PROFILI DELL'INFERMITÀ DI MENTE NEL
DIRITTO PRIVATO
PAOLO CENDON (1)
I rapporti tra follia e diritto
Fare il punto sui rapporti che intercorrono fra
infermità di mente e sistema giuridico, o più semplicemente tra follia e
diritto, è ai giorni nostri tutt'altro che semplice.
Pochi altri intrecci, già a prima vista, si presentano egualmente confusi e suggestivi, così ricchi di corrispondenze e di enigmi: tanto
che, a volte, il suono stesso del binomio sembra ridursi pressoché ad un'unica
cosa, mentre, altre volte, ognuno dei due termini diventa quasi il simbolo o
il sinonimo dell'esatto contrario dell'altro.
Basta pensare anche al linguaggio di
ogni giorno, a frasi o a espressioni del tipo «questa è una follia»,
«tu mi fai impazzire», «lei è matto»: chi non si è mai rivolto così a qualcun
altro, volendo dirgli in realtà «tu non puoi dire ciò che stai dicendo», «tu
non hai il diritto di fare questo»?
E chi non ha mai letto o ascoltato
locuzioni quali «la follia del diritto», profferite da chi voleva alludere
alle aberrazioni o all'imbarbarimento di un determinato ordinamento giuridico?
O invece «il diritto alla follia», inteso questa volta,
magari in modo un po' romantico e sessantottesco, come diritto alla fantasia,
diritto ad essere diversi e felici?
Si potrebbe continuare ancora a lungo. Dagli inizi dell'istituzione manicomiale, ricostruiti tutti in
chiave di stretta connessione con la nascita storica del modello carcerario, ai
tanti episodi degli ultimi decenni: le condanne inflitte a certi direttori di
manicomi giudiziari, le violenze contro donne minorate, i processi a qualche
psichiatra aguzzino: i delitti commessi da un «matto» nei fogli di cronaca
nera o nelle stesse prime pagine dei giornali.
Ecco, guardando proprio a questi ultimi episodi, c'è
forse un dato che colpisce l'attenzione. Si tratta sempre di casi di rapporto
tra infermità di mente e diritto penale. E, anche
nell'arco di tempo a noi più prossimo, esempi del
genere non mancano. La nuova legge sulla violenza sessuale, con
tutte le dispute circa i rischi - di possibile ghettizzazione sessuale -
minacciati da un'automatica qualifica di stupro per i
contatti intercorsi con un malato di mente. Oppure la recente
sentenza della Corte costituzionale in tema di pericolosità dell'infermo psichico
e di manicomio giudiziario, le perizie psichiatriche ai camorristi, la
proposta di legge V. Grossi sulla abolizione
dell'infermità di mente come causa di esclusione dalla punibilità.
Ce n'è abbastanza allora per
spiegare - tenuto conto della gravità e dolorosità di momenti come il reato e
la sanzione - il perché di una propensione così diffusa, presso la nostra cultura
del passato, a vedere e a sistemare ogni possibile nodo della follia sul
versante pressoché esclusivo del diritto penale. Un risultato cui ha concorso
senza dubbio l'inclinazione di tanti psichiatri a misurarsi e a identificarsi
spontaneamente nei problemi giuridici più simili a quelli della propria
pratica quotidiana: problemi cioè di libertà perduta,
di trattamenti coatti, di violenza, di istituzioni cattive, ossia appunto i
problemi che sono caratteristici del diritto penale.
La legge 180/78
Se tutto questo appare comprensibile, è invece meno
facile accettare che la stessa impostazione possa
mantenersi inalterata, nei giuristi come presso gli psichiatri, anche dopo
l'approvazione della legge 13 maggio 1978, n. 180.
Non che il diritto penale ovviamente - e i suoi nodi
specifici, e la questione dei suoi vari rapporti con l'infermità di mente, nel
processo, all'interno del carcere, dentro il manicomio giudiziario -, non che
profili del genere non siano anch'essi destinati a risentire, in maniera spiccata,
dell'avvento di tale riforma.
Basta pensare alla frequenza con cui l'eco di alcuni primi influssi, dalla revisione della nozione di
pericolosità, sino al tema dei servizi psichiatrici nei luoghi di detenzione,
o al declino dello stesso concetto di incapacità di intendere e volere, si è
fatta sentire ultimamente in sede sia teorica che pratica.
E tuttavia, guardando ai cambiamenti, lungo tutto
l'orizzonte del sistema, l'impressione è che non vi sia quasi confronto con
l'impatto - ben diverso e più profondo - che la
chiusura decretata al manicomio è destinata ad esercitare sul terreno del
diritto civile.
