importi già considerevoli va aggiunta la corresponsione del contributo
forfettario regionale per prestazioni sanitarie (9), riconosciuto ai soli
ricoverati non autosufficienti.
Questi dati si riferiscono ai vecchi ricoveri, per
quelli nuovi la situazione è drammaticamente peggiorata in quanto oggi il Comune tende sempre più a stringere i cordoni della
borsa e ad operare una drastica selezione degli aventi diritto. Esso infatti, troppo spesso, sostituisce il pagamento della
parte di retta non coperta dai redditi degli assistiti, con contributi forfettari generalmente inadeguati, che i congiunti sono
poi costretti ad integrare ampiamente. Secondo i dati forniti dalla regione
Veneto (5), questa tendenza ha assunto una dimensione
allucinante; negli ultimi 15 mesi infatti, se si eccettua il suddetto rimborso
regionale per spese sanitarie, l'Ente locale è intervenuto soltanto nel 30% dei
ricoveri e con contributi più modesti che in passato, cosicché in tutti gli
altri casi (oltre il 70%) gli interessati hanno dovuto provvedere in proprio al
pagamento delle rette.
Se raffrontiamo poi l'importo delle rette al reddito
effettivo della stragrande maggioranza di questi cittadini (10), risulta evidente come tale nuova scelta rappresenti
un'ulteriore insostenibile pressione contributiva ai danni delle famiglie
giovani, i familiari che peraltro non sarebbero tenuti a provvedervi (11) e che
sono già così duramente provati dai tagli previdenziali e dalla politica dei
redditi (12).
Con questi costi la situazione diviene spesso
insostenibile anche per i titolari di redditi medio alti, tanto che in questi
casi si stenta a capire dove abbia fine la nuova povertà dovuta ai disagi
psicofisici, e dove abbia inizio la vecchia miseria
dovuta alla difficoltà a far fronte al soddisfacimento dei costi dei ricoveri.
L'ammalato cronico in casa di riposo
Su 4.188 nuovi ricoveri nelle case di riposo del
Veneto, avvenuti nel periodo aprile 1985 - aprile
1986, il 71% è costituito da donne ed il 29% da uomini. Dieci anni or sono
erano rispettivamente il 69% ed il 31 %; si è quindi
verificata una crescita tendenziale dell'incidenza delle donne sul totale
degli ospiti del 2%. Questa tendenza è ampiamente
confermata dalla preponderanza percentuale dei decessi delle donne. Nel 1985 infatti, su 293 veneziani deceduti in case di riposo, 212,
pari al 72,35%, erano donne. Sarebbe però
semplicistico attribuire questa maggiore incidenza esclusivamente alla loro
longevità, cui logicamente consegue la loro prevalenza nelle classi di età
più avanzate, che sono poi quelle maggiormente soggette al rischio di ricovero
(13).
Altri elementi che vi contribuiscono sono la
preponderanza dei non sposati(e) e dei vedovi(e) tra i nuovi ricoverati, le
trasformazioni della famiglia ed il ruolo
discriminante attribuito alla donna al suo interno, nonché i minori redditi di
cui questa può generalmente disporre quando è sola.
Analizzando lo stato civile dei nuovi ricoverati, risulta che il 77% è costituito da non sposati (celibi e
nubili) e da vedovi(e), rispettivamente 26% e 51%, categorie all'interno delle
quali la presenza femminile è pressoché tripla rispetto a quella maschile (14).
Per avere una visione completa del fenomeno, sarà
opportuno ricordare come un altro 2% è costituito da separati, un 1% da
divorziati ed un 12% da coniugati (il residuo 8% risulta non censito). Questo
dato si compenetra e si integra con quelli relativi
alle conseguenze delle trasformazioni della struttura familiare, che negli
ultimi trent'anni ha perso le sue residue
connotazioni patriarcali per passare attraverso una strutturazione nucleare,
che diviene sempre più unicellulare, cioè composta da una sola persona (15).
