Prospettive assistenziali, n. 77, gennaio-marzo 1987

 

 

INFERMITÀ DI MENTE E DIRITTI FONDAMENTALI DELLA PERSONA

PAOLO ZATTI (1)

 

 

Verso la regola legale, che stabilisce garanzie ed impone doveri, nasce talvolta un'aspettativa che va delusa quando la giurisprudenza svela i suoi limiti.

Che così avvenga, in particolare, per i diritti del malato di mente, è possibile per diverse e complesse ragioni, che sono state in buona parte indicate nelle relazioni introduttive, e che saran­no oggetto di meditazione nel corso del con­vegno.

Per parte mia, credo di dover almeno accen­nare, in apertura, ad alcune preoccupazioni, che il tempo mi vieta di giustificare come avrei do­vuto.

La prima - non la più seria - è di seguire itinerari troppo legati al linguaggio e ai pensieri dei giuristi, per i quali hanno peso, talora, que­stioni che appaiono a chi ascolta come misteriose ghirlande concettuali.

Attenzione e misura bastano a superare una reciproca estraneità di linguaggio. Ma le diffi­coltà dì comprensione possono nascondere di­versi, e più gravi limiti.

Anzitutto, un'insufficiente esperienza delle co­se: il problema della malattia mentale, se è fa­miliare per diversi aspetti a matrimonialisti e pe­nalisti, è però nuovo come questione che inter­pella l'intera gamma delle nostre risorse. Una mi­gliore comprensione dei fatti è ancora necessa­ria, perché i giuristi possano proporre modi e misure di tutela del malato, senza correre il ri­schio di una perorazione impraticabile.

Ma più a fondo, si celano i limiti stessi del diritto, il quale conosce l'inutilità delle procla­mazioni, l'inerzia delle sanzioni, le temibili con­seguenze della regola legale che non afferra la realtà e induce effetti di fuga e di elusione, o quel fiscale rispetto che nasconde la violazione e l'abuso; limiti tanto più prossimi quanto più la norma giuridica voglia farsi strada di forza nel regno del costume, della deontologia, o della stessa tecnica.

Ragioni che inducono a prudenza; e che consi­gliano anzitutto di mantenere la relazione nell'ambito più ristretto concesso dal titolo.

Un confronto tra la riflessione dei giuristi sui diritti della persona e l'intero universo di proble­mi proprio alla malattia mentale sarebbe compito irrimediabilmente troppo ampio, se si ritiene che come aspetti di un generale diritto allo svolgi­mento della personalità possano essere studiati, almeno nel caso del malato di mente, non solo le libertà e le prerogative comprese nel catalogo dei diritti fondamentali, ma lo stato della perso­na nei rapporti familiari, la libertà di iniziativa economica, il diritto al lavoro.

Questo è, d'altra parte, il «nuovo diritto per il malato di mente»: il terna del nostro conve­gno; e ciò mi consente di limitare la mia rela­zione alla tutela della personalità dell'infermo nella sua specifica condizione di persona biso­gnosa di cura, dunque in occasione o in funzione del trattamento medico.

Le premesse normative non fanno difetto: le norme della legge 833/1978 che tutelano la «di­gnità della persona» e i «diritti civili e politici» all'interno dei trattamenti obbligatori (art. 33, 2° comma) rinviano all'intero catalogo dei diritti fon­damentali; la stessa legge tutela, in particolare, il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura (ivi), il diritto del paziente a comunicare con chi ritenga opportuno (comma 6°), e impone l'obbligo di accompagnare il trattamento con ini­ziative volte ad assicurare il consenso e la par­tecipazione da parte di chi vi è obbligato (com­ma 5°); a garanzia della libertà e dell'autonomia si orientano infine le cautele poste per evitare un indebito o inutile prolungamento del trattamento obbligatorio (art. 35, comma 4° e ss.).