Un segnale è anche offerto dal ristagno che fa
letteratura criminologica accusa su questi temi da
qualche tempo, a paragone della fioritura che sta invece registrando
ultimamente la produzione civilistica, con l'uscita
di tutta una serie di monografie, di rassegne, di saggi, e addirittura con la
nascita dì convegni. Mentre, fino a pochi anni or sono, gli scritti sulla
rilevanza dell'infermità di mente nel diritto privato, magari di autori già affermati, potevano finire anche respinti da
alcune nostre riviste giuridiche: e respinti proprio in base all'argomento
secondo cui ricerche del genere - così insolite, sinistre e sociologizzanti - non avrebbero saputo interessare nessun
giudice, notaio o avvocato.
Il tramonto del manicomio e il diritto privato
Tutto questo però non meraviglia. Quale interesse può in effetti suscitare, nello studioso del diritto civile,
un tema come l'infermità di mente, fintantoché l'ospedale psichiatrico esiste
ancora, e rimane anzi la sola risposta escogitata per gestire i problemi del
disagio mentale? E quale curiosità potrebbe mai avvertire lo stesso operatore sanitario, dal buio del manicomio, per le
varie questioni civilistiche? Poco interesse, e
nessuna curiosità, senza alcun dubbio. E non è un caso infatti che, delle varie disposizioni presenti nel nostro
codice civile, buone o cattive ch'esse fossero, così pochi autori si siano occupati
seriamente.
Una persona che sia
rinchiusa entro le mura di un'istituzione totale non stipula contratti importanti,
non firma assegni o cambiali, non entra in nessuna associazione, non provoca
incidenti stradali, non si sposa e non adotta bambini. Ecco allora che leggi
risalenti a qualche decennio, o vecchie anche di secoli, possono facilmente resistere
imperterrite, tutte uguali nel fatto di restare comunque
lettera morta, di non trovare occasioni di applicazione effettiva, fuori o
dentro alle aule giudiziarie.
Tutto invece cambia sostanzialmente con l'approvazione
di una legge che, come la 180/78, smantella l'ospedale psichiatrico, e immette
o trattiene l'infermo nel suo ambiente sociale. Da quel momento, infatti. anche i soggetti sofferenti di disturbi psichici si trovano
ormai ad operare in un tessuto quotidiano che è intrecciato di rapporti
patrimoniali grandi e piccoli, di problemi continui di lavoro, di iniziative economiche
da assumere d da fronteggiare, di contatti familiari e associativi, di possibili
danni da risarcire.
E anche in questo si rende manifesta una differenza di
non poco conto, rispetto al diritto penale.
Malgrado l’approvazione della 180, e al di là del clamore che
alcuni casi di cronaca possono suscitare, il numero complessivo dei «matti» che
commettono un reato - e ai quali le nuove elaborazioni in materia di incapacità
e di pena dovrebbero applicarsi - continua in realtà a rimanere molto esiguo,
un'entità statisticamente trascurabile.
Invece, da sette anni a questa parte, la crescente
maggioranza degli infermi di mente figura mantenuta, o reintrodotta
progressivamente, nel contesto del suo ambiente
sociale. Non poche o sporadiche eccezioni, ma un'alta percentuale di individui a stretto contatto con il prossimo, soggetta a
fare i conti con il diritto privato così come qualsiasi altra persona.
I diritti fondamentali dell'infermo psichico
Non è possibile affrontare in questa sede l'analisi
di tutti i momenti che occorrerebbe porre al centro di una riforma, o di una
rilettura, della normativa civilistica in tema di infermità di mente. Ma è
opportuno accennare perlomeno ai tratti più importanti da correggere.
Cominciamo allora dicendo che,
se a tutt'oggi esistesse ancora il manicomio - se
cioè gli attuali residui psichiatrici fossero ancora qualcosa di ufficiale e
di fisiologico e non, come sono invece, ospedali per così dire fuori legge, o
quantomeno istituti messi al bando dal legislatore, e condannati presto o
tardi a scomparire -, se insomma le cose stessero esattamente come prima del
1978, ebbene, in questo caso non v'è dubbio che, in cima alla lista delle cose
sulle quali intervenire, per il giurista, vi sarebbe il capitolo dei diritti
soggettivi dell'infermo di mente.
Diritti stabiliti nella Costituzione, e qualche volta
presenti nella normativa internazionale. Oppure prerogative
disciplinate nel codice civile, in altre sedi della legislazione ordinaria,
talora enucleate creativamente dalla giurisprudenza.
Diritto alla vita, in primo luogo,
diritto all'integrità fisica e psichica, alla salute, alla libertà di
movimento. Diritto a ricevere le
cure necessarie, e a non venire abbandonati nel corso
della loro esecuzione, a conoscere preventivamente rischi e controindicazioni
di ogni terapia, e comunque a non subire trattamenti violenti e dannosi. Diritto
a vedere sempre rispettati onore, segreti, decoro e
riservatezza. In poche parole, diritto a non finire mai più in manicomio.
