LE CONSEGUENZE
PSICOLOGICHE DELLE VIOLENZE SUI MINORI
GUIDO CATTABENI (1)
Alcune
indispensabili premesse
Ci vogliono, per la specie umana, circa vent'anni dal concepimento in poi, per formare un nuovo
adulto, sia per quanto riguarda l'ambito fisico sia per quanto riguarda quello
psichico; età finalizzata a formare un essere adulto (età evolutiva).
Secondo la concezione psicologica, il raggiungimento
di un inserimento nel sociale di tipo adulto è la conseguenza di numerosi,
svariati e complessi processi evolutivi; si diventa adulti attraverso una serie dì complesse riorganizzazioni che inglobano il
passato nel presente e servono di base per il futuro.
Le conoscenze attuali sull'età evolutiva, frutto
della ricerca psicologica per quanto ancora giovane e non del tutto
consolidata, consentono di prevedere un futuro disturbo grave, ovvero di tracciare, come dice bene A. Freud
(«Normalità e patologia del bambino», Feltrinelli)
linee evolutive che portano a risultati patologici, e che si è in grado di
prevedere.
Il neonato inizia la sua vita non
libero da leggi, ma con un corredo di reazioni dettate da un principio
interno determinante: alla soddisfazione del bisogno corrisponde un sentimento
di piacere, alla condizione di bisogno non appagato è associato intimamente un
vissuto di dolore ed un meccanismo che spinge a lottare per ridurre la tensione
dolorosa.
Il dialogo con l'ambiente, formativo o distruttivo
per il bambino, inizia sin dalla nascita e la crescita del bambino, del
ragazzo, dell'adolescente può essere definita come un
complesso di trasformazioni riuscite o non riuscite delle tendenze e degli
atteggiamenti che normalmente fanno parte della natura originaria del bambino:
l'adulto è figlio del bambino che è stato (cioè della sua storia evolutiva).
Più il bambino è piccolo più sono ridotte le sue
possibilità di scelta tra accettare o rifiutare il trattamento che l'ambiente
riserva ai suoi bisogni: dal momento che il bambino
non può sopravvivere da solo le leggi dell'ambiente
hanno una forza incalcolabilmente superiore alle sue
capacità di opporvisi ed egli per necessità quindi si sottomette alle regole
benefiche o dannose che l'ambiente impone per la soddisfazione dei suoi
bisogni.
Ogni giorno si conoscono molte cause e «insiemi» di
cause che possono provocare in futuro un fallimento
delle capacità di adattamento sociale maturo; questa conoscenza ha fatto sì
che si individuassero tre epoche della età evolutiva come epoche cardine per lo
sviluppo corretto della persona:
- i primi 5-6 anni di vita;
- il passaggio dalle regole della
famiglia a quelle della comunità (scuola dell'obbligo);
- l'età della adolescenza.
Il punto precedente ci consente di sottolineare
l'importanza preponderante degli avvenimenti dei primi 5-6 anni per il futuro
di ogni bambino rispetto alle epoche successive.
La violenza sui minori
Dalle premesse emerge evidente che è violenza sui minori qualsiasi esigenza del mondo degli adulti che
impedisce, in virtù del potere di vita e di morte che gli adulti detengono, ad
un bambino, ragazzo, adolescente di ricevere nelle varie epoche della sua
maturazione il «cibo» materiale e psicologico indispensabile per crescere
gradualmente, senza ostacoli insormontabili per le sue forze, e per diventare
un adulto liberamente, responsabilmente e felicemente inserito nella vita
della comunità.
Non tutto ciò che appare, fenomeno logicamente,
violenza comporta di per sé conseguenze psicologiche dannose per la
maturazione della personalità e non tutto ciò che
appare come frutto di un atteggiamento o di una intenzione buoni produce fatti
positivi.
Sono ormai ben note in proposito alcune situazioni tipo che servono a rendere intuitivo questo
concetto: un atteggiamento degli adulti esteriormente liberale, permissivo,
che si astiene dal frustrare, che cerca costantemente di appagare le richieste
espresse dal bambino, nasconde spesso un rifiuto affettivo (anche se di
difficile lettura) che produce gravi danni psicologici al bambino; far piangere
un bambino di due anni dicendogli un «no» che lo frustra non è di per sé una
violenza dell'adulto nei confronti della libertà del bambino, ma può essere
l'indispensabile aiuto a passare dal principio del piacere a quello della
realtà, quindi un gesto che favorisce la maturazione.