Nel periodo 1951/81 il numero dei componenti della
famiglia media veneta è passato da 4,7 a 3; sono
contemporaneamente aumentate del 79% le famiglie composte da un'unica persona,
del 41% quelle con due, del 25% quelle con tre e quattro; è invece diminuito
del 23,3% il numero delle famiglie con cinque o più componenti; nello stesso
periodo la percentuale delle famiglie complesse, cioè composte da più nuclei
conviventi, è passato dal 33% al 12,6%. Una delle conseguenze di queste
trasformazioni strutturali, è la caduta della
solidarietà familiare (per impossibilità a farvi fronte), che diviene particolarmente
evidente nei casi in cui ad aver bisogno di assistenza è una donna, in quanto è
sempre più difficile trovarne una seconda nella stessa famiglia in grado di
provvedervi. Non dobbiamo infatti dimenticare come
alla donna sia stato delegato il compito dell'assistenza, che si assomma alle
cure domestiche e alle attività lavorative tradizionali.
In assenza o carenza di
solidarietà parentale e/o di servizi sociali, si deve
ricorrere all'assistenza domiciliare privata, accessibile esclusivamente a
chi ne abbia i mezzi economici; le anziane di oggi, che sono molto spesso le
casalinghe di ieri, possono accedervi meno frequentemente che gli uomini e
debbono generalmente rassegnarsi al ricovero, a meno che non siano titolari di
cospicui patrimoni personali o di una consistente posizione previdenziale.
Questa ultima ipotesi è però abbastanza rara in
quanto, nella stragrande maggioranza dei casi, sono titolari di pensioni
minime (di reversibilità o anzianità), e solo nell'1% dei casi, contro il 7%
degli uomini, fruiscono di una pensione (fra quelle erogate dal Fondo
lavoratori dipendenti dell'INPS) di importo superiore al milione mensile (5).
Un ultimo dato a conferma della discriminazione cui
la donna è soggetta, è rappresentato dalla forte tendenza presente in sede di
dibattito per la formulazione delle leggi finanziarie a ridurre la
fiscalizzazione degli oneri sociali sulla manodopera femminile, così da
disincentivarne l'occupazione, quasi a volerla rìcondurre al tradizionale ruolo casalingo ed assistenziale
all'interno della famiglia (16).
L'assistenza sanitaria agli anziani non
autosufficienti a Venezia
I dati, che emergono dalla nostra recentissima
indagine sull'ubicazione dei decessi di ultrasessantacinquenni veneziani, lasciano intravedere
luci ed ombre dell'assistenza sanitaria agli anziani non autosufficienti
residenti nel nostro Comune.
Dal confronto dei dati omogenei relativi agli anni
1981 e 1985, si evidenzia un incremento - in termini assoluti e percentuali -
dei decessi avvenuti nelle strutture sanitarie residenziali, sia in quelle
pubbliche (+101 pari a +5,5%) passati da 1.822, pari al 70,27% di tutti i
decessi, a 1.923, pari al 71,75% degli stessi; sia in quelle convenzionate
(+115 pari a +202%) che sono addirittura triplicate, passando da 57, pari al
2,2%, a 172, pari al 6,42%. Di contro si è verificato
un decremento di quelli avvenuti in case di riposo (-43 pari a -14,6%) passati
da 336, pari ai 12,96% a 293, pari al 10,94% di tutti
i decessi.
Il giudizio su questo fenomeno non può che essere
articolato: positivo, per quanto riguarda il fatto che
il Servizio sanitario nazionale tende a scaricare sempre meno al settore
assistenziale gli ammalati in fase terminale ed i cronici più gravi; negativo,
per il fatto che le case di riposo, pur accogliendo sempre meno questi utenti,
tendono ad ospitare sempre più quelli non autosufficienti stabilizzati.
Questi dati, che approfondiremo in un prossimo
lavoro, evidenziano un fenomeno che è stato reso
possibile dall'incremento della disponibilità di posti letto per lungodegenti
presso cliniche convenzionate con rette a totale carico del Servizio sanitario
nazionale.
