INFERMITÀ DI MENTE E
DIRITTI FONDAMENTALI DELLA PERSONA
PAOLO ZATTI (1)
Verso la regola legale, che stabilisce garanzie ed
impone doveri, nasce talvolta un'aspettativa che va
delusa quando la giurisprudenza svela i suoi limiti.
Che così avvenga, in particolare, per i diritti del
malato di mente, è possibile per diverse e complesse ragioni, che sono state in
buona parte indicate nelle relazioni introduttive, e che saranno oggetto di
meditazione nel corso del convegno.
Per parte mia, credo di dover almeno accennare, in
apertura, ad alcune preoccupazioni, che il tempo mi vieta di giustificare come
avrei dovuto.
La prima - non la più seria - è di seguire itinerari
troppo legati al linguaggio e ai pensieri dei giuristi, per i quali hanno peso,
talora, questioni che appaiono a chi ascolta come misteriose ghirlande
concettuali.
Attenzione e misura bastano a superare una reciproca
estraneità di linguaggio. Ma le difficoltà dì comprensione possono
nascondere diversi, e più gravi limiti.
Anzitutto, un'insufficiente esperienza delle cose:
il problema della malattia mentale, se è familiare per diversi aspetti a matrimonialisti e penalisti, è però
nuovo come questione che interpella l'intera gamma delle nostre risorse. Una migliore comprensione dei fatti è ancora necessaria,
perché i giuristi possano proporre modi e misure di tutela del malato, senza
correre il rischio di una perorazione impraticabile.
Ma più a fondo, si celano i limiti stessi del
diritto, il quale conosce l'inutilità delle proclamazioni, l'inerzia delle
sanzioni, le temibili conseguenze della regola legale che non afferra la
realtà e induce effetti di fuga e di elusione, o quel fiscale rispetto che nasconde la
violazione e l'abuso; limiti tanto più prossimi quanto più la norma giuridica
voglia farsi strada di forza nel regno del costume, della deontologia, o della
stessa tecnica.
Ragioni che inducono a prudenza; e che consigliano
anzitutto di mantenere la relazione nell'ambito più ristretto concesso dal
titolo.
Un confronto tra la riflessione dei giuristi sui
diritti della persona e l'intero universo di problemi proprio alla malattia
mentale sarebbe compito irrimediabilmente troppo ampio, se si ritiene che come
aspetti di un generale diritto allo svolgimento della
personalità possano essere studiati, almeno nel caso del malato di mente, non
solo le libertà e le prerogative comprese nel catalogo dei diritti
fondamentali, ma lo stato della persona nei rapporti familiari, la libertà di
iniziativa economica, il diritto al lavoro.
Questo è, d'altra parte, il «nuovo diritto per il
malato di mente»: il terna del nostro convegno; e ciò
mi consente di limitare la mia relazione alla tutela della personalità
dell'infermo nella sua specifica condizione di persona bisognosa di cura,
dunque in occasione o in funzione del trattamento medico.
Le premesse normative non fanno difetto: le norme
della legge 833/1978 che tutelano la «dignità della persona» e i «diritti
civili e politici» all'interno dei trattamenti obbligatori (art. 33, 2° comma)
rinviano all'intero catalogo dei diritti fondamentali; la stessa legge tutela,
in particolare, il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura
(ivi), il diritto del paziente a comunicare con chi ritenga opportuno (comma
6°), e impone l'obbligo di accompagnare il trattamento con iniziative volte ad
assicurare il consenso e la partecipazione da parte
di chi vi è obbligato (comma 5°); a garanzia della libertà e dell'autonomia si
orientano infine le cautele poste per evitare un indebito o inutile prolungamento
del trattamento obbligatorio (art. 35, comma 4° e ss.).
Ma quanto di tutto ciò conserva effettività di fronte
al problema della cura? E come è possibile precisare
queste disposizioni senza aggiungere proclamazione a proclamazione, o senza cadere
in una casistica legale priva di senso nella quotidiana relazione tra medico e
paziente?