Oggi tutte queste notazioni potranno apparire, magari, prive di
un diretto valore pratico: ed è naturalmente una fortuna.
Ma. intanto, resterebbe da
accertare fino a che punto i diritti del paziente vengono effettivamente
rispettati nei regolamenti interni, e nella prassi quotidiana, degli attuali
manicomi giudiziari, dei residui ospedalieri sopravvissuti, di tutte le
cliniche private che ospitano malati di mente.
E può darsi poi che non sia tanto superfluo
rammentare - a chi stesse eventualmente coltivando propositi di
restaurazione - quali e quanti siano i test
di legittimità costituzionale che dovrebbe affrontare e superare qualsiasi
ipotetico progetto mirante a reintrodurre, nel nostro sistema, una versione
pura e semplice del manicomio o qualche sua odierna riedizione.
Si potrà ribattere che la vecchia legislazione
psichiatrica è sempre riuscita a non cadere, fino al 1978, sotto la falce della
Corte costituzionale. Ma l'osservazione, anche al di là di
ogni richiamo allo «stralcio Mariotti» del 1968 (che
aveva contribuito a migliorare alcuni punti di quella trama normativa,
smussandone così l'impatto complessivo rispetto al nostro testo fondamentale),
sarebbe tutt'altro che risolutiva.
Quanti non sono infatti gli
esempi di leggi passate che, dopo aver attraversato immuni quel controllo una
prima volta, successivamente invece - mutato ormai il clima culturale del paese,
anche a breve distanza di tempo, alla luce di un vaglio più cosciente circa il
vero stato delle cose - sono apparse invece incompatibili con la Costituzione,
finendo cancellate in tutto o in parte dall'ordinamento giuridico italiano?
Il problema dell'interdizione
Un'altra serie di questioni delicate, nel campo
dell'infermità di mente, si pone poi con riguardo ai cosiddetti istituti di
protezione complessiva, ossia l'interdizione e l'inabilitazione.
Anche qui vi è, per l'interprete, un nodo da spezzare
inizialmente. E si tratta del pregiudizio che vede o che vorrebbe legati fra
loro, in una sorta di equazione indissolubile, i due
momenti della salvaguardia degli interessi dell'infermo psichico, da un lato, e
della sua dichiarazione giudiziale di incapacità, dall'altro lato.
Come se ogni interdetto o
inabilitato potesse dirsi, per ciò stesso, protetto dal diritto nel miglior
modo possibile. E quasi che la sola strada per non lasciare indifeso chi
soffre di disturbi psichici, fosse quella di intervenire drasticamente sul
terreno della sua capacità legale.
Ciò non significa - per soffermarci in particolare
sull'interdizione - che in nessun caso e per nessun individuo si dovrebbe
giungere mai a una pronuncia del genere, o addirittura
che l'istituto stesso andrebbe espunto radicalmente dal seno stesso del codice
civile.
Esistono purtroppo situazioni (basta pensare a talune
forme di oligofrenia, o agli stati psicotici più
gravi) in cui le risorse mentali della persona appaiono compromesse tanto
acutamente, e con speranze così basse di recupero, da rendere inevitabile
l'ablazione formale della proprietà e la nomina di un rappresentante legale.
Un provvedimento di semplice inabilitazione non
potrebbe infatti valere allo scopo, in casi del
genere, mancando nel soggetto anche la minima attitudine a porre in essere
manifestazioni di volontà, comprese quelle strettamente necessarie alla sua
esistenza: quali, ad esempio, il prelievo occasionale da un libretto di
risparmio, la periodica riscossione di una pensione, l'acquisto di beni di
consumo.
E la forte probabilità che ogni negozio di una certa
importanza, se mai l'individuo giungesse a formarlo da solo, riuscirebbe di
danno alla persona stessa o al suo patrimonio, impone
per l'appunto in via preventiva - e giustifica altresì verso l'esterno - un
assetto in cui l'invalidazione dell'atto potrà avere luogo, poi, indipendentemente
dalla buona o male fede della controparte.
Anche la preoccupazione per i risvolti
più ingrati dell'interdizione e dell'inabilitazione - per il suggello
pubblicitario, cioè, ch'esse imprimono esteriormente al «marchio della follia»
- cessa di rappresentare, in condizioni tanto acute di sofferenza, un argomento
determinante contro il ricorso a queste soluzioni.
È vero infatti che la
pronuncia giudiziale avrà l'effetto di consolidare, e probabilmente di accrescere,
con la forza stessa dei fatti burocratici, le reazioni di chiusura e
diffidenza nei confronti di chi lo subisce, lungo tutto l'orizzonte
circostante. Ma quando esiste la certezza ragionevole che la salute mentale è
perduta al cento per cento, o comunque irraggiungibile
per sempre, tornano a prendere sopravvento le ragioni favorevoli all'idea di
una protezione stabilizzata.