Tali elementi non possono però indurci toutcourt a
farci promotori di un servizio sanitario per soli anziani, magari gestito da
privati; anche se con questi presupposti è facile immaginare come diverrebbe
obbligata la scelta di strutture geriatriche
ghettizzanti, in luogo di servizi sanitari teoricamente aperti a tutti, ma che di fatto tendono a non accogliere molti anziani. Questi
elementi debbono quindi farci riflettere su come
promuovere un servizio sanitario concretamente aperto a tutti.
Riferendoci alle cliniche convenzionate, non dobbiamo
dimenticare che queste si configurano spesso come una razionalizzazione delle strutture assistenziali, e si differenziano da queste
ultime solo per «il chi deve pagare le rette». Il ricorso alle cliniche
convenzionate lascia inoltre immutata la tendenza del Servizio sanitario nazionale
a produrre cronici per scaricarli ad altri. Un ulteriore
elemento che ci induce ad esprimere un giudizio negativo sulla tendenza in
atto, è quello relativo ai numero dei decessi avvenuti in abitazioni private
(10,08%). Partendo infatti dal presupposto logico che
almeno un anziano su dieci possa morire dì morte naturale, all'improvviso o
per futili cause, si è portati a trarre la conclusione che i1 Servizio
sanitario nazionale, oltre ad ignorare la prevenzione della cronicità, ignora
anche le cure e la riabilitazione praticate in strutture che non siano quelle
residenziali, é che sono peraltro negate a troppi anziani non autosufficienti.
Degenze improprie e degenze
illegittime
Il ruolo di monopolio attribuito agli ospedali nel
campo della medicina specialistica, costituisce il principale fattore di
destabilizzazione dell'assistenza sanitaria, in quanto produce il fenomeno
delle degenze improprie o quello della omissione di
assistenza (illecite dimissioni o non accettazione in ospedale di determinate
categorie di ammalati).
Nel linguaggio comune si intendono
per degenze improprie, tutti quei ricoveri ospedalieri che richiedono
prestazioni teoricamente praticabili anche a domicilio o ambulatoriamente
(accertamenti diagnostici, prestazioni riabilitative, assistenza generica ed
infermieristica, cure minime ecc.). Indipendentemente però dal fatto che si
concordi o meno con questa valutazione, le degenze
improprie potranno dar luogo a dimissioni o non accettazioni solo qualora
divengano illegittime, cioè nel caso in cui il Servizio sanitario nazionale
sia in grado di assicurare prestazioni alternative quantitativamente e
qualitativamente adeguate, o comunque qualora ciò sia esplicitamente previsto
da precise disposizioni di legge che non contrastino col principio costituzionale
che assicura a tutti i cittadini eguali diritti alla salute.
Per smitizzare il luogo comune che vuole gli ammalati
cronici non autosufficienti tra i principali responsabili del dissesto
finanziario della sanità, riporto le conclusioni cui sono
pervenuti due ricercatori in un'indagine sulle degenze improprie (17).
Su 408 ricoveri presi in esame (186 in una divisione
medica e 222 in una chirurgica), il 79,65% può considerarsi costituito da
ricoveri appropriati, il 18,13% da ricoveri impropri
ed il 2,2% di dubbia necessità. Su un totale di 74 degenze improprie n. 24
(32,4%) sono state motivate da accertamenti eseguibili anche ambulatoriamente, n. 22 (29,7%) da terapie eseguibili a
domicilio, n. 9 (12,1%) da patologie di tipo psichico seguibili anche ambulatoriamente, n. 7 (9,5%) da patologie non di
competenza del reparto considerato, n. 1 (1,4%) per evitare tempi di attesa per indagini strumentali, n. 3 (4,1%) per altri
motivi, e solo 8 (10,8%) per i cosiddetti motivi assistenziali. L'indagine
prende poi in considerazione le ritardate dimissioni dovute a cause non
mediche. I motivi che hanno causato prolungamenti delle degenze per 25
ricoverati della divisione medica sono così
sintetizzabili: 7 casi per motivi organizzativi del reparto, 6 assistenziali,
5 perché il paziente non si sentiva guarito, 2 per ritardo nella consulenza
specialistica, ed un caso per ognuno dei seguenti motivi: trasferimento in
casa di riposo, ritardo nell'esecuzione di indagini strumentali, attesa posto
letto in altra ULSS, trattamento fisioterapico, patologia iatrogena.