Il denominatore comune della violenza sui minori è un
rapporto cosciente o inconscio di strumentalizzazione del bambino da parte del
mondo adulto, reso possibile dalla superiorità fisica o psichica dell'adulto,
dal quale la vita del bambino dipende.
L'istinto alla sopravvivenza biologica è dominante
in ogni essere umano; nel bambino piccolo poi esso è talmente forte che timori
angosciosi di morte bloccano automaticamente ogni reazione aggressiva
nei confronti della legge imposta dall'adulto dal quale la vita dipende.
Il bambino autistico ne è il simbolo estremo: fa morte psichica per la
sopravvivenza fisica. Noi apparteniamo a una cultura
che riprova e condanna, moralmente e giuridicamente, ogni forza di violenza
dell'uomo sull'uomo, considerando un'aggravante la sproporzione di strumentazione
lesiva e di strumentazione difensiva esistente tra il violentatore e il
violentato.
Cosicché la violenza spesso viene
mascherata, rivestita di pelle d'agnello, mistificata grazie a processi di razionalizzazione
che appaiono a prima vista inattaccabili. Spesso avviene così che ciò che è
esigenza dell'adulto è presentato come il bene per il bambino. Quando i bambini
sentono questa violenza reagiscono istintivamente: il
mondo degli adulti lo considera allora «ribelle a ciò che è buono per lui»
colpevolizzandolo e costringendolo a temere per la sua sopravvivenza.
Quali bisogni dei minori sono oggi meno
riconosciuti e subiscono più facilmente violenza
Nei primi anni di vita: il bisogno
di crescere in una famiglia in grado di organizzarsi anche in funzione dei suoi
bisogni. Dice A. Freud: «I bisogni naturali del bambino (nei primi anni di
vita!) sono in disarmonia con molte delle abitudini sociali
e culturali attuali. Il bambino ha un suo personale
ritmo del sonno, che però raramente coincide sia per l'orario che per durata
con i desideri e le esigenze dei genitori. (...) È un
bisogno innato del bambino quello di avere un contatto cutaneo stretto e
caldo con il corpo di un'altra persona al momento di addormentarsi, ma ciò è
contrario a ciò che preferiscono molti adulti, che esigono che i bambini
dormano da soli e non nel letto dei genitori. Per quanto riguarda l'alimentazione,
raramente il bambino è lasciato libero di scegliere il tipo e la quantità di
cibo e il momento del pasto, con il risultato che egli è talvolta penosamente
costretto ad attendere affamato, mentre altre volte è costretto a cibarsi
contro voglia. Spesso l'educazione sfinteriale è
introdotta troppo presto, cioè in un'epoca in cui il
bambino non vi è ancora pronto, sia per mancanza del controllo muscolare sia
per insufficiente sviluppo della personalità.
Il bisogno biologico della presenza costante di una
persona che lo curi è trascurato nella nostra cultura occidentale, cosicché i
bambini sono abbandonati a lunghe ore di solitudine in virtù dell'erronea
convinzione che sia sano per il bambino dormire,
riposare e in seguito giocare da solo. Una simile negligenza dei bisogni
naturali crea le prime incrinature nel funzionamento regolare dei processi di relazionamento con l'ambiente che lo circonda.
Una volta insorti dei disturbi le loro conseguenze
non si possono eliminare del tutto, neppure introducendo mutamenti positivi
nel metodo di educazione».
L'organizzazione della vita che il mondo degli adulti
si è data impedisce spesso questa disponibilità, questa attenzione sensibile e
costante alle esigenze del bambino piccolo: la abissale
differenza tra mondo soggettivo del bambino e mondo soggettivo dell'adulto
richiedono spazi temporali e affettivi abbastanza estesi sì che il bambino
possa entrare in dialogo con un adulto che lo «comprenda» poiché lo conosce,
gli è vissuto insieme.
Il bisogno di crescere nella famiglia
in cui è nato
Già nel 1925 Augusto Aichorn
ha sottolineato il fatto che gravi disturbi della socializzazione
sorgono quando l'identificazione con i genitori viene spezzata bruscamente a
causa di separazioni, rifiuti e altre interferenze nel legame affettivo con
loro; questo fatto è stato ampiamente confermato dagli studi accurati di John Bowlby e collaboratori, ed
ora è generalmente accettato in campo scientifico.