Non v'è più infatti da
paventare, fortunatamente, la potenzialità di quel dato anagrafico a farsi
ricordare in modo costante, a connotare negativamente l'individuo per tutto il
resto dell'esistenza. E, soprattutto, viene meno il timore di un possibile
effetto di stigmatizzazione sociale - presso i terzi
- destinato a perpetuarsi e a risorgere continuamente anche in futuro: anche cioè nel tempo successivo al momento in cui la salute mentale
fosse stata, oramai, recuperata pienamente.
L'accertamento giudiziale
dell'infermità di mente
Schierarsi per il mantenimento testuale della interdizione, tuttavia, non vuol dire affatto che
nella disciplina codicistica dell'istituto non esistano
anche aspetti da rettificare, o che le modalità con cui ha luogo la sua
applicazione, nella pratica quotidiana, siano abitualmente quelle che
dovrebbero.
Le riserve, su questo e su quel piano, sono anzi
importanti e numerose.
Da più parti, ad esempio, è stato anche recentemente
documentato l'eccesso di sbrigatività e di empirismo con cui si svolge talvolta - presso alcuni dei
nostri tribunali, anche là dove forse il verdetto non sarebbe in partenza così
ovvio - l'accertamento circa il requisito di «abitualità» nello stato di
infermità psichica (art. 414 c.c.).
Senza, cioè, contatti
sufficientemente ricchi e approfonditi fra il giudice e il soggetto da interdire,
e con un ruolo puramente nominale da parte del pubblico ministero - e quasi mai
sulla base del previo svolgimento, che la legge del resto non prevede, di
perizie psichiatriche vere e proprie. Ecco un primo punto da correggere.
La cura della persona dell'interdetto
Per altri versi, come si è osservato, risulta troppo labile e generico - nel testo del codice
civile - l'accenno alla cura della «persona» dell'interdetto, quale filo che
dovrebbe illuminare l'intero operato del tutore.
Le conseguenze, come avverte l'esperienza, si fanno
poi sentire non di rado. L'indifferenza e la mancanza di premure appaiono i
pericoli maggiori: e v'è il rischio in particolare che, nel nome della
parsimonia, ma in realtà per sordità affettiva, o per mere ragioni di calcolo
individuale, l'appagamento di troppi fra i desideri espressi dall'infermo di
mente finisca per essere rinviato senza limiti di tempo, dal rappresentante
legale, sino a non realizzarsi in ipotesi mai più: sia pure con indubbi
benefici per la consistenza finanziaria di quel certo patrimonio, vantaggio di
cui verranno tuttavia a profittare gli eredi in attesa
- magari la persona stessa del tutore, o qualcuno dei suoi congiunti.
Occorre che le scelte gestorie,
invece, possano venire sindacate e capovolte dal
giudice - e, al limite, il tutore stesso rimosso dal suo ufficio - non
soltanto quando si è al cospetto di abusi o di irregolarità in senso proprio:
ma anche in tutti i casi nei quali, al di là di specifici illeciti, il grado
di benessere assicurato giorno per giorno all'infermo appaia
ingiustificatamente inferiore, o diverso nella qualità, oppure in dettagli
significativi, rispetto a quanto i redditi e le sostanze da amministrare
consentirebbero.
La scelta del tutore
Un problema ulteriore,
collegato a quest'ultimo, riguarda poi la scelta di
coloro cui l'ufficio di tutore va affidato.
Spesso, qui, la prassi delle corti rivela orientamenti
discutibili, originati apparentemente da eccessi di rigorismo legale, comunque da una sopravvalutazione circa l'importanza dei
profili contabili e burocratici dell'istituto.
Si finisce così per optare a
favore di soggetti tanto ricchi di affidabilità, dal punto di vista professionale,
quanto distanti fisicamente dalla realtà dell'infermo di mente - non sempre,
quindi, al corrente delle necessità che quest'ultimo
venga manifestando, e impossibilitati a soddisfarle con la tempestività che
servirebbe.
Difficoltà di natura contingente, come l'assenza in
certe zone del paese di Centri di salute mentale, o come i dubbi sulla erigibilità delle Unità
sanitarie locali a persone giuridiche, potranno forse giustificare in qualche
caso il ricorso a nomine del genere. Ma in prospettiva occorrerebbe che la scelta
- quando i familiari dell'interdicendo non esistono,
o non appaiono comunque idonei a ricoprire quel ruolo - seguisse itinerari più
realistici, miranti a un risultato che si attagli al bene dei soggetti da
proteggere: in cui, cioè, l'amministrazione figuri assegnata stabilmente (poco
importa se con, oppure senza, diretta attribuzione della rappresentanza
legale) agli operatori sociali-sanitari dei servizi
interessati.
