HANDICAP E SCUOLA: UNA BRUTTA PAGINA
DEL C.N.P.I. ED ALCUNI PUNTI FERMI PER NON TORNARE INDIETRO
a cura di PIERO ROLLERO
In data 2 luglio 1986 il Consiglio nazionale della
Pubblica Istruzione (C.N.P.I.) ha formulato un parere
o «pronuncia», adottata di propria
iniziativa, «in ordine alta revisione della normativa sull'integrazione scolastica degli
alunni in situazione di handicap nelle scuole materne, elementari e medie».
Il presente scritto è nato dopo lunghi mesi di riflessioni, anche dolorose, ed
è frutto di ampie discussioni in vari gruppi e in diverse
occasioni: esso raccoglie, quindi, anche i contributi di diversi amici profondamente
interessati e impegnati su questo problema. Non si presenta con una pretesa
di sistematicità; piuttosto come un contributo per un doveroso approfondimento
del tema, tramite una serie di appunti e schemi, quasi
sotto forma di schede, ottenute dall'analisi interna del documento, messo anche
a confronto con altri documenti ufficiali sullo stesso argomento.
ALCUNE
OSSERVAZIONI GENERALI
Nel presentare questi appunti analitici, vogliamo
premettere alcune impressioni generali, globalmente percepite alla lettura del
parere del C.N.P.I. Una prima impressione che si
ricava è quella di un diffuso pessimismo di base che lo pervade, in merito alla
passata e presente esperienza dell'integrazione scolastica; visione pessimistica
che si proietta anche sul suo futuro e ipoteca le stesse proposte che vengono avanzate. Anche un autorevolissimo membro del C.N.P.I., in un'altra sede qualificata,
di recente ha scritto ribadendo che è necessaria una nuova «normativa organica e oculata, alla luce della drammatica (sic)
esperienza trascorsa, in ordine all'integrazione scolastica degli alunni portatori di handicap».
Come avevamo già segnalato
(e approfondiremo più avanti) a proposito dell'inclusione indebita, nel testo
dei nuovi programmi didattici per la scuola elementare, di un impegno
strutturale in merito a «scuole o centri»
per handicappati gravi, così nei riguardi del complessivo documento del C.N.P.I. dobbiamo rilevare che la funzione di un organismo
altamente rappresentativo a livello nazionale è anche quella di inviare alla
scuola e ai cittadini «messaggi»
obiettivi, positivi e promozionali, basati sulle esperienze, positive
appunto, che pure esistono, e non solo «messaggi» che inducano al pessimismo e
non promuovano e incoraggino attività di rinnovamento e tentativi dì
sperimentazione. Messaggi più incoraggianti e promozionali, invece, sono
pervenuti alla scuola dal settore amministrativo del Ministero
della P.I.: e precisamente da alcune circolari, a
cominciare dalla recente n. 250/1985 fino alla n. 199/1979, nella quale in
particolare si sottolineavano e si indicavano come esempi incoraggianti «le esperienze positive, che fortunatamente
sono più numerose di quanto non si possa pensare», esperienze che «si verificano soprattutto dove la responsabilità
dell'integrazione è assunta non dalla singola classe ma da tutta la comunità
scolastica, che costituisce di per sé uno dei sostegni più validi».
Un messaggio negativo a scuola e
società
Ci sembra che il C.N.P.I.
si è assunto al riguardo una responsabilità assai
grave, quando affronta il problema degli alunni handicappati e propone una
revisione globale e profondamente diversa dell'attuale normativa, mentre non
sono ancora trascorsi dieci anni dalla legge n. 517/1977, e per di più sulla
base di una tale visione pessimistica della realtà dell'integrazione scolastica
e, in definitiva, anche delle possibilità e potenzialità degli stessi
handicappati.
Salvo qualche breve cenno saltuario, ciò che manca
soprattutto al documento è un reale «avvicinamento» etico-sociale
a quello che costituisce - nella nostra società attuale - un mondo di potenziali
esclusi e di persone emarginate e sofferenti, ma anche portatrici di valori
personali e sociali, che possono favorevolmente suscitare interessi, impegni e
slanci di solidarietà e di progresso nelle persone non handicappate, a cominciare
dagli stessi compagni di scuola.
La preoccupazione prevalente sembra, invece, quella
rivolta ad assicurare, in primo luogo, la «funzionalità» delle strutture scolastiche
«normali»: di qui, a nostro giudizio, una eccessiva
«enfatizzazione» del problema dei gravi, come unici responsabili delle
disfunzioni e dei disagi della scuola. Osserva la psicologa Angela Agosti Dabbeni, nel riferire una esperienza
di servizio di sostegno per i soggetti gravi: «Va ricordato, del resto, che i
soggetti con problematiche gravi non sono molti in una città (...). Mano a mano ci si cala nello specifico della gravità, ipotizzando
di conseguenza la struttura reale soddisfacente, non si vorrebbe cadere nella enfatizzazione del problema
dell'handicap. Il rischio è appunto che tale problema divenga il problema acquietante la complessa realtà della
"diversità" nella scuola. Esso è problema, e importante, ma che non
può occultare il vero problema degli anni futuri, che è
costituito dalle situazioni di disadattamento»
(1).
Abbiamo ricercato invano nel documento almeno un'eco
del famoso «documento Falcucci» del 1975, soprattutto
del suo punto centrale che sviluppava la proposta di «un nuovo modo di essere della scuola,
condizione della piena integrazione scolastica»: nel duplice senso che il
rinnovamento della scuola è funzionale ed essenziale all'integrazione, e che
a sua volta l'integrazione sollecita e favorisce l'innovazione e il miglioramento
della scuola a favore di tutti gli alunni. All'immagine di una scuola in fase
di avanzamento e ricerca continua, si va sostituendo
l'immagine di una scuola meno dinamica e ripiegata su se stessa.
Noi comprendiamo che simili messaggi risultano (ambiguamente) liberatori nei confronti di non
pochi insegnanti in merito ai loro impegni professionali verso gli alunni meno
fortunati; ma nello stesso tempo tali messaggi, di fatto, come risulta da molti
segnali, hanno dato voce e impulso alle frange più reazionarie e restauratrici
della scuola.
La riproposta di strutture emarginanti
Vorremmo ricordare, sulla scorta di diverse ricerche,
che la proposta o riproposta di strutture emarginanti per la popolazione più
debole, coincide quasi sempre con tipici fenomeni sociali
più ampi di sviluppo economico e di ristrutturazione industriale, e di
conseguenti valori elitari fondati su modelli di produttività e di competizione
esasperate. Non vorremmo che si ripetessero negli
anni 80/90 gli stessi tristissimi fenomeni di emarginazione verificatisi negli
anni 50/60.
Personalmente abbiamo partecipato in quell'epoca ad alcune ricerche condotte nell'area torinese,
quale osservatorio privilegiato per cogliere gli
aspetti sociali che sì collegano al problema dell'emarginazione degli handicappati:
tali ricerche hanno dimostrato che si verificò uno stretto rapporto fra il
tipo di sviluppo socio-economico e l'aumento eccezionale e le caratteristiche
negative delle istituzioni speciali la cui, com'è noto, hanno dato un abnorme
impulso, in quegli anni, i piani quinquennali della scuola, in un contesto di
programmazione nazionale assai discutibile).
Fra i dati e i risultati più interessanti di tali
ricerche si citano i seguenti: le classi speciali e differenziali nella
provincia di Torino passano dalle 64 del 1964 alle 532 del 1972; una forte
selezione di classe si riscontra fra gli alunni avviati a tali classi, in stragrande
maggioranza figli di immigrati, di proletari e
sottoproletari; la maggior concentrazione di queste istituzioni si verifica
nei quartieri più diseredati e nelle zone-ghetto della periferia di Torino e
nella prima cintura, ove si raggiunge, in alcuni casi, anche il 20% di alunni
emarginati in tali classi; «una notevole
percentuale di tali alunni non risultano affatto ritardati o handicappati, e
quindi bisognosi di simi,li interventi, ma vi sono giunti per svariati fenomeni
di selezione e di emarginazione messi in atto nella scuola comune»; «in
sintesi, le istituzioni speciali assumono un carattere "riparativo"
e di "controllo" delle tensioni sociali, più che un carattere
curativo e riabilitativo (di cui avrebbero bisogno í veri handicappati), e
concorrono all'emarginazione di molti soggetti provenienti da
"culture" diverse che una scuola legata a modelli intellettualistici
e uniformi respinge o etichetta come handicappati» (2).
Ricostruire un vasto movimento contro
l'emarginazione
Dalla reazione a simili degenerazioni è sorto in
quegli anni, com'è noto, un movimento culturale e sociale, assai vasto, che si
collegava a un più ampio movimento antiistituzionale
e antiemarginante, il quale, andando oltre il puro momento
«assistenziale», poneva al centro il problema generale delle «riforme»
(sanità, scuola, casa, assetto territoriale), come superamento delle condizioni
e delle cause che provocano la selezione e l'emarginazione delle fasce più
deboli della società. A proposito di questo movimento solidale si scriveva
allora (e lo indichiamo come auspicio anche per il presente): «L'insegnante che si pone nella prospettiva
educativa di integrare un alunno handicappato nella sua classe, partecipa così
di un movimento più ampio, culturale e sociale, di rinnovamento e di riforma, accanto
ai genitori adottivi e affidatari, agli operatori
sociali che lavorano per una psichiatria alternativa, per un nuovo tipo di
rieducazione dei disadattati sociali, o di assistenza
alle persone anziane, per un lavoro socio-sanitario veramente partecipato di
territorio» (3).
TRE
INDIRIZZI DIVERSI PRESSO IL MINISTERO DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE?
Ci sembra importante procedere a
un esame comparato fra le circolari del Ministero della P.I.,
i nuovi programmi per la scuola elementare (nelle loro varie fasi di elaborazione)
e il parere del C.N.P.I.: tale esame mette in luce
una notevole difformità di linee culturali e di indirizzi programmatici e, di
conseguenza, la mancanza di una politica amministrativa chiara e uniforme, o
almeno la possibilità di offrire coperture ufficiali anche a realizzazioni
molto diverse dell'integrazione scolastica degli handicappati.