Tuttavia non pare che la nostra società si preoccupi
molto di tutelare il bambino da questo pericolo, dal momento
che ben poco si dà da fare per mettere la famiglia d'origine in condizione
di svolgere il suo compito senza fratture. Ricordo quanto appassionatamente ha sottolineato questo aspetto Mons.
Nervo nel suo intervento al Convegno sull'adozione di Torino nel 1983: «Da un
lato mettiamo la famiglia in primo piano, esaltiamo il volontariato,
l'affidamento familiare, l'adozione che si basano su forti valori di
solidarietà; dall'altro demoliamo quotidianamente la famiglia imponendole
un'organizzazione assurda del lavoro e della vita;
lasciandola sola nei momento di difficoltà, spingendola alfa chiusura
attraverso una cultura egoistica ed edonistica, disorientandola
quotidianamente con falsi modelli presentati dai mass-media... Occorre esigere
che la società persegua una politica della famiglia coerente con le esigenze
del bambino, diversamente sarà ben difficile garantire al minore il diritto di
essere educato nell'ambito della propria famiglia...».
Il bisogno di avere una famiglia quando
la propria non c'è più o è temporaneamente impedita ad accoglierlo
Può sembrare che, dopo la legge 184 dell'83, finalmente questo bisogno sia stato riconosciuto e
che sia cominciata un'era più civile ed umana, meno violenta di quella
precedente nei confronti dei bambini.
In primo luogo un dato di fatto più che eloquente:
le stime più aggiornate parlano di 80.000 minori ancora ricoverati in istituto
in Italia.
In secondo luogo, adozione e affido sono utilizzati ancora in modo troppo spesso violento nei
confronti dei bambini.
Si tratta di soluzioni migliori senza possibilità di
paragone rispetto all'abbandono in istituto, ma esse richiedono una competenza
professionale, una disponibilità di tempo, una quantità di operatori,
una metodologia di lavoro complessa e precisa, una disponibilità alla
collaborazione tra istituzioni (tribunali per i minorenni, operatori, enti
locali) che comportano un impegno di energie professionali ed economiche che
attualmente riscontriamo solo in alcune situazioni eccezionali.
Generalmente si commettono violenze gravi in questo
campo nei confronti dei bambini perché si ritiene di
poter scaricare un peso economico per la società sul volontariato.
Affidamenti che ormai sono noti come affibbiamenti, diagnosi mal fatte sia
per quanto riguarda i bisogni del minore sia per quanto riguarda la famiglia
d'origine, la famiglia affidataria, la famiglia
adottiva; bambini trattati come pratiche e spostati da una famiglia all'altra
senza aiuto a comprendere, a sopportare paure e separazioni traumatiche, affidi
giuridici che, pur essendo adozioni psicologiche, vengono spezzati perché si
decide l'adozione e si rompe il legame di affiliazione psicologica in nome di
un rispetto peloso della normativa giuridica; adozioni e affidi privi di
appoggio tecnico nel corso del tempo; giudici e operatori che viaggiano su
linee divergenti o conflittuali spaccando bambini e famiglie: strumentalizzazioni
politiche con interferenza di interessi che nulla hanno a che vedere con i
bisogni del bambino, sono tutti fatti che avvengono quasi quotidianamente
laddove si attuano le alternative all'istituto.
Per evitare che il meglio resti un'utopia o diventi
addirittura peggiore del bene, per evitare che l'istituzionalizzazione sia
considerata una violenza minore rispetto alle sue alternative,
è necessario investire nelle alternative, quindi la adozione e l'affido, almeno
la stessa quantità di forze, anche economiche; -che si investono
nella soluzione istituto.
Diversamente sarà ben difficile evitare la violenza
sul diritto del bambino a crescere in famiglia.
Il bambino e la scuola dell'obbligo
Negli anni della scuola dell'obbligo molti bambini hanno difficoltà a compiere il passaggio dalle norme
della famiglia a quelle della scuola. Ciò tanto più quanto
più le norme della famiglia sono lontane da quelle della scuola. Questa
divergenza si riscontra sempre più frequentemente, a causa delle
caratteristiche peculiari che la famiglia va assumendo da qualche decennio: essa
è diventata sempre più il luogo del privato, del disimpegno sociale, della
soddisfazione dei bisogni affettivi dei suoi componenti
in contrapposizione alle regole massificanti e spersonalizzanti del mondo del
lavoro. La famiglia è oggi più il luogo del tempo libero, dell'hobby,
del piacevole, della gratificazione.