Ma quanto di tutto ciò conserva effettività di fronte al problema della cura? E come è possi­bile precisare queste disposizioni senza aggiun­gere proclamazione a proclamazione, o senza ca­dere in una casistica legale priva di senso nella quotidiana relazione tra medico e paziente?

Per tentare di avvicinarmi a una risposta, ho cercato di ancorare le mie riflessioni alla più pedante concretezza. Mi è parso giusto tradurre le solenni proclamazioni dei diversi diritti fonda­mentali in immediate esigenze, che fosse deside­rabile e possibile soddisfare all'interno di un trattamento psichiatrico. Ho quindi posto a me stesso, e a uno psichiatra amico, domande le più minute e pedanti, quali potrebbe rivolgere una persona preoccupata di salvare, da ammala­to e da ricoverato, qualche lembo delle proprie libertà quotidiane.

Potrei uscire, s'intende dandone notizia, dal reparto? sarebbero le porte chiuse o aperte? avrei con me i miei documenti, i miei vestiti, le mie scarpe? potrei tenere le mie cose sottochia­ve, al riparo dagli altri pazienti e dal personale? potrei chiudermi nel bagno? dovrei forse sotto­stare a ispezioni, o vivere sotto l'occhio vigile di un osservatore umano o elettronico? potreb­be succedermi d'essere ripreso, a mia insaputa o senza mio consenso, in foto o film magari a scopo didattico o scientifico? potrei ricevere, chiusa, la mia corrispondenza, e se scrivessi, sa­rebbe segreto almeno il contenuto dei miei mes­saggi? ci sarebbe un telefono, laggiù, e lo potrei usare? potrei farmi portare giornali e libri di mia scelta? e se avessi una radio, la potrei ascolta­re? potrei ricevere visite, e potrei star solo quando lo volessi?

E poi: sarei in grado di rifiutare un farmaco o un trattamento? potrebbe qualcuno toccarmi senza che io volessi, prendermi, portarmi a forza qui o là, spogliarmi o rivestirmi senza che io possa ribellarmi? deciderei con voi qualcosa, o sarei solo suddito delle vostre decisioni? potrei far venire il mio medico, e sarebbe ascoltato?

Se non riusciste a curarmi, potrei cambiare, cercare altri medici e altri reparti? che verità mi direste sul mio stato, e che cosa sarei in grado di capire? se tutto fosse o sembrasse inutile, mi tratterreste soltanto per qualche ragione di sicu­rezza? provereste davvero a guarirmi, o vi limi­tereste a custodirmi?

Le mie domande cadevano su un interlocutore amichevole e interessato, che non si spazientiva né giudicava le mie richieste, almeno in linea ge­nerale, troppo lontane dal possibile. Ma dalle sue puntuali risposte, due elementi di fatto ve­nivano grado a grado a concretarsi ai miei occhi di intervistatore e di giurista.

In primo luogo molto, della mia sorte, dipen­deva da dove io fossi ricoverato e da quale me­dico avessi incontrato: non esisteva un'uniformi­tà su cui fare affidamento, criteri o costumi che non avessero l'opinabilità di una discussa deon­tologia, e la varietà di inclinazioni legate alla teo­ria terapeutica e perfino al temperamento per­sonale: per dirla in breve avrei potuto trovarmi, se non al paradiso, al limbo, al purgatorio o all'inferno.

In secondo luogo, quand'anche fossi capitato nel migliore dei mondi psichiatrici possibili - e si sottolineava, qui, l'aggettivo «possibili» - tutta la gamma di libertà e difese che le mie domande volevano accertare mi sarebbe stata ri­conosciuta con un fondamentale e necessario «purché», una condizione formulata in modo da coincidere con il mio stesso interesse terapeu­tico: potrai, purché non sia terapeuticamente negativo; non subirai, purché non sia terapeuti­camente necessario; cercheremmo di convincer­ti, perché è terapeuticamente conveniente oltre che deontologicamente e legalmente doveroso: ma se poi si dovesse costringerti, lo dovremmo pur fare.

