Prospettive assistenziali, n. 77, gennaio-marzo 1987

 

 

PROFILI DELL'INFERMITÀ DI MENTE NEL DIRITTO PRIVATO

PAOLO CENDON (1)

 

 

I rapporti tra follia e diritto

Fare il punto sui rapporti che intercorrono fra infermità di mente e sistema giuridico, o più sem­plicemente tra follia e diritto, è ai giorni nostri tutt'altro che semplice. Pochi altri intrecci, già a prima vista, si presentano egualmente confusi e suggestivi, così ricchi di corrispondenze e di enigmi: tanto che, a volte, il suono stesso del bi­nomio sembra ridursi pressoché ad un'unica cosa, mentre, altre volte, ognuno dei due termini di­venta quasi il simbolo o il sinonimo dell'esatto contrario dell'altro.

Basta pensare anche al linguaggio di ogni gior­no, a frasi o a espressioni del tipo «questa è una follia», «tu mi fai impazzire», «lei è mat­to»: chi non si è mai rivolto così a qualcun altro, volendo dirgli in realtà «tu non puoi dire ciò che stai dicendo», «tu non hai il diritto di fare questo»?

E chi non ha mai letto o ascoltato locuzioni quali «la follia del diritto», profferite da chi vo­leva alludere alle aberrazioni o all'imbarbarimen­to di un determinato ordinamento giuridico? O invece «il diritto alla follia», inteso questa vol­ta, magari in modo un po' romantico e sessantot­tesco, come diritto alla fantasia, diritto ad essere diversi e felici?

Si potrebbe continuare ancora a lungo. Dagli inizi dell'istituzione manicomiale, ricostruiti tut­ti in chiave di stretta connessione con la nascita storica del modello carcerario, ai tanti episodi degli ultimi decenni: le condanne inflitte a certi direttori di manicomi giudiziari, le violenze con­tro donne minorate, i processi a qualche psichia­tra aguzzino: i delitti commessi da un «matto» nei fogli di cronaca nera o nelle stesse prime pagine dei giornali.

Ecco, guardando proprio a questi ultimi episodi, c'è forse un dato che colpisce l'attenzione. Si tratta sempre di casi di rapporto tra infermità di mente e diritto penale. E, anche nell'arco di tem­po a noi più prossimo, esempi del genere non mancano. La nuova legge sulla violenza sessua­le, con tutte le dispute circa i rischi - di pos­sibile ghettizzazione sessuale - minacciati da un'automatica qualifica di stupro per i contatti intercorsi con un malato di mente. Oppure la recente sentenza della Corte costituzionale in tema di pericolosità dell'infermo psichico e di manicomio giudiziario, le perizie psichiatriche ai camorristi, la proposta di legge V. Grossi sulla abolizione dell'infermità di mente come causa di esclusione dalla punibilità.

Ce n'è abbastanza allora per spiegare - tenu­to conto della gravità e dolorosità di momenti come il reato e la sanzione - il perché di una propensione così diffusa, presso la nostra cultu­ra del passato, a vedere e a sistemare ogni pos­sibile nodo della follia sul versante pressoché esclusivo del diritto penale. Un risultato cui ha concorso senza dubbio l'inclinazione di tanti psi­chiatri a misurarsi e a identificarsi spontanea­mente nei problemi giuridici più simili a quelli della propria pratica quotidiana: problemi cioè di libertà perduta, di trattamenti coatti, di violen­za, di istituzioni cattive, ossia appunto i problemi che sono caratteristici del diritto penale.

 

La legge 180/78

Se tutto questo appare comprensibile, è invece meno facile accettare che la stessa impostazione possa mantenersi inalterata, nei giuristi come presso gli psichiatri, anche dopo l'approvazione della legge 13 maggio 1978, n. 180.

Non che il diritto penale ovviamente - e i suoi nodi specifici, e la questione dei suoi vari rap­porti con l'infermità di mente, nel processo, all'interno del carcere, dentro il manicomio giudi­ziario -, non che profili del genere non siano anch'essi destinati a risentire, in maniera spic­cata, dell'avvento di tale riforma.

Basta pensare alla frequenza con cui l'eco di alcuni primi influssi, dalla revisione della nozio­ne di pericolosità, sino al tema dei servizi psi­chiatrici nei luoghi di detenzione, o al declino dello stesso concetto di incapacità di intendere e volere, si è fatta sentire ultimamente in sede sia teorica che pratica.

E tuttavia, guardando ai cambiamenti, lungo tutto l'orizzonte del sistema, l'impressione è che non vi sia quasi confronto con l'impatto - ben diverso e più profondo - che la chiusura decre­tata al manicomio è destinata ad esercitare sul terreno del diritto civile.