Per tentare di avvicinarmi a
una risposta, ho cercato di ancorare le mie riflessioni alla più pedante
concretezza. Mi è parso giusto tradurre le solenni proclamazioni dei diversi diritti fondamentali in immediate esigenze, che
fosse desiderabile e possibile soddisfare all'interno di un trattamento
psichiatrico. Ho quindi posto a me stesso, e a uno
psichiatra amico, domande le più minute e pedanti, quali potrebbe rivolgere una
persona preoccupata di salvare, da ammalato e da ricoverato, qualche lembo
delle proprie libertà quotidiane.
Potrei uscire, s'intende dandone
notizia, dal reparto? sarebbero le porte chiuse o
aperte? avrei con me i miei documenti, i miei vestiti,
le mie scarpe? potrei tenere le mie cose sottochiave,
al riparo dagli altri pazienti e dal personale? potrei
chiudermi nel bagno? dovrei forse sottostare a
ispezioni, o vivere sotto l'occhio vigile di un osservatore umano o elettronico?
potrebbe succedermi d'essere ripreso, a mia insaputa
o senza mio consenso, in foto o film magari a scopo didattico o scientifico? potrei ricevere, chiusa, la mia corrispondenza, e se
scrivessi, sarebbe segreto almeno il contenuto dei miei messaggi? ci sarebbe un telefono, laggiù, e lo potrei usare? potrei farmi portare giornali e libri di mia scelta? e se avessi una radio, la potrei ascoltare? potrei ricevere visite, e potrei star solo quando lo
volessi?
E poi: sarei in grado di rifiutare un farmaco o un
trattamento? potrebbe qualcuno toccarmi senza che io
volessi, prendermi, portarmi a forza qui o là, spogliarmi o rivestirmi senza
che io possa ribellarmi? deciderei con voi qualcosa, o
sarei solo suddito delle vostre decisioni? potrei far
venire il mio medico, e sarebbe ascoltato?
Se non riusciste a curarmi, potrei cambiare, cercare
altri medici e altri reparti? che verità mi direste
sul mio stato, e che cosa sarei in grado di capire? se
tutto fosse o sembrasse inutile, mi tratterreste soltanto per qualche ragione
di sicurezza? provereste davvero a guarirmi, o vi
limitereste a custodirmi?
Le mie domande cadevano su un interlocutore
amichevole e interessato, che non si spazientiva né giudicava le mie richieste,
almeno in linea generale, troppo lontane dal
possibile. Ma dalle sue puntuali risposte, due elementi di fatto venivano grado a grado a concretarsi ai miei occhi di
intervistatore e di giurista.
In primo luogo molto, della mia sorte, dipendeva da
dove io fossi ricoverato e da quale medico avessi incontrato: non esisteva un'uniformità su cui fare affidamento, criteri o costumi
che non avessero l'opinabilità di una discussa deontologia, e la varietà di
inclinazioni legate alla teoria terapeutica e perfino al temperamento personale:
per dirla in breve avrei potuto trovarmi, se non al paradiso, al limbo, al
purgatorio o all'inferno.
In secondo luogo, quand'anche fossi capitato nel
migliore dei mondi psichiatrici possibili - e si sottolineava,
qui, l'aggettivo «possibili» - tutta la gamma di libertà e difese che le mie
domande volevano accertare mi sarebbe stata riconosciuta con un fondamentale e
necessario «purché», una condizione formulata in modo da coincidere con il mio
stesso interesse terapeutico: potrai, purché non sia terapeuticamente
negativo; non subirai, purché non sia terapeuticamente
necessario; cercheremmo di convincerti, perché è terapeuticamente
conveniente oltre che deontologicamente e legalmente
doveroso: ma se poi si dovesse costringerti, lo dovremmo pur fare.
