Prospettive assistenziali, n. 79, luglio-settembre 1987

 

 

CRISI DELL'ADOZIONE O CRISI DEI GIUDICI?

PIER GIORGIO GOSSO (*)

 

 

Il presidente del tribunale per i minorenni del­l'Emilia-Romagna dott. Sacchetti, sotto il titolo «Dall'adozione all'affidamento familiare. Coscien­za di una crisi e di una prospettiva», traccia con dovizia di annotazioni - nel n. 3 della rivista «II bambino incompiuto» (1985) - una diffusa disa­mina critica degli istituti dell'adozione e dell'affi­damento dei minori, a partire dalla legge 431/67 ad oggi.

Terminata la laboriosa lettura dell'articolo (dis­seminato di preziosismi lessicali quali «control­lo catamnestico», «sinergismo», «espianto», «scientismo», «nomofilachia», «stigma», ecc., e infarcito di ricercate espressioni socio-politiche), sorge spontaneo un moto di ammirazione per il «coraggio» di cui il titolato estensore dà prova nel suo lungo saggio (e, del resto, è lui stesso ad usare quel vocabolo) e per lo «scandalo» che egli «provocatoriamente» si propone di suscitare nel panorama della «cultura critica dei rapporti familiari» (si citano, anche qui, espressioni au­tentiche, coniate alla pag. 150 dello scritto).

Non c'è dubbio: quanto a coraggio verbale, il dott. Sacchetti - stando al testo del suo inter­vento - ne ha da vendere, né sembra davvero secondo a nessuno, tale è il piglio con il quale le sue affermazioni vengono perentoriamente enunciate; ed è certamente una facile profezia immaginare che le sue tesi scateneranno (se già non l'hanno fatto finora) risposte cariche di altrettanta, se non maggiore, violenza verbale.

Resta, però, da considerare se, nella fattispe­cie, di vero coraggio si tratti, secondo l'etimo del termine, o se, piuttosto, non ci si trovi davanti ad una manifestazione di amaro cinismo. Un classico esempio, insomma, del come un certo tipo di impegno, apparentemente ispirato all'esi­genza di approfondire le tematiche dell'abbando­no e della correlativa tensione verso una respon­sabile applicazione degli istituti a tutela dell'in­fanzia, finisca per approdare al qualunquismo.

D'altronde l'avvio del ragionamento sacchettia­no parte da una premessa scientifica che è im­mediatamente disattesa nel corso del suo suc­cessivo periodare e che inficia, pertanto, ed irri­mediabilmente, l'intera portata del discorso. Ed invero, subito dopo aver innalzato alti lai circa il fatto che in Italia non esistano delle serie inda­gini conoscitive sul «dopo-adozione», attribuen­done la causa da un lato alla tendenza di troppe famiglie adottive a ripiegarsi su se stesse e dall'altro ad un preteso divieto di legge a ciò frap­posto dall'art. 71 della legge 184/83 (ma atten­zione: la norma in questione è - caso mai - l'art. 73 comma 1°, il quale si limita sacrosanta­mente a proibire a tutti coloro che intervengono nello svolgimento di pratiche adozionali - e quindi a magistrati, cancellieri, medici, psicolo­gi, operatori sociali, notai, impiegati comunali, ecc. - di violare il segreto d'ufficio e di rendere possibile il rintraccio fisico e anagrafico del mi­nore adottato, e non é affatto ostativa alla condu­zione di ricerche scientifiche sulla valenza so­ciale e sugli inserimenti del post-adozione), l'au­tore articola poi l'intera sua esposizione dando per scontate, in termini di generalizzazione, real­tà di fatto che aveva appena finito di lamentare per mai verificate da nessuno.

Ma c'è di più. Che cosa pensare dell'iniziativa di un magistrato minorile che in quanto tale (e non, poniamo, come giudice degli sfratti o del­le esecuzioni immobiliari) ravvisa pubblicamen­te nell'adozione legittimante (pag. 148) una «scelta politico-giuridica ... la cui traumaticità morale non cessa di drammatizzarne ogni appli­cazione concreta», e le cui motivazioni - ove effettivamente sondate - porterebbero «a galla bisogni compensativi da livellare in negativo, sul generale sostrato delle emozioni, tutti i soggetti esaminati» (pag. 149), che vi riconosce (pag. 150) la «esorbitanza ... di imporre la regola della ra­gione e delle scienze ..., il dominio del diritto e degli apparati istituzionali, sullo spessore emo­tivo in cui si radicano le famiglie e le persone ..., di decidere, in surroga della natura e di Dio, dove un figlio dovrà, attraverso l'adozione, rina­scere», per poi liquidarla, con giudizio somma­rio senza appello, come il frutto di «sicurezze teoriche» e del «ritorno sessantottesco del ro­manticismo» (pag. 148, ancora), che concepisce l'affidamento familiare come una «ideologia ca­rica di utopia e di volontarismo umanitario» (pag. 152) e come enorme carrozzone per con­vergenti interessi politici degli enti locali, corpo­rativi dei servizi sociali, familiari di chi non vuol perdere i figli, e dei giudici tutelari che vogliono scavalcare la competenza dei colleghi minorili (pag. 155)?