Un segnale è anche offerto dal ristagno che fa letteratura criminologica accusa su questi temi da qualche tempo, a paragone della fioritura che sta invece registrando ultimamente la produzione civilistica, con l'uscita di tutta una serie di monografie, di rassegne, di saggi, e addi­rittura con la nascita dì convegni. Mentre, fino a pochi anni or sono, gli scritti sulla rilevanza dell'infermità di mente nel diritto privato, magari di autori già affermati, potevano finire anche respin­ti da alcune nostre riviste giuridiche: e respinti proprio in base all'argomento secondo cui ricer­che del genere - così insolite, sinistre e socio­logizzanti - non avrebbero saputo interessare nessun giudice, notaio o avvocato.

 

Il tramonto del manicomio e il diritto privato

Tutto questo però non meraviglia. Quale inte­resse può in effetti suscitare, nello studioso del diritto civile, un tema come l'infermità di mente, fintantoché l'ospedale psichiatrico esiste ancora, e rimane anzi la sola risposta escogitata per ge­stire i problemi del disagio mentale? E quale cu­riosità potrebbe mai avvertire lo stesso opera­tore sanitario, dal buio del manicomio, per le varie questioni civilistiche? Poco interesse, e nessuna curiosità, senza alcun dubbio. E non è un caso infatti che, delle varie disposizioni pre­senti nel nostro codice civile, buone o cattive ch'esse fossero, così pochi autori si siano occu­pati seriamente.

Una persona che sia rinchiusa entro le mura di un'istituzione totale non stipula contratti im­portanti, non firma assegni o cambiali, non entra in nessuna associazione, non provoca incidenti stradali, non si sposa e non adotta bambini. Ecco allora che leggi risalenti a qualche decennio, o vecchie anche di secoli, possono facilmente re­sistere imperterrite, tutte uguali nel fatto di restare comunque lettera morta, di non trovare occasioni di applicazione effettiva, fuori o dentro alle aule giudiziarie.

Tutto invece cambia sostanzialmente con l'ap­provazione di una legge che, come la 180/78, smantella l'ospedale psichiatrico, e immette o trattiene l'infermo nel suo ambiente sociale. Da quel momento, infatti. anche i soggetti sofferenti di disturbi psichici si trovano ormai ad operare in un tessuto quotidiano che è intrecciato di rapporti patrimoniali grandi e piccoli, di problemi continui di lavoro, di iniziative economiche da assumere d da fronteggiare, di contatti familiari e associativi, di possibili danni da risarcire.

E anche in questo si rende manifesta una differenza di non poco conto, rispetto al diritto pe­nale.

Malgrado l’approvazione della 180, e al di là del clamore che alcuni casi di cronaca possono suscitare, il numero complessivo dei «matti» che commettono un reato - e ai quali le nuove elaborazioni in materia di incapacità e di pena dovrebbero applicarsi - continua in realtà a rimanere molto esiguo, un'entità statisticamente trascurabile.

Invece, da sette anni a questa parte, la cre­scente maggioranza degli infermi di mente figu­ra mantenuta, o reintrodotta progressivamente, nel contesto del suo ambiente sociale. Non poche o sporadiche eccezioni, ma un'alta percentuale di individui a stretto contatto con il prossimo, soggetta a fare i conti con il diritto privato così come qualsiasi altra persona.

 

I diritti fondamentali dell'infermo psichico

Non è possibile affrontare in questa sede l'ana­lisi di tutti i momenti che occorrerebbe porre al centro di una riforma, o di una rilettura, della normativa civilistica in tema di infermità di men­te. Ma è opportuno accennare perlomeno ai trat­ti più importanti da correggere.

Cominciamo allora dicendo che, se a tutt'oggi esistesse ancora il manicomio - se cioè gli at­tuali residui psichiatrici fossero ancora qualcosa di ufficiale e di fisiologico e non, come sono in­vece, ospedali per così dire fuori legge, o quan­tomeno istituti messi al bando dal legislatore, e condannati presto o tardi a scomparire -, se insomma le cose stessero esattamente come prima del 1978, ebbene, in questo caso non v'è dubbio che, in cima alla lista delle cose sulle quali intervenire, per il giurista, vi sarebbe il ca­pitolo dei diritti soggettivi dell'infermo di mente.

Diritti stabiliti nella Costituzione, e qualche volta presenti nella normativa internazionale. Op­pure prerogative disciplinate nel codice civile, in altre sedi della legislazione ordinaria, talora enu­cleate creativamente dalla giurisprudenza.

Diritto alla vita, in primo luogo, diritto all'inte­grità fisica e psichica, alla salute, alla libertà di movimento. Diritto a ricevere le cure necessarie, e a non venire abbandonati nel corso della loro esecuzione, a conoscere preventivamente rischi e controindicazioni di ogni terapia, e comunque a non subire trattamenti violenti e dannosi. Di­ritto a vedere sempre rispettati onore, segreti, decoro e riservatezza. In poche parole, diritto a non finire mai più in manicomio.