L'entrata nella scuola rappresenta invece l'impatto
con un mondo in cui si aspetta che tutti i bambini si conformino a una norma comune, fissata sulla base, prevalentemente. delle esigenze degli adulti. È un passo difficile quello
del passaggio dalle norme della famiglia a quelle della
scuola.
Il bambino bene adattato in famiglia non è sempre e
subito un bambino che bene si adatta alla scuola. Egli incontra una comunità
che impone le «sue» leggi indipendentemente dai bisogni,
dai desideri, dalla complessità delle caratteristiche personali,
indipendentemente dalle sue peculiari potenzialità intellettive e attitudinali.
La scuola dell'obbligo oggi, nel suo complesso, non
sta dalla parte dei bambini: essa rappresenta il mondo degli adulti che
pretende dal bambino la sottomissione e punisce la trasgressione e/o l’inadeguatezza
con l'isolamento, l’emarginazione, la svalutazione. A chi ha, viene dato; a chi non ha, viene tolto.
Gli insegnanti che non accettano questa logica e si impegnano per creare condizioni adatte allo sviluppo
delle singole personalità sanno bene quanto sia difficile il loro lavoro.
II bambino privo di una famiglia capace di aiutarlo
ad affrontare l’esperienza della scuola è un bambino che soccombe o perché si adegua
passivamente rinunciando a crescere o perché strumentalizza
la scuola per i suoi bisogni o perché la rifiuta e se ne difende.
L'età adolescenziale
Nell'età adolescenziale le
particolari condizioni della vita psico-affettiva
dell'adolescente, il suo bisogno di sottrarsi alla protezione della famiglia per proiettarsi alla ricerca di se
stesso nel sociale, la sua fisiologica fragilità emotiva, il suo bisogno di
fare esperienza per misurarsi con la vita, i facili fallimenti, le
disponibilità a sentirsi valorizzato non importa come, costituiscono un terreno
favorevole a quella che mi pare la violenza oggi più frequente nei confronti
di questa fascia dell'età evolutiva: la strumentalizzazione dei bisogni
adolescenziali da parte di gruppi sociali aventi gli interessi più disparati.
Sia per le vicende delle fasi
precedenti, sia per il «maltrattamento» subito in età adolescenziale, diventa per molti ragazzi difficile arrivare ad accettare e
interiorizzare l'esistenza di norme e regole di vita generali.
Il disimpegno, la
regressione, il disprezzo per l'autorità e le leggi, il realizzarsi stando
contro, la sofferenza insopportabile del fallimento sono eventi frequenti nel
mondo adolescenziale.
Le conseguenze psicologiche della
violenza sul minori
Straripano ormai nelle librerie e nelle biblioteche
i testi, scientifici e non, che illustrano le conseguenze dei bisogni educativi
caratteristici delle varie fasi evolutive.
Molti studi hanno cercato di individuare legami
genetici tra i vari tipi di patologia psichica e di disadattamento sociale e
specifiche turbe nella relazione individuo-ambiente intervenute per esempio
nella fase orale, anale e fallica. Non è il luogo
questo per una dotta e fine esposizione di questi studi.
Da tutto questo materiale comunque
emerge un elemento coerente ed univoco.
Le conseguenze psicologiche più profonde e
inguaribili sono quelle che originano dalla relazione violenta del sociale nei
confronti del bambino piccolo.
La «violenza» è il non riconoscimento del bisogno del bambino, del suo diritto ad essere se
stesso, è la risposta negativa alle esigenze del bambino in nome del bisogno
dell'adulto; doppia violenza è la «punizione repressiva» della risposta
difensiva del bambino, restituitagli dall'adulto come vissuto di trasgressione,
colpevole, alle norme funzionali alle esigenze dell'adulto singolo o
associato.
La mancanza di un'esperienza di tipo familiare buona
dalla nascita e per i primi 4-5 anni di vita impedisce la maturazione basilare
della personalità, interferendo nel - o impedendo il - processo che porta
dalla simbiosi psichica iniziale alla differenziazione dell'individuo che
consente di entrare in relazione con «l'altro» tramite la costituzione del «buon
oggetto interno»; (la scoperta dell'altro come buono fa sì che mi senta buono). Al di là delle
difficoltà del linguaggio tecnico, questo significa che la capacità di entrare
in relazione con gli altri è il frutto di una storia relazionale positiva: il
frutto cioè di quelle esperienze di rapporto e di comunicazione che al bambino
è dato di poter vivere fin dall'inizio della sua esistenza con persone che
l'accolgono, che lo amano, che gli «permettono» di vivere; è sempre nell'ambito
di un sistema di tipo familiare che è poi possibile al bambino interiorizzare
l'oggetto buono come «oggetto combinato», ovvero come persona in rapporto con
altri e non solo con lui.