Su questo argomento si potrebbe
scrivere all'infinito, non ci sarebbe che l'imbarazzo della scelta. Pazienti
letteralmente dimenticati in corsia, altri che si vedono ripetutamente
rinviato l'intervento operatorio, altri in lista d'attesa per accertamenti diagnostici quali il TAC, ecc. Ma quel che è più scandaloso
sono i casi di ricoveri, sollecitati prima, e prolungati a dismisura dai
sanitari poi, per giustificare la sopravvivenza di reparti e divisioni
superflue; all'ospedale di Malo (Vicenza), costi di degenza giornaliera due
milioni, quindici giorni di ricovero per un callo, diciotto per una ciste.
Senza poi contare l'abuso di accertamenti diagnostici
(decine di elettrocardiogrammi allo stesso paziente), nonché un elenco di
quelle che sembrano vere e proprie torture: 93 applicazioni di crioterapia su
un solo paziente, 85 iniezioni sclerosanti su di un altro. Il risultato, oltre
ai rischi per i pazienti, è che tutto ciò ha costi sociali elevatissimi (18).
Chiaramente questo è un caso limite; si possono però citare situazioni altrettanto gravi che
rientrano nella norma. All'ospedale geriatrico G.B. Giustinian di Venezia funzionavano un reparto ginecologico
ed uno di otorinolaringoiatria, a dir poco grotteschi.
Il primo accoglieva non più di due o tre ricoverate contemporaneamente e dicono
che, quando giungevano in visita ufficiale amministratori e politici, si faceva
prestare pazienti da altri reparti. Il secondo teneva ricoverati pazienti
affetti da labirintosi (ai quali veniva
somministrata solo qualche pastiglietta e forse
qualche iniezione al giorno) anche per 60 giorni. Nello stesso ospedale si
lesina sulla durata delle degenze dei cronici. Ora il primo reparto è stato
chiuso ed il secondo è in procinto di esserlo, solo perché si è trovata una
collocazione più prestigiosa per i due primari che
prima vi si erano opposti con tutti i mezzi.
A chi compete il trattamento del
cronico non riabilitabile?
Definita la nuova illegittima funzione attribuita
alle case di riposo e le contraddizioni insite nell'organizzazione del Servizio
sanitario nazionale, non mi pare opportuno lasciarmi andare a disquisizioni
sul numero di patologie dalle quali sono mediamente affetti i ricoverati, né
tanto meno sulle più idonee modalità di intervento;
meglio è andare dritti al merito del problema, chi è competente a trattarli, o
meglio chi è obbligato a farlo?
Da più parti si sostiene, ad esempio, che il
trattamento dell'emiplegico, o più semplicemente delle sue piaghe da decubito,
cessa di essere competenza della sanità per passare al
comparto assistenziale nel momento in cui si decide di classificare l'ammalato
come cronico (19). La qual cosa generalmente avviene perché il paziente non è
obiettivamente riabilitabile, o più semplicemente perché si ha bisogno del suo
posto letto per un ammalato più gratificante o appartenente ad una categoria
con maggior potere contrattuale (20). Lo stesso
discorso vale per i pazienti affetti da ogni altra patologia curabile ma non guaribile, che necessitano di cure minime ed
assistenza generica.
Purtroppo questa logica pseudotecnicistica
ha affascinato anche molti operatori e politici democratici che, portando il
dibattito sul piano prevalentemente scientifico, hanno contribuito a togliere
le castagne dal fuoco a chi ci governa, facendo
ricadere sui tecnici la responsabilità delle loro scelte impopolari, ed hanno
legittimato una cultura che dì fatto persegue la razionalizzazione
dell'emarginazione e non il suo superamento.