Oggi tutte queste notazioni potranno apparire, magari, prive di un diretto valore pratico: ed è naturalmente una fortuna.

Ma. intanto, resterebbe da accertare fino a che punto i diritti del paziente vengono effettivamen­te rispettati nei regolamenti interni, e nella pras­si quotidiana, degli attuali manicomi giudiziari, dei residui ospedalieri sopravvissuti, di tutte le cliniche private che ospitano malati di mente.

E può darsi poi che non sia tanto superfluo ram­mentare - a chi stesse eventualmente coltivan­do propositi di restaurazione - quali e quanti siano i test di legittimità costituzionale che do­vrebbe affrontare e superare qualsiasi ipotetico progetto mirante a reintrodurre, nel nostro si­stema, una versione pura e semplice del mani­comio o qualche sua odierna riedizione.

Si potrà ribattere che la vecchia legislazione psichiatrica è sempre riuscita a non cadere, fino al 1978, sotto la falce della Corte costituzionale. Ma l'osservazione, anche al di là di ogni richiamo allo «stralcio Mariotti» del 1968 (che aveva con­tribuito a migliorare alcuni punti di quella trama normativa, smussandone così l'impatto comples­sivo rispetto al nostro testo fondamentale), sa­rebbe tutt'altro che risolutiva.

Quanti non sono infatti gli esempi di leggi pas­sate che, dopo aver attraversato immuni quel controllo una prima volta, successivamente in­vece - mutato ormai il clima culturale del pae­se, anche a breve distanza di tempo, alla luce di un vaglio più cosciente circa il vero stato delle cose - sono apparse invece incompatibili con la Costituzione, finendo cancellate in tutto o in parte dall'ordinamento giuridico italiano?

 

Il problema dell'interdizione

Un'altra serie di questioni delicate, nel campo dell'infermità di mente, si pone poi con riguardo ai cosiddetti istituti di protezione complessiva, ossia l'interdizione e l'inabilitazione.

Anche qui vi è, per l'interprete, un nodo da spezzare inizialmente. E si tratta del pregiudizio che vede o che vorrebbe legati fra loro, in una sorta di equazione indissolubile, i due momenti della salvaguardia degli interessi dell'infermo psichico, da un lato, e della sua dichiarazione giu­diziale di incapacità, dall'altro lato.

Come se ogni interdetto o inabilitato potesse dirsi, per ciò stesso, protetto dal diritto nel mi­glior modo possibile. E quasi che la sola strada per non lasciare indifeso chi soffre di disturbi psichici, fosse quella di intervenire drasticamen­te sul terreno della sua capacità legale.

Ciò non significa - per soffermarci in parti­colare sull'interdizione - che in nessun caso e per nessun individuo si dovrebbe giungere mai a una pronuncia del genere, o addirittura che l'istituto stesso andrebbe espunto radicalmente dal seno stesso del codice civile.

Esistono purtroppo situazioni (basta pensare a talune forme di oligofrenia, o agli stati psicotici più gravi) in cui le risorse mentali della persona appaiono compromesse tanto acutamente, e con speranze così basse di recupero, da rendere ine­vitabile l'ablazione formale della proprietà e la nomina di un rappresentante legale.

Un provvedimento di semplice inabilitazione non potrebbe infatti valere allo scopo, in casi del genere, mancando nel soggetto anche la mi­nima attitudine a porre in essere manifestazioni di volontà, comprese quelle strettamente neces­sarie alla sua esistenza: quali, ad esempio, il prelievo occasionale da un libretto di risparmio, la periodica riscossione di una pensione, l'acqui­sto di beni di consumo.

E la forte probabilità che ogni negozio di una certa importanza, se mai l'individuo giungesse a formarlo da solo, riuscirebbe di danno alla perso­na stessa o al suo patrimonio, impone per l'ap­punto in via preventiva - e giustifica altresì ver­so l'esterno - un assetto in cui l'invalidazione dell'atto potrà avere luogo, poi, indipendente­mente dalla buona o male fede della controparte.

Anche la preoccupazione per i risvolti più in­grati dell'interdizione e dell'inabilitazione - per il suggello pubblicitario, cioè, ch'esse imprimo­no esteriormente al «marchio della follia» - cessa di rappresentare, in condizioni tanto acute di sofferenza, un argomento determinante con­tro il ricorso a queste soluzioni.