Immaginandomi in tale veste, cercavo di ritagliarmi
una condizione più garantita, precisando all'amico psichiatra che mi
considerasse, nella ipotesi, ricoverato volontario. Ma
ottenevo, così, solo un armistizio, perché spuntava all'orizzonte un più
maiuscolo, e preoccupante «purché»: «purché» il mio stato non divenisse tale da legittimare ed anzi imporre un trattamento obbligatorio
e un ricovero coatto.
Confesso che questa riserva finale - di cui non
potevo contestare la validità - mi metteva nella
massima preoccupazione come immaginario paziente, e mi disarmava come giurista;
mi pareva naturale che, se il passaggio dallo stato di non-infermo - cittadino
autonomo e capace, provveduto di tutti i diritti alla riservatezza, alla
intimità, alla dignità e all'identità personale - a quello di ricoverato coatto
poteva richiedere, sul piano dei fatti oltre che nella previsione normativa,
il superamento di un diaframma di una certa resistenza, molto più labile
sarebbe stato il confine fra i due stati a partire dalla condizione di
ricoverato volontario, infermo per definizione e accettazione, diagnosticato,
osservato, soggetto a un trattamento la cui interruzione poteva essere
ritenuta pericolosa e la cui prosecuzione poteva essere assicurata, appunto,
dal passaggio alla coazione.
La conseguenza, sul piano della disciplina dei
diritti del malato, era una limitata possibilità di
costruzione.
Di ciascun diritto - alla preservazione dell'intimità, alla libertà corporea e personale, all'immagine,
alla dignità - si poteva certo fare affermazione, e proclamare la vigenza
anche all'interno del rapporto terapeutico; ma il peso dello stesso scopo di
cura, e la discrezionalità tecnica del medico, avrebbero reso ogni affermazione
condizionata.
La forza originaria dei diritti della personalità
poteva ritrovarsi sotto un diverso aspetto: quello di vincolarne il sacrificio a un criterio di stretta necessità in vista di un superiore
scopo di cura. Affermazione, in verità, di qualche peso in situazioni
nelle quali la prassi medica sia lontana da un tale standard di rispetto dell'infermo di mente: là dove, cioè, si
apprezzi come superiore esigenza, e si pratichi come regola di organizzazione
e di condotta, la pura eliminazione del pericolo sociale di cui l'infermo di
mente è visto come portatore, così che i confini dello stato di necessità siano
ampliati fino a quanto occorre, in realtà, per una pacifica custodia.
Se anche un caso del genere potesse essere nominato,
non sarebbe irrilevante affermare che l'obbligo di trattamento sanitario apre
bensì alla possibilità di coazione per ogni singolo intervento successivo -
salvo il dovere di ricerca del consenso ex art. 1 della legge 180 - proprio e soltanto perché al trattamento
obbligatorio é coessenziale l'esistenza e la
possibilità di un programma di cura; che, di conseguenza, solo lo scopo positivo di curare consente di superare i limiti comuni
dello stato di necessità nel giustificare comportamenti di lesione della
personalità altrimenti illeciti.
Tornerò più avanti su questo punto. Per ora, osservo
che, se il discorso sui diritti della personalità nel
trattamento psichiatrico si chiudesse qui, correrebbe ancora il rischio della
declamazione; perché l'opinabilità del giudizio sulla necessità funzionale di
qualsiasi effrazione della personalità del malato limiterebbe a estreme
ipotesi la possibilità di controllo dell'abuso del potere da parte del medico.
In sostanza, e sui piano dell'effettività, le regole
legali sui diritti del malato avrebbero vigore fino al limite della necessità
terapeutica: al di là, solo alcune fra esse, le più elementari, potrebbero
filtrare; ogni altro riguardo sarebbe affidato soltanto alla deontologia e
forse alla sola coscienza.
