Prospettive assistenziali, n. 79, luglio-settembre 1987

 

 

Libri

 

 

AA.VV., Il valore della vita - L'uomo di fronte al problema del dolore, della vecchiaia, dell'euta­nasia, Edizioni Vita e Pensiero, Milano, 1985, pp. 232, L. 10.000.

 

La pubblicazione raccoglie gli atti del 54° cor­so di aggiornamento culturale dell'Università cat­tolica, svoltosi a Roma dal 2 al 7 settembre.

Circa gli interventi per i pazienti in fase ter­minale, Attilio Romanini, sostiene che anche quando le condizioni del malato decadono fino al crollo dell'organismo e delle sue funzioni vitali «il compito della terapia consiste essenzial­mente nella soppressione delle sofferenze del paziente». Si tratta di un intervento altamente specializzato poiché «quando la comparsa di sin­dromi dolorose non è stata prevenuta dall'oppor­tuna terapia, è necessario mettere in atto le varie terapie antidolorifiche con opportuno sca­glionamento delle stesse in modo da assicurare al paziente l'assenza di dolore durante la vita che gli resta. È quindi necessaria un'ottima co­noscenza comparata delle possibilità, dei limiti e degli inconvenienti insiti nelle varie terapie an­tidolorifiche (eziologiche, farmacologiche e neu­rochirurgiche)».

Circa le strutture per il trattamento delle ma­lattie a prognosi infausta, il Romanini distingue due momenti: la «fase di stato» e la «fase ter­minale».

Nella «fase di stato» l'intervento «si basa es­senzialmente sul centro di riabilitazione funzio­nale (per infortunati cardiaci o cerebrali o larin­go, entero, urostomizzati), su periodici controlli diagnostici (follow up) e, quando il caso, su te­rapie integrative».

Circa le strutture relative, l'Autore sostiene giustamente che esse «possono essere realiz­zate nell'ambito o in stretta adiacenza dell'ospe­dale per acuti così da poter utilizzare, quando opportuno, la consulenza dei vari specialisti e i servizi di diagnosi e cura (laboratori, radiologia e medicina nucleare, ecc.)».

Abbiamo, invece, alcune riserve circa le pro­poste del Romanini, quando afferma che «la struttura per lungodegenti può essere anche lon­tana dall'ospedale per acuti e dall'ospedale diur­no e viceversa vicino al domicilio del paziente con la possibilità di integrarne le prestazioni con quelle somministrabili anche a domicilio del pa­ziente». Infatti ci sembra che gli stessi motivi portati a sostegno della creazione delle strut­ture della «fase di stato» valgono anche per quelle necessarie nella «fase terminale». Ri­teniamo, anzi, che una idonea organizzazione do­vrebbe garantire la continuità terapeutica nello stesso reparto ospedaliero (anche se in locali differenziati) per i pazienti acuti, in «fase di stato» e in «fase terminale».

In questo modo, a nostro avviso, si eviterebbe il fenomeno, giustamente criticato dal Romanini, dovuto al fatto che «il medico della struttura periferica tende a ritrasferire il paziente in quel­la centrale o a sottoassisterlo».

Esistono, però le condizioni politico-sociali per poter assicurare anche ai più deboli (pensiamo soprattutto agli anziani cronici gravemente non autosufficienti) idonei trattamenti domiciliari, am­bulatoriali e, se necessario, ospedalieri?

È ben difficile che queste garanzie vengano dai medici. Afferma infatti Angelo Fiori: «I co­sti dell'assistenza gerontologica, la scarsa pro­pensione dei medici a dedicarvisi, la scarsità delle strutture, si traducono spesso anche in que­sto vasto settore, destinato ad accrescersi in fu­turo per l'invecchiare della popolazione, in so­stanziali sottrazioni omissive di mezzi diagnostici e terapeutici: omissioni striscianti e poco appa­riscenti, ma reali e rilevanti. È un'altra forma di scelta della società a favore di chi è più giovane, di chi ha malattie acute o subacute che colpisco­no in modo più vistoso l'attenzione e richiamano l'interesse della opinione pubblica, rispetto ad altre assai diffuse, ma che attirano mano l'atten­zione e, soprattutto, riguardano persone la cui redditività produttiva ed economica si considera ormai nulla, ed anzi sono considerate pesi su­perflui della società ».

Non crediamo che le esigenze dei pazienti più deboli (che continuano ad essere dimessi sel­vaggiamente da molti ospedali, senza che si sen­tano voci contrarie!) possano essere tutelate dai comitati etici, proposti dal Fiori. Un gruppo di esperti non può certo contrastare le spinte all'emarginazione, spinte che sono proprio costrui­te o appoggiate dalla classe dominante.

È dunque necessario percorrere strade diver­se. A nostro avviso occorre puntare soprattutto sulla autodifesa da parte dei cittadini-utenti, au­todifesa che - ovviamente - deve essere or­ganizzata quando non si è malati e quindi si può conquistare un certo potere contrattuale.