È vero infatti che la pronuncia giudiziale avrà l'effetto di consolidare, e probabilmente di ac­crescere, con la forza stessa dei fatti burocra­tici, le reazioni di chiusura e diffidenza nei con­fronti di chi lo subisce, lungo tutto l'orizzonte circostante. Ma quando esiste la certezza ragio­nevole che la salute mentale è perduta al cento per cento, o comunque irraggiungibile per sem­pre, tornano a prendere sopravvento le ragioni favorevoli all'idea di una protezione stabilizzata.

Non v'è più infatti da paventare, fortunata­mente, la potenzialità di quel dato anagrafico a farsi ricordare in modo costante, a connotare ne­gativamente l'individuo per tutto il resto dell'esi­stenza. E, soprattutto, viene meno il timore di un possibile effetto di stigmatizzazione sociale - presso i terzi - destinato a perpetuarsi e a risorgere continuamente anche in futuro: anche cioè nel tempo successivo al momento in cui la salute mentale fosse stata, oramai, recupera­ta pienamente.

 

L'accertamento giudiziale dell'infermità di mente

Schierarsi per il mantenimento testuale della interdizione, tuttavia, non vuol dire affatto che nella disciplina codicistica dell'istituto non esi­stano anche aspetti da rettificare, o che le mo­dalità con cui ha luogo la sua applicazione, nella pratica quotidiana, siano abitualmente quelle che dovrebbero.

Le riserve, su questo e su quel piano, sono anzi importanti e numerose.

Da più parti, ad esempio, è stato anche recen­temente documentato l'eccesso di sbrigatività e di empirismo con cui si svolge talvolta - presso alcuni dei nostri tribunali, anche là dove forse il verdetto non sarebbe in partenza così ovvio - l'accertamento circa il requisito di «abitualità» nello stato di infermità psichica (art. 414 c.c.).

Senza, cioè, contatti sufficientemente ricchi e approfonditi fra il giudice e il soggetto da inter­dire, e con un ruolo puramente nominale da parte del pubblico ministero - e quasi mai sulla base del previo svolgimento, che la legge del resto non prevede, di perizie psichiatriche vere e pro­prie. Ecco un primo punto da correggere.

 

La cura della persona dell'interdetto

Per altri versi, come si è osservato, risulta troppo labile e generico - nel testo del codice civile - l'accenno alla cura della «persona» dell'interdetto, quale filo che dovrebbe illumina­re l'intero operato del tutore.

Le conseguenze, come avverte l'esperienza, si fanno poi sentire non di rado. L'indifferenza e la mancanza di premure appaiono i pericoli maggio­ri: e v'è il rischio in particolare che, nel nome della parsimonia, ma in realtà per sordità affet­tiva, o per mere ragioni di calcolo individuale, l'appagamento di troppi fra i desideri espressi dall'infermo di mente finisca per essere rinviato senza limiti di tempo, dal rappresentante legale, sino a non realizzarsi in ipotesi mai più: sia pure con indubbi benefici per la consistenza finanzia­ria di quel certo patrimonio, vantaggio di cui verranno tuttavia a profittare gli eredi in attesa - magari la persona stessa del tutore, o qualcu­no dei suoi congiunti.

Occorre che le scelte gestorie, invece, possa­no venire sindacate e capovolte dal giudice - e, al limite, il tutore stesso rimosso dal suo uffi­cio - non soltanto quando si è al cospetto di abusi o di irregolarità in senso proprio: ma anche in tutti i casi nei quali, al di là di specifici ille­citi, il grado di benessere assicurato giorno per giorno all'infermo appaia ingiustificatamente in­feriore, o diverso nella qualità, oppure in dettagli significativi, rispetto a quanto i redditi e le so­stanze da amministrare consentirebbero.

 

La scelta del tutore

Un problema ulteriore, collegato a quest'ulti­mo, riguarda poi la scelta di coloro cui l'ufficio di tutore va affidato.

Spesso, qui, la prassi delle corti rivela orien­tamenti discutibili, originati apparentemente da eccessi di rigorismo legale, comunque da una sopravvalutazione circa l'importanza dei profili contabili e burocratici dell'istituto.

Si finisce così per optare a favore di soggetti tanto ricchi di affidabilità, dal punto di vista pro­fessionale, quanto distanti fisicamente dalla real­tà dell'infermo di mente - non sempre, quindi, al corrente delle necessità che quest'ultimo ven­ga manifestando, e impossibilitati a soddisfarle con la tempestività che servirebbe.

Difficoltà di natura contingente, come l'assen­za in certe zone del paese di Centri di salute mentale, o come i dubbi sulla erigibilità delle Unità sanitarie locali a persone giuridiche, po­tranno forse giustificare in qualche caso il ricor­so a nomine del genere. Ma in prospettiva occor­rerebbe che la scelta - quando i familiari dell'in­terdicendo non esistono, o non appaiono comun­que idonei a ricoprire quel ruolo - seguisse itinerari più realistici, miranti a un risultato che si attagli al bene dei soggetti da proteggere: in cui, cioè, l'amministrazione figuri assegnata sta­bilmente (poco importa se con, oppure senza, di­retta attribuzione della rappresentanza legale) agli operatori sociali-sanitari dei servizi interes­sati.