Questo primo, e insoddisfacente esito, consegue in
realtà a una terribile premessa, tacitamente
accettata finché medico e giurista si comportano come avvocati di parti
avverse: considerare i diritti della personalità, nel caso dell'infermo di
mente, come una barriera alla discrezionalità terapeutica, un decalogo di ciò
che medico, infermieri, organizzazione sanitaria non possono o non debbono fare fintantoché, appunto, un superiore
interesse terapeutico non imponga di superare la barriera e impiegare mezzi o
tenere comportamenti altrimenti illegittimi, ma «giustificati» dalle
prevalenti esigenze della cura.
Ma perché - appunto - concepire il rispetto della
personalità del malato come un limite alla potestà terapeutica, anziché come il
suo fine? Perché rivolgersi al medico con la preoccupazione
di difendere il malato, ponendo avanti i diritti della persona come fragili
barriere, per segnare ciò che non deve essere fatto, anziché affermare,
attraverso quei principi, ciò che l'infermo ha diritto ad essere, a ricevere,
a ottenere?
Perché utilizzare la regola legale per limitare
scelte e atti di una istituzione sanitaria che potrebbe,
più spesso del necessario, valersi dei limiti per giustificare l'inerzia?
La domanda, che qui parrà semplice e scontata, scopre
in realtà l'insidia di una concezione solamente «difensiva» dei diritti della
personalità, che costruisce queste armi, di cui veste il singolo, come scudi
levati a proteggerlo dall'abuso dell'autorità e dalle aggressioni dei «nuovi poteri».
L'idea della difesa, della salvaguardia,
della guarentigia, è quella che per prima ci appare se pensiamo alla tutela
della persona umana: è il tenace imprinting
dell'origine, che vede il catalogo dei diritti fondamentali formarsi per opporre,
al potere sovrano, una legge inviolabile di rispetto dell'individuo.
Per valutarne, quanto è possibile con affrettati
accenni, ragioni e limiti conviene forse sottolineare il legame che essa
stabilisce tra diritto e divieto.
L'accento posto sulla salvaguardia
tende a costruire il contenuto del diritto attorno a un comandamento
negativo, rivolto al titolare di un potere e all'autore dell'aggressione: tu
non farai. Tu non entrerai in casa mia, tu non violerai la mia intimità, tu non
farai uso della mia immagine, tu non diffonderai notizie riservate, tu non
dirai di me cose infamanti: diritti che si realizzano tramite divieti o
tramite limiti a diritti e poteri altrui; diritti che
appaiono come aspetti di un più generale
«noli me tangere», che disegna la sfera entro la quale ciascuno di noi sa
di essere al riparo dal potere e dalle aggressioni; dirittiscudo, che si
oppongono per fermare, per respingere, per tenere lontano ciò che
legittimamente percepiamo come invasione e violazione; diritti che
costruiscono, per ciascun singolo, la zona di una Friede personale.
È ben chiaro che la salvaguardia
- il noli me tangere - è per il
soggetto libero e capace un mezzo di libertà, e in essa trascolora: ogni «diritto-scudo» delimita un'area di attività e di
iniziativa, offre riparo al libero svolgimento della personalità; il
comandamento negativo mette al sicuro la libertà e ne consente l'esercizio. Il
diritto di essere solo, respingendo l'invasione,
garantisce la libertà domestica della persona; il diritto all'onore,
preservando la reputazione, garantisce le opportunità delle relazioni sociali,
e così via.
In alcune prerogative, il comandamento negativo si
fa immediatamente funzionale a un espandimento
della autonomia della persona, serve, cioè, solo a rimuovere un ostacolo per
uno specifico esercizio di libertà: tu non mi impedirai di informarmi, tu non
mi impedirai di manifestare il mio pensiero, tu non mi impedirai di avere
amici, tu non limiterai la mia libertà di sposarmi o restare solo, di credere o
non credere, di aderire a un partito o a un sindacato. Ed allora, la positiva pretesa ad essere, a fare, a patere, è compresente
e talvolta prevalente rispetto alla pretesa che altri non faccia, o non
impedisca, non costringa: il diritto a manifestare il pensiero può non
esaurirsi nella pretesa a non esserne impedito, ma affermarsi come diritto a
ricevere mezzi e opportunità per esprimere la propria opinione; e così il
diritto all'informazione, e tanto più il diritto al lavoro, il diritto alla
salute.
