L'OSPEDALIZZAZIONE A
DOMICILIO: PRIMO BILANCIO DI UNA ESPERIENZA POSITIVA
LUIGI
PERNIGOTTI (*)
«L'ottimismo
è un vero e proprio metodo terapeutico, preventivo e
perfino curativo; lottare contro il concetto di decadimento legato all'invecchiamento
è un atteggiamento benefico, non solo per le persone anziane, malate e non, ma
anche per gli stessi medici». La
salute dell'anziano riconosce determinanti quasi
insospettati dalla cultura medica prevalente, l'ottimismo appunto, come
argutamente dice il gerontologo Fiorentina Antonini,
ma anche la convivenza, la socialità, la solidità economica, la religione, la
libertà.
Questi aspetti sono delle costanti di riferimento
che indicano quanto accettabile possa essere la vita di un anziano, e per chi
ha il compito di tutelarne la salute divengono obiettivi di intervento.
E se in tal modo, agendo per far conquistare un maggior benessere all'anziano,
si riesce ad evitare malanni e si incrementa la
qualità della vita di chi é già malato, a buon diritto, queste metodologie di
intervento devono considerarsi sanitarie, anche se inconsuete e avulse dalla
mentalità dì chi esercita una esclusiva medicina del farmaco dettata da
pericolose concezioni organicistiche della malattia.
Non è che il farmaco e la tecnologia debbano essere
negati all'anziano, ben altro si vuol dire