Si semplifica in tal modo la catena dei passag­gi «paziente - operatore psichiatrico - tutore - organo giudiziario», con benefici di snellezza am­ministrativa, e abbreviazione dei tempi di rispo­sta rispetto all'insorgenza dei bisogni, che non occorre certo evidenziare: mentre il vaglio del magistrato, per se stesso, resterà sempre un elemento sufficiente a mantenere nella combina­zione la presenza di quei filtri e controlli - di ordine tecnico - che appaiono indispensabili per la correttezza formale dell'esercizio.

 

Gli infermi di mente capaci legalmente

Rimarrebbero altre norme da discutere, fra quelle che il codice prevede in tema di tutela e curatela - ad esempio, sui criteri di gestione dei redditi e dei beni dell'infermo. Si pensi in particolare all'art. 372 c.c., il quale fissa una se­rie di indirizzi poco adeguati, o proprio anacro­nistici, rispetto a una moderna economia - non sempre quindi rispondenti all'esigenza che i ca­pitali dell'infermo, entro certi limiti di rischio, possano venire collocati nel modo più fruttuoso possibile.

Ma i problemi più seri, sempre con riguardo alle figure di protezione complessiva, sono forse quelli che si affacciano giorno per giorno al di fuori di quest'area istituzionale, nel campo stes­so della capacità di agire.

È il caso, in particolare, di tutte le persone le quali versano in uno stato intermedio di salute, costantemente o periodicamente in bilico fra mo­menti di disagio e fasi di benessere psichico.

Individui, cioè, toccati nelle proprie facoltà in­tellettive e volitive non in misura tanto grave da avere già subito, o da dover conoscere nell'im­mediato futuro, un provvedimento di interdizione o di inabilitazione. E tuttavia nemmeno in con­dizioni mentali sufficientemente buone, o abba­stanza continue e sicure, da poter essere abban­donate nel corso dell'avvenire - non almeno per qualsiasi negozio, o in tutti i frangenti dell'esi­stenza - completamente in balia di se stessi.

La situazione è tutt'altro che infrequente. E a segnalarlo (anche a parte ogni statistica, ben poco attendibile in quest'ambito) basterebbe un semplice dato di esperienza quotidiana, fornito dal campionario di individui sofferenti di distur­bi mentali, che ciascuno può incontrare o cono­scere entro la propria cerchia.

Un ventaglio complessivo in cui - di regola - maggiore è senza dubbio la percentuale di coloro che non risultano affatto interdetti o inabilitati, rispetto alla cifra delle persone fatte oggetto di simili provvedimenti.

La capacità legale, insomma, è saldamente di casa nelle cliniche psichiatriche, negli istituti ospedalieri privati, nei Centri dì igiene mentale; e ancor più rappresenta la norma all'esterno dei luoghi di cura.

Né tutto si ferma alla cronaca, a mere evi­denze autobiografiche. Basterebbe rammentare, più ampiamente, quanto varia e intricata è la gamma delle sindromi passeggere, dei malesseri intermittenti, dei quadri patologici borderline - o sospesi fra psicosi e nevrosi - di cui appaiono costellate le pagine dell'intera letteratura sulle malattie mentali. La difficoltà di comunicazione fra le scienze potrà spiegare forse come mai, presso i giuristi, circolino tanto spesso formu­lazioni imperniate sull'automatismo - e quasi sull'interscambiabilità - fra sofferenza psichica e incapacità di intendere e volere. Ma il ritardo in questo caso non è piccolo, se è vero che il panorama di cui sopra, anche a voler trascurare tutto quanto è stato scritto in materia di psica­nalisi, si fa ammirare nelle opere di psichiatria da oltre cent'anni ai giorni nostri.

Certamente, vi è anche il caso di individui che, pur versando in uno stato di vistosa altera­zione psichica, sono rimasti per la legge come gli altri, formalmente capaci di agire. E non im­porta qui indagare sui fattori contingenti - quali l'assenza o l'incuria dei congiunti, o il riserbo degli stessi a ufficializzare circostanze imbaraz­zanti per tutta la famiglia, o magari l'esiguità del patrimonio dell'infermo, e comunque l'inerzia del pubblico ministero - che volta a volta possono essere stati all'origine della mancata attivazione, nel passato, delle procedure di interdizione o di inabilitazione.

Molto spesso però non è così: quelle pronunce non potevano essere chieste - o le stesse non sono state accolte in sede dì giudizio - perché lo stato di salute del soggetto non era compro­messo tanto seriamente da giustificarle.