 

 

FRANCESCO CAVAZZUTI, Gerontologia e Geria­tria per infermieri, terapisti della riabilitazione e operatori socio-sanitari, Edizioni a cura del Col­legio I.P.A.S.V.I., Udine, 1985, pp. 556. Il volume viene spedito solo contrassegno (L. 28.600 + spe­se postali).

 

Il volume è stato scritto dal Prof. Francesco Cavazzuti, primario della 3a Divisione di Geriatria dell'Ospedale Sant'Orsola Malpighi di Bologna, appositamente per gli operatori sanitari e sociali che si occupano di anziani sani e malati, al fine di una loro migliore preparazione professionale.

L'opera fornisce loro le conoscenza scienti­fiche, tecniche e deontologiche necessarie per poter rispondere in modo appropriato e respon­sabile a tutti i bisogni di ordine psichico, sani­tario e sociale che possono manifestare le per­sone anziane.

Il volume affronta in modo chiaro ed esaurien­te il processo dell'invecchiamento nei suoi di­versi aspetti (demografico, biologico, psicologi­co) e delle relative patologie, indicando per cia­scuna di esse gli interventi assistenziali neces­sari per una corretta prevenzione, cura e riabili­tazione delle capacità motorie e sensoriali.

Nella sua ultima parte prende in considerazio­ne le strutture, i servizi, la famiglia e la comuni­tà, dando giusto rilievo agli aspetti etici che sono alla base dell'attività assistenziale e ai quali ciascun operatore deve ispirare ed improntare la propria attività.

Circa i cronici non autosufficienti, l'autore di­chiara che si tratta di un problema «talmente im­portante e "minaccioso" per cui è necessario dargli una dimensione nuova». E aggiunge: «L'aspetto centrale è se si vuole puntare seria­mente in una direzione diversa, altrimenti si con­tinuerà a produrre della "cronicizzazione facile", quale soluzione vergognosa del sistema ospeda­liero nei riguardi degli anziani con elevato rischio di invalidità permanente».

Cavazzuti precisa inoltre: «Per un pregiudizio diffuso, i cronici sono considerati "pazienti in­guaribili", preferibilmente da ricoverare in isti­tuti e case di riposo. La scorrettezza di tale con­cezione è evidente: si confonde la riduzione dell'autosufficienza e la dipendenza da altri con 1'in­guaribilità e l'irrecuperabilità!».

Fra le cause di cronicità l'Autore indica il ri­covero permanente in casa di riposo quale «pun­to di arrivo di tanti anziani cronici stabilizzati» e «luogo dove possono soltanto morire».

Cavazzuti afferma inoltre che «è indubbio che qualsiasi istituto per anziani, attraverso vari ef­fetti indotti nel soggetto ricoverato (perdita della sua identità, dei rapporti sociali con l'esterno, del suo ambiente domestico, dei famigliari, ecc.) favorisce la cronicità e l'involuzione psichica in un cerchio vizioso sempre più progressivo e fa­tale».

 

 

CHRISTINA ZAAR, Un nuovo paese, una nuova famiglia, Edizioni Cens, Via D'Acquisto 4, Lisca­te, Milano, 1987, pp. 154, L. 10.000.

 

Christina Zaar, giornalista, ha intervistato per conto del NIA (The Swedish National Board for Intercountry Adoptions), sedici figli adottivi di età compresa tra 18 e 21 anni, provenienti dall'Asia, dall'Africa, dall'America latina e dall'Eu­ropa.

Essi raccontano le loro esperienze e le diffi­coltà incontrate per inserirsi nella loro nuova famiglia e nella società svedese. Ciò che dicono merita l'attenzione di quanti, anche in Italia, ope­rano nel campo dell'adozione.

Nel nostro paese sono 10-15 mila le famiglie che hanno adottato un bambino proveniente dai paesi del Terzo Mondo.

L'adozione internazionale compie vent'anni da quando è stata avviata nel nostro paese a segui­to della legge sull'adozione speciale 5 giugno 1967 n. 431.

Enrico Forni, nella riflessione «Vent'anni dopo: l'ora della verifica», afferma quanto segue: «La adozione internazionale è un intervento provvi­denziale ed efficace se concepito come l'ultima, estrema possibilità di restituire al "bambino solo" al bene necessario - la famiglia - da cui è stato ingiustamente privato. Essa equivale a ciò che in campo medico e chirurgico è il tra­pianto di un organo vitale».

Prosegue E. Forni: «L'esperienza di vent'anni e le storie raccolte in questo libro pongono ai giudici minorili, ai servizi sociali e a quanti ope­rano nelle "agenzie" un obbligo morale: quello di fornire una maggiore preparazione alle coppie disposte ad adottare un bambino proveniente da un altro paese e quello di assisterle in maniera continuativa ed efficace dopo l'adozione».

 

 

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