CRISI DELL'ADOZIONE O CRISI DEI GIUDICI?
PIER GIORGIO GOSSO (*)
Il presidente del tribunale per i
minorenni dell'Emilia-Romagna dott. Sacchetti, sotto
il titolo «Dall'adozione
all'affidamento familiare. Coscienza di una crisi e di una prospettiva», traccia
con dovizia di annotazioni - nel n. 3 della rivista
«II bambino incompiuto» (1985) - una diffusa disamina critica degli istituti
dell'adozione e dell'affidamento dei minori, a partire dalla
legge 431/67 ad oggi.
Terminata la laboriosa lettura dell'articolo (disseminato
di preziosismi lessicali quali «controllo catamnestico», «sinergismo», «espianto», «scientismo», «nomofilachia», «stigma», ecc., e infarcito di ricercate
espressioni socio-politiche), sorge spontaneo un moto di ammirazione per il «coraggio»
di cui il titolato estensore dà prova nel suo lungo saggio (e, del resto, è lui
stesso ad usare quel vocabolo) e per lo «scandalo» che egli «provocatoriamente»
si propone di suscitare nel panorama della «cultura critica dei rapporti
familiari» (si citano, anche qui, espressioni autentiche, coniate alla pag.
150 dello scritto).
Non c'è dubbio: quanto a coraggio verbale, il dott.
Sacchetti - stando al testo del suo intervento - ne ha da vendere, né sembra
davvero secondo a nessuno, tale è il piglio con il
quale le sue affermazioni vengono perentoriamente enunciate; ed è certamente
una facile profezia immaginare che le sue tesi scateneranno (se già non l'hanno
fatto finora) risposte cariche di altrettanta, se non maggiore, violenza
verbale.
Resta, però, da considerare se, nella fattispecie,
di vero coraggio si tratti, secondo l'etimo del termine, o se, piuttosto, non
ci si trovi davanti ad una manifestazione di amaro
cinismo. Un classico esempio, insomma, del come un certo tipo di impegno, apparentemente ispirato all'esigenza di
approfondire le tematiche dell'abbandono e della correlativa tensione verso
una responsabile applicazione degli istituti a tutela dell'infanzia, finisca
per approdare al qualunquismo.
D'altronde l'avvio del ragionamento sacchettiano parte da una premessa scientifica che è immediatamente disattesa nel corso del suo successivo periodare
e che inficia, pertanto, ed irrimediabilmente, l'intera portata del discorso.
Ed invero, subito dopo aver innalzato alti lai circa il fatto che in Italia non
esistano delle serie indagini conoscitive sul «dopo-adozione», attribuendone
la causa da un lato alla tendenza di troppe famiglie adottive a ripiegarsi su
se stesse e dall'altro ad un preteso divieto di legge a ciò frapposto dall'art.
71 della legge 184/83 (ma attenzione: la norma in questione è - caso mai -
l'art. 73 comma 1°, il quale si limita sacrosantamente a proibire a tutti coloro che intervengono nello svolgimento di pratiche adozionali - e quindi a magistrati, cancellieri, medici,
psicologi, operatori sociali, notai, impiegati comunali, ecc. - di violare il
segreto d'ufficio e di rendere possibile il rintraccio fisico e anagrafico del
minore adottato, e non é affatto ostativa alla conduzione di ricerche
scientifiche sulla valenza sociale e sugli inserimenti del post-adozione),
l'autore articola poi l'intera sua esposizione dando per scontate, in termini
di generalizzazione, realtà di fatto che aveva appena finito di lamentare per
mai verificate da nessuno.
Ma c'è di più. Che cosa pensare dell'iniziativa di un
magistrato minorile che in quanto tale (e non, poniamo, come giudice degli
sfratti o delle esecuzioni immobiliari) ravvisa pubblicamente nell'adozione
legittimante (pag. 148) una «scelta politico-giuridica ... la cui traumaticità morale non cessa di drammatizzarne ogni applicazione
concreta», e le cui motivazioni - ove effettivamente sondate - porterebbero «a
galla bisogni compensativi da livellare in negativo, sul generale sostrato
delle emozioni, tutti i soggetti esaminati» (pag. 149), che vi riconosce (pag.
150) la «esorbitanza ... di imporre la regola della ragione e delle scienze ..., il dominio del diritto e degli apparati istituzionali,
sullo spessore emotivo in cui si radicano le famiglie e le persone ..., di
decidere, in surroga della natura e di Dio, dove un figlio dovrà, attraverso
l'adozione, rinascere», per poi liquidarla, con giudizio sommario senza
appello, come il frutto di «sicurezze teoriche» e del «ritorno sessantottesco
del romanticismo» (pag. 148, ancora), che concepisce l'affidamento familiare
come una «ideologia carica di utopia e di volontarismo umanitario» (pag. 152)
e come enorme carrozzone per convergenti interessi politici degli enti locali,
corporativi dei servizi sociali, familiari di chi non vuol perdere i figli, e
dei giudici tutelari che vogliono scavalcare la competenza dei colleghi
minorili (pag. 155)?