Non ci si è spinti sino a vulnerare la capacità legale di quella certa persona: e il motivo è sta­to proprio la consapevolezza (nei familiari dell'infermo, o presso il giudice) circa la vastità dei riflessi implicati automaticamente, sul piano giu­ridico e sociale, senza proporzioni ragionevoli con le esigenze del caso specifico, da un cambia­mento così radicale di statuto.

 

Incapacità occasionale e necessità dì protezione

Arriviamo così al secondo punto. Si è appena visto come, in casi simili, l'interdizione sareb­be inopportuna: ma resta il fatto che si tratta di individui con cospicui problemi psichiatrici - persone, cioè, bensì autosufficienti per la mag­gior parte del tempo, e tuttavia occasionalmente bisognose di un sostegno formale dall'esterno, di qualcuno che compia in loro vece gli atti giuridici più urgenti.

Invece, stando al codice civile, non vi è alcuna via d'uscita alternativa rispetto all'interdizione e all'inabilitazione - se non quella dell'abban­dono generale del malato psichico, di un vuoto assoluto di assistenza.

Con l'art. 11, comma 1°, della legge 180, è sta­to poi abrogato nel 1978 l'art. 420 c.c., il quale prevedeva che il Tribunale, nell'autorizzare l'in­ternamento in ospedale psichiatrico, potesse al­tresì disporre la nomina di un tutore provvisorio per l'infermo di mente. Ciò ha finito per trasfor­mare quella situazione di vuoto protettivo in una realtà sempre più diffusa e comune, dal momen­to che l'invio in manicomio - se anche prima del '78 poteva non aver luogo in certi casi - da allora in avanti è diventato addirittura impos­sibile.

Il rischio allora, per tante persone, non è sol­tanto quello della mancanza di un presidio legale qualsiasi, durante i periodi di più accentuata fra­gilità psichica. C'è pure l'eventualità che troppi individui disturbati finiscano per rimanere - con­cretamente - in balia di congiunti assai poco solleciti, di «amici» tutt'altro che premurosi: in­somma, alla mercé di una gestione destinata a svolgersi giorno per giorno, in linea di fatto, senza molti scrupoli legali e nell'assenza di qual­siasi controllo.

 

L'alternativa alta dichiarazione di incapacità legale

La conciliazione fra le opposte esigenze in gioco (il no all'interdizione, e il no anche all'abbando­no) dovrebbe essere offerta, allora, dal ricorso a un altro scudo istituzionale: nel quale la capa­cità di agire della persona non risultasse com­pressa formalmente, e in cui fosse peraltro assi­curato, sotto il controllo giudiziale, il possibile sostegno occasionale di un organo vicario ben preciso.

Un organo magari inoperante per la maggior parte del tempo, e all'occorrenza chiamato però a svolgere - nel nome e per conto dell'infer­mo - le attività che quest'ultimo non fosse, momentaneamente, in grado di compiere da solo.

Un punto di partenza, a questo fine, può essere costituito per l'Italia - e in mancanza di realtà più articolate, come quelle presentì ad esempio presso alcune legislazioni straniere - dall'art. 3, comma 6°, della legge 180 (art. 35, comma 6°, della legge 833/78): ove è disposto che «qualo­ra ne sussista la necessità il giudice tutelare adotta i provvedimenti urgenti che possono oc­correre per conservare e amministrare il patri­monio dell'infermo».

Non v'è dubbio che la disposizione citata for­nisca, per se stessa, uno strumento d'interven­to tutt'altro che disprezzabile: ed è merito, poi, dei giudici di alcuni uffici tutelari l'averla saputa utilizzare, nel corso di questi anni, anche al di là dei confini segnati direttamente dal legisla­tore.

Proprio l'episodicità di iniziative del genere, tuttavia, rende evidenti pure i limiti dì una previ­sione normativa così solitaria. E deve quindi spin­gere l'interprete - senza l'affanno di una corsa contro il tempo (che tanto ebbe a pesare nell'ap­prestamento della legge 180) - alla ricerca di una combinazione più sistematica e meno improv­visata, tale da potersi candidare come vera al­ternativa quotidiana rispetto all'interdizione e all'inabilitazione.

Si può discutere, poi, se alla figura occorrereb­be proprio il crisma di un intervento specifico del legislatore, come appare forse preferibile. O se tutto non possa continuare a fondarsi, invece, sopra le pratiche germogliate progressivamente intorno a quella norma della legge 180 - con il vantaggio allora di un rispetto, spontaneo e co­munque più sicuro, per le esigenze eventualmen­te diverse delle singole zone del paese.