Nessuno, certamente, si sognerebbe di negare che i giudici, in quanto esperti del loro settore, possano (e talvolta debbano addirittura) interlo­quire sui temi giuridici e giudiziari, apportando un proprio qualificato contributo al dibattito sul­le problematiche che vi sono contenute. Sappia­mo anche (e qui abbiamo qualche riserva) che sempre più spesso vi sono magistrati che non disdegnano di comparire su rotocalchi e quoti­diani e sugli schermi della televisione. Ci va tutto bene, purché ciò avvenga nel rispetto del­le regole di correttezza che, primi fra tutti, i ma­gistrati sono tenuti ad osservare. Quando, in­vece, gli interventi - come nel caso di specie - appaiono improntati ad una visione pessimistica che stravolge l'intera ragion d'essere degli isti­tuti di cui si è chiamati istituzionalmente a cura­re la quotidiana realizzazione nell'interesse del minore e della società, e negano la bontà delle innovazioni introdotte da una legislazione che non ha fatto altro che adeguarsi ad avanzamenti già acquisiti da decenni presso altre nazioni civili: quando, per sostenere delle tesi preconcette, si giunge a calpestare la verità storica che pro­mana dall'esperienza (come fa il Sacchetti allor­ché sostiene alla pag. 149 che la scelta selettiva degli affidatari preadottivi è «largamente illuso­ria» e che la «strumentalità» dell'indagine psi­cologica che la sostanzia «la rende deformante», per poi addirittura affermare apocalitticamente - pag. 150 - che l'adozione lascia irrisolto il problema dei minori ricoverati in istituto, o che la legge 184/83 ha segnato la «apertura ufficia­le della crisi dell'adozione » attraverso il ricono­scimento della necessità degli affidi, tacendo che questi ultimi erano in funzione quanto meno da­gli inizi degli anni '70), ebbene noi sosteniamo che tutto ciò è inaccettabile e dev'essere ferma­mente contrastato come atteggiamento suscet­tibile di minare alle radici il rapporto di fiducia che deve sempre permeare le relazioni tra am­ministrati e amministratori della giustizia (so­prattutto minorile), privandolo dei suoi essen­ziali connotati di equilibrio, dì serenità e di cre­dibilità, e come estremamente esiziale a petto delle esigenze di difesa del bambino solo. Ecco dove sta il vero «scandalo».

Sfogli, il Sacchetti, i dati ISTAT sull'abbatti­mento dell'istituzionalizzazione dei minori (ridot­tasi, ed è insufficiente - siamo d'accordo -, del 75% negli ultimi vent'anni), vada a visitare gli istituti sia italiani che stranieri da cui tanti bambini e ragazzi sono usciti e potrebbero ulte­riormente uscire se venisse meglio sensibilizza­ta la pubblica opinione le se venissero meglio in­canalate le potenzialità di famiglie adottive ed affidatarie in pectore, e venisse gestita con mag­gior competenza e professionalità l'attuale disci­plina dell'abbandono. Dialoghi e si informi, in proposito, presso chi da anni opera su questi fronti nell'ambito dell'associazionismo di base e di volontariato, e poi saprà dire se la parabola dell'adozione legittimante sia da intendersi con­clusa, se il suo ciclo sia da ritenersi compiuto.

Ma c'è di peggio. Se nella parte enumerativa del suo studio il Sacchetti scopre l'acqua calda dilungandosi (pag. 150) sulle superficialità con cui troppo spesso sono condotti i controlli sugli affidamenti preadottivi (chi scrive sa anche di controlli mai eseguiti se non sulla carta!), ponen­do in risalto (pag. 149) i seri problemi di inseri­mento e di identificazione degli adolescenti adot­tati, specialmente stranieri, nonché la tendenza di molte famiglie adottive a chiudersi a riccio nella gelosa intimità della propria riservatezza (ma questi fenomeni - gli chiediamo - sono for­se sconosciuti nelle nostre famiglie «geneti­che»?), oppure sottolineando che per sostenere positivamente le esperienze adozionali o affida­tarie non bastano generici slanci affettivi, od ancora alludendo (ma di sfuggita, non si sa mai) all'opportunità di «traguardare l'obiettivo» più sulla profilassi che sulla cura dell'abbandono e di sviluppare la teoria e la pratica della preven­zione, quando infine si trova - come in ogni lavoro che si rispetti - a dover fare i conti con la parte propositiva della sua fatica, ecco allora che parturiunt montes, nascetur ridiculus mus.