Nessuno, certamente, si sognerebbe di negare che i
giudici, in quanto esperti del loro settore, possano (e talvolta debbano addirittura)
interloquire sui temi giuridici e giudiziari, apportando un proprio
qualificato contributo al dibattito sulle
problematiche che vi sono contenute. Sappiamo anche (e qui abbiamo qualche
riserva) che sempre più spesso vi sono magistrati che non disdegnano di
comparire su rotocalchi e quotidiani e sugli schermi della televisione. Ci va
tutto bene, purché ciò avvenga nel rispetto delle regole di correttezza che,
primi fra tutti, i magistrati sono tenuti ad
osservare. Quando, invece, gli interventi - come nel caso di specie - appaiono
improntati ad una visione pessimistica che stravolge l'intera ragion d'essere
degli istituti di cui si è chiamati istituzionalmente a curare la quotidiana
realizzazione nell'interesse del minore e della società, e negano la bontà
delle innovazioni introdotte da una legislazione che non ha fatto altro che
adeguarsi ad avanzamenti già acquisiti da decenni presso altre nazioni civili:
quando, per sostenere delle tesi preconcette, si giunge a calpestare la verità
storica che promana dall'esperienza (come fa il Sacchetti
allorché sostiene alla pag. 149 che la scelta selettiva degli affidatari preadottivi è
«largamente illusoria» e che la «strumentalità»
dell'indagine psicologica che la sostanzia «la rende deformante», per poi
addirittura affermare apocalitticamente - pag. 150 -
che l'adozione lascia irrisolto il problema dei minori ricoverati in istituto,
o che la legge 184/83 ha segnato la «apertura ufficiale della crisi
dell'adozione » attraverso il riconoscimento della necessità degli affidi,
tacendo che questi ultimi erano in funzione quanto meno dagli inizi degli anni
'70), ebbene noi sosteniamo che tutto ciò è inaccettabile e dev'essere
fermamente contrastato come atteggiamento suscettibile di minare alle radici
il rapporto di fiducia che deve sempre permeare le relazioni tra amministrati
e amministratori della giustizia (soprattutto minorile), privandolo dei suoi
essenziali connotati di equilibrio, dì serenità e di credibilità, e come
estremamente esiziale a petto delle esigenze di difesa del bambino solo. Ecco dove sta il vero «scandalo».
Sfogli, il Sacchetti, i dati
ISTAT sull'abbattimento dell'istituzionalizzazione dei minori (ridottasi, ed
è insufficiente - siamo d'accordo -, del 75% negli ultimi vent'anni),
vada a visitare gli istituti sia italiani che stranieri da cui tanti bambini e
ragazzi sono usciti e potrebbero ulteriormente uscire se venisse meglio
sensibilizzata la pubblica opinione le se venissero meglio incanalate le
potenzialità di famiglie adottive ed affidatarie in pectore, e venisse gestita
con maggior competenza e professionalità l'attuale disciplina dell'abbandono.
Dialoghi e si informi, in proposito, presso chi da
anni opera su questi fronti nell'ambito dell'associazionismo di base e di
volontariato, e poi saprà dire se la parabola dell'adozione legittimante sia da
intendersi conclusa, se il suo ciclo sia da ritenersi compiuto.
Ma c'è di peggio. Se nella parte enumerativa
del suo studio il Sacchetti scopre l'acqua calda
dilungandosi (pag. 150) sulle superficialità con cui troppo spesso sono
condotti i controlli sugli affidamenti preadottivi
(chi scrive sa anche di controlli mai eseguiti se non sulla carta!), ponendo
in risalto (pag. 149) i seri problemi di inserimento e di identificazione
degli adolescenti adottati, specialmente stranieri, nonché la tendenza di
molte famiglie adottive a chiudersi a riccio nella gelosa intimità della
propria riservatezza (ma questi fenomeni - gli chiediamo - sono forse sconosciuti
nelle nostre famiglie «genetiche»?), oppure sottolineando che per sostenere
positivamente le esperienze adozionali o affidatarie
non bastano generici slanci affettivi, od ancora alludendo (ma di sfuggita, non
si sa mai) all'opportunità di «traguardare l'obiettivo» più sulla profilassi
che sulla cura dell'abbandono e di sviluppare la teoria e la pratica della
prevenzione, quando infine si trova - come in ogni lavoro che si rispetti - a
dover fare i conti con la parte propositiva della sua fatica, ecco allora che parturiunt montes, nascetur ridiculus mus.