Nel prospetto seguente si sono
elencati i testi ufficiali più importanti da cui emergono tre elementi: i soggetti a cui si rivolgono; le strutture a cui avviare gli alunni handicappati;
gli enti coinvolti (vedi Tav. n. 1).
Dal prospetto emerge un primo indirizzo che si
riscontra nelle circolari n. 258/1983 e n. 250/1985: esso sembra far capo all'Ufficio Studi e Programmazione del Ministero
della P.I., che, nel settore degli alunni handicappati, appare
come l'ambito più illuminato e la funzione che si qualifica come spinta e
promozione dell'integrazione scolastica, anche se nella circolare n. 258 -
importante e delicata perché indica le linee delle intese da attuare fra
Scuola, Enti locali e UU.SS.LL. - si
introduce, proprio in occasione della stipula di tali intese, come si è
visto, «un programma per gli alunni
portatori di gravi handicaps» che comporta «la frequenza in uno o più plessi di scuola
comune».
Di qui la proposta di «scuole particolarmente attrezzate» che viene
introdotta dalla commissione ministeriale nella «premessa» ai nuovi programmi della scuola elementare: tale proposta
della commissione risulta aggravata nel parere espresso dal C.N.P.I. sugli stessi programmi, e infine risulta ancora
peggiorata nel testo ufficiale dei nuovi programmi: dove, non a caso, invece
di «scuole particolarmente
attrezzate» si indicano «centri adeguatamente
attrezzati», e dove inoltre si prevede una «stretta collaborazione» non solo
fra scuola e strutture sanitarie del territorio, ma anche con «istituzioni specializzate»; le due
espressioni potrebbero indicare anche strutture non propriamente scolastiche e
non statali, comunque con significato emarginante.
Qui si intrecciano due linee
di indirizzo preoccupanti, di cui la più grave è certamente quella recepita
nel testo ufficiale dei nuovi programmi che
fa capo evidentemente al vertice ministeriale. Questi esiti risultano ancora più gravi perché inseriti in un contesto
indebito, come abbiamo sottolineato altrove: «Per motivi di competenza e di correttezza istituzionale, infatti, ci
sembra che una indicazione strutturale come quella riportata
nel testo ufficiale non avrebbe dovuto essere inserita nella premessa ai nuovi
programmi per la scuola elementare. Con essa non viene
definito un nuovo indirizzo didattico, la cui attuazione è fattibile con il
contributo dei docenti, ma si affronta un problema politico e legislativo sul
quale debbono pronunciarsi, al di là dei programmi, altre sedi competenti, in
primo luogo il Parlamento» (4).
Non vorremmo che tali problemi strutturali (gli unici
inseriti all'interno dei nuovi programmi) tradissero una volontà politica di definire in via amministrativa una normativa,
che va invece riportata in una sede diversa e più idonea di discussione e di
definizione.
Noi scrivevamo queste cose, facendo eco a vari
documenti di associazioni fra e di handicappati,
inviati al Ministero e al C.N.P.I., con un invito
ragionato e pressante per la modifica di tali riferimenti strutturali, purtroppo
con esito negativo e senza ricevere in risposta una giustificazione della persistenza
di tali indicazioni.
Fortunatamente la circolare n. 250/1985 ha ridimensionato
in modo assai profondo il problema delle «scuole
particolarmente attrezzate» in termini positivi e
accettabili, come abbiamo riportato nel prospetto. Il rammarico tuttavia
rimane profondo: una circolare ministeriale di fronte a
un decreto presidenziale (quale è quello con cui sono stati emanati i nuovi
programmi), nella «gerarchia delle fonti del diritto» rimane purtroppo a un
gradino notevolmente inferiore di efficacia.
La tendenza peggiorativa del C.N.P.I.
- già riscontrata nel parere sui nuovi programmi per la scuola elementare - si
è sviluppata, purtroppo, a conseguenze estreme e con una strutturazione
oltremodo rigida nel parere espresso il 2 luglio 1986. A noi sembra di
riscontrarvi, in particolare, una preoccupante emarginazione progressiva, sempre più grave a
seconda dell'età degli handicappati e degli ordini di scuola
corrispondenti.
Tav. n.
1 - Linee culturali e indirizzi programmatici riguardanti
l'handicap grave a scuola
TESTI UFFICIALI |
«SOGGETTI» |
«STRUTTURE» |
ENTI INTERESSATI |
Circ. min. n. 258 del 22.9.1983 |
«Alunni portatori di gravi
handicaps bisognosi di una specifica continua
assistenza». |
«Uno o più plessi di scuola comune che, per strutture edilizie,
per dotazione di personale, per prossimità di presidi sanitari o di centri di
riabilitazione, siano in grado di garantire una miglio
re attuazione del piano educativo individualizzato». |
Intese fra Scuola, Enti locali e UU.SS.LL. |
Bozza nuovi pro- grammi per la scuola elementare (11 novembre 1983) |
«Per tipologie di disabili
collegate all'handicap (...) od anche in ragione del livello di gravità». |
«Particolarmente attrezzate più
scuole nell'ambito di uno stesso Distretto per consentire la scelta della
scuola più adatta nei singoli casi di handicap». |
«La scuola deve potersi avvalere della collaborazione di
specialisti in campo medico e socio-psico-pedagogico,
nonché di servizi e di strutture stabilmente disponibili
sul territorio». |
Parere del CNPI sui
nuovi programmi (24.9.1984) |
Conferma i punti della bozza e aggiunge: «L'integrazione scolastica di
soggetti handicappati fisici in condizioni tali da non potersi inserire se
non dopo una fase riabilitativa che consenta un minimo di comunicazione deve
essere preceduta da interventi volti a rimuovere queste iniziali difficoltà. Per esempio: per quanto attiene i
sordomuti, si evidenzia la necessità
di evitare l'inserimento in classi di normoudenti
se non sia avvenuta la loro demutizzazione
ed il recupero di eventuali residui uditivi in scuole dovutamente attrezzate con docenti specializzati in
appositi corsi di laurea». |
|
|
DPR n. 104 «Nuovi programmi
didattici per la scuola ele-mentare 12.2.85) |
«Per disabilità collegate ad handicap particolarmente gravi». |
«È opportuno prevedere, nell'ambito di uno stesso
distretto, il funzionamento di centri adeguatamente attrezzati». |
«In stretta collaborazione tra
scuola, strutture sanitarie del territorio e istituzioni specializzate». |
Circ. min. n. 250 del 3.9.1985 |
«In presenza di alunni
handicappati gravi bisognosi di una specifica continua assistenza». |
«Si chiarisce che le scuole
particolarmente attrezzate, cui fa riferimento la C.M. n. 258 del
22.9.1983, non sono e non devono essere, né di diritto né
di fatto, scuole speciali, bensì scuole comuni che per dotazione di
personale qualificato, di idonee strutture ed attrezzature e per prossimità
di presidi sanitari o riabilitativi possono favorire la funzionale interazione
degli interventi specialistici e scolastici di cui gli alunni portatori di
handicap necessitano. Nell'assumere intese e
decisioni di adattamento e potenziamento di scuole a tali fini, si
raccomanda di evitare indebite concentrazioni
di soggetti in situazione di handicap grave, affinché esse rimangano ad ogni
effetto scuole comuni aperte a tutti. Si raccomanda inoltre che l'accoglimento
di alunni provenienti da scuole non incluse nel
territorio di competenza di tali scuole sia rigorosamente limitato ad
eccezionali situazioni di necessità». |
«Coinvolgimento degli operatori
del territorio (Enti locali e UU.SS.LL.)» per «garantire
alla scuola oltre alle necessarie competenze specialistiche, anche opportuni
interventi assistenziali e terapeutico-riabilitativi
che, se adeguatamente raccordati con l'attività scolastica, rappresentano un
indispensabile sostegno all'attuazione del piano educativo individualizzato». |
Parere - pronuncia
del CNPI (2.7.1986) |
1) «Soggetti in situazione di handicap gravissimo», certificati come
«non scolarizzabili». 2) «Soggetti in situazione di handicap grave scolarizzabili». «Soggetti minorati sensoriali gravi (audiolesi e non vedenti)». |
«Interventi di altro tipo» (non scolastici). «Unità scolastiche territoriali
(distrettuali, interdistrettuali); sezioni o classi attrezzate per sordomuti
e non vedenti». |
«Interventi che debbono ricadere
sotto la competenza del Servizio Sanitario
Nazionale». «Scuola, strutture sanitarie e istituzioni specializzate». |
Tav. n.
2 - Emarginazione progressiva degli handicappati, secondo
l'età e gli ordini di scuola, in base al «parere» del C.N.P.I.
L'EMARGINAZIONE
PROGRESSIVA DEGLI HANDICAPPATI
SECONDO
IL «PARERE» DEL C.N.P.I.
L'emarginazione progressiva sottesa
alla linea espressa nel «parere» del C.N.P.I. e che
appare già evidente nel grafico che abbiamo ricavato (vedi Tav.
n. 2), comincia in età
tenerissima, a tre anni, per la quale il Consiglio nazionale della P.I. chiede
una normativa che renda obbligatoria una diagnosi e una certificazione di
handicap e di scolarizzabilità. Tale richiesta è
ripetuta in più punti con una insistenza quasi
ossessiva: nel paragrafo dedicato alla scuoia materna, dove si richiede di «rilevare precocemente l'handicap» con
una «certificazione medica da presentarsi
obbligatoriamente all'atto dell'iscrizione»; e inoltre nel punto 3 a),
intitolato appunto: «Rendere
obbligatoria la diagnosi precoce», «da attuarsi fin dal terzo anno di età» e da presentare «per l'iscrizione alla scuola materna»;
infine nel punto 3 d) dal titolo: «Definire la scolarizzabilità degli alunni in
situazione di handicap gravissimo», destinati a strutture puramente
sanitarie.