Immaginandomi in tale veste, cercavo di rita­gliarmi una condizione più garantita, precisando all'amico psichiatra che mi considerasse, nella ipotesi, ricoverato volontario. Ma ottenevo, così, solo un armistizio, perché spuntava all'orizzonte un più maiuscolo, e preoccupante «purché»: «purché» il mio stato non divenisse tale da le­gittimare ed anzi imporre un trattamento obbli­gatorio e un ricovero coatto.

Confesso che questa riserva finale - di cui non potevo contestare la validità - mi metteva nella massima preoccupazione come immaginario paziente, e mi disarmava come giurista; mi pa­reva naturale che, se il passaggio dallo stato di non-infermo - cittadino autonomo e capace, provveduto di tutti i diritti alla riservatezza, alla intimità, alla dignità e all'identità personale - a quello di ricoverato coatto poteva richiedere, sul piano dei fatti oltre che nella previsione nor­mativa, il superamento di un diaframma di una certa resistenza, molto più labile sarebbe stato il confine fra i due stati a partire dalla condizio­ne di ricoverato volontario, infermo per defini­zione e accettazione, diagnosticato, osservato, soggetto a un trattamento la cui interruzione po­teva essere ritenuta pericolosa e la cui prosecu­zione poteva essere assicurata, appunto, dal pas­saggio alla coazione.

La conseguenza, sul piano della disciplina dei diritti del malato, era una limitata possibilità di costruzione.

Di ciascun diritto - alla preservazione dell'in­timità, alla libertà corporea e personale, all'im­magine, alla dignità - si poteva certo fare af­fermazione, e proclamare la vigenza anche all'in­terno del rapporto terapeutico; ma il peso dello stesso scopo di cura, e la discrezionalità tecnica del medico, avrebbero reso ogni affermazione condizionata.

La forza originaria dei diritti della personalità poteva ritrovarsi sotto un diverso aspetto: quello di vincolarne il sacrificio a un criterio di stretta necessità in vista di un superiore scopo di cura. Affermazione, in verità, di qualche peso in situa­zioni nelle quali la prassi medica sia lontana da un tale standard di rispetto dell'infermo di men­te: là dove, cioè, si apprezzi come superiore esi­genza, e si pratichi come regola di organizzazio­ne e di condotta, la pura eliminazione del peri­colo sociale di cui l'infermo di mente è visto come portatore, così che i confini dello stato di necessità siano ampliati fino a quanto occorre, in realtà, per una pacifica custodia.

Se anche un caso del genere potesse essere nominato, non sarebbe irrilevante affermare che l'obbligo di trattamento sanitario apre bensì alla possibilità di coazione per ogni singolo interven­to successivo - salvo il dovere di ricerca del consenso ex art. 1 della legge 180 - proprio e soltanto perché al trattamento obbligatorio é co­essenziale l'esistenza e la possibilità di un pro­gramma di cura; che, di conseguenza, solo lo scopo positivo di curare consente di superare i limiti comuni dello stato di necessità nel giu­stificare comportamenti di lesione della persona­lità altrimenti illeciti.

Tornerò più avanti su questo punto. Per ora, osservo che, se il discorso sui diritti della per­sonalità nel trattamento psichiatrico si chiudes­se qui, correrebbe ancora il rischio della de­clamazione; perché l'opinabilità del giudizio sul­la necessità funzionale di qualsiasi effrazione della personalità del malato limiterebbe a estre­me ipotesi la possibilità di controllo dell'abuso del potere da parte del medico. In sostanza, e sui piano dell'effettività, le regole legali sui di­ritti del malato avrebbero vigore fino al limite della necessità terapeutica: al di là, solo alcune fra esse, le più elementari, potrebbero filtrare; ogni altro riguardo sarebbe affidato soltanto alla deontologia e forse alla sola coscienza.