I nodi pendenti, in ogni caso, non sono molto facili da sciogliere: applicabilità, o meno, dello schema in esame anche all'ipotesi in cui nessun trattamento sanitario obbligatorio sia in corso, natura dei controlli esercitabili sulle iniziative del rappresentante occasionale; e poi, ancora, ti­pologia dei negozi da ricomprendere nell'area del­la possibile supplenza, coordinamento fra l'ope­rato del vicario e la normale attività dell'infer­mo di mente.

Inoltre, resterebbe da vedere se a malati psi­chici del genere non si possa arrivare a ricono­scere (sia pure, eventualmente, sulla base di qualche attenzione pubblicitaria, strutturata però in modo da ridurre al minimo i riflessi di stigma verso l'esterno) un tipo ulteriore di salvaguardia tecnica. E cioè la possibilità di ottenere, al di là della buona o mala fede della controparte, l'an­nullamento di tutti quei contratti - stipulati per­sonalmente dall'infermo, durante uno dei momen­ti di crisi - nei quali il gioco delle opposte pre­stazioni oltrepassasse una certa soglia di squili­brio, o che comunque fossero tali da arrecare un pregiudizio notevole sulla specifica economia di quel soggetto.

 

Infermità di mente e diritto dì famiglia

Fin qui il discorso sugli istituti di protezione complessiva dell'infermo psichico.

Diverso è, invece, il tipo di necessità che si presentano - restando entro il primo libro del codice civile - nell'universo del diritto di fa­miglia.

In questo caso non si tratta infatti - o perlo­meno, non si tratta solo - di una serie di ritoc­chi da introdurre nell'attuale disciplina legisla­tiva, di nuovi modelli per colmare i vuoti emer­genti nel sistema.

Problemi del genere non mancano, come vedre­mo subito, ma gli obiettivi più pressanti sono altrove. E tutti quanti attengono al soccorso che va prestato all'infermo psichico - attraverso i servizi sociali - nel seno della cerchia casa­linga, all'interno dei rapporti quotidiani con il coniuge, i figli, i genitori.

Un soccorso che, giorno dopo giorno, permetta cioè agli istituti codicistici della famiglia di in­verarsi, pur dinanzi a un malato del genere, se­condo linee di funzionamento non troppo distanti rispetto alla normalità degli individui. O comun­que non troppo dissimili rispetto a ciò che la per­sona disturbata, in assenza di un handicap si­mile, avrebbe potuto forse attendersi per il suo focolare domestico.

il punto è unicamente sostenere l'infermo di mente in quanto tale, salvaguardandolo nella copertura dei ruoli che gli sono propri, material­mente e affettivamente, entro una cellula tanto delicata. L'esigenza è anche quella di un suppor­to per i vari congiunti del malato, specialmente durante l'acuirsi delle difficoltà di convivenza, de­terminate dagli occasionali peggioramenti nelle condizioni di salute dì quella sua componente.

E l'aiuto sarà tanto più importante quando il nucleo familiare da proteggere, come accade tal­volta, risulti «ammalato» nel suo insieme.

 

Prospettive di riforma

S'è detto che, in confronto a tutto ciò, l'urgen­za di modifiche formali appare largamente se­condaria. La famiglia non è un terreno semplice, e i nessi fra il diritto e la follia non fanno ecce­zione a questa regola: così, anche la ricerca di equilibri è spesso più difficile che altrove.

Vi è un punto tuttavia da tener fermo, e che ha riguardo ad una delle ipotesi poste oggi al centro del discorso: quella, cioè, tendente a suggerire ridimensionamenti sistematici (nel primo libro del codice civile) della rilevanza attribuita dal legislatore all'infermità psichica.

In realtà non tutti i casi si assomigliano, e nes­sun'area come la famiglia impone al giurista di distinguere. II rischio infatti - per voler venire incontro a chi accusa disturbi mentali - è quel­lo di arrivare poi a uno schema in cui gli interessi del partner dell'infermo si troverebbero sacrifi­cati eccessivamente, comunque assai più rispet­to al bene che ne verrebbe al familiare soffe­rente.

Sarebbe quindi incongruo, soprattutto, un di­segno intenzionato a cancellare le varie espres­sioni di quella rilevanza che sono state inserite, nel codice, dalla riforma del diritto di famiglia del 1975. In particolare la possibilità, per chi al momento delle nozze avesse ignorato lo stato di minorazione psichica dell'altro sposo, di far an­nullare successivamente il matrimonio (art. 122, comma 3°, n, 1, c.c.). Oppure la facoltà, per cia­scuno degli sposi, di ottenere giudizialmente la separazione personale in tutti i casi di sopravve­nienza, presso l'altro coniuge, di alterazioni psi­chiche tali da rendere insopportabile la prosecu­zione della convivenza o da recare grave pregiu­dizio alla educazione della prole (art. 151 c.c., comma 1°).

I ritocchi andranno, allora, circoscritti ai casi in cui quel rischio non esista o appaia comunque tollerabile.