Gli estensori del parere non sembrano
minimamente sfiorati da alcuni dei dubbi e delle problematiche più
gravi che sottendono a tale impostazione. A parte l'obbligatorietà della
diagnosi precoce che comporta serie difficoltà giuridiche, come vedremo in seguito,
indichiamo all'attenzione e alla riflessione i seguenti punti:
- l'impossibilità di una diagnosi precoce, all'età di
tre anni, se non in funzione evolutiva, non mai definitiva, come afferma, fra gli
altri, A.M. De Vita: «L'handicappato grave è, in prima analisi, difficile da
definirsi. L'accezione più ricorrente lo classifica
come soggetto caratterizzato da gravi compromissioni
sul piano dell'autonomia e, quindi, della relazione. Sin qui tutto sembra
chiaro, ma vorremmo sottolineare, per sfatare subito
questa illusoria chiarezza, che la definizione di grave può essere data
soltanto al compimento dell'età
evolutiva, e cioè soltanto ad una accertata e definitiva mancanza di autonomia»
(5);
- la conseguente grave responsabilità di assegnare,
in via definitiva, bambini così piccoli a strutture tanto diverse fra loro
(strutture sanitarie, sezioni speciali in «unità scolastiche territoriali»,
sezioni comuni), e profondamente «strutturanti»
e influenti sulla stessa evoluzione personale dei
bambini, come, tra gli altri, si interroga R. Lafon: «Le nostre concezioni ed i nostri atteggiamenti di fronte all'handicap, non contribuiscono
in qualche modo a strutturare 1'handicappato?» (6).
No ad una rigida classificazione per
gradi di handicap
Lafon combatte, anzitutto, ogni tendenza di rigida
classificazione dei gradi di handicap in favore di una valutazione
individuale: «Le definizioni
dell'insufficienza mentale saranno soddisfacenti solo se si sostituirà al modello
della scala, per segnare i diversi gradi, quello
della pendenza, della curva ascendente, se si prenderà coscienza della
fragilità dei nostri attuali criteri di classificazione e del fatto che ciascun
caso non deve essere definito o catalogato in base a scherni precostituiti, ma
sulla base di una analisi e di una descrizione dei livelli di sviluppo e delle
potenzialità, delle attitudini e degli handicaps e
delle condizioni socio-familiari della vita di ogni insufficiente mentale.
Giungeremo in questo modo a definire nuovi tipi, più descrittivi e dinamici, ma questa volta fondati su fattori e cause, su
livelli di sviluppo e di potenzialità, su capacità strumentali, su interrelazioni
e sul dinamismo esistente in ciascun individuo. Questo modo di procedere ci
permetterà di offrire una valutazione veramente su misura e non una classificazione
di serie» (7).
Di qui la conferma di un «effetto Pigmalione», veramente
pericoloso e gravemente incidente e strutturante la personalità dell'handicappato:
«Possiamo servire di specchio all'altro,
solo nella misura in cui siamo capaci di ricevere e rinviargli un'immagine
secondo i criteri o secondo i filtri di normalità o di riferimento alla normalità,
che ci hanno fornito le nostre acquisizioni, le nostre
proprie tendenze e la nostra originalità dinamica. Quando percepiamo l'immagine
deformata o quando essa non ci interessa o nei casi
in cui non apportiamo nulla all'altro, che tuttavia ci chiama, o quando essa,
pur interessandoci, ci ferisce o quando ci lascia indifferenti, noi rischiamo,
a causa dei nostri criteri personali, di rinviare un'immagine falsa che
distrugge la personalità dell'altro o la struttura male, Il soggetto originario
diventa allora "soggetto alienato", "soggetto da
compatire", "soggetto da curare", "soggetto da
rifiutare", "soggetto che ferisce", "soggetto che
scandalizza", ecc.; donde tutta una serie di reazioni a catena che possono
provocare gravi tensioni e disarmonie nello sviluppo del soggetto» (8).
I «gravissimi» sotto la competenza
della Sanità? La Costituzione dice di no
Ed eccoci alla proposta di
destinare i cosiddetti «gravissimi», diagnosticati come tali a tre anni, a «interventi
di altro tipo», non scolastici, ma «che debbono ricadere sotto la competenza del
Servizio Sanitario Nazionale». Dal punto di vista giuridico, l'art. 38 Cost. è,
invece, tassativo in tutt'altra direzione: «Gli
inabili e i minorati hanno diritto all'educazione
e all'avviamento professionale», ove, fra l'altro, non si pongono limiti alla
gravità della minorazione. Dal punto di vista scientifico, si sottolinea che il C.N.P.I. avanza
una proposta anacronistica, quando la deistituzionalizzazione
e la depsichiatrizzazione (degli adulti e ancor più)
dei bambini handicappati costituisce una conquista scientifica e civile irreversibile.
Il già citato Lafon da
tempo ha rappresentato, anche graficamente in modo efficace, la convergenza
dell'azione pedagogica della scuola e dell'azione psicomedica e socioeducativa di altri servizi nei confronti di tutti i gradi di
handicap, anche i più gravi. Nella Tav. n. 3 si riporta un adattamento del grafico proposto da R. Lafon.
Tav. n.
3 - Convergenza dell'azione pedagogica della scuola e dell'azione psicomedica e socioeducativa di altri
servizi nei confronti di tutti i gradi di handicap
Da tale grafico risulta che
le competenze dei Ministeri interessati non si definiscono rigidamente sul
confine degli interventi per gli handicappati più o meno gravi, ma si
intersecano, comunque e sempre compresenti, allargandosi o restringendosi
reciprocamente, a seconda dei gradi di gravità, o meglio ancora, a seconda delle
singole individualità a cui si rivolgono (secondo la concezione di una
diagnosi dinamica, e non rigida classificatoria,
dello stesso Lafon, sopra riportata). In proposito,
e in mancanza di leggi nazionali in materia, risulta
molto opportuna la scelta del Ministero della P.I. volta a promuovere intese
fra Scuola, Enti locali, UU.SS.LL., in merito agii
interventi per gli alunni handicappati.
Una definizione di «scolarizzabilità»?
Ma nella proposta di una diagnosi precoce
obbligatoria va sottolineato un ulteriore aspetto
assai preoccupante: la «definizione di scolarizzabilità» fin dalla iscrizione e dall'ingresso in
scuola materna. Qui emerge un concetto di « scuola » non
solo anacronistico e giuridicamente inaccettabile (come vedremo più
avanti), ma addirittura si rivela un misconoscimento non giustificabile delle
funzioni della scuola materna in particolare, che sono, in base ai programmi
ufficiali, quelle di osservazione, dì prevenzione e di sviluppo nei confronti
di tutti i bambini.
Emergono qui inoltre vecchie concezioni che credevamo
superate, e che contribuirono a creare le categorie
degli «irricuperabili» e degli «ascolastici»:
concezioni che risentono più del pregiudizio sociale che della fondatezza
scientifica, e si basano più sulla forzata «normalizzazione» di tutti gli handicappati
che sull'accettazione e sullo sviluppo di tutti nella «diversità».
Una seconda grave selezione
Dopo questa prima grave
distinzione fra handicappati «scolarizzabili» e «non
scolarizzabili», in luogo di una «scuola aperta a tutti» (art. 34 Cost.),
il C.N.P.I. propone una seconda selezione individuando
gli handicappati «gravi» - con una ipoteca scientifica molto seria nel presumere
una chiara distinzione fra gravi e gravissimi, soprattutto, ripetiamo, tramite
una diagnosi compiuta a tre anni di età (sic!).
Per i cosiddetti «gravi» si perfeziona dunque una
struttura, già abbozzata in precedenti documenti ufficiali (come abbiamo documentato):
partendo dalle «scuole particolarmente
attrezzate» o dai «centri
adeguatamente attrezzati» si elabora la «unità scolastica territoriale», così
definita in sintesi:
«Unità scolastiche terrìtoriali
(distrettuali - interdistrettuali - infradistrettuali)
destinate ad accogliere:
- soggetti in situazione di grave disabilità
di handicap;
- soggetti minorati sensoriali gravi (audiolesi e non
vedenti);
ubicate in sedi scolastiche individuate presso istituti ove
si conducano progetti di innovazione didattica, particolarmente attrezzate e
fornite delle necessarie competenze specialistiche e cioè di insegnanti
specializzati, personale specialistico (logopedisti,
fisioterapisti, neuropsichiatri, ecc.), strutture e
servizi particolari, materiale didattico adeguato».
L'organizzazione interna di questa struttura non risulta molto chiara: sembrano prevalere sezioni o classi
speciali destinate a tutti gli handicappati: sicuramente per «audiolesi e non
vedenti» accanto a sezioni o classi di «normoudenti e
normovedenti» (p. II, 4 b). I rapporti fra le classi
speciali e le classi comuni - nodo centrale e delicatissimo in tali eventuali
strutture - non sono svìluppati: esiste un solo cenno
molto vago a una «integrazione
secondo particolari criteri di flessibilità» (p. II 4 a).
Perché diciamo «no» alla concentrazione
delle patologie
I gravi inconvenienti di simili strutture sono già
stati esaminati altrove, anche sulla base di varie
esperienze: «Si costringerebbero proprio i bambini più gravi e più debilitati a
spostamenti quotidiani pesanti: basti pensare alla dimensione estremamente ampia di molti distretti scolastici,
soprattutto nelle aree extra-urbane e nelle zone montane. Si riproporrebbe
di fatto una struttura di “scuola speciale” in senso aggravante: sia per
l'appesantimento delle “patologie” riunite (che, come é noto, non solo si sommano,
ma si accrescono nella reciproca influenza negativa): sia per le difficoltà
evidenti di una reale integrazione in un plesso scolastico direttamente “non
interessato” a un tale coinvolgimento con soggetti provenienti da un ampio
territorio; sia per l'instaurarsi di un rapporto/percentuale fra handicappati
gravi ed alunni delle classi comuni molto elevato, superiore a quell'equilibrio “naturale” che sempre va ricercato in
questi casi come condizione preliminare per un effettivo inserimento». Sul personale
scolastico di tali «unità scolastiche territoriali» si riverserebbero funzioni
molto più onerose che non sul personale delle scuole
comuni, con conseguente graduatoria di gradimento fra un tipo e un altro di
struttura. Inoltre si può facilmente prevedere che dalle notevoli difficoltà
nel distinguere nettamente fra handicappati gravi e meno gravi, derivi la conseguenza
di dirottare verso le strutture speciali alunni non bisognosi, con il rischio ulteriore di deresponsabilizzare la scuola comune di
zona in merito all'impegno dell'integrazione.