Questo primo, e insoddisfacente esito, conse­gue in realtà a una terribile premessa, tacita­mente accettata finché medico e giurista si com­portano come avvocati di parti avverse: conside­rare i diritti della personalità, nel caso dell'infer­mo di mente, come una barriera alla discreziona­lità terapeutica, un decalogo di ciò che medico, infermieri, organizzazione sanitaria non possono o non debbono fare fintantoché, appunto, un su­periore interesse terapeutico non imponga di su­perare la barriera e impiegare mezzi o tenere comportamenti altrimenti illegittimi, ma «giusti­ficati» dalle prevalenti esigenze della cura.

Ma perché - appunto - concepire il rispetto della personalità del malato come un limite alla potestà terapeutica, anziché come il suo fine? Perché rivolgersi al medico con la preoccupazio­ne di difendere il malato, ponendo avanti i diritti della persona come fragili barriere, per segnare ciò che non deve essere fatto, anziché affermare, attraverso quei principi, ciò che l'infermo ha di­ritto ad essere, a ricevere, a ottenere?

Perché utilizzare la regola legale per limitare scelte e atti di una istituzione sanitaria che po­trebbe, più spesso del necessario, valersi dei limiti per giustificare l'inerzia?

La domanda, che qui parrà semplice e scontata, scopre in realtà l'insidia di una concezione sola­mente «difensiva» dei diritti della personalità, che costruisce queste armi, di cui veste il sin­golo, come scudi levati a proteggerlo dall'abuso dell'autorità e dalle aggressioni dei «nuovi po­teri».

L'idea della difesa, della salvaguardia, della guarentigia, è quella che per prima ci appare se pensiamo alla tutela della persona umana: è il tenace imprinting dell'origine, che vede il ca­talogo dei diritti fondamentali formarsi per op­porre, al potere sovrano, una legge inviolabile di rispetto dell'individuo.

Per valutarne, quanto è possibile con affrettati accenni, ragioni e limiti conviene forse sottoli­neare il legame che essa stabilisce tra diritto e divieto.

L'accento posto sulla salvaguardia tende a co­struire il contenuto del diritto attorno a un co­mandamento negativo, rivolto al titolare di un po­tere e all'autore dell'aggressione: tu non farai. Tu non entrerai in casa mia, tu non violerai la mia intimità, tu non farai uso della mia immagi­ne, tu non diffonderai notizie riservate, tu non dirai di me cose infamanti: diritti che si realizza­no tramite divieti o tramite limiti a diritti e po­teri altrui; diritti che appaiono come aspetti di un più generale «noli me tangere», che disegna la sfera entro la quale ciascuno di noi sa di esse­re al riparo dal potere e dalle aggressioni; diritti­scudo, che si oppongono per fermare, per respin­gere, per tenere lontano ciò che legittimamente percepiamo come invasione e violazione; diritti che costruiscono, per ciascun singolo, la zona di una Friede personale.

È ben chiaro che la salvaguardia - il noli me tangere - è per il soggetto libero e capace un mezzo di libertà, e in essa trascolora: ogni «di­ritto-scudo» delimita un'area di attività e di iniziativa, offre riparo al libero svolgimento della personalità; il comandamento negativo mette al sicuro la libertà e ne consente l'esercizio. Il diritto di essere solo, respingendo l'invasione, garantisce la libertà domestica della persona; il diritto all'onore, preservando la reputazione, ga­rantisce le opportunità delle relazioni sociali, e così via.

In alcune prerogative, il comandamento nega­tivo si fa immediatamente funzionale a un espan­dimento della autonomia della persona, serve, cioè, solo a rimuovere un ostacolo per uno spe­cifico esercizio di libertà: tu non mi impedirai di informarmi, tu non mi impedirai di manifestare il mio pensiero, tu non mi impedirai di avere amici, tu non limiterai la mia libertà di sposarmi o restare solo, di credere o non credere, di ade­rire a un partito o a un sindacato. Ed allora, la positiva pretesa ad essere, a fare, a patere, è compresente e talvolta prevalente rispetto alla pretesa che altri non faccia, o non impedisca, non costringa: il diritto a manifestare il pensiero può non esaurirsi nella pretesa a non esserne impedito, ma affermarsi come diritto a ricevere mezzi e opportunità per esprimere la propria opinione; e così il diritto all'informazione, e tan­to più il diritto al lavoro, il diritto alla salute.