Si semplifica in tal modo la catena dei passaggi «paziente
- operatore psichiatrico - tutore - organo giudiziario», con benefici di
snellezza amministrativa, e abbreviazione dei tempi di risposta rispetto
all'insorgenza dei bisogni, che non occorre certo evidenziare: mentre il vaglio
del magistrato, per se stesso, resterà sempre un elemento sufficiente a
mantenere nella combinazione la presenza di quei filtri e controlli - di ordine tecnico - che appaiono indispensabili per la
correttezza formale dell'esercizio.
Gli infermi di mente capaci legalmente
Rimarrebbero altre norme da discutere, fra quelle che
il codice prevede in tema di tutela e curatela - ad esempio, sui criteri di
gestione dei redditi e dei beni dell'infermo. Si pensi in particolare all'art.
372 c.c., il quale fissa una
serie di indirizzi poco adeguati, o proprio anacronistici, rispetto a una
moderna economia - non sempre quindi rispondenti all'esigenza che i capitali
dell'infermo, entro certi limiti di rischio, possano venire collocati nel modo
più fruttuoso possibile.
Ma i problemi più seri, sempre con riguardo alle
figure di protezione complessiva, sono forse quelli che si affacciano giorno
per giorno al di fuori di quest'area istituzionale,
nel campo stesso della capacità di agire.
È il caso, in particolare, di tutte le persone le
quali versano in uno stato intermedio di salute, costantemente o periodicamente
in bilico fra momenti di disagio e fasi di benessere psichico.
Individui, cioè, toccati
nelle proprie facoltà intellettive e volitive non in misura tanto grave da
avere già subito, o da dover conoscere nell'immediato futuro, un provvedimento
di interdizione o di inabilitazione. E tuttavia nemmeno in
condizioni mentali sufficientemente buone, o abbastanza continue e
sicure, da poter essere abbandonate nel corso dell'avvenire - non almeno per
qualsiasi negozio, o in tutti i frangenti dell'esistenza - completamente in
balia di se stessi.
La situazione è tutt'altro
che infrequente. E a segnalarlo (anche a parte ogni statistica, ben poco
attendibile in quest'ambito) basterebbe un semplice
dato di esperienza quotidiana, fornito dal campionario
di individui sofferenti di disturbi mentali, che ciascuno può incontrare o
conoscere entro la propria cerchia.
Un ventaglio complessivo in cui - di regola -
maggiore è senza dubbio la percentuale di coloro che non
risultano affatto interdetti o inabilitati, rispetto alla cifra delle
persone fatte oggetto di simili provvedimenti.
La capacità legale, insomma, è saldamente di casa nelle
cliniche psichiatriche, negli istituti ospedalieri privati, nei Centri dì
igiene mentale; e ancor più rappresenta la norma all'esterno dei luoghi di
cura.
Né tutto si ferma alla cronaca, a
mere evidenze autobiografiche. Basterebbe rammentare, più ampiamente,
quanto varia e intricata è la gamma delle sindromi
passeggere, dei malesseri intermittenti, dei quadri patologici borderline - o sospesi fra psicosi e nevrosi - di cui
appaiono costellate le pagine dell'intera letteratura sulle malattie mentali. La
difficoltà di comunicazione fra le scienze potrà spiegare forse come mai,
presso i giuristi, circolino tanto spesso formulazioni
imperniate sull'automatismo - e quasi sull'interscambiabilità - fra sofferenza
psichica e incapacità di intendere e volere. Ma il
ritardo in questo caso non è piccolo, se è vero che il panorama di cui sopra,
anche a voler trascurare tutto quanto è stato scritto in materia di psicanalisi,
si fa ammirare nelle opere di psichiatria da oltre cent'anni
ai giorni nostri.
Certamente, vi è anche il caso di individui
che, pur versando in uno stato di vistosa alterazione psichica, sono rimasti
per la legge come gli altri, formalmente capaci di agire. E non importa qui
indagare sui fattori contingenti - quali l'assenza o l'incuria dei congiunti, o
il riserbo degli stessi a ufficializzare circostanze
imbarazzanti per tutta la famiglia, o magari l'esiguità del patrimonio
dell'infermo, e comunque l'inerzia del pubblico ministero - che volta a volta
possono essere stati all'origine della mancata attivazione, nel passato, delle
procedure di interdizione o di inabilitazione.
Molto spesso però non è così: quelle pronunce non
potevano essere chieste - o le stesse non sono state accolte in sede dì
giudizio - perché lo stato di salute del soggetto non era compromesso tanto
seriamente da giustificarle.