«In merito alle sezioni e classi per audiolesi e non
vedenti, resta da aggiungere che "ritardare ('inserimento
nella scuola comune sino al raggiungimento di un precedente recupero" sul
piano tecnico-funzionale, da attuarsi in luogo diverso e separato dalle
classi comuni, può rappresentare una preoccupante inversione di tendenza che
finirebbe col danneggiare sul piano della socializzazione e dell'apprendimento
gli stessi alunni portatori di handicap, per i quali si predisporrebbero in
realtà strutture di educazione ed istruzione separata e parallela»
(9).
Anche Andrea Canevaro
esprime in proposito un'autorevole critica al documento del C.N.P.I.: «La socializzazione dei "gravi": è un problema su
cui il documento si esprime a più riprese. Devo dire
che, pur comprendendo la serietà delle intenzioni espresse fra le righe del
documento, la posizione su questo tema è quanto mai deludente. Mi sembra che
possa ingannare chi è lontano dalla realtà quotidiana, nel senso che il
documento sembra muoversi con coraggioso realismo; invece propone soluzioni di scarso
contenuto pratico (a meno che non si debba ragionare non tanto per i bambini
con handicap grave quanto per difendersene e tenerli alla larga). Come si può
realisticamente pretendere che vi siano indicazioni circa la scolarizzabilità di un handicappato che si presenta come
"grave"? E come si può pensare di riunire in
un unico centro coloro che hanno in comune la gravità, quando, conoscendo nel
concreto le situazioni, sappiamo che è veramente difficile che tale gravità
significhi identità di bisogni e possibilità di un'unica e complessiva
risposta? La circolare 250, del 3 settembre 1985, parlava più giustamente di
realizzare, per ciascun bambino con handicap grave, un "piano educativo
individualizzato" e di cercare in questa logica le risposte ai bisogni che
pone la gravità. I minorati
sensoriali: la risposta a bisogni specifici deve tradursi necessariamente
in strutture speciali? Non potrebbe essere più adeguatamente disposta
un'attività integrativa che non sottragga alla
scolarizzazione normale ma la rinforzi?» (10).
E gli handicappati «non gravi» restano
nel limbo
Ma un punto fondamentale non chiarito che ci lascia
molto dubbiosi riguarda la destinazione degli handicappati
«non gravi»: per essi non vi sono nel documento del C.N.P.I.
riferimenti espliciti, se non un unico cenno ai «lievi», quando li considera
quali unici alunni handicappati ammissibili all'esame di licenza media. È probabile
che per i non « gravi » si sottintenda nel documento
la conservazione dell'attuale sistema di integrazione scolastica. Ma, se permane tale sistema, perché non prevedere allora la
possibilità di passaggio dalle «unità scolastiche territoriali» alle scuole
comuni (come anche dalle strutture per gravissimi alle strutture per gravi), a
seguito di valutazioni periodiche ed accurate? La rigidità delle strutture e la
loro incomunicabilità costituiscono una
caratteristica molto deprimente del quadro complessivo proposto dal C.N.P.I.
Almeno un ulteriore dubbio è
lecito avanzare: veramente (secondo tale «parere») tutte le scuole devono attuare
l'integrazione scolastica piena degli alunni non «gravi»? Il dubbio sorge
proprio dalla frase introduttiva alla seconda parte
del documento «Proposte di intervento»; proposte «intese
- si afferma - ad assicurare alle scuole
(?) che accolgono alunni in situazione di
handicap condizioni di funzionalità ed efficacia». Avremmo, per caso, dopo
l'emarginazione dei «gravi», una ulteriore discriminazione
di alunni e una conseguente scelta di alcune scuole destinate all'integrazione
scolastica attuale, rispetto ad altre che non l'attueranno?
Una ulteriore
selezione nella scuota media dell'obbligo
A livello di scuola media, dobbiamo segnalare tre
punti che concorrono a portare avanti la selezione/emarginazione progressiva
degli alunni handicappati. Al punto 3 e), si prevede un'organizzazione didattica
che consenta una «individualizzazione didattica anche attraverso forme di integrazione
parziale»: se le parole hanno un senso, qui si prevede una limitazione
ulteriore dell'integrazione a vantaggio dell'individualizzazione intesa in senso
emarginante.
Poco oltre, allo stesso punto, « si segnala l'opportunità
di sviluppare, anche mediante apposite convenzioni
con i centri regionali di formazione professionale, le capacità operative
dei soggetti in difficoltà». La qualifica di «soggetti in difficoltà» in luogo
di quella più usuale nel documento di «soggetti in situazione di handicap»,
potrebbe non essere casuale: la proposta di tali «convenzioni» sarebbe quindi
estesa a una fascia molto più ampia di alunni della
scuola media. Comunque, anche se fosse limitata agli
alunni handicappati, la proposta di anticipare di fatto la formazione
professionale a livello dì scuola media, per istituto formativa e orientativa
(nella prospettiva di un ulteriore biennio obbligatorio), risulta lesiva dei
diritti di formazione generale e di orientamento degli alunni handicappati. Positivo è invece lo sviluppo particolare delle «capacità
operative», anche mutuando alcune metodologie proprie della formazione professionale:
ma in questo caso si tratta di una specifica programmazione educativo-didattica
e non dell'anticipo dì una struttura professionalizzante all'interno della scuola
dell'obbligo.
Ma il punto più grave risulta
quello relativo agli esami di licenza media (p. IV h), per i quali si chiede «che
le prove differenziate previste dal D.M. 10.12.84 siano riservate agli alunni
portatori di handicap lievi», mentre «debbono essere date disposizioni perché
agli alunni che non siano stati ammessi agli esami di licenza media, sia rilasciata
la certificazione attestante l'assolvimento
dell'obbligo scolastico ed i livelli di apprendimento e di operatività
raggiunti».
A parte la ricorrente difficoltà di distinguere in modo
obiettivo gli handicappati «lievi» dagli altri tipi di handicap, questa
ulteriore discriminazione al termine della scuola media risulta
particolarmente deprimente, ingiusta per chi ha percorso tutta la scuola dell'obbligo
sviluppando comunque le proprie capacità nella propria «diversità», e anche
giuridicamente dubbia; decisamente inaccettabile, anche sotto l'aspetto
giuridico, è la certificazione attestante «i livelli di apprendimento e di
operatività raggiunti», certificazione che - senza garanzie di obiettività -
per la sua pubblicità espone il soggetto handicappato a una violazione della
propria individualità. Altra cosa sarebbe la proposta di fornire alle scuole o
istituzioni, che proseguono la scuola dell'obbligo, elementi riservati e non pubblici di orientamento e di sviluppo di interventi individualizzati.
Del resto, tutta la parte del documento relativa alla scuola media risulta particolarmente tormentata
nella sua strutturazione: le obiettive difficoltà a questo livello di scuola
devono aver suscitato vivacissime polemiche in seno al C.N.P.I.,
con posizioni anche estreme: ciò risulterebbe dal testo del documento
pubblicato in anteprima da Area
Tecnologica del 18.7.1986, ove compaiono espressioni non più recepite nel
documento definitivo, come quello in cui si segnalano «in particolare per la
scuola media i gravi danni prodotti dalla scolarizzazione di soggetti
handicappati gravi» e «la situazione di disagio per i docenti di giungere a
rilasciare comunque a questi alunni il diploma di scuola media».
LA
SENTENZA DELLA CASSAZIONE E IL DOCUMENTO DEL C.N.P.I.
A questo punto ci domandiamo: che cosa si cela dietro
questi atteggiamenti così difficili da giustificare? Ovvero, quali motivazioni
stanno alla base di queste proposte da parte di un organo altamente
tecnico come il C.N.P.I.? Quali ricerche, indagini, inchieste hanno suffragato e suggerito queste
posizioni?
Abbiamo passato in rassegna la letteratura di questi
anni sul tema dell'integrazione scolastica, senza trovare nulla o quasi nulla
che giustifichi le proposte più discutibili del C.N.P.I., se non un unico documento, estraneo del resto a una vera
ricerca scientifica: la ben nota sentenza della Corte di Cassazione del 30.3.1981.
Questa sentenza, a nostro parere, rappresenta la vera ascendenza «culturale»
che permea quasi ossessivamente e condiziona pesantemente il documento. La
dimostrazione diventa convincente se enucleiamo, di seguito, in quattro punti
principali le argomentazioni della Cassazione e le mettiamo a confronto con
vari passi del documento del C.N.P.I. Seguiamo in
questo confronto l'ottima analisi del giudice Elvio Fassone,
Consigliere della Corte d'Appello di Torino (cfr. «La Corte di Cassazione
emargina gli handicappati», in Prospettive
assistenziali n. 56/1981), analisi che ci servirà anche per contrapporre
critiche autorevoli alle affermazioni parallele della Cassazione e del C.N.P.I.
1. La scuola come ambiente esclusivo di
«istruzione»
La Corte di Cassazione, alla base della sua sentenza,
aveva posto l'argomento che «scopo della scuola è quello di impartire
l'istruzione agli aventi diritto». Il C.N.P.I. vi fa eco quando afferma,
nella stessa premessa del suo parere, che emerge ormai «il bisogno di ripensare
e verificare i contenuti della scuola» che diventa «sempre più un ambiente di apprendimento». (Si noti
tuttavia che tale definizione di scuola come «ambiente di o per l'apprendimento», già contenuta nella bozza dei
nuovi programmi per la scuola elementare, nel testo definitivo risulta modificata in «la
scuola come ambiente educativo e di apprendimento», così almeno nel contesto
della «premessa», mentre in un titolo della stessa manca la e: «ambiente
educativo di apprendimento»: non ultimo segno di incertezza presso lo stesso
Ministero?) (11).