È qui il passaggio a una concezione non più o non solo difensiva, ma attiva, propositiva, dei diritti della personalità, familiare al commentato­re della Costituzione, che legge nell'art. 2 un principio di promozione della personalità - non già norma di difesa passiva della sfera perso­nale, ma garanzia dello svolgimento, cioè della efficace applicazione delle risorse intellettuali, affettive e morali di ciascuno; che ritrova nell'ar­ticolo 3 il diritto alla promozione dell'eguaglian­za, sotto le specie della «rimozione degli osta­coli»; che riconosce in molti tra i diritti affer­mati il contenuto di una pretesa verso lo Stato per la soddisfazione positiva di interessi fon­damentali - come l'istruzione, la salute, il la­voro: diritti a fare, a potere, a essere, e ad avere ciò che è necessario per potere, essere, e fare.

Questa diversa funzione dei diritti fondamen­tali è forse meno familiare al privatista, che ten­de a utilizzare i diritti della persona soprattutto come schermi all'aggressione del privato, diretti a respingere intromissioni e violazioni che impe­discano di godere la libertà domestica o di pra­ticare un esercizio di libertà che chiede, agli altri privati, solo comportamenti astensivi.

Al fondo, la concezione «difensiva» dei diritti della personalità può vedersi legata all'idea pri­vatistica di «soggetto», e alla sua proiezione liberale nei rapporti con il potere dello Stato. Al soggetto eguale per definizione e capace di per­seguire da sé i propri fini, si appresta lo scudo, al cui riparo può, di propria iniziativa e forza, mettere in opera le proprie risorse personali ed economiche. Essa suppone un «cittadino» che, lasciato libero e solo, sappia godere solitudine e libertà.

Non a caso un diverso, più complesso, propo­sitiva contenuto dei diritti della personalità si elabora nello studio delle situazioni, talvolta a cavalla tra pubblico e privato, in cui è necessario ottenere e promuovere un effettivo sviluppo del­la persona: nei rapporti interni alla famiglia e in particolare nel rapporto educativo, nell'ordina­mento della scuola, e in parte, ma con modalità ovviamente diverse, nella disciplina del rapporto di lavoro.

In particolare, credo che il riferimento alla posizione del minore possa offrire criteri e indi­cazioni utili per una buona impostazione del pro­blema di tutela dell'infermo di mente.

La scelta non è suggerita tanto dall'aspetto dell'incapacità - che non è una costante nella posizione dell'infermo di mente e che male ap­parenta, in una omogenea figura di incapacità le­gale, le due lontanissime esperienze della per­sonalità in formazione e della personalità che manifesta o rischia la propria disgregazione.

Quel che invece interessa, è che la tutela del­la personalità del minore si deve inserire in un rapporto di soggezione, deve affermarsi cioè con riferimento a un ufficio - potestà dei genitori, funzioni delegate o originarie dei «precettori» - che porta in sé il vincolo di scopo all'esclusivo interesse del minore e ad un tempo ad interessi di ordine pubblico che vengano spesso percepiti come «superiori»: e che proprio per questo ca­rattere funzionale, si vede attribuire, per antico e resistente equivoco, quasi un'intrinseca ido­neità a procurare il miglior bene del minore, fino al limite del comportamento illecito secondo i comuni criteri di valutazione.

La teoria dei diritti della personalità si inseri­sce efficacemente nella ricostruzione di rappor­ti di questa tipo quando supera la funzione pura­mente difensiva, di scudo e di limite negativo al potere dell'autorità familiare o scolastica che sia, e inserisce il suo valore dominante all'interno dello scopo che vincola il potere, ricavando, di qui, non un decalogo di comandamenti negativi, ma una gamma di comportamenti positivi, di do­veri imposti al titolare della potestà per perse­guire positivamente ciascuno dei valori personali che i diversi diritti tutelano.