È qui il passaggio a una
concezione non più o non solo difensiva, ma attiva, propositiva, dei diritti
della personalità, familiare al commentatore della Costituzione, che legge
nell'art. 2 un principio di promozione della personalità - non già norma di
difesa passiva della sfera personale, ma garanzia dello svolgimento, cioè
della efficace applicazione delle risorse intellettuali, affettive e morali di
ciascuno; che ritrova nell'articolo 3 il diritto alla promozione
dell'eguaglianza, sotto le specie della «rimozione degli ostacoli»; che
riconosce in molti tra i diritti affermati il contenuto di una pretesa verso
lo Stato per la soddisfazione positiva di interessi fondamentali - come
l'istruzione, la salute, il lavoro: diritti a fare, a potere, a essere, e ad
avere ciò che è necessario per potere, essere, e fare.
Questa diversa funzione dei diritti fondamentali è forse meno familiare al privatista, che tende a
utilizzare i diritti della persona soprattutto come schermi all'aggressione del
privato, diretti a respingere intromissioni e violazioni che impediscano di
godere la libertà domestica o di praticare un esercizio di libertà che chiede,
agli altri privati, solo comportamenti astensivi.
Al fondo, la concezione «difensiva» dei diritti della
personalità può vedersi legata all'idea privatistica
di «soggetto», e alla sua proiezione liberale nei rapporti con il potere dello
Stato. Al soggetto eguale per definizione e capace di perseguire
da sé i propri fini, si appresta lo scudo, al cui riparo può, di propria
iniziativa e forza, mettere in opera le proprie risorse personali ed
economiche. Essa suppone un «cittadino» che, lasciato libero e solo, sappia godere solitudine e libertà.
Non a caso un diverso, più complesso, propositiva
contenuto dei diritti della personalità si elabora nello studio delle
situazioni, talvolta a cavalla tra pubblico e privato, in cui è necessario
ottenere e promuovere un effettivo sviluppo della persona: nei rapporti
interni alla famiglia e in particolare nel rapporto educativo, nell'ordinamento della scuola, e in parte, ma con modalità
ovviamente diverse, nella disciplina del rapporto di lavoro.
In particolare, credo che il riferimento alla
posizione del minore possa offrire criteri e indicazioni utili per una buona impostazione del problema di tutela dell'infermo di
mente.
La scelta non è suggerita tanto dall'aspetto dell'incapacità
- che non è una costante nella posizione dell'infermo di mente e che male apparenta,
in una omogenea figura di incapacità legale, le due
lontanissime esperienze della personalità in formazione e della personalità
che manifesta o rischia la propria disgregazione.
Quel che invece interessa, è che la tutela della
personalità del minore si deve inserire in un rapporto di soggezione, deve affermarsi
cioè con riferimento a un ufficio - potestà dei
genitori, funzioni delegate o originarie dei «precettori» - che porta in sé il
vincolo di scopo all'esclusivo interesse del minore e ad un tempo ad interessi
di ordine pubblico che vengano spesso percepiti come «superiori»: e che proprio
per questo carattere funzionale, si vede attribuire, per antico e resistente
equivoco, quasi un'intrinseca idoneità a procurare il miglior bene del minore,
fino al limite del comportamento illecito secondo i comuni criteri di
valutazione.
La teoria dei diritti della personalità si inserisce efficacemente nella ricostruzione di rapporti
di questa tipo quando supera la funzione puramente difensiva, di scudo e di
limite negativo al potere dell'autorità familiare o scolastica che sia, e
inserisce il suo valore dominante all'interno dello scopo che vincola il
potere, ricavando, di qui, non un decalogo di comandamenti negativi, ma una
gamma di comportamenti positivi, di doveri imposti al titolare della potestà
per perseguire positivamente ciascuno dei valori personali che i diversi
diritti tutelano.