Questa impostazione del dibattito è, a mio avviso,
riduttiva e fuorviante in quanto sposta sul piano tecnico una discussione che è
prevalentemente politica. Dando per scontato che debba
essere la sanità a farsi carico degli interventi nei confronti di tutti i
cittadini ammalati, inclusi gli emiplegici non riabilitabili, i dementi ed ogni
altro tipo di disabile curabile ma non guaribile, vorrei estendere la
riflessione anche ai non autosufficienti «sani» quali i grandi senili, cioè coloro
che non riescono a compiere le abituali funzioni della vita quotidiana a causa
dell'età avanzatissima. Accomunando il destino di tutti i non autosufficienti,
il quesito da porsi non è tanto se a prendersene cura debba essere la sanità o
l'assistenza, bensì se debba essere la collettività o la famiglia o in sua carenza la pubblica beneficenza o la carità privata. Solo
se ci troveremo d'accordo sul diritto di ogni
cittadino non autosufficiente alla sicurezza sociale, potremo, liberi da ogni
condizionamento di sorta, discutere serenamente per stabilire dove sia
obiettivamente opportuno che terminino le competenze della sanità ed abbiano
inizio quelle paraprevidenziali o sociali di altro tipo.
La prima ipotesi trova pieno accoglimento in una
concezione di Stato sociale di tipo integrale, quindi
in un sistema di sicurezza sociale universalistica - finanziato tramite
l'imposta generale sui redditi - che assicuri il benessere psicofisico a tutti
i cittadini senza distinzione alcuna, quale diritto ampiamente sancito dalla
Costituzione. La seconda fa riferimento ad una concezione caritativa di pubblica
beneficenza, affidata alla gestione discrezionale, degli Enti locali, che stigmatizza la miseria di una parte della popolazione, cui
si pone riparo con interventi mortificanti (21).
Purtroppo oggi sta affermandosi questa seconda linea
d'intervento; ciò grazie al consenso di tutte le forze politiche e dei
movimenti di massa, o comunque a causa del
disinteresse di quelli che dovrebbero e potrebbero opporvisi. Poiché nessuno
oserebbe teorizzare esplicitamente questa prassi anacronistica, si parla di promozione di uno Stato sociale di tino residuale, che intervenga
solo nei confronti delle classi meno abbienti.
L'alibi addotto per giustificare la mancata realizzazione
della Stato sociale è quello della carenza delle risorse economiche a
disposizione, argomentazione questa facilmente contestabile, almeno sintanto che i vari Governi ed il
Parlamento perseguono una politica della spesa pubblica che privilegia altri
settori e fino a che non si riesce a razionalizzare il comparto della sicurezza
sociale.
Purtroppo occorre ricordare come anche i partiti che sono all'opposizione ed i sindacati hanno in
gran parte convenuto sul l'interpretazione che vuole la spesa sociale in buona
parte responsabile del disavanzo del settore pubblico e sulla conseguente conclusione
dell'inevitabilità della crisi del Welfare State nel
nostro paese. Non voglio qui entrare nel merito delle scelte
politiche fatte sinora in materia di finanza pubblica, la qual cosa ci
porterebbe troppo lontano; alcune considerazioni vanno però fatte, se non altro
per non far sentire í fruitori dei servizi sociali responsabili della
bancarotta dello Stato. Ad essere in parte responsabile del disavanzo pubblico
non è tanto la spesa sociale (sanità e previdenza), in gran parte finanziata
dai contributi obbligatori degli assicurati, quanto l'assistenzialismo alle
imprese (fiscalizzazione degli oneri sociali, cassa integrazione,
incentivazione per gli investimenti, ecc.),
finanziate dal sistema impositivo, nonché gli
interessi passivi relativi al debito pubblico consolidato, che detti
trasferimenti alle imprese hanno contribuito in gran parte a produrre. Quanto
poi ai costi per sanità e previdenza da un canto, ed assistenzialismo alle
imprese ed interessi passivi dall'altro, va ricordato come i secondi
siano solo dì poco inferiori ai primi, che nel quadriennio 1981/84 hanno
superato i 400.000 miliardi, di cui 220.000 per trasferimenti alle imprese
(22).