Il riferimento costante all'art. 2 Cost. non è, in questo ordine di ragionamenti, un passaggio rituale o una legittimazione proclamatoria: il sen­so del collegamento tra il catalogo dei diritti fondamentali e l'art. 2 Cost. sta nel rendere la affermazione di ciascun diritto funzionale alla fi­nalità di svolgimento, di espandimento della per­sonalità del singolo.

Lascio l'analogia prima che divenga troppo vin­colante, e perciò necessariamente inadeguata; e torno all'infermo di mente e al suo rapporto di cura.

Il rapporto terapeutico istituisce una soggezio­ne funzionale alla cura. Nel trattamento volonta­rio, essa ha fonte in un affidamento che il malato fa al medico, nelle cui mani pone la sua salute riconoscendogli il potere di indirizzare, a fini di cura, tutti i suoi atti e aprendo, alla discrezione del medico, le zone altrimenti custodite della sua intimità personale, dei suoi rapporti familiari e sociali, della sua stessa integrità fisica; ho già ricordato come, fatto questo affidamento, il ma­lato mentale dia al medico, di fatto, anche una più prossima possibilità di verificare le condizio­ni di un trattamento obbligatorio, e di istituire con ciò una soggezione più estesa e non più re­movibile per volontà del paziente.

La teoria dei diritti della personalità non deve inserirsi in questo rapporto solo per affermare una protezione difensiva del malato, una barriera all'abuso costruita affiancando l'uno all'altro, co­me pali di uno steccato, i diversi diritti della per­sonalità: di questo itinerario è certa una qualche utilità, ma si sono intravisti i limiti.

La tutela della personalità deve affermarsi in­vece collocando il suo proprio valore come leg­ge fondamentale della soggezione stessa, e vin­colando la discrezionalità terapeutica allo scopo primario di preservare e ricostruire le possibi­lità di svolgimento e di espansione della perso­nalità dell'infermo.

Anticipo il punto, che cercherò dì giustificare brevemente nel tempo che mi rimane: la tutela della personalità dell'infermo di mente deve es­sere costruita dal giurista a partire dalla identi­ficazione tra scopo di cura e reintegrazione della personalità dell'infermo, e dal primario diritto dell'infermo a essere curato, nel senso di essere aiutato e condotto, in tutto quanto sia possibile, al recupero della capacità di svolgimento della sua personalità.

Mi perdonino gli psichiatri se le proclamazio­ni di principio possono a loro sembrare lontane ed astratte, rispetto alle difficili, qualche volta disperate realtà della follia. In realtà, dal riso­nante principio possono discendere umili indica­zioni.

Il punto di partenza sta, a mio parere, in due domande collegate: il ricoverato coatto - che assumo a termine del discorso perché più fra­gile è, nel suo caso, la barriera difensiva dei di­ritti della personalità - ha diritto a un tratta­mento terapeutico, ad essere cioè considerato come destinatario di cure, e non di sola custodia? e se così è, qual è il contenuto di questo diritto: in quale rapporto sta il diritto al trattamento con il diritto alla tutela della personalità? sono esi­genze parallele, e talora confliggenti, o sono l'una il fulcro dell'altra?

Sul primo punto, non è consentito avere dub­bi, dal momento che, nella nostra legge, il carat­tere obbligatorio riguarda il trattamento sanita­rio, cioè - secondo la lettera degli artt. 33 e 34 della legge 833 - le «cure» e gli «inter­venti terapeutici»: il ricovero è previsto solo in modo strumentale, al fine cioè di realizzare coat­tivamente le cure e gli interventi terapeutici rite­nuti urgenti, non accettati dall'infermo e comunque in presenza di circostanze che non consen­tano di adottare adeguati interventi extra ospedalieri. Inoltre, l'art. 35 comma 5°, prevedendo l'obbligo del sanitario di comunicare al sindaco la sopravvenuta impassibilità a proseguire il trat­tamento, esclude implicitamente qualsiasi prose­cuzione del ricovero a scopo di pura custodia.

