Libri
AA.VV., Il valore della vita - L'uomo di fronte al problema
del dolore, della vecchiaia, dell'eutanasia, Edizioni Vita e Pensiero, Milano, 1985, pp. 232, L.
10.000.
La pubblicazione raccoglie gli atti del 54° corso di aggiornamento culturale dell'Università cattolica,
svoltosi a Roma dal 2 al 7 settembre.
Circa gli interventi per i pazienti in fase terminale, Attilio Romanini, sostiene
che anche quando le condizioni del malato decadono fino al crollo
dell'organismo e delle sue funzioni vitali «il
compito della terapia consiste essenzialmente nella soppressione delle
sofferenze del paziente». Si tratta di un intervento altamente
specializzato poiché «quando la comparsa
di sindromi dolorose non è stata prevenuta dall'opportuna terapia, è necessario
mettere in atto le varie terapie antidolorifiche con opportuno scaglionamento
delle stesse in modo da assicurare al paziente l'assenza di dolore durante la
vita che gli resta. È quindi necessaria un'ottima conoscenza comparata delle
possibilità, dei limiti e degli inconvenienti insiti nelle varie terapie antidolorifiche
(eziologiche, farmacologiche
e neurochirurgiche)».
Circa le strutture per il trattamento delle malattie
a prognosi infausta, il Romanini distingue due
momenti: la «fase di stato» e la «fase terminale».
Nella «fase di stato» l'intervento «si basa essenzialmente sul centro di
riabilitazione funzionale (per infortunati cardiaci o cerebrali o laringo, entero,
urostomizzati), su periodici controlli diagnostici (follow up) e, quando il caso, su terapie integrative».
Circa le strutture relative, l'Autore sostiene
giustamente che esse «possono essere
realizzate nell'ambito o in stretta adiacenza dell'ospedale per acuti così da
poter utilizzare, quando opportuno, la consulenza dei vari specialisti e i
servizi di diagnosi e cura (laboratori, radiologia e medicina nucleare, ecc.)».
Abbiamo, invece, alcune riserve circa le proposte
del Romanini, quando afferma che «la struttura per lungodegenti può essere anche lontana dall'ospedale
per acuti e dall'ospedale diurno e viceversa vicino
al domicilio del paziente con la possibilità di integrarne le prestazioni con
quelle somministrabili anche a domicilio del paziente». Infatti
ci sembra che gli stessi motivi portati a sostegno della creazione delle strutture
della «fase di stato» valgono anche per quelle necessarie nella «fase terminale».
Riteniamo, anzi, che una idonea organizzazione dovrebbe
garantire la continuità terapeutica nello stesso reparto ospedaliero (anche se
in locali differenziati) per i pazienti acuti, in «fase di stato» e in «fase
terminale».
In questo modo, a nostro avviso, si eviterebbe il
fenomeno, giustamente criticato dal Romanini, dovuto
al fatto che «il medico della struttura
periferica tende a ritrasferire il paziente in quella
centrale o a sottoassisterlo».
Esistono, però le condizioni
politico-sociali per poter assicurare anche ai più deboli (pensiamo
soprattutto agli anziani cronici gravemente non autosufficienti) idonei
trattamenti domiciliari, ambulatoriali e, se necessario, ospedalieri?
È ben difficile che queste garanzie vengano dai
medici. Afferma infatti Angelo Fiori: «I costi dell'assistenza gerontologica, la scarsa propensione dei medici a dedicarvisi, la scarsità delle strutture, si traducono
spesso anche in questo vasto settore, destinato ad accrescersi in futuro per l'invecchiare della popolazione, in sostanziali
sottrazioni omissive di mezzi diagnostici e terapeutici: omissioni striscianti
e poco appariscenti, ma reali e rilevanti. È un'altra forma di scelta della
società a favore di chi è più giovane, di chi ha
malattie acute o subacute che colpiscono in modo più
vistoso l'attenzione e richiamano l'interesse della opinione pubblica, rispetto
ad altre assai diffuse, ma che attirano mano l'attenzione e, soprattutto,
riguardano persone la cui redditività produttiva ed economica si considera
ormai nulla, ed anzi sono considerate pesi superflui della società ».
Non crediamo che le esigenze dei pazienti più deboli
(che continuano ad essere dimessi selvaggiamente da molti ospedali, senza che si sentano voci contrarie!) possano essere tutelate dai
comitati etici, proposti dal Fiori. Un gruppo di esperti
non può certo contrastare le spinte all'emarginazione, spinte che sono proprio
costruite o appoggiate dalla classe dominante.
È dunque necessario percorrere strade diverse. A
nostro avviso occorre puntare soprattutto sulla autodifesa
da parte dei cittadini-utenti, autodifesa che - ovviamente - deve essere organizzata
quando non si è malati e quindi si può conquistare un certo potere
contrattuale.