Non ci si è spinti sino a vulnerare la capacità
legale di quella certa persona: e il motivo è stato proprio la consapevolezza
(nei familiari dell'infermo, o presso il giudice) circa la vastità dei riflessi
implicati automaticamente, sul piano giuridico e sociale, senza proporzioni
ragionevoli con le esigenze del caso specifico, da un cambiamento
così radicale di statuto.
Incapacità occasionale e necessità dì protezione
Arriviamo così al secondo punto. Si è appena visto
come, in casi simili, l'interdizione sarebbe inopportuna: ma resta il fatto che si tratta di individui con cospicui
problemi psichiatrici - persone, cioè, bensì autosufficienti per la maggior
parte del tempo, e tuttavia occasionalmente bisognose di un sostegno formale
dall'esterno, di qualcuno che compia in loro vece gli atti giuridici più
urgenti.
Invece, stando al codice civile, non vi è alcuna via
d'uscita alternativa rispetto all'interdizione e all'inabilitazione - se non
quella dell'abbandono generale del malato psichico, di un vuoto assoluto di assistenza.
Con l'art. 11, comma 1°, della legge 180, è stato
poi abrogato nel 1978 l'art. 420 c.c., il quale prevedeva che il Tribunale, nell'autorizzare
l'internamento in ospedale psichiatrico, potesse altresì disporre la nomina
di un tutore provvisorio per l'infermo di mente. Ciò ha finito per trasformare
quella situazione di vuoto protettivo in una realtà sempre più diffusa e
comune, dal momento che l'invio in manicomio - se anche prima del '78 poteva
non aver luogo in certi casi - da allora in avanti è
diventato addirittura impossibile.
Il rischio allora, per tante persone, non è soltanto
quello della mancanza di un presidio legale qualsiasi, durante i periodi di più
accentuata fragilità psichica. C'è pure l'eventualità che troppi individui
disturbati finiscano per rimanere - concretamente -
in balia di congiunti assai poco solleciti, di «amici» tutt'altro
che premurosi: insomma, alla mercé di una gestione destinata a svolgersi
giorno per giorno, in linea di fatto, senza molti scrupoli legali e
nell'assenza di qualsiasi controllo.
L'alternativa
alta dichiarazione di incapacità legale
La conciliazione fra le opposte esigenze in gioco (il
no all'interdizione, e il no anche all'abbandono) dovrebbe essere offerta,
allora, dal ricorso a un altro scudo istituzionale:
nel quale la capacità di agire della persona non risultasse compressa
formalmente, e in cui fosse peraltro assicurato, sotto il controllo
giudiziale, il possibile sostegno occasionale di un organo vicario ben preciso.
Un organo magari inoperante per la maggior parte del
tempo, e all'occorrenza chiamato però a svolgere - nel nome e per conto
dell'infermo - le attività che quest'ultimo non
fosse, momentaneamente, in grado di compiere da solo.
Un punto di partenza, a questo fine, può essere
costituito per l'Italia - e in mancanza di realtà più articolate, come quelle
presentì ad esempio presso alcune legislazioni straniere - dall'art. 3, comma
6°, della legge 180 (art. 35, comma 6°, della legge 833/78): ove è disposto che
«qualora ne sussista la necessità il giudice tutelare
adotta i provvedimenti urgenti che possono occorrere per conservare e
amministrare il patrimonio dell'infermo».
Non v'è dubbio che la disposizione citata fornisca,
per se stessa, uno strumento d'intervento tutt'altro
che disprezzabile: ed è merito, poi, dei giudici di alcuni
uffici tutelari l'averla saputa utilizzare, nel corso di questi anni, anche al
di là dei confini segnati direttamente dal legislatore.
Proprio l'episodicità di iniziative del genere, tuttavia, rende evidenti pure i
limiti dì una previsione normativa così solitaria. E
deve quindi spingere l'interprete - senza l'affanno di una corsa contro il
tempo (che tanto ebbe a pesare nell'apprestamento della legge 180) - alla
ricerca di una combinazione più sistematica e meno improvvisata, tale da
potersi candidare come vera alternativa quotidiana rispetto all'interdizione e
all'inabilitazione.
Si può discutere, poi, se alla figura occorrerebbe
proprio il crisma di un intervento specifico del legislatore, come appare forse
preferibile. O se tutto non possa continuare a fondarsi,
invece, sopra le pratiche germogliate progressivamente intorno a quella norma
della legge 180 - con il vantaggio allora di un rispetto, spontaneo e comunque
più sicuro, per le esigenze eventualmente diverse delle singole zone del
paese.