Quest'ultima norma dovrebbe bastare a mette­re in mora tutti quegli istituti di cura in cui non esistano le condizioni per un trattamento ade­guato, ma solo quelle che consentono di tratte­nere il malato per evitare che se ne vada per il mondo.

Un utile raffronto, tra gli altri, è offerto a ri­guardo dalle decisioni dei giudici degli Stati Uniti in tema di civil committment, che hanno ripetu­tamente affermato il diritto a un adeguato trat­tamento, e che hanno condizionato la possibilità di mantenere il ricovero alla disponibilità di at­trezzature e personale tali da assicurare un pro­gramma terapeutico misurato sulle singolari ne­cessità del paziente e sull'obiettivo di avvicinar­lo quanto più possibile allo stato di salute: il confinamento, in situazioni di insufficienti risor­se per il trattamento, è ritenuto ingiustificato e illegittimo (HLR, 87, 1321 s.).

La giurisprudenza nordamericana discute se le Corti possano ordinare una riallocazione di risor­se per consentire la realizzazione della terapia. Sarebbe ben interessante, e impegnativo, chie­dersi se il giudice italiano possa condannare l'U.S.L. a una esecuzione specifica dell'obbligo di provvedere al trattamento, posto che nel ri­covero volontario il rapporto tra U.S.L. e pazien­te si ricostruisce normalmente secondo il mo­dello del rapporto contrattuale, che potrebbe fungere da riferimento anche per la disciplina degli obblighi nascenti dal trattamento obbliga­torio e dal ricovero coatto.

Quanto al secondo punto, qual è il contenuto del diritto alla cura? Che significa «cura»? Temi­bile domanda, che ci porterebbe per le più di­verse e lontane strade, fino a attraversare il pro­blema della «nemesi medica» e della qualifica­zione delle attività di mantenimento delta c.d. «vita artificiale».

Nel breve spazio di questa relazione mi è con­sentito, al riguardo, di proporre soltanto qualche affermazione, che spero sia in sé convincente.

La prima è che l'idea di cura si connette all’­idea di salute anche quando la cura non abbia speranza di pieno né di parziale recupero della salute. La cura è sempre l'opera medica che si propone come obiettivo - talora non immedia­to - il massimo benessere della persona nelle condizioni date: e non altro che questo è il sen­so della parola «salute».

Ha un valore la parola «salute» per un anziano cronico che consuma le ultime forze assistito da una miriade di interventi medici, spesso soppor­tabili poco più che i suoi stessi mali? Certo non ha lo stesso valore che assume per un uomo col­to dalla malattia nel pieno delle forze, che chieda a un intervento chirurgico il recupero della sua robusta capacità di vita. Eppure l'idea di salute resta il metro su cui anche il cronico anziano mi­sura i suoi progressi e regressi, il suo «sto me­glio» e «sto peggio»; e la cura ha senso finché ha lo scopo e la capacità di preservare... che cosa? Risponderei senza esitazione: una anche minima possibilità di espressione della personalità dell'infermo.

Salute è - mi permetto una definizione che so essere imprudente - lo stato che consente l'e­spandimento della personalità; misura della sa­lute è la possibilità di far vivere - dalla piena luce al minimo raggio - le proprie risorse intel­lettuali e morali.

Questa definizione consente di porre il diritto allo svolgimento della personalità come fulcro del diritto al trattamento medico e come criterio di determinazione di fini e modalità del tratta­mento medesimo.

Scopo del trattamento diviene quello di recu­perare, e mantenere vitali in quanto ancora esi­stano, le capacità di espandimento della perso­nalità del paziente nelle relazioni con le cose e con le persone.