FRANCESCO
CAVAZZUTI, Gerontologia e Geriatria per
infermieri, terapisti della riabilitazione e operatori socio-sanitari,
Edizioni a cura del Collegio I.P.A.S.V.I.,
Udine, 1985, pp. 556. Il volume viene spedito solo
contrassegno (L. 28.600 + spese postali).
Il volume è stato scritto dal Prof.
Francesco Cavazzuti, primario della 3a Divisione
di Geriatria dell'Ospedale Sant'Orsola Malpighi di Bologna, appositamente per gli operatori
sanitari e sociali che si occupano di anziani sani e
malati, al fine di una loro migliore preparazione professionale.
L'opera fornisce loro le conoscenza
scientifiche, tecniche e deontologiche necessarie per poter rispondere
in modo appropriato e responsabile a tutti i bisogni di ordine psichico, sanitario
e sociale che possono manifestare le persone anziane.
Il volume affronta in modo chiaro ed esauriente il
processo dell'invecchiamento nei suoi diversi aspetti (demografico, biologico,
psicologico) e delle relative patologie, indicando per ciascuna di esse gli interventi assistenziali necessari per una
corretta prevenzione, cura e riabilitazione delle capacità motorie e
sensoriali.
Nella sua ultima parte prende in considerazione le strutture, i servizi, la famiglia e la comunità,
dando giusto rilievo agli aspetti etici che sono alla base dell'attività
assistenziale e ai quali ciascun operatore deve ispirare ed improntare la
propria attività.
Circa i cronici non autosufficienti, l'autore dichiara
che si tratta di un problema «talmente importante
e "minaccioso" per cui è necessario dargli
una dimensione nuova». E aggiunge: «L'aspetto centrale è se si vuole puntare
seriamente in una direzione diversa, altrimenti si
continuerà a produrre della "cronicizzazione facile", quale
soluzione vergognosa del sistema ospedaliero nei riguardi degli anziani con
elevato rischio di invalidità permanente».
Cavazzuti precisa inoltre: «Per
un pregiudizio diffuso, i cronici sono considerati "pazienti inguaribili",
preferibilmente da ricoverare in istituti e case di riposo. La scorrettezza di
tale concezione è evidente: si confonde la riduzione dell'autosufficienza e la
dipendenza da altri con 1'inguaribilità e l'irrecuperabilità!».
Fra le cause di cronicità l'Autore
indica il ricovero permanente in casa di riposo quale «punto di arrivo di tanti anziani cronici stabilizzati» e «luogo dove possono soltanto morire».
Cavazzuti afferma inoltre che «è indubbio che qualsiasi istituto per anziani, attraverso vari effetti
indotti nel soggetto ricoverato (perdita della sua identità, dei rapporti
sociali con l'esterno, del suo ambiente domestico, dei famigliari, ecc.)
favorisce la cronicità e l'involuzione psichica in un cerchio vizioso sempre
più progressivo e fatale».
CHRISTINA ZAAR, Un
nuovo paese, una nuova famiglia, Edizioni Cens,
Via D'Acquisto 4, Liscate, Milano, 1987, pp. 154, L. 10.000.
Christina Zaar,
giornalista, ha intervistato per conto del NIA (The Swedish
National Board for
Intercountry Adoptions), sedici figli adottivi di età compresa tra 18 e 21 anni, provenienti dall'Asia,
dall'Africa, dall'America latina e dall'Europa.
Essi raccontano le loro esperienze e le difficoltà
incontrate per inserirsi nella loro nuova famiglia e nella società svedese. Ciò
che dicono merita l'attenzione di quanti, anche in Italia, operano nel campo
dell'adozione.
Nel nostro paese sono 10-15 mila le famiglie che
hanno adottato un bambino proveniente dai paesi del Terzo Mondo.
L'adozione internazionale compie vent'anni
da quando è stata avviata nel nostro paese a seguito
della legge sull'adozione speciale 5 giugno 1967 n. 431.
Enrico Forni, nella riflessione «Vent'anni dopo: l'ora della verifica», afferma
quanto segue: «La adozione internazionale è un
intervento provvidenziale ed efficace se concepito come l'ultima, estrema
possibilità di restituire al "bambino solo" al bene necessario - la
famiglia - da cui è stato ingiustamente privato. Essa equivale a ciò che in
campo medico e chirurgico è il trapianto di un organo vitale».
Prosegue E. Forni: «L'esperienza di vent'anni e le storie raccolte in questo libro pongono ai
giudici minorili, ai servizi sociali e a quanti operano nelle
"agenzie" un obbligo morale: quello di fornire una maggiore
preparazione alle coppie disposte ad adottare un
bambino proveniente da un altro paese e quello di assisterle in maniera
continuativa ed efficace dopo l'adozione».
www.fondazionepromozionesociale.it