Il riferimento costante all'art. 2 Cost. non è, in questo ordine di ragionamenti, un passaggio rituale o una
legittimazione proclamatoria: il senso del collegamento tra il catalogo dei
diritti fondamentali e l'art. 2 Cost. sta nel rendere la affermazione di
ciascun diritto funzionale alla finalità di svolgimento, di espandimento della personalità del singolo.
Lascio l'analogia prima che divenga
troppo vincolante, e perciò necessariamente inadeguata; e torno all'infermo di
mente e al suo rapporto di cura.
Il rapporto terapeutico istituisce una soggezione funzionale alla cura. Nel trattamento volontario, essa
ha fonte in un affidamento che il malato fa al medico, nelle cui mani pone la
sua salute riconoscendogli il potere di indirizzare, a fini di cura, tutti i
suoi atti e aprendo, alla discrezione del medico, le zone altrimenti custodite
della sua intimità personale, dei suoi rapporti familiari e sociali, della sua
stessa integrità fisica; ho già ricordato come, fatto questo affidamento,
il malato mentale dia al medico, di fatto, anche una più prossima possibilità
di verificare le condizioni di un trattamento obbligatorio, e di istituire con
ciò una soggezione più estesa e non più removibile per volontà del paziente.
La teoria dei diritti della personalità non deve
inserirsi in questo rapporto solo per affermare una protezione difensiva del
malato, una barriera all'abuso costruita affiancando l'uno all'altro, come pali di uno steccato, i diversi diritti della personalità:
di questo itinerario è certa una qualche utilità, ma si sono intravisti i
limiti.
La tutela della personalità deve affermarsi invece
collocando il suo proprio valore come legge
fondamentale della soggezione stessa, e vincolando la discrezionalità
terapeutica allo scopo primario di preservare e ricostruire le possibilità di
svolgimento e di espansione della personalità dell'infermo.
Anticipo il punto, che cercherò
dì giustificare brevemente nel tempo che mi rimane: la tutela della personalità dell'infermo di mente deve essere
costruita dal giurista a partire dalla identificazione tra scopo di cura e
reintegrazione della personalità dell'infermo, e dal primario diritto
dell'infermo a essere curato, nel senso di essere aiutato e condotto, in tutto
quanto sia possibile, al recupero della capacità di svolgimento della sua personalità.
Mi perdonino gli psichiatri se le proclamazioni di
principio possono a loro sembrare lontane ed astratte, rispetto alle difficili, qualche volta disperate realtà della follia.
In realtà, dal risonante principio possono discendere
umili indicazioni.
Il punto di partenza sta, a mio parere, in due
domande collegate: il ricoverato coatto - che assumo a termine del discorso
perché più fragile è, nel suo caso, la barriera difensiva dei
diritti della personalità - ha diritto a un trattamento terapeutico,
ad essere cioè considerato come destinatario di cure, e non di sola custodia? e se così è, qual è il contenuto di questo diritto: in quale
rapporto sta il diritto al trattamento con il diritto alla tutela della
personalità? sono esigenze parallele, e talora confliggenti, o sono l'una il fulcro dell'altra?
Sul primo punto, non è consentito avere dubbi, dal momento che, nella nostra legge, il carattere
obbligatorio riguarda il trattamento sanitario, cioè - secondo la lettera
degli artt. 33 e 34 della legge 833 - le «cure» e gli
«interventi terapeutici»: il ricovero è previsto solo in modo strumentale, al
fine cioè di realizzare coattivamente le cure e gli
interventi terapeutici ritenuti urgenti, non accettati dall'infermo e comunque
in presenza di circostanze che non consentano di adottare adeguati interventi
extra ospedalieri. Inoltre, l'art. 35 comma 5°, prevedendo l'obbligo del
sanitario di comunicare al sindaco la sopravvenuta impassibilità a proseguire
il trattamento, esclude implicitamente qualsiasi prosecuzione
del ricovero a scopo di pura custodia.