I nodi pendenti, in ogni caso, non sono molto facili
da sciogliere: applicabilità, o meno, dello schema in esame anche all'ipotesi
in cui nessun trattamento sanitario obbligatorio sia in corso, natura dei
controlli esercitabili sulle iniziative del
rappresentante occasionale; e poi, ancora, tipologia dei negozi da ricomprendere nell'area della
possibile supplenza, coordinamento fra l'operato del vicario e la normale
attività dell'infermo di mente.
Inoltre, resterebbe da
vedere se a malati psichici del genere non si possa arrivare a riconoscere
(sia pure, eventualmente, sulla base di qualche attenzione pubblicitaria, strutturata
però in modo da ridurre al minimo i riflessi di stigma verso l'esterno) un tipo
ulteriore di salvaguardia tecnica. E cioè la
possibilità di ottenere, al di là della buona o mala fede della controparte,
l'annullamento di tutti quei contratti - stipulati personalmente
dall'infermo, durante uno dei momenti di crisi - nei quali il gioco delle
opposte prestazioni oltrepassasse una certa soglia di squilibrio, o che
comunque fossero tali da arrecare un pregiudizio notevole sulla specifica
economia di quel soggetto.
Infermità di mente e diritto dì
famiglia
Fin qui il discorso sugli istituti
di protezione complessiva dell'infermo psichico.
Diverso è, invece, il tipo di necessità che si
presentano - restando entro il primo libro del codice civile - nell'universo
del diritto di famiglia.
In questo caso non si tratta
infatti - o perlomeno, non si tratta solo - di una serie di ritocchi
da introdurre nell'attuale disciplina legislativa, di nuovi modelli per
colmare i vuoti emergenti nel sistema.
Problemi del genere non mancano, come vedremo
subito, ma gli obiettivi più pressanti sono altrove. E tutti
quanti attengono al soccorso che va prestato all'infermo psichico - attraverso
i servizi sociali - nel seno della cerchia casalinga, all'interno dei
rapporti quotidiani con il coniuge, i figli, i genitori.
Un soccorso che, giorno dopo giorno, permetta cioè agli istituti codicistici
della famiglia di inverarsi, pur dinanzi a un malato
del genere, secondo linee di funzionamento non troppo distanti rispetto alla
normalità degli individui. O comunque non troppo
dissimili rispetto a ciò che la persona disturbata, in assenza di un handicap simile, avrebbe potuto forse
attendersi per il suo focolare domestico.
Né il punto è unicamente sostenere l'infermo di mente
in quanto tale, salvaguardandolo nella copertura dei ruoli che gli sono propri,
materialmente e affettivamente, entro una cellula tanto delicata. L'esigenza è
anche quella di un supporto per i vari congiunti del malato, specialmente
durante l'acuirsi delle difficoltà di convivenza, determinate
dagli occasionali peggioramenti nelle condizioni di salute dì quella sua
componente.
E l'aiuto sarà tanto più importante quando il nucleo
familiare da proteggere, come accade talvolta, risulti «ammalato» nel suo
insieme.
Prospettive di riforma
S'è detto che, in confronto
a tutto ciò, l'urgenza di modifiche formali appare largamente secondaria. La
famiglia non è un terreno semplice, e i nessi fra il diritto e la follia non
fanno eccezione a questa regola: così, anche la ricerca di
equilibri è spesso più difficile che altrove.
Vi è un punto tuttavia da tener fermo, e che ha
riguardo ad una delle ipotesi poste oggi al centro del discorso: quella, cioè, tendente a suggerire ridimensionamenti sistematici
(nel primo libro del codice civile) della rilevanza attribuita dal legislatore
all'infermità psichica.
In realtà non tutti i casi si assomigliano, e nessun'area
come la famiglia impone al giurista di distinguere. II rischio infatti - per voler venire incontro a chi accusa disturbi
mentali - è quello di arrivare poi a uno schema in cui gli interessi del partner dell'infermo si troverebbero
sacrificati eccessivamente, comunque assai più rispetto al bene che ne
verrebbe al familiare sofferente.
Sarebbe quindi incongruo, soprattutto, un disegno
intenzionato a cancellare le varie espressioni di quella rilevanza che sono state inserite, nel codice, dalla riforma del diritto
di famiglia del 1975. In particolare la possibilità, per chi al momento delle
nozze avesse ignorato lo stato di minorazione psichica dell'altro sposo, di far
annullare successivamente il matrimonio (art. 122,
comma 3°, n, 1, c.c.). Oppure la facoltà, per ciascuno degli sposi, di
ottenere giudizialmente la separazione personale in
tutti i casi di sopravvenienza, presso l'altro coniuge, di alterazioni
psichiche tali da rendere insopportabile la prosecuzione della convivenza o
da recare grave pregiudizio alla educazione della prole (art. 151 c.c., comma 1°).
I ritocchi andranno, allora, circoscritti ai casi in
cui quel rischio non esista o appaia comunque
tollerabile.