Si è parlato, ad esempio, di una riformulazio­ne per gli artt. 85 e 119 c.c., in modo da permet­tere anche all'interdetto di contrarre matrimonio: a tal fine basterebbe, è stato detto, un'autorizza­zione apposita del giudice, emessa sulla base del previo accertamento (basato magari sul dato di una convivenza già in atto) circa sufficienti at­titudini di quel certo soggetto a percepire - e a poter osservare con ragionevole compiutezza gli obblighi di cui agli artt. 143 e 147 c.c.

Nella disciplina della comunione legale, poi, non è apparsa equilibrata a qualche autore la re­gola per cui la pronuncia di interdizione o di ina­bilitazione, emessa a carico di un coniuge, attri­buisce all'altro coniuge la facoltà di domandare la separazione giudiziale dei beni (art. 193 c.c., comma 1°). Si è osservato, in proposito, come lo sposo dell'infermo sia difeso in misura già adeguata - contro il rischio di stranezze gestionali, ad opera del consorte malato - dalla possibilità che l'art. 183 c.c., comma 1°, gli attribuisce, di ottenere in tal caso l'esclusione di quest'ultimo dall'amministrazione. Comunque, al di là di qual­siasi automatismo con le pronunce di interdizio­ne o di inabilitazione, la separazione giudiziale dei beni non dovrebbe essere consentita se non allorquando il coniuge infermo di mente si fosse reso colpevole di uno dei fatti indicati nell'art. 193 c.c. (cattiva amministrazione dei beni della comunione, disordine negli affari personali a nell'amministrazione del proprio patrimonio, manca­ta contribuzione ai bisogni della famiglia in mi­sura proporzionale alle sostanze e alla capacità di lavoro).

Riguardo alla separazione personale fra coniu­gi, un'altra lettura suggerita è quella secondo cui talune forme di malessere psichico - che siano state, per i loro riflessi quotidiani, all'origine della richiesta di separazione dell'altro sposo (si fa l'esempio dei deliri di gelosia, così frequenti nelle sindromi collegate all'alcoolismo) - non dovrebbero necessariamente ritenersi incompa­tibili con la possibilità di addebitare giudizial­mente la separazione al sofferente stesso (e ciò in tutti i casi in cui si trattasse, appunto, di tu­telare sotto il profilo economico l'altro coniuge).

 

Crisi delta famiglia e ruolo degli operatori sociali

Si potrebbe continuare con gli esempi: ed è vero che alcuni dei ritocchi legislativi non do­vrebbero aspettare troppo a lungo.

Tale esigenza è, però, tanto più marcata con riguardo al primo tipo di questioni, ossia per il sostegno quotidiano che va offerto al malato e ai suoi congiunti.

Non è il caso, qui, di analizzare tutti i singoli dettagli del problema. Va osservato soltanto co­me, fra i versanti ai quali un simile intervento è destinato a rivolgersi, non vi sia esclusivamente quello dei rapporti (personali, e talora anche economici) fra il malato di mente e l'altro co­niuge: quando l'impegno è soprattutto di evitare che l'insorgenza di crisi psichiche - magari re­pentine o violente, e destinate però a riassorbirsi con sicurezza, nel corso del tempo - possa in­durre affrettatamente il coniuge dell'infermo a propositi di rotti-ira definitiva.

Vi è, altresì, il piano delle relazioni fra l’infermo di mente e i suoi figli. Dove lo sforzo sarà quello di impedire, ad esempio, che aggravamenti temporanei nella salute psichica di uno dei genitori possano ispirare decisioni troppo drastiche - e pure qui premature - in materia di esercizio della potestà parentale (art. 317 c.c., comma 1°). O peggio ancora mettere in movimento, trattandosi di minori in tenera età, di un meccanismo destinato a concludersi con l’adozione di quei bambini presso un’altra famiglia.

E non è neppur detto, d'altro canto, che l'inter­vento dei servizi sociali debba sempre puntare a una difesa dell'unità del nucleo domestico, o della convivenza anche in futuro.

Talvolta, e non meno utilmente, quel soccorso potrà invece essere offerto in direzioni esatta­mente opposte, ossia tradursi nell'appoggio alla famiglia lungo la strada di un distacco progres­sivo - fra l'infermo di mente e il consorte, op­pure fra il malato e la sua prole, o magari rispet­to ai genitori - che apparisse ormai come ine­luttabile. E che potrebbe, senza aiuti dall'esterno, svilupparsi per alcune situazioni in termini di­versi e più drammatici.

 

 

(1) Sintesi della relazione tenuta al convegno «Un nuo­vo diritto per il malato di mente - Esperienze e soggetti della trasformazione», svoltosi a Trieste il 12-14 giugno 1986.

 

 

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