L'adozione non è più funzionale, si ribadisce, perché si è deteriorata qualitativamente e ne è
caduta l'incidenza sociale, e con essa è crollata la pia illusione che il
bambino potesse trovare «la sua rasserenante palingenesi nella nuova famiglia»
(pagg. 149 e 155). Ma nemmeno l'affidamento, si è visto, gode
di buona salute, perché a sua volta «insidia l'adozione ed è paralizzato
da essa»: i due istituti, insomma, «anziché raddoppiare le occasioni, si
elidono» (pag. 154) essendo tra loro in antagonismo competitivo, scontrandosi
e imbrogliandosi «con effetti di inibizione reciproca e di abbattimento della
certezza del diritto» e favorendo «aspetti paralegali e criptoillegali»
(pag. 152). Infatti, per chi non lo sapesse, «gli
istinti captativi di coppie deluse nell'attesa di un figlio adottivo vengono
inevitabilmente risvegliati dalla promozione dell'affidamento familiare» e «sono
perciò spesso esse a dirsi disponibili, sperando di giungere per vie oblique
alla meta» (pag. 154, ancora): e con ciò una realtà in atto nella società
italiana da oltre dieci anni almeno (e che ha visto e vede tuttora il
raggiungimento di risultati, sia pur parziali, insperati nel recupero di
bambini e ragazzi in situazioni problematiche, attraverso la dedizione disinteressata
di nuclei familiari dotati di alta disponibilità e preparazione) viene immeschinita al rango di uno spregevole sotterfugio, alla
soglia della criminalità, per accaparrarsi bambini di contrabbando,
sorvolandosi arbitrariamente sul dato saliente dell'istituto, che - a
differenza dell'adozione - mira a sopperire a situazioni per lo più contingenti
ed è finalizzato a facilitare ed a rafforzare il rapporto del minore con la sua
famiglia naturale, preparandogli nei limiti del possibile il terreno per un suo
ritorno non traumatico né contraddittorio nel nucleo di origine.
Ebbene, che cosa propone il presidente Sacchetti per
mettere ordine e dare sapore a questa tragica insalata? È semplice e presto
detto:
1) da un lato si riduca l'adozione legittimante ai casi specifici di abbandono
di minori orfani o non riconosciuti (ed in questo modo i tribunali dei
minorenni, finalmente, non dovranno più preoccuparsi di ricercare famiglie
adottive in luoghi lontani dal territorio di origine);
2) dall'altro lato si ripristini l'istituto della affiliazione,
per coprire «le forme intermedie» tra affidi temporanei e adozione
legittimante;
3) per quanto riguarda i minori riconosciuti e non
orfani e già inseriti in nuclei eterofamiliari
consolidati, è più che sufficiente ritornare ad applicare la vecchia adozione ordinaria;
4) infine, per i casi di minori appartenenti a nuclei
disastrati, si potrà continuare a far oculato ricorso
all'affidamento (eventualmente anche a tempo indeterminato). In questo modo si otterranno molteplici risultati apprezzabili: l'abolizione,
innanzitutto, dei contenziosi dovuti alle resistenze frapposte dalle famiglie
di origine in nome degli atavici sentimenti legati al rapporto di sangue, e poi
una drastica limitazione delle domande di adozione, e - perché no? - dulcis in fundo, una
«decantazione delle offerte» (pag. 156). Come economia
di mercato del minore, non c'è male!
Ora, commentare a dovere una simile «prospettiva»
richiederebbe uno spazio eccessivo per queste colonne, per stigmatizzare
una polemica che, prendendo le mosse dall'interesse del minore, si risolve
alla fin fine nel preconizzare il ripristino di istituti affetti da
decomposizione cadaverica come l'affiliazione e l'adozione ordinaria e che si
pongono agli antipodi di quel diritto del minore ad essere educato
nell'ambiente familiare che oggi come oggi costituisce una sofferta conquista
sulla strada della lotta all'emarginazione e della prevenzione del bisogno
assistenziale da cui non è possibile - in barba ai vari laudatores temporis acti
di turno - retrocedere in alcun modo.