L'adozione non è più funzionale, si ribadisce, perché si è deteriorata qualitativamente e ne è caduta l'incidenza sociale, e con essa è crollata la pia illusione che il bambino potesse trovare «la sua rasserenante palingenesi nella nuova fa­miglia» (pagg. 149 e 155). Ma nemmeno l'affida­mento, si è visto, gode di buona salute, perché a sua volta «insidia l'adozione ed è paralizzato da essa»: i due istituti, insomma, «anziché rad­doppiare le occasioni, si elidono» (pag. 154) es­sendo tra loro in antagonismo competitivo, scon­trandosi e imbrogliandosi «con effetti di inibi­zione reciproca e di abbattimento della certezza del diritto» e favorendo «aspetti paralegali e criptoillegali» (pag. 152). Infatti, per chi non lo sapesse, «gli istinti captativi di coppie deluse nell'attesa di un figlio adottivo vengono inevita­bilmente risvegliati dalla promozione dell'affida­mento familiare» e «sono perciò spesso esse a dirsi disponibili, sperando di giungere per vie oblique alla meta» (pag. 154, ancora): e con ciò una realtà in atto nella società italiana da oltre dieci anni almeno (e che ha visto e vede tuttora il raggiungimento di risultati, sia pur parziali, in­sperati nel recupero di bambini e ragazzi in si­tuazioni problematiche, attraverso la dedizione di­sinteressata di nuclei familiari dotati di alta di­sponibilità e preparazione) viene immeschinita al rango di uno spregevole sotterfugio, alla so­glia della criminalità, per accaparrarsi bambini di contrabbando, sorvolandosi arbitrariamente sul dato saliente dell'istituto, che - a differenza dell'adozione - mira a sopperire a situazioni per lo più contingenti ed è finalizzato a facilitare ed a rafforzare il rapporto del minore con la sua famiglia naturale, preparandogli nei limiti del possibile il terreno per un suo ritorno non trau­matico né contraddittorio nel nucleo di origine.

Ebbene, che cosa propone il presidente Sac­chetti per mettere ordine e dare sapore a questa tragica insalata? È semplice e presto detto:

1) da un lato si riduca l'adozione legittimante ai casi specifici di abbandono di minori orfani o non riconosciuti (ed in questo modo i tribunali dei minorenni, finalmente, non dovranno più pre­occuparsi di ricercare famiglie adottive in luo­ghi lontani dal territorio di origine);

2) dall'altro lato si ripristini l'istituto della af­filiazione, per coprire «le forme intermedie» tra affidi temporanei e adozione legittimante;

3) per quanto riguarda i minori riconosciuti e non orfani e già inseriti in nuclei eterofamiliari consolidati, è più che sufficiente ritornare ad ap­plicare la vecchia adozione ordinaria;

4) infine, per i casi di minori appartenenti a nuclei disastrati, si potrà continuare a far ocula­to ricorso all'affidamento (eventualmente anche a tempo indeterminato). In questo modo si otter­ranno molteplici risultati apprezzabili: l'abolizio­ne, innanzitutto, dei contenziosi dovuti alle re­sistenze frapposte dalle famiglie di origine in nome degli atavici sentimenti legati al rapporto di sangue, e poi una drastica limitazione delle domande di adozione, e - perché no? - dulcis in fundo, una «decantazione delle offerte» (pag. 156). Come economia di mercato del minore, non c'è male!

Ora, commentare a dovere una simile «pro­spettiva» richiederebbe uno spazio eccessivo per queste colonne, per stigmatizzare una pole­mica che, prendendo le mosse dall'interesse del minore, si risolve alla fin fine nel preconizzare il ripristino di istituti affetti da decomposizione ca­daverica come l'affiliazione e l'adozione ordina­ria e che si pongono agli antipodi di quel diritto del minore ad essere educato nell'ambiente fa­miliare che oggi come oggi costituisce una sof­ferta conquista sulla strada della lotta all'emargi­nazione e della prevenzione del bisogno assisten­ziale da cui non è possibile - in barba ai vari laudatores temporis acti di turno - retrocedere in alcun modo.