D'altra parte, è molto significativo
che l'unica critica rivolta dal C.N.P.I. alle tradizionali
«scuole speciali» risulta una critica puramente formale, basata sulla loro «incapacità
di una efficace scolarizzazione»
(sic), senza cenno alcuno alle svariate critiche scientifiche fondate su sperimentate
analisi psicologiche, sociologiche e pedagogiche.
Questo primo argomento «non richiede particolari
commenti, se non il rilievo che, se il compito primario della scuola è quello
di impartire l'istruzione, tale compito non è l'unico, ma - a detta di molti
operatori scolastici e della legge stessa - esso deve essere letto nel quadro di una "piena formazione della personalità
degli alunni", attenuando di molto il ruolo preponderante della mera
trasmissione di conoscenze». Infatti, l'art. 2 della legge n. 517 disciplina la programmazione educativa alla luce di un duplice
fine, quello di «agevolare l'attuazione del diritto allo studio» e quello di
conseguire «la promozione della piena formazione della personalità degli
alunni». «Questa coppia di valori ("istruzione" e "formazione
della personalità") si colloca in significativo
parallelismo con la coppia di valori considerata nell'art. 28 della legge n.
118/ 1971 ("apprendimento" e "inserimento"), e conferma
che la cosiddetta socializzazione dello scolaro è un obiettivo istituzionale
avente pari dignità rispetto alla sua acculturazione, intesa nel senso
tradizionale del termine» (E. Fassone).
2. Non una «scuola aperta a tutti»
(art. 34 Cost.), ma strutture e scuole diversificate
Per la Cassazione il diritto
all'istruzione «non è assoluto in capo a tutti gli individui in età scolare,
poiché la legge stessa (art. 28 della citata legge n. 118) considera
determinate situazioni come ostative all'ammissione. Sono tali le "gravi
deficienze intellettive", e le "menomazioni fisiche di tale gravità
da impedire o rendere molto difficoltoso l'apprendimento o l'inserimento nelle
predette classi normali". Quando ricorrano questi
requisiti negativi, il diritto soggettivo ad essere ammesso alla scuola
normale assume un diverso oggetto, vale a dire si trasforma nel diritto a
vedersi impartire l'istruzione in una struttura diversa ed apposita».
A sua volta il C.N.P.I., sempre nella premessa al documento, afferma che «emerge
oggi in maniera inderogabile il bisogno di rivedere
complessivamente il problema sotto l'aspetto giuridico-amministrativo e sotto
quello organizzativo-istituzionale».
Di qui le proposte di strutture diversificate,
non solo scolastiche ma anche puramente sanitarie, a seconda della gravità
degli handicap, previa diagnosi/certificazione precoce di «scolarizzabilità»,
come abbiamo ampiamente documentato.
A questi argomenti occorre rispondere con una più
attenta verifica dei contenuti e degli scopi del famoso art. 28 della legge n. 118/1971: «Tale legge, che detta "nuove
norme in favore dei mutilati ed invalidi civili", prevede che, riguardo
alle categorie di persone ora dette, "l'istruzione dell'obbligo deve
avvenire nelle classi normali della scuola pubblica,
salvo i casi in cui i soggetti siano affetti da gravi deficienze intellettive o
da menomazioni fisiche di tale gravità da impedire o rendere molto difficoltoso
l'apprendimento o l'inserimento nelle predette classi normali". Da questo articolo discendono due deduzioni: la prima è che
l'attenzione della legge è centrata esclusivamente sugli interessi dell'handicappato
e non della comunità scolastica che lo circonda, nel senso che l'impedimento
nell'ammissione può derivare non da eventuali turbamenti al resto della
classe, ma solo da difficoltà che lo stesso handicappato potrebbe incontrare.
«Il secondo corollario é che l'insuccesso (dal punto
di vista dell'handicappato) non deve essere misurato solo sul terreno dell’“apprendimento”,
ma anche su quello dell’“inserimento”: ed è noto che
l'inserimento è concetto quanto mai delicato e vasto, comprendendo una somma
di relazioni umane e sociali atte a sviluppare la personalità del bambino,
ben distinte dall'acquisizione di un determinato corredo dì conoscenze. Orbene,
solo quando la compresenza dell'handicappato nella classe normale non apportasse benefici né sul piana dell'apprendimento, né
su quello dell'inserimento (come sopra inteso), sarebbe legittimo rifiutare
l'ammissione del medesimo alla classe normale
«E occorre ancora aggiungere che in base agli
articoli 2 e 7 della legge n. 517 l'intera problematica
dell'handicappato deve essere affrontata e risolta non in termini di
dirottamento verso strutture speciali, ma verso la specializzazione della struttura ordinaria che lo accoglie,
realizzata attraverso le forme indicate dai predetti articoli (limitazione del
numero degli alunni a 20 per le classi che accolgono dei portatori di handicap;
integrazione specialistîca dei docenti; servizio socio-psico-pedagogico;
e tutte quelle "forme particolari di sostegno" che le peculiarità dei
casi rendano necessarie)» (E. Fassone).
3. La scuola equiparata a un «pubblico ufficio»
La sentenza della Cassazione si richiama inoltre
all'art. 97 Cost. che tutela il buon andamento dell'ufficio pubblico; «il quale
sarebbe inevitabilmente pregiudicato dalla contemporanea presenza di alunni normo-dotati e di alunni
gravemente handicappati».
A sua volta il documento del C.N.P.I.
è tutto attraversato da continui rilievi circa le disfunzioni e i danni che
sarebbero prodotti dall'integrazione scolastica degli handicappati, soprattutto
se gravi. Ne citiamo alcuni: proprio la parte dedicata all'esame delle
disfunzioni si apre con la sottolineatura degli «esiti dannosi per gli alunni
handicappati come per gli alunni normodotati,
per i docenti delle classi coinvolte e per l'intera comunità». Poco dopo, nel
punto A d), dedicato alla «presenza di soggetti in situazione
di handicap grave» si segnalano «i danni prodotti dalla scolarizzazione di
soggetti handicappati gravi, inseriti nella scuola normale senza il supporto
di adeguate strutture specialistiche, con esiti involutivi rispetto alla
menomazione posseduta e pesanti disfunzioni per l'attività scolastica della
classe». E ancora al punto C b), si denunciano «situazioni
di disagio per gli alunni, sia handicappati sia normodotati,
e per i docenti».
Tuttavia, il richiamo all'art. 97 Cost. da parte
della Cassazione non risulta pertinente: «Poiché l'art. 28 della legge n. 118/1971 organizza la scuola
nei termini già detti, ciò significa che il "buon andamento dell'amministrazione"
deve essere concepito, appunto, come l'insieme delle prestazioni che la scuola
deve fornire sia agli alunni normodotati sia agli
handicappati, nell'equilibrio e con le modalità indicate nel predetto art. 28.
L'invocare - come fa la sentenza - il "danno della classe" e le
"disfunzioni" conseguenti alla presenza degli handicappati è operazione
arbitraria, perché contraria allo spirito ed alla lettera della legge. Che poi
la compresenza dell'handicappato possa produrre non già delle "disfunzioni", ma delle esigenze supplementari, è un fatto innegabile: ma a questo si pone
rimedio non escludendo l'handicappato, bensì introducendo sostegni scolastici
compensativi (come infatti prevede la legge: artt. 2
e 7 della legge 517/1977).
«Non si può tacere che, se la tutela dell'handicappato
è un valore meritevole di difesa giuridica, altrettanto
degno è il valore costituito dagli interessi degli alunni normodotati:
e come il primo non può essere sacrificato in nome del secondo, così deve dirsi
per il reciproco. Secondo la legge, insomma, il costo sociale dell'handicappato
non deve ricadere né sul medesimo, né sulla micro-collettività
rappresentata dalla scuola che lo riceve, ma sulla comunità più ampia, che
deve predisporre le strutture di sostegno» (E. Fassone).
4. Diagnosi precedente e condizionante
la scolarizzabilità
Questo punto molto delicato è così
sintetizzabile dalla sentenza della Cassazione: «Il potere
di valutare se sussistano o meno queste situazioni ostative alla scolarizzazione
compete all'amministrazione preposta al ramo di attività dato, previo, ove
occorra, un giudizio medico. Non è possibile procedere all'ammissione provvisoria
dell'handicappato, e valutare solo successivamente la gravità del suo
handicap, poiché la scuola ha il dovere di accertare preventivamente la
menomazione, al fine di impedire un danno sia all'handicappato sia alla classe
intera».
È più che evidente come il documento del C.N.P.I. si ispiri a questi
principi, quando sviluppa in più punti la sua proposta di una diagnosi precocissima obbligatoria di
handicap e di scolarizzabilità da presentare per
l'iscrizione alla stessa scuola materna, come abbiamo già documentato. Ma vi è
di più: se pure in modo più sfumato e meno categorico rispetto alla
Cassazione, anche il C.N.P.I. rivendica alla scuola
una partecipazione alla diagnosi di handicap: «l'individuazione degli handicaps non può essere operata solo dal punto di vista
sanitario»; «si rende necessario un coinvolgimento nel momento della diagnosi
(...) della scuola» (punto A a).
In realtà, dietro questi argomenti vi è uno scontro
giuridico assai serio. La Cassazione sentenzia che «l'amministrazione scolastica
ha l'obbligo giuridico di valutare l'anomalia prima della ammissione alla frequenza: ed
è questo il punto nodale in cui contraddice la decisione del Tribunale, il
quale aveva affermato che l'eccezione prevista dall'art. 28 della legge n.
118/1971 è invocabile solo a posteriori,
quando l'osservazione diretta del comportamento dell'alunno ed il giudizio
tecnico scientifico abbiano accertato l'insuperabile gravità della carenza.
L'infondatezza del principio enunciato dalla Cassazione è sottolineata dal
D.P.R. 22 dicembre 1967 n. 1518, che regolamenta i servizi di medicina
scolastica, posto che gli accertamenti ivi previsti
possono esigere un'osservazione del bambino alla quale è funzionale
l'esperimento scolastico. Infatti l'articolo 31 di
detto decreto occupandosi dei soggetti che presentano anomalie o anormalità somatopsichiche che non consentono la regolare frequenza
nelle scuole comuni e che abbisognano di particolare trattamento ed assistenza
medico-didattica, prevede una serie di segnalazione/osservazione della scuola
culminanti nel medico scolastico» (E. Fassone).