Quest'ultima norma dovrebbe bastare a mettere
in mora tutti quegli istituti di cura in cui non esistano le condizioni per un
trattamento adeguato, ma solo quelle che consentono di trattenere il malato
per evitare che se ne vada per il mondo.
Un utile raffronto, tra gli altri, è offerto a riguardo
dalle decisioni dei giudici degli Stati Uniti in tema di civil committment, che hanno
ripetutamente affermato il diritto a un adeguato trattamento, e che hanno
condizionato la possibilità di mantenere il ricovero alla disponibilità di attrezzature
e personale tali da assicurare un programma terapeutico misurato sulle
singolari necessità del paziente e sull'obiettivo di avvicinarlo quanto più possibile
allo stato di salute: il confinamento, in situazioni
di insufficienti risorse per il trattamento, è ritenuto ingiustificato e
illegittimo (HLR, 87, 1321 s.).
La giurisprudenza nordamericana discute se le Corti possano ordinare una riallocazione
di risorse per consentire la realizzazione della terapia. Sarebbe ben
interessante, e impegnativo, chiedersi se il giudice italiano possa condannare l'U.S.L. a una esecuzione specifica
dell'obbligo di provvedere al trattamento, posto che nel ricovero volontario
il rapporto tra U.S.L. e paziente si ricostruisce normalmente secondo il modello
del rapporto contrattuale, che potrebbe fungere da riferimento anche per la
disciplina degli obblighi nascenti dal trattamento obbligatorio e dal ricovero
coatto.
Quanto al secondo punto, qual è il contenuto del
diritto alla cura? Che significa «cura»? Temibile domanda, che ci porterebbe per le più diverse e
lontane strade, fino a attraversare il problema della
«nemesi medica» e della qualificazione delle attività di mantenimento delta
c.d. «vita artificiale».
Nel breve spazio di questa relazione mi è consentito,
al riguardo, di proporre soltanto qualche affermazione, che spero sia in sé convincente.
La prima è che l'idea di cura si connette all’idea di salute anche quando la cura non abbia speranza di
pieno né di parziale recupero della salute. La cura è sempre l'opera medica che
si propone come obiettivo - talora non immediato - il massimo benessere della
persona nelle condizioni date: e non altro che questo è il senso
della parola «salute».
Ha un valore la parola «salute» per un anziano
cronico che consuma le ultime forze assistito da una
miriade di interventi medici, spesso sopportabili poco più che i suoi stessi
mali? Certo non ha lo stesso valore che assume per un uomo colto dalla
malattia nel pieno delle forze, che chieda a un
intervento chirurgico il recupero della sua robusta capacità di vita. Eppure l'idea
di salute resta il metro su cui anche il cronico anziano misura i suoi
progressi e regressi, il suo «sto meglio» e «sto
peggio»; e la cura ha senso finché ha lo scopo e la capacità di preservare...
che cosa? Risponderei senza esitazione: una anche minima possibilità di espressione della personalità dell'infermo.
Salute è - mi permetto una definizione che so essere
imprudente - lo stato che consente l'espandimento della personalità; misura della salute è la possibilità di far vivere - dalla piena luce al
minimo raggio - le proprie risorse intellettuali e morali.
Questa definizione consente di porre il diritto allo
svolgimento della personalità come fulcro del diritto al trattamento medico e
come criterio di determinazione di fini e modalità del trattamento
medesimo.
Scopo del
trattamento diviene quello di recuperare, e mantenere vitali in quanto ancora
esistano, le capacità di espandimento
della personalità del paziente nelle relazioni con le cose e con le persone.