È sempre bene, in ogni caso, nei limiti del possibile
e facendo a meno di infingimenti verbali, andare a
fondo dei problemi, e senza troppi peli sulla lingua. Ed allora interroghiamoci
francamente, chiedendoci se la crisi dell'adozione (istituto da non portare,
per carità, alle stelle, in quanto pur sempre un ripiego d'emergenza riservato
ai casi estremi di abbandono conclamato, e comunque
sempre suscettibile di ritocchi e miglioramenti), oggi, non stia a denotare,
piuttosto, la crisi di rigetto di certi giudici (od equiparati) che mal hanno
digerito le riforme del 1967 e del 1983 e che ancora si trovano schiavi del
pregiudizio secondo cui la famiglia naturale (quella degli atavici vincoli di
sangue) «meno la si tocca e meglio è», e secondo i quali chi anela all'adozione
è soltanto uno sterile o un frustrato, disposto a qualsiasi atto pur di
impossessarsi di un bambino come di un proprio oggetto di consumo affettivo.
Chiediamoci perché mai presso vari Tribunali (Bologna
sarà forse uno di quelli?) la politica dei magistrati è soltanto quella di
scoraggiare le famiglie aperte alle adozioni e agli affidi, vanificandone le
disponibilità e depistandone le attitudini; perché mai l'adozione
internazionale in particolare sia prevalentemente sentita per partito preso
come un'operazione di ingegneria bio-psichica
contro natura, e le associazioni di volontariato che operano nel settore,
anche quelle serie, siano viste indiscriminatamente come delle agenzie di
collocamento del minore, se non addirittura come dei centri di prenotazione o
delle stazioni di appalto del bambino pre-confezionato e, quando ci si lascia
strappare obtorto collo una idoneità ad adottare bambini
di altra razza, le coppie e le famiglie vengono poi abbandonate a se stesse nel
marasma più completo, mandandole allo sbaraglio in un'insensata ricerca privata
del bambino, senza indicazioni di strutture ed organismi qualificati ed in
spregio alle direttive di cui all'art. 38 della legge 184/83, senza instaurare
responsabili, organici ed affiatati collegamenti permanenti con gli operatori
dei servizi sociali territoriali, con gli specialisti della materia e con le
predette associazioni, e senza nemmeno sognarsi di provare a tentare un
qualsivoglia coordinamento operativo con le competenti magistrature straniere
e gli altri organi istituzionali. Chiediamoci perché la legislazione sul
decentramento dell'assistenza all'infanzia (ed in particolare l'articolo 23 del
D.P.R. 616/77) continui ad essere a tutt'oggi
un'illustre sconosciuta per non pochi operatori giuridici, come se le norme
dello Stato fossero lettera morta e corpi senza vita.
Tutte cose, queste, su cui il Sacchetti ben si guarda
anche soltanto di soffermarsi fugacemente.
Il fatto è che oscurantismo e diritto di famiglia non
possono andare a braccetto, essendo concetti incompatibili
tra di loro, e tra essi non sono possibili né consentiti trapianti od innesti.
Tanto meno se si volesse sciaguratamente innestare sulla
pelle dei bambini gli istituti sui quali il presidente di Bologna ama
nostalgicamente indugiare, e cioè quell'affiliazione
che - inventata nel 1937 dal legislatore fascista ed a suo tempo nota come
«piccola adozione» o «rapporto d'allevamento» - mirava essenzialmente, gestita
dall'aborrito giudice tutelare, a fornire gratuite braccia lavorative
soprattutto nelle campagne del meridione, attraverso lo sfruttamento dei cosiddetti
«figli della Madonna» o «figli dell'anima», assicurando per di più agli
assegnatari delle non disprezzabili sovvenzioni statali ed escludendo
rigorosamente l'affiliato da qualsiasi vincolo di famiglia, ivi compreso il
diritto di eredità.
Quanto all'invocata riedizione dell'adozione ordinaria di infausta memoria, basterà
qui ricordare che - a parte il niente affatto trascurabile particolare che
essa, anche dopo la riforma del diritto di famiglia, resta riservata soltanto
agli «adottandi» maggiorenni - tale istituto è esclusivo appannaggio degli
«adottanti» privi di discendenza, mirando a «porgere a chi non ha prole un
benigno rimedio per collocare i propri affetti familiari e assicurare la
continuità del casato» (Rescigno, in Enciclopedia del diritto, volume I,
pag. 585), senza indurre alcun rapporto civile tra l'adottante e la famiglia
dell'adottato, né tra l'adottato ed i parenti dell'adottante (articolo 300
comma 2° Cod. Civ.)! E
tanto basta per toccare con mano con che cosa si abbia
a che fare: a buon intenditor, poche parole.
Non con questo spirito, non con queste umilianti
fughe all'indietro si può sperare di intravedere
ulteriori spiragli di luce nella promozione dei diritti del minore.
(*) Giudice istruttore del Tribunale di
Torino.
www.fondazionepromozionesociale.it