L'altro elemento da prendere in considerazione è quello relativo ai privilegi, alle disfunzioni ed agli
sprechi e parassitismi che inibiscono l'instaurarsi di un equilibrato rapporto
fra costi e benefici nell'ambito della sicurezza sociale. Si pensi, ad esempio,
che nel 1984 una percentuale compresa fra l'8% ed il 20% di tutte le pensioni di invalidità previdenziale e delle integrazioni dì pensioni
minime, erano non dovute; senza poi contare le babies pensioni e gli altri
infiniti privilegi previdenziali (23).
A questi vanno poi aggiunte le inefficienze e gli
sprechi dei pubblici servizi, quali quelli da me descritti nel paragrafo
precedente. A tale proposito vorrei inoltre riferire le conclusioni cui è
pervenuta un'indagine curata dal CESPE, riportate
dalla rivista Rinascita in un articolo risalente a cinque anni or sono. Fatta 100 la produttività dei dipendenti ospedalieri nel
1971, questa si era ridotta a 51 nel 1980.
Conclusioni
Essendo stato portato il problema dal piano tecnico
a quello economico, la scelta non può che essere politica. Chi deve provvedere
alle esigenze di tutti i cittadini divenuti non autosufficienti a causa di
disagi psicofisici? Vorrei ancora una volta ricordare che questi cittadini
sono tutelati da una vasta legislazione non ancora abrogata,
che prevede l'assistenza sanitaria a tempo indeterminato e la corresponsione
della pensione di invalidità civile e dell'indennità di accompagnamento dovuta
ai totalmente inabili, quindi anche ai dementi, ai grandi senili e ad ogni
altro soggetto totalmente non autosufficiente.
A questo punto si possono trarre le conclusioni di
tutto il lungo discorso: a meno che si voglia abrogare
tutta la vigente legislazione in materia, deve essere lo Stato, tramite un
nuovo ministero per la sicurezza sociale, a provvedere ai non autosufficienti.
In questo caso credo divenga irrilevante, sia per l'utente che
per il Ministero del bilancio, il fatto che i costi alberghieri del ricovero
siano a carico del Servizio sanitario nazionale o di altro servizio pubblico,
importante è che sia la sanità a garantire direttamente la continuità e la globalità
dell'intervento al non autosufficiente. Qualora poi il Parlamento
stabilisca l'inopportunità che sia lo Stato a farsi totalmente o parzialmente
carico dei costi alberghieri del ricovero, approvi una legge che equipari i
ricoverati in ospedale a quelli in altre strutture residenziali nel pagamento
di un ticket sui costi alberghieri.
(1) Cfr. Rapporto della commissione d'indagine Gorrieri
sulla povertà in Italia, in Prospettive
sociali e sanitarie 8/9, 1986.
(2) Cfr.
Indagine parlamentare del 1951 sulla miseria in Italia.
(3) Cfr.
PAOLO MIELI, «Poveri ma non belli, ecco come eravamo,
dati ISTAT», «Repubblica», 3 giugno
1986, p. 5.
(4) Cfr.
MAURIZIO PEDONI, «Oggi sono in troppi a ricevere troppo poco», in Conoscere e partecipare, 30/1985, pp.
792/803.
(5) Cfr. «Gli
anziani ospiti presso gli istituti del Veneto», in Quaderni della Banca dati, 1/1986, a
cura dell'Assessorato all'assistenza della Regione Veneto.
(6) Cfr.
«Indagine sui servizi sociali nel Veneto», IRSEV, 1977.
(7) Cfr. M. TOMAS, Dati sulla mortalità di persone anziane nel comune di
Venezia nel 1981.