Si è parlato, ad esempio, di una riformulazione per gli artt. 85 e 119 c.c., in modo da permettere anche
all'interdetto di contrarre matrimonio: a tal fine basterebbe, è stato detto, un'autorizzazione
apposita del giudice, emessa sulla base del previo accertamento (basato magari
sul dato di una convivenza già in atto) circa sufficienti attitudini di quel
certo soggetto a percepire - e a poter osservare con ragionevole compiutezza gli
obblighi di cui agli artt. 143 e 147 c.c.
Nella disciplina della comunione legale, poi, non è
apparsa equilibrata a qualche autore la regola per
cui la pronuncia di interdizione o di inabilitazione, emessa a carico di un coniuge,
attribuisce all'altro coniuge la facoltà di domandare la separazione giudiziale
dei beni (art. 193 c.c., comma 1°). Si è osservato,
in proposito, come lo sposo dell'infermo sia difeso in misura già adeguata -
contro il rischio di stranezze gestionali, ad opera
del consorte malato - dalla possibilità che l'art. 183 c.c.,
comma 1°, gli attribuisce, di ottenere in tal caso l'esclusione di quest'ultimo dall'amministrazione. Comunque,
al di là di qualsiasi automatismo con le pronunce di interdizione o di
inabilitazione, la separazione giudiziale dei beni non dovrebbe essere
consentita se non allorquando il coniuge infermo di mente si fosse reso
colpevole di uno dei fatti indicati nell'art. 193 c.c. (cattiva amministrazione
dei beni della comunione, disordine negli affari personali a nell'amministrazione
del proprio patrimonio, mancata contribuzione ai bisogni della famiglia in misura
proporzionale alle sostanze e alla capacità di lavoro).
Riguardo alla separazione personale fra coniugi,
un'altra lettura suggerita è quella secondo cui talune forme di malessere
psichico - che siano state, per i loro riflessi quotidiani, all'origine della
richiesta di separazione dell'altro sposo (si fa l'esempio dei deliri di
gelosia, così frequenti nelle sindromi collegate all'alcoolismo) - non dovrebbero
necessariamente ritenersi incompatibili con la possibilità di addebitare giudizialmente la separazione al sofferente stesso (e ciò
in tutti i casi in cui si trattasse, appunto, di tutelare
sotto il profilo economico l'altro coniuge).
Crisi delta famiglia e ruolo degli
operatori sociali
Si potrebbe continuare con gli esempi: ed è vero che
alcuni dei ritocchi legislativi non dovrebbero aspettare troppo a lungo.
Tale esigenza è, però, tanto più marcata con riguardo
al primo tipo di questioni, ossia per il sostegno quotidiano che va offerto al
malato e ai suoi congiunti.
Non è il caso, qui, di analizzare tutti i singoli
dettagli del problema. Va osservato soltanto come, fra i versanti ai quali un
simile intervento è destinato a rivolgersi, non vi sia esclusivamente quello
dei rapporti (personali, e talora anche economici) fra il malato di mente e
l'altro coniuge: quando l'impegno è soprattutto di evitare che l'insorgenza di
crisi psichiche - magari repentine o violente, e destinate
però a riassorbirsi con sicurezza, nel corso del tempo - possa indurre
affrettatamente il coniuge dell'infermo a propositi di rotti-ira definitiva.
Vi è, altresì, il piano delle relazioni fra l’infermo
di mente e i suoi figli. Dove lo sforzo sarà quello di impedire, ad esempio,
che aggravamenti temporanei nella salute psichica di uno dei genitori possano
ispirare decisioni troppo drastiche - e pure qui
premature - in materia di esercizio della potestà parentale
(art. 317 c.c., comma 1°). O peggio ancora mettere in
movimento, trattandosi di minori in tenera età, di un meccanismo destinato a concludersi con l’adozione di quei bambini presso un’altra
famiglia.
E non è neppur detto,
d'altro canto, che l'intervento dei servizi sociali debba
sempre puntare a una difesa dell'unità del nucleo domestico, o della convivenza
anche in futuro.
Talvolta, e non meno utilmente, quel soccorso potrà
invece essere offerto in direzioni esattamente
opposte, ossia tradursi nell'appoggio alla famiglia lungo la strada di un
distacco progressivo - fra l'infermo di mente e il consorte, oppure fra il
malato e la sua prole, o magari rispetto ai genitori - che apparisse ormai
come ineluttabile. E che potrebbe, senza aiuti
dall'esterno, svilupparsi per alcune situazioni in termini diversi e più
drammatici.
(1) Sintesi della relazione tenuta al
convegno «Un nuovo diritto per il malato di mente -
Esperienze e soggetti della trasformazione», svoltosi a Trieste il 12-14 giugno
1986.
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