Tradotto in termini di diritti della personalità, scopo del trattamento diviene la preservazione e il recupero della capacità di esercitare e gode­re i diritti della personalità: della capacità di per­cepire il senso della propria dignità, del proprio pudore, della propria intimità; della capacità di incuriosirsi e informarsi; della capacità dì forma­re e manifestare opinioni; della capacità di per­cepire i rapporti di gruppo e di parteciparvi; del­la capacità di conoscere l'ambiente materiale e di sapervisi liberamente muovere.

Ciò significa che, nell'ambito del trattamento sanitario, ciascun diritto della personalità va concepito anche come un «diritto al diritto», cioè come il diritto a conservare le capacità di eser­cizio di libertà, facoltà, poteri propri al «libero cittadino», e ad alimentare questa capacità attra­verso un ambiente che non solo consenta, ma solleciti comportamenti di esercizio di ciascun diritto.

Dalla proiezione difensiva, si passa allora alla proiezione terapeutica e positiva del contenuto di ciascun diritto della personalità.

Intendo, per essere concreto, che il diritto all’integrità fisica non andrà concepito come il di­ritto a non essere toccati, iniettati o nutriti sen­za consenso. Certo, anche questo, finché possi­bile alla luce di quel famoso «purché» della necessità terapeutica; ma il diritto all'integrità fisica va concepito anche come diritto a essere puliti, cambiati, ben vestiti, pettinati, di piacevole aspetto, di gradevole odore; come il diritto ad essere mantenuti nella capacità di aver cura di sé, ad essere convinti ed aiutati a farlo e infine, se necessario e compatibile con le possibilità terapeutiche, condotti o costretti a farlo.

Il diritto all'informazione non va concepito so­lo come il diritto a poter vedere la televisione o a leggere il giornale ricevuto o raccattato, ma come il diritto a avere gli strumenti per infor­marsi e ad essere sollecitato a mantenersi infor­mato, a conservare, nei modi possibili rispetto alla malattia, la curiosità e l'interesse per gli av­venimenti del mondo.

Il diritto alla corrispondenza non significa solo diritto a ricevere le lettere dei parenti, e a rice­verle chiuse, e a spedire lettere a chi si voglia; significa diritto a che i rapporti epistolari siano mantenuti, incoraggiati e sollecitati, da parte del paziente, dei suoi familiari, degli amici di un tem­po; significa, se necessario, diritto allo scrivano.

Il diritto alla intimità e alla riservatezza signi­fica non solo diritto a non essere violato senza causa nel riserbo, nel pudore, nella piccola si­gnoria sugli oggetti personali, ma diritto ad es­sere sollecitato al pudore e al riserbo, diritto a essere convinto, aiutato, se mai costretto a man­tenere comportamenti di pudore e di riserbo.

Si arriva, così, a un apparente paradosso: il di­ritto al trattamento può risolversi nel diritto ad essere convinti, e in certi casi costretti, a com­portarsi come chi esercita un diritto: a mantene­re, se i colleghi mi passano l'espressione, il pos­sesso dei propri diritti.

Il discorso trascolora, ormai, nelle modalità del trattamento.

È dunque bene che il giurista taccia, conse­gnando agli psichiatri questo solo spunto: i dirit­ti della personalità debbono entrare nel rapporto terapeutico, a tutela dell'infermo di mente, non come limiti negativi alla discrezionalità del me­dico, ma come vincoli interni ad essa; non come regole di ciò che non può o non deve essere fat­to, ma come regole di ciò che deve essere fat­to, essere dato, essere provocato con riguardo all'infermo; come regole, infine, che stabilisco­no contenuti e fini della stessa coazione.

Il diritto del malato può non essere quello al libero svolgimento della personalità, ma dev'es­sere quello al massimo svolgimento della perso­nalità. Egli ha diritto a essere assistito in modo da non dimenticare i suoi diritti.

 

 

(1) Relazione tenuta al convegno «Un nuovo diritto per il malato di mente - Esperienze e soggetti della trasfor­mazione», svoltosi a Trieste il 12-14 giugno 1986.

 

 

 

www.fondazionepromozionesociale.it