(8) Fonte: Assessorato alla sicurezza
sociale del comune di Venezia.
(9) Nel 1985 esso variava dalle 10 alle
14.000 lire al giorno, il suo importo era proporzionale alla quantità e qualità
delle prestazioni sanitarie erogate dalle case di riposo.
(10) Su una rilevazione relativa all'80%
dei ricoverati, il 3% di tutti gli ospiti aveva un reddito inferiore alle
200.000 lire mensili, il 13% fra le 2 e le 300.000, il 27% fra le 3 e le 400.000,
l'8% fra le 4 e le 500.000, l'8% fra le 5 e le 600.000, il 21% oltre le
600.000.
(11) Cfr. G.
BRUGNONE, «Assistenza e solidarietà, ruolo dello Stato e
della famiglia», in «Prospettive
assistenziali», 69/1985, pagg. 6/13.
(12) Nel 1985 la spesa pubblica
allargata ha sfiorato il 60% del prodotto interno lordo, cioè una pressione
contributiva (tasse, imposte e contributi sociali), che per ogni 100 lire di
ricchezza prodotta dagli italiani ne ha sottratti loro 60.
(13) L'età media dei ricoverati nel
periodo 1985 - aprile 1986 era nel 6% dei casi inferiore ai 59 anni, nel 9% fra
i 60 e i 69, nel 36% fra i 70 ed i 79; nel 41% fra gli 80 e gli 89, nel 7%
oltre i 90.
(14) Il 10% degli ultrasessantenni non
sono sposati (7,5% nubili, 2,5% celibi), il 25,7% sono vedove, il 7,5% vedovi. Cfr. D. GATTESCHI «Servizi socio-sanitari
a disposizione degli anziani», Ed. N.I.S.
(15) Cfr.
MARIANGELA GRAINER, intervento al convegno,
«Dall'eguaglianza alle pari opportunità per la donna», Venezia, febbraio 1986.
(16) Cfr. MAURIZIO
PACI, «Approfondire l'analisi sui confini fra assistenza,
previdenza e solidarietà», in Conoscere
e partecipare, 30/1985, pp. 785/791.
(17) Cfr. F. FONTANA S. SAVARIS, «Lo studio dei ricoveri ospedalieri impropri in un ospedale
dell'ULSS n. 1 Cadore della Regione Veneto», in Difesa sociale, n. 3, maggio-giugno 1986, pp. 29/39.
(18) Cfr. ROBERTO BIANCHIN, «Per un callo 15
giorni, per una ciste 18. Ecco le degenze record»,
in Repubblica, 12.9.1986, pag. 16.
(19) Questa prassi è illegittima in
quanto non contemplata da alcuna disposizione di legge, ed è apertamente in
contrasto con i principi costituzionali resi attuativi dalla successiva
normativa, culminante con la legge 833/78 istitutiva del Servizio sanitario
nazionale.
(20) Secondo l'indagine condotta da
operatori della USL RM9 «Il malato dichiarato cronico nell'ospedale e nel
territorio», le dimissioni per cronicità sono prevalentemente motivate da
necessità di posti letto; infatti esse sono meno
frequenti in agosto e dicembre, mesi di minor affollamento degli ospedali, nei
quali vi sono però, secondo i mass media, i famosi parcheggi dei vecchi, dovuti
alle ferie della famiglia giovane.
(21) Cfr. G.
AVONTO, «Nuova povertà e stato sociale» in Prospettive
assistenziali, aprile-giugno 1986, pp. 11/17.
(22) Cfr.
GIUSEPPE ALVARO, «Stato Sociale e debito pubblico», in Conoscere e partecipare, 30/85, pp.
774/778.
(23) Secondo la commissione Gorrieri, nel 1984 la spesa pubblica ha destinato 156.492
miliardi di lire, pari al 31% del prodotto nazionale lordo, il 21,7% per la
previdenza, il 6,75% per la sanità e il 2,59% per l'assistenza.
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