L'oggetto interno «buono» e «combinato» è la condizione per poter essere soli senza patire di
solitudine; per poter amare senza bisogno di possedere e strumentalizzare;
per poter «morire» come bambino senza sentirsi abbandonati (cfr. C. Brutti, Bisogni e desiderio); per procedere verso la socializzazione
adulta.
La successiva evoluzione, fino al termine delle
problematiche adolescenziali, è favorita non solo dall'esistenza di basi solide
formatesi nei primi anni di vita, ma anche dalla continuazione dell'amorevole e
costante attenzione da parte dell'ambiente sociale nei confronti dei bisogni specifici
di ogni età e dei bisogni specifici di ogni bambino e
ragazzo.
La conseguenza psicologica costante di una violenza
attuata dal mondo degli adulti nei confronti della
traiettoria evolutiva verso la maturità è la strutturazione di una «personalità
che ci difende» dal sociale, è il disadattamento sociale.
Si crede troppo facilmente che disadattamento sociale
corrisponda a personalità aggressiva o violenta: anche recenti slogan
sensibilizzanti hanno insistito sull'equazione «una società violenta genera
figli violenti»; in realtà il comportamento aggressivo
non è il danno psicologico più grave. Le tendenze aggressive sono energie
vitali che possono condurre a una socializzazione positiva
oltre che negativa. Ciò che danneggia maggiormente è l'impossibilità di un
investimento libidico su un sociale violentante; in
termini più semplici: non si impara ad amare se non si
ha un'esperienza, qualitativamente e quantitativamente sufficiente, di amore
ricevuto. Se l'esperienza relazionale positiva tra
bambino e ambiente non si è sviluppata in modo sufficiente per attenuare o
legare l'aggressività, o questa capacità è andata perduta a causa di una
disillusione verso l'oggetto d'amore, della sua mancata sostituzione, ecc.,
l’aggressività non si fonde con la «libido», l'affettività. L'aggressività che
disturba e minaccia l'adattamento sociale è una difesa per la sopravvivenza
dell'individuo (seppur controproducente) quando vi è incapacità di relazioni
d'amore (libidiche).
Le conseguenze più preoccupanti dovrebbero
considerarsi, a ben vedere, quelle di tipo depressivo, che insorgono,
come Spitz insegna, quando la difesa aggressiva per
la sopravvivenza si rivela inefficace e si esaurisce la forza vitale: i
bambini, i ragazzi, gli adolescenti «spenti», delusi del mondo, disinteressati
alla vita, isolati, regrediti a compensazioni autoerotiche,
privi di ideali e di speranza, «menefreghisti», sono quelli più danneggiati e
meno facilmente recuperabili.
La cura e la prevenzione di questi esiti fallimentari
non possono che basarsi su una risposta non violenta,
cioè su una risposta d'amore, l'unica capace di indurre il cambiamento e di
evitare la degenerazione della reazione etero-aggressiva
in strutturazione depressiva.
Ma non basta che una legge, come la 184/83, affermi
il diritto dei minori ad essere amati per poter diventare adulti socializzati:
nessuna legge può obbligare ad amare, anche se può imporre gli strumenti che
garantiscono il rispetto dei diritti del bambino (per esempio adozione, affido,
in luogo di abbandono in istituto).
Il rischio che la legge del più forte condizioni
l'uso di questi strumenti trasformandoli in nuove e più traumatiche occasioni
di violenza è vivo e vegeto, spesso palpabile e
concreto. È necessario quindi che i bambini e i ragazzi abbiano
qualcuno, tra gli adulti, che stia dalla loro parte nella lotta che affrontano
per la sopravvivenza loro (e di tutti).
(1) Relazione tenuta al convegno «La
violenza sui minori», svoltosi a Trieste il 23 novembre 1985, organizzato
dalla Sezione di Trieste dell'Associazione nazionale famiglie adottive e
affidatarie.
www.fondazionepromozionesociale.it