PER
UNA CARTA DEI DIRITTI DEL BAMBINO HANDICAPPATO
Ci siamo domandati se, a questo punto, era opportuno
tentare di proporre soluzioni concrete, alternative a quelle avanzate nel
documento del C.N.P.I. Abbiamo, invece, preferito
approfondire la stessa tematica partendo da un altro
punto di vista, quello forse più essenziale, e analizzare i fondamentali bisogni
dei bambini handicappati, e quindi i loro diritti e le norme che li tutelano:
un'analisi sintetica, quasi una carta dei diritti che può essere utilizzata come
una serie di «misure» o «parametri» per esprimere giudizio di congruità e di
corrispondenza da parte delle istituzioni e degli interventi educativo-scolastici rispetto ai bisogni-diritti dei
bambini handicappati.
Come premessa generale, ci sembrano quanto mai calzanti le seguenti osservazioni di Carlo Brutti: «L'handicappato è un bambino. L'incontro con il bambino handicappato ci ha tatto
capire che egli ci interpella, in primo luogo, come
bambino totale; ci suggerisce, cioè, che al di là del suo handicap, egli
esiste come bambino, con i bisogni e i desideri di ogni bambino, con gli stessi
diritti e le stesse aspettative. La stortura del nostro approccio al
bambino handicappato ci deriva, primariamente, dal misconoscimento di questa
fondamentale realtà».
Il diritto all'educazione
Il primo, fondamentale bisogno e diritto del bambino
handicappato è quello - garantito dalla Costituzione
- all'educazione: «Gli inabili ed i minorati hanno diritto all'educazione e all'avviamento professionale»
(Cost. art. 38, c. 3) (12) e si deve aggiungere: diritto
al massimo di educazione: da una parte, un'educazione
specifica e specialistica, integrata con interventi sanitari, psicologici,
riabilitativi e sociali, dall'altra parte, un'educazione globale, con un'attenzione
a tutta la personalità del bambino e al suo ambiente, e non solo concentrata
sull'handicap.
«Anche laddove è stato
possibile realizzare un programma di recupero, questo è risultato, spesso,
fallimentare proprio perché si è rivolto all'handicap e non al bambino totale e
al suo ambiente. Non si è fatto, cioè, appello al
bambino totale che è, al di là della sua minorazione, né alle risorse
ambientali per mobilizzare tutte le energie da coordinare per un sostanziale superamento
dell'handicap» (C. Brutti).
Di qui le due misure o parametri per giudicare
l'adeguatezza delle strutture e degli interventi educativi sul l'handicappato,
e la loro rispondenza ai suoi bisogni: se garantiscono il massimo di educazione specifica e insieme il massimo di educazione alla
persona e alla personalità globale del bambino.
Il diritto alla famiglia
Anzitutto il bisogno di una famiglia: in cui il bambino handicappato
possa svolgere le sue basilari relazioni affettive e maturare i suoi rapporti
fondamentali con la realtà. La
lotta antiistituzionale in favore di tutti i bambini
e in particolare per i bambini handicappati, ha già dato alcuni frutti, ma
ancora con molta leggerezza e insensibilità ì minori handicappati vengono avviati in istituto da parte delle USSL o dei Comuni.
Ciò in violazione anche di precise norme di legge, come
quelle contenute nella legge 4.5.1983, n. 184 (Disciplina dell'adozione
e dell'affidamento dei minori) che sancisce il diritto del minore
«di essere educato nell'ambito della propria famiglia» (art. 1), e prescrive la
ricerca di soluzioni alternative prima del ricorso all'istituto: «Il minore
che sia temporaneamente privo di un ambiente familiare
idoneo può essere affidato ad un'altra famiglia, possibilmente con figli
minori, o ad una persona singola, o ad una comunità di tipo familiare» (art.
2).
Talora, anche la scuola ha le sue responsabilità
nell'ististuzionalizzazione dei bambini handicappati
soprattutto gravi: quando non offre tutti i supporti necessari e dovuti
(dall'assistenza globale, al tempo pieno) in un clima di piena accettazione e
integrazione.
Il diritto di vivere nel proprio
ambiente
Un altro bisogno-diritto, strettamente collegato al
precedente, è quello di conservare e sviluppare i legami naturali con l'ambiente più prossimo: la parentela,
il vicinato, il territorio di appartenenza. Tutta una
vasta cultura e una legislazione diffusa in molti campi ha
introdotto in questi anni l'esigenza della territorialità
per i vari interventi socio-sanitari, riabilitativi, educativi, scolastici,
assistenziali: molte leggi nazionali e regionali hanno regolamentato tale insediamento
sul territorio, di altrettante strutture fondate sul decentramento e sulla
partecipazione.
In particolare, la struttura educativo-scolastica
deve assicurare, per quanto possibile:
- la vicinanza dell'intervento all'abitazione del
bambino handicappato, anche per evitargli i disagi del trasporto, disagi molto più sofferti da parte degli handicappati gravi che
purtroppo risultano spesso sottoposti ai più lunghi trasporti;
- la continuità di gruppi di
riferimento con bambini dello stesso caseggiato, dello stesso vicinato e della
stessa scuola;
- la continuità di gruppi di coetanei nei passaggi
dall'asilo nido alla scuola materna e alla scuola
elementare.
La stessa struttura educativo-scolastica
deve assicurare ai genitori del bambino handicappato:
- il minor disagio possibile nell'accompagnamento
del proprio figlio;
- una concreta possibilità di contatti frequenti col
personale educativo-scolastico;
- un'effettiva possibilità di «partecipazione»
agli organi collegiali previsti dalle norme vigenti nelle strutture educativo-scolastiche.
Il diritto di veder rispettato il
rapporto naturale handicappati - non handicappati
Altro principio fondamentale e
spesso violato da certe strutture educativo-scolastiche:
il principio del rapporto naturale
fra handicappati e non
handicappati. Esiste in natura una proporzione percentuale di handicappati
rispetto alla popolazione totale che, a giudizio di
molti, risulta pressoché equilibrata nelle varie realtà territoriali, per cui
la rottura di questo equilibrio non può che recare diversi svantaggi:
- tale equilibrio è una
reale «garanzia» di una mîgliore accettazione e quindi integrazione dell'handicappato
nel suo contesto ambientale, mentre la concentrazione anomala e artificiale di
molti handicappati pregiudica tale accettazione e integrazione (13);
- in modo analogo tale
equilibrio naturale è la migliore «garanzia» anche per gli educatori e gli insegnanti:
le strutture educativo-scolastiche in cui si verifica
una eccessiva concentrazione di handicappati, senza un rapporto equilibratore
con realtà diverse, possono indurre negli operatori atteggiamenti personali
meno positivi anche dal punto di vista psicologico; come pure pare essenziale
assicurare agli stessi operatori la possibilità di intervenire, con turnazioni,
sia su bambini handicappati, sia su bambini non handicappati.
Il diritto ad una diagnosi e ad una
cura
Un'altra serie di bisogni-diritti riguarda la diagnosi e la cura del bambino handicappato.
La diagnosi non può che essere scientificamente
garantita, ma anche ufficialmente convalidata, a piena tutela e garanzia del
bambino e della sua famiglia. Ma soprattutto deve essere una diagnosi evolutiva
che accompagna il bambino nel suo sviluppo: in particolare, al momento
dell'ingresso all'asilo nido o alla scuola materna, ma anche alla scuola
elementare, una diagnosi non può essere talmente fissa e predeterminante sul destino
del bambino handicappato, da avviarlo, a quest'età,
senza soluzioni intermedie, a ben definiti gruppi, sezioni, o classi speciali
formate di soli handicappati.
Lo stesso grave errore compie il C.N.P.I. quando nel suo
parere richiede una diagnosi obbligatoria a tre anni che predetermirebbe
la destinazione del bambino handicappato verso la scolarizzazione o la non
scolarizzazione. Occorre insistere invece sul ruolo «dinamico» di una diagnosi
funzionale al processo educativo, in contrapposizione ad un superato concetto
di «certezza diagnostica».
Le cure e le terapie, a loro volta, devono essere affidate a personale professionalmente preparato e
riconosciuto, e non a personale concorrente con preparazione inferiore o
diversa, col rischio di provocare interferenze, sovrapposizioni o, peggio,
dei danni sullo stesso bambino. D'altra parte, anche le terapie dei
professionisti non possono non tener conto della personalità globale
del bambino, della sua emotività e dei suoi bisogni di rapporti affettivi e
sociali: certe terapie o riabilitazioni «d'urto», anche se possono raggiungere
risultati immediati, ad esempio, sul versante motorio, risultano spesso gravemente
lesive dei bisogni più profondi del bambino.
Occorre rovesciare una certa prospettiva che
influenza un tipo corrente di rieducazione specifica dell'handicappato. È certamente
importante che l'handicappato motorio impari a camminare, che l'handicappato
del linguaggio impari a parlare. Ma
è forse ancora più importante porsi altre domande al riguardo, come hanno tatto
alcuni educatori di handicappati molto gravi:
Camminare,
per andare dove?
Parlare, per
chiacchierare con chi?
Il diritto a modelli sani di
riferimento
Un ulteriore bisogno-diritto
fondamentale da affermare con particolare energia, perché basato su molte ricerche
scientifiche ed esperienze educative, é quello del bisogno-diritto del bambino
handicappato a modelli sani di
riferimento: per poter entrare in relazione con comportamenti non solo anomali
(come avviene in un gruppo di soli handicappati), per poter interagire con
sollecitazioni non patologiche, per poter sviluppare risposte adeguate, nel
limite del possibile, a tali comportamenti e sollecitazioni; in una tendenza di
sviluppo in cui l'inserimento e l'integrazione risultano, appunto
un mezzo primario di terapia, di educazione, di socializzazione e di apprendimento.
Anche per gli handicappati gravi va affermato e
realizzato il principio del «minimo di isolamento e massimo di socializzazione» (Parent e Gonnet): il minimo di
isolamento per favorire interventi individualizzati indispensabili, ma con una
sforzo continuo di confronto e dì coinvolgimento del gruppo e nel gruppo al
fine di una effettiva socializzazione.
«L'antico programma dell'inserimento in classi speciali, in istituti medico-psico-pedagogici,
in centri per spastici, ecc., rispondeva ad una logica distorta, non perseguiva
cioè la realizzazione di comunità di bambini, ma formava un'aggregazione di
handicap con il risultato paradossale del rafforzamento di ogni singolo
handicap da parte degli altri. E quale sostanziale recupero
era allora possibile?» (C. Brutti) (14).
Il diritto ad un trattamento educativo
idoneo qualunque sia la struttura
Infine, i bambini handicappati hanno diritto ad un
trattamento educativo analogo e non differenziato (e quindi non
discriminante) in qualunque struttura - statale, comunale, privata - essi vengano avviati dalla loro famiglia.
In particolare, le norme statali e regionali sull'integrazione degli handicappati dovrebbero essere
valide per tutte le strutture qualunque sia la loro
configurazione giuridica. Se tali norme sono dettate per rispondere ai bisogni
dei bambini e creano dei diritti nelle famiglie e nei bambini stessi, qualora
talune strutture non le osservino, o le applichino in modo molto diverso, in
questo caso non rispondono ai reali bisogni e giungono a violare dei diritti o
comunque a creare una categoria dì bambini a cui si risponde
in modo diverso e discriminante rispetto ad altri bambini.
Nello specifico, vogliamo ricordare la circolare
ministeriale n. 258 del 1983 che indica le linee fondamentali per le intese tra
Scuola, Enti locali e UU.SS.LL.,
in particolare là dove «considera essenziali» i contributi degli Enti locali,
anche, tramite «l'adeguamento dell'organizzazione e del funzionamento degli
asili nido e delle scuole materne comunali alle esigenze di bambini portatori
di handicap, al fine di avviarne precocemente il recupero, la socializzazione
e l'integrazione».
Allegato 1
DA
TORINO, LA SOCIETÀ ITALIANA DI NEUROPSICHIATRIA INFANTILE «PREOCCUPANTE ARRETRAMENTO»
(*)
Nell'ambito delle attività formative e di ricerca
promosse dalla sezione piemontese della Società di Neuropsichiatria Infantile, svoltesi a Torino
dall'11 ottobre al 13 dicembre 1986 sotto il titolo «Territorio/terapia: esperienze a confronto», si è tenuto il
giorno 8 novembre '86 il seminario dedicato all'inserimento scolastico: «Il bambino che apprende:
progetto terapeutico e progetto educativo». I partecipanti hanno espresso al termine dei lavori la presente
Mozione votata all'unanimità:
«Preso atto della pronuncia n. 410 del 2 luglio 1986
del C.N.P.I. in ordine alla
revisione normativa sull'integrazione scolastica degli alunni in situazione di
handicap nelle scuole materne, elementari e medie, ì partecipanti dissentono
sostanzialmente dalle enunciazioni contenute nel punto d) del cap. relativo
alle "Proposte di interventi",
che si riporta integralmente:
«Il Consiglio
(nazionale della Pubblica Istruzione, n.d.r.) ritiene che si debba provvedere
a verificare se veramente siano scolarizzabili
i soggetti in situazione di handicap gravissimo, quando la minorazione si
connoti come irreversibile anche in presenza di appositi interventi terapeutici.
In questi casi. l'inserimento nella scuola sembra
costituire solo un intervento illusorio: tanto varrebbe prenderne atto e
ricorrere a interventi di altro tipo che debbono ricadere sotto la competenza
del Servizio sanitario nazionale. A tal fine, il Servizio sanitario nazionale
dovrà essere sollecitato a definire le tipologie di queste minorazioni
gravissime in modo che se ne possa tenere conto nel
momento della diagnosi.
«Con questo parere il C.N.P.I.
indica una linea di preoccupante arretramento nella politica dell'inserimento
scolastico degli handicappati. Non solo non tiene conto delle esperienze positive realizzate faticosamente in questi anni in numerose
scuole e in diverse realtà territoriali regionali e nazionali (le quali hanno
dimostrato quanto, anche i soggetti gravemente compromessi nel loro sviluppo,
possano trarre ulteriori stimoli evolutivi e di beneficio da un inserimento
scolastico e da una azione educativa mirata alla convivenza ed alla globalità
della persona), ma esclude come soggetti dell'azione educativa proprio coloro
che maggiormente dovrebbero usufruirne, relegandoli ad un ruolo esclusivo di
"malato" e di soggetto sanitario piuttosto che scolastico.
«In base ai dati delle esperienze in corso testimoniate
in questa giornata di studio del convegno Territorio/Terapia, i partecipanti
ribadiscono quindi:
- che l'ambiente scolastico e sociale normale, se
attiva i necessari strumenti per l'inserimento ed il lavoro educativo, è in
grado di fornire stimoli a quelle capacità comunque
presenti anche nei bambini handicappati gravissimi;
- capacità che non si possono dare come irrimediabilmente
compromesse o di esclusivo intervento terapeutico-riabilitativo ovvero di esclusiva competenza
del servizio sanitario nazionale.
«Limitare la competenza scolastica al solo processo di istruzione, significa limitare di fatto la competenza ed
il ruolo educativo che soltanto la scuola può mettere in atto nel più ampio contesto
sociale in cui si svolge il complesso processo educativo-formativo
degli individui in crescita (bambino - alunno normale ed handicappato).
«Un ambiente scolastico e sociale che garantisca i
processi evolutivi per gli apprendimenti ed il consolidarsi della strutturazione
della personalità dell'individuo in crescita, può
coadiuvare l'azione di prevenzione dell'attuale disagio giovanile (disadattamento
scolastico, dissocialità, tossicodipendenze) in un
momento in cui le trasformazioni sociali e del mercato del lavoro impongono
azioni partecipate tra scuola e servizi sociosanitari.
«Azione di prevenzione che per la scuola è una azione educativa globale alla quale, secondo le
dichiarazioni del C.N.P.I., dovrebbe irresponsabilmente
rinunciare, delegando all'ambito ed alla competenza sanitaria anche il suo
compito preventivo-formativo.
«Va sottolineato, inoltre,
che il concetto su cui il C.N.P.I. poggia la propria
indicazione di esclusione dei soggetti handicappati gravi, è un concetto di
"irreversibilità" che inerisce strettamente
criteri clinici ed etiopatogenetici; ma, di per sé,
non qualifica la "educabilità" e le
capacità adattativo-comportamentali del bambino malato;
pertanto, non sono questi i criteri sui cui fondare la esclusione o meno dalla
scuola (intesa come servizio educativo per tutti i bambini).
«L'eccessiva settorializzazione
dell'intervento educativo, basato su tipologie strettamente
sanitarie dell'handicap, rischia di dirottare verso ipotetiche
strutture specialistiche terapeutico-sanitarie una
competenza che è innanzi tutto sociale ed educativa, incrementando l'attuale
tendenza alla deresponsabilizzazione da parte della
scuola comune ed il dirottamento della spesa pubblica più verso strutture
sanitarie specialistiche che verso strutture socio-sanitarie di base (di cui
parlano sia le circolari relative alle Intese tra enti locali, USL e
provveditorati agli studi, sia la legge 833/78), attraverso cui attuare una
effettiva progettualità preventivo-educativo-sociale.
«Si ritiene pertanto che la scuola debba esercitare
la propria competenza educativa anche nei riguardi degli alunni handicappati
gravi e gravissimi, avvalendosi della collaborazione dei servizi
socio-sanitari di territorio che già hanno in carico
per gli aspetti preventivi, di cura e riabilitazione il soggetto portatore di
handicap. Sarà necessario altresì la collaborazione degli
enti locali e delle ULS (ciascuno negli ambiti di propria competenza), per
realizzare quegli interventi mirati ad un reale e proficuo inserimento degli
alunni portatori di handicaps (vedi circolari
ministeriali), sia sul piano operativo (collaborazioni, formazione
comune tra educatori, insegnanti, équipes, procedure
e metodologie) che sul piano strutturale (rete dei servizi organici, programmazione
di spesa, ecc.).
«Pertanto, si auspica che la revisione
della attuale normativa sia scolastica che sanitaria sulla integrazione scolastica
tenga conto:
- delle sperimentazioni già
realizzate e dei fattori che le hanno rese possibili (quindi ripetibili ed estendibili);
- del fondamentale diritto di ognuno (handicappato e
non) alla educazione;
- della necessità di integrazione
tra i vari servizi e livelli coinvolti nella realizzazione strutturale ed
operativa».
Allegato 2
IL
MOVIMENTO APOSTOLICO CIECHI «NO A CLASSI E SEZIONI SPECIALI»
«Il consiglio nazionale del M.A.C.
(Movimento Apostolico Ciechi) ha esaminato le osservazioni svolte dai propri
esperti sul Documento in oggetto e le fa proprie.
«Il M.A.C. apprezza il
lavoro svolto dal Consiglio nazionale della Pubblica
Istruzione raccolto nel Documento del 2.7.86, pregevole per l'ampia
trattazione articolata ed i puntuali suggerimenti raggruppati in quattro
paragrafi, suddivisi in decine di proposte operative che si svolgono per 24
pagine, quasi tutte condivisibili, poiché coerenti con la "filosofia"
di una razionale integrazione scolastica per la quale il MAC opera da anni.
«Proprio per il rispetto a tale coerenza, siano
consentite alcune osservazioni, limitatamente al par. 4 lett. b pag. 22
riguardante la "istituzione di classi e sezioni attrezzate per non
vedenti".
«Questo è il testo che ci lascia perplessi, poiché
non ci sembra coerente con la lettera e lo spirito della legge n. 360/76 e legge
n. 517/77, e C.M. n. 258/83 e C.M. n. 250/85: "Per i minorati sensoriali,
sordomuti e non vedenti, si ritiene indispensabile, considerato l'obiettivo della acquisizione dei linguaggi e delle autonomie personali
attraverso idonei processi di apprendimento, il loro inserimento in classi,
ove possibile, anche in sezioni di scuola materna, istituite in plessi con
sezioni o classi di normovedenti o di normoudenti, in ambito distrettuale ed interdistrettuale,
assicurando per entrambe le categorie la presenza di insegnanti specializzati".
«Tale testo va integrato dalla Nota alla precedente
lett. a) di pag. 21, che, chiarendo il concetto di "unità scolastica
territoriale" definisce "gravi" i non vedenti e quindi non scolarizzabili in tutte le scuole comuni.
«In proposito, è preliminarmente da considerare che,
secondo i dati ufficiali forniti dall'Ufficio Studi e Programmazione del Ministero
P.I., pubblicati alla tab.
4 a pag. 16 del volume "Una strada nuova per l'integrazione scolastica
degli handicappati: le INTESE tra Scuola - UU.SS.LL.
- Enti locali" (ed. Fondazione E. Zancan - Padova
1985), i non vedenti iscritti nelle scuole comuni materna e dell'obbligo erano
nell'a.s. 1983/84 n. 1939, pari all'1,8
di tutti gli handicappati inseriti. Essi non sono variati di molto in questi
due ultimi anni scolastici; pertanto la presenza media di non vedenti in
ognuno dei circa 700 Distretti scolastici è di non più di tre. In tali condizioni
la proposta del Consiglio nazionale della P.I. si tradurrebbe necessariamente,
ove accolta, nell'istituzione di "unità scolastiche territoriali INTERDISTRETTUALI",
con la negazione del principio della "territorialità"
dell'integrazione scolastica e con ovvio aumento di spesa. Ma anche ove si
volessero istituire "classi attrezzate" a livello distrettuale, non
si vede come tale principio possa essere rispettato in distretti non
metropolitani, ad es. in zone montuose come al nord, ma anche al Sud, in Calabria,
o in distretti estesissimi, ad es. nel salernitano.
«Scendendo più nel merito, stando al testo letterale
della proposta, essa è giustificata solo dall'obiettivo di "acquisizione di autonomie personali attraverso idonei processi di
apprendimento (...) assicurando la presenza di insegnanti specializzati".
«Ora, tale obiettivo si è raggiunto quasi completamente,
ove sono state stipulate "intese" espressamente riguardanti l'integrazione
scolastica dei non vedenti. Si confronti ad es. la situazione
della Provincia di Bergamo, di Verona, di Genova, di Bologna e dell'Emilia
Romagna in genere che ha addirittura stipulato una "intesa regionale".
Sono le "intese" di cui alla C.M. n. 258/83 che garantiscono il
necessario materiale didattico e la preparazione degli insegnanti
specializzati, oggi seriamente impostata dai nuovi programmi dei corsi
biennali di specializzazione di cui al D.M. del
24.4.86 e dall'O.M. n. 194 del 24.6.86 molto apprezzati dal C.N.P.I.
«La logica delle "intese" è espressamente
richiamata dal Consiglio nazionale nella successiva lett. c), sempre a pag. 22
e si condivide pienamente la proposta di una normativa nazionale che renda
obbligatori tali atti amministrativi, come già proposto dal Ministero P.I. il
21.4.86 con l'emendamento all'art. 8 del d.d.l n. 2906 del 23.5.85 (Legge-cornice sul
diritto allo studio). A tal fine si auspica che il Parlamento, specie la
Commissione della Camera, che ha all'ordine del giorno la discussione della
proposta di "risoluzione" Armellini ed altri n. 7/00293 sull'integrazione
scolastica degli handicappati, tramite le "intese" ponga
al più presto all'ordine del giorno dei suoi lavori l'approvazione dell'emendamento
del Ministero P.I.
«Sono le "intese" che, precisando esattamente
le "rispettive competenze dello Stato e degli
Enti Locali", consentono ad ogni scuola comune di acquisire servizi, materiale
didattico tiflologico e personale specializzato in
misura e dislocazione territoriale tali da permettere l'impostazione di
"piani educativi individualizzati per ogni singolo non vedente".
«Si chieda ai Gruppi di lavoro presso i Provveditorati
agli studi di Bergamo, Trieste, Verona, Genova, Parma, Ferrara, Bologna, Torino
e troveranno realizzata anche l'ultima proposta del C.N.P.I.
di pag. 23, che pienamente si sottoscrive, e cioè che
in molte, di quelle città è stata programmata la partecipazione degli istituti
speciali per ciechi non in talune “scuole attrezzate” all'integrazione
scolastica, ma in ogni singola scuola di residenza dei non vedenti. Questo è
il contributo ineliminabile che le "istituzioni speciali" possono
dare all'integrazione, rispettando il principio della "coeducazione di ciechi e vedenti,
razionale e generalizzata".
«Il MAC è grato al C.N.P.I.
anche per la proposta che viene criticata, perché è
stata data a questa e ad altre Associazioni la possibilità di chiarire il
proprio pensiero su un punto di vitale importanza. Il M.A.C.
sarà grato se si vorrà sottoporre a vaglio critico le proprie osservazioni e
riesaminare il brano commentato nello spirito di dialogo e di partecipazione
fra Organi istituzionali e cittadini».
(1) A. AGOSTI DABBENI, Le strutture per il sostegno e la
differenziazione, in C. SCURATI (a cura di), La nuova scuola elementare, Commento ai Programmi, Ed. La Scuola, Brescia, 1986, p. 288.
(2) Ufficio Diocesano per la Pastorale
dell'Assistenza di Torino, Handicappati e
comunità, Integrazione nella chiesa, nella società, nella scuola, nel mondo del
lavoro, Ed. Omega, Torino, 1977, pp. 19-21. Cfr., inoltre: «Come si emarginano gli alunni nella provincia di Torino. Da una indagine dell'A.A.I. sulle classi speciali e
differenziali a Torino», in Prospettive assistenziali, n. 20/1972, pp. 43-58.
(3) Cfr.:
Ufficio Diocesano..., cit., p. 21.
(4) M. PAVONE, P. ROLLERO, «L'integrazione degli handicappati nei nuovi programmi», in Scuola Italiana Moderna, n. 8/1985, pp.
14-16.
(5) A.M. DE VITA, «L'inserimento dell'handicappato
a scuola. A condizione che...», in La Vita Scolastica, n. 11, febbraio 1987, pp. 9-11.
(6) R. LAFON, «Le nostre concezioni ed
i nostri atteggiamenti di fronte all'insufficienza mentale: non contribuiscono
in qualche modo a strutturare l'insufficiente mentale?»,
in Prospettive assistenziali n. 5/6, 1969, pp. 51-55 (da Sauvegarde
de 1'Enfance n. 2/3, 1968: relazione al primo
simposio internazionale sull'insufficiente mentale, Roma, 19-24 marzo 1968).
(7) Ibidem.
(8) Ibidem
(9) Cfr.: M.
PAVONE, P. ROLLERO, cit. nota 4; si veda, inoltre: «Perché siamo contrari alla
concentrazione di alunni handicappati in alcune
scuole particolarmente attrezzate», in Bollettino
di Informazione, anno I, n. 8, maggio 1986, p. 4 e segg.
(10) A. CANEVARO, «Handicap
e scuola: consolidamento o restaurazione?», in Informazioni dell'Istituto di ricerca sulla comunicazione, Pescara,
n. 1/1986, p. 2.
(11) Ci sembra molto calzante questa
osservazione di G. Bollea: «Mi preoccupo solo del
fatto che si sta sostituendo al mito della socializzazione emerso sull'onda
del '68, quello dell'apprendimento
che emerge in parte sull'attuale onda restauratrice, ma, soprattutto, su
quella dell'era informatica che è alle porte » (cfr.
G. BOLLEA, «L'integrazione dell'handicappato nella scuola è scientificamente
possibile», in L'Educatore, n.
21/1987, p. 73).
(12) Non ci sembra casuale, come si é
detto, l'uso del termine «educazione»
nello stesso art. 38 della Costituzione, in luogo di altri termini, come ricupero,
riabilitazione o simili: ciò è sfuggito agli estensori della sentenza della
Cassazione del 30.3.1981 e ai membri del C.N.P.I. nel
parere del 2.7.1986, in particolare, ove si prospettano strutture sanitarie per gli handicappati gravi.
(13) Vogliamo ricordare l'esempio
efficace che anni fa ci riferiva il Pastore Wintsch:
in una carrozza ferroviaria la presenza di un solo handicappato induce
accettazione e integrazione, mentre la presenza di molti handicappati fa
scattare spiegabili atteggiamenti di rifiuto fra gli altri passeggeri.
(14) Concetti analoghi troviamo nelle
seguenti profonde riflessioni di Giulia Basano, a proposito del suo figlio adottivo,
nel commovente libro «Storia di Nicola.
Le conquiste di un bambino handicappato grave nel racconto della madre
adottiva» (Torino, Rosenberg & Sellier, 1987, a pag. 65): «Aveva senso cercare di
spiegare, di conquistare la simpatia di qualcuno. Perché proprio in mezzo agli altri Nicola aveva
cominciato a sorridere. Aveva bisogno di tutti, non solo delle persone
buone con lui, aveva bisogno che il mondo gli girasse
intorno, e di sentirsi immerso nella realtà, così com'era. Anch'io
dovevo rientrare nella realtà, accettare gli altri, con le loro debolezze,
confrontarmi, spiegare, aiutarli a capire. Impedire che diventasse un
"caso" per sempre. Gli altri dovevano vedere in lui ciò che avevo visto io. Un bambino
come tutti gli altri. Più infelice di tanti, più
sfortunato, ma un bambino, con i suoi
affetti, le sue gioie, le sue paure, la sua rabbia, il suo desiderio di un rapporto autentico. Un bambino disorientato,
chiuso, spaventato, ma un bambino.
Doveva stare in mezzo alla realtà, affrontando ogni giorno i problemi che si
presentavano. lo dovevo immetterlo pian piano, allargando
gradualmente le sue possibilità di esperienza».
(*) Mozione approvata nel corso del
seminario promosso dalla Società italiana di Neuropsichiatria Infantile (SINPI),
sezione Piemonte, Torino, 8 novembre 1986. Cfr.: Bollettino di
informazione, Torino, n. 4-5/1987, pp. 6-7.
www.fondazionepromozionesociale.it