Tradotto in termini di diritti della personalità, scopo del trattamento diviene la
preservazione e il recupero della capacità di esercitare e godere i diritti
della personalità: della capacità di percepire il
senso della propria dignità, del proprio pudore, della propria intimità; della
capacità di incuriosirsi e informarsi; della capacità dì formare e manifestare
opinioni; della capacità di percepire i rapporti di gruppo e di parteciparvi;
della capacità di conoscere l'ambiente materiale e di sapervisi
liberamente muovere.
Ciò significa che, nell'ambito del trattamento
sanitario, ciascun diritto della personalità va concepito anche come un
«diritto al diritto», cioè come il diritto a
conservare le capacità di esercizio di libertà, facoltà, poteri propri al
«libero cittadino», e ad alimentare questa capacità attraverso un ambiente che
non solo consenta, ma solleciti comportamenti di esercizio di ciascun diritto.
Dalla proiezione difensiva, si passa allora alla
proiezione terapeutica e positiva del contenuto di
ciascun diritto della personalità.
Intendo, per essere concreto, che il diritto
all’integrità fisica non andrà concepito come il diritto a non essere toccati,
iniettati o nutriti senza consenso. Certo, anche
questo, finché possibile alla luce di quel famoso «purché» della necessità
terapeutica; ma il diritto all'integrità fisica va concepito anche come diritto
a essere puliti, cambiati, ben vestiti, pettinati, di
piacevole aspetto, di gradevole odore; come il diritto ad essere mantenuti
nella capacità di aver cura di sé, ad essere convinti ed aiutati a farlo e
infine, se necessario e compatibile con le possibilità terapeutiche, condotti o
costretti a farlo.
Il diritto all'informazione non va concepito solo come il diritto a poter vedere la televisione o a
leggere il giornale ricevuto o raccattato, ma come il diritto a avere gli
strumenti per informarsi e ad essere sollecitato a mantenersi informato, a
conservare, nei modi possibili rispetto alla malattia, la curiosità e
l'interesse per gli avvenimenti del mondo.
Il diritto alla corrispondenza non significa solo
diritto a ricevere le lettere dei parenti, e a riceverle chiuse, e a spedire
lettere a chi si voglia; significa diritto a che i
rapporti epistolari siano mantenuti, incoraggiati e sollecitati, da parte del
paziente, dei suoi familiari, degli amici di un tempo; significa, se
necessario, diritto allo scrivano.
Il diritto alla intimità e
alla riservatezza significa non solo diritto a non essere violato senza causa
nel riserbo, nel pudore, nella piccola signoria sugli oggetti personali, ma
diritto ad essere sollecitato al pudore e al riserbo, diritto a essere convinto,
aiutato, se mai costretto a mantenere comportamenti di pudore e di riserbo.
Si arriva, così, a un
apparente paradosso: il diritto al trattamento può risolversi nel diritto ad
essere convinti, e in certi casi costretti, a comportarsi come chi esercita un
diritto: a mantenere, se i colleghi mi passano l'espressione, il possesso dei
propri diritti.
Il discorso trascolora, ormai, nelle modalità del
trattamento.
È dunque bene che il giurista taccia, consegnando
agli psichiatri questo solo spunto: i diritti della personalità debbono entrare nel rapporto terapeutico, a tutela
dell'infermo di mente, non come limiti negativi alla discrezionalità del medico,
ma come vincoli interni ad essa; non come regole di ciò che non può o non deve
essere fatto, ma come regole di ciò che deve essere fatto, essere dato,
essere provocato con riguardo all'infermo; come regole, infine, che stabiliscono
contenuti e fini della stessa coazione.
Il diritto del malato può non essere quello al libero svolgimento della personalità, ma dev'essere quello
al massimo svolgimento della personalità.
Egli ha diritto a essere assistito in modo da non
dimenticare i suoi diritti.
(1) Relazione tenuta al convegno «Un
nuovo diritto per il malato di mente - Esperienze e soggetti della trasformazione»,
svoltosi a Trieste il 12-14 giugno 1986.
www.fondazionepromozionesociale.it