È sempre bene, in ogni caso, nei limiti del possibile e facendo a meno di infingimenti ver­bali, andare a fondo dei problemi, e senza troppi peli sulla lingua. Ed allora interroghiamoci fran­camente, chiedendoci se la crisi dell'adozione (istituto da non portare, per carità, alle stelle, in quanto pur sempre un ripiego d'emergenza ri­servato ai casi estremi di abbandono conclama­to, e comunque sempre suscettibile di ritocchi e miglioramenti), oggi, non stia a denotare, piut­tosto, la crisi di rigetto di certi giudici (od equi­parati) che mal hanno digerito le riforme del 1967 e del 1983 e che ancora si trovano schiavi del pregiudizio secondo cui la famiglia naturale (quel­la degli atavici vincoli di sangue) «meno la si tocca e meglio è», e secondo i quali chi anela all'adozione è soltanto uno sterile o un frustrato, disposto a qualsiasi atto pur di impossessarsi di un bambino come di un proprio oggetto di con­sumo affettivo.

Chiediamoci perché mai presso vari Tribunali (Bologna sarà forse uno di quelli?) la politica dei magistrati è soltanto quella di scoraggiare le famiglie aperte alle adozioni e agli affidi, vanifi­candone le disponibilità e depistandone le attitu­dini; perché mai l'adozione internazionale in par­ticolare sia prevalentemente sentita per partito preso come un'operazione di ingegneria bio-psi­chica contro natura, e le associazioni di volonta­riato che operano nel settore, anche quelle serie, siano viste indiscriminatamente come delle agen­zie di collocamento del minore, se non addirittu­ra come dei centri di prenotazione o delle stazio­ni di appalto del bambino pre-confezionato e, quando ci si lascia strappare obtorto collo una idoneità ad adottare bambini di altra razza, le coppie e le famiglie vengono poi abbandonate a se stesse nel marasma più completo, mandandole allo sbaraglio in un'insensata ricerca privata del bambino, senza indicazioni di strutture ed orga­nismi qualificati ed in spregio alle direttive di cui all'art. 38 della legge 184/83, senza instaurare responsabili, organici ed affiatati collegamenti permanenti con gli operatori dei servizi sociali territoriali, con gli specialisti della materia e con le predette associazioni, e senza nemmeno sognarsi di provare a tentare un qualsivoglia coor­dinamento operativo con le competenti magistra­ture straniere e gli altri organi istituzionali. Chie­diamoci perché la legislazione sul decentramento dell'assistenza all'infanzia (ed in particolare l'ar­ticolo 23 del D.P.R. 616/77) continui ad essere a tutt'oggi un'illustre sconosciuta per non pochi operatori giuridici, come se le norme dello Stato fossero lettera morta e corpi senza vita. Tutte cose, queste, su cui il Sacchetti ben si guarda anche soltanto di soffermarsi fugacemente.

Il fatto è che oscurantismo e diritto di famiglia non possono andare a braccetto, essendo concet­ti incompatibili tra di loro, e tra essi non sono possibili né consentiti trapianti od innesti. Tan­to meno se si volesse sciaguratamente innestare sulla pelle dei bambini gli istituti sui quali il pre­sidente di Bologna ama nostalgicamente indugia­re, e cioè quell'affiliazione che - inventata nel 1937 dal legislatore fascista ed a suo tempo nota come «piccola adozione» o «rapporto d'alleva­mento» - mirava essenzialmente, gestita dall'aborrito giudice tutelare, a fornire gratuite brac­cia lavorative soprattutto nelle campagne del meridione, attraverso lo sfruttamento dei cosid­detti «figli della Madonna» o «figli dell'anima», assicurando per di più agli assegnatari delle non disprezzabili sovvenzioni statali ed escludendo rigorosamente l'affiliato da qualsiasi vincolo di famiglia, ivi compreso il diritto di eredità.

Quanto all'invocata riedizione dell'adozione or­dinaria di infausta memoria, basterà qui ricorda­re che - a parte il niente affatto trascurabile particolare che essa, anche dopo la riforma del diritto di famiglia, resta riservata soltanto agli «adottandi» maggiorenni - tale istituto è esclu­sivo appannaggio degli «adottanti» privi di di­scendenza, mirando a «porgere a chi non ha pro­le un benigno rimedio per collocare i propri af­fetti familiari e assicurare la continuità del ca­sato» (Rescigno, in Enciclopedia del diritto, vo­lume I, pag. 585), senza indurre alcun rapporto civile tra l'adottante e la famiglia dell'adottato, né tra l'adottato ed i parenti dell'adottante (ar­ticolo 300 comma 2° Cod. Civ.)! E tanto basta per toccare con mano con che cosa si abbia a che fare: a buon intenditor, poche parole.

Non con questo spirito, non con queste umi­lianti fughe all'indietro si può sperare di intra­vedere ulteriori spiragli di luce nella promozione dei diritti del minore.

 

 

 

(*) Giudice istruttore del Tribunale di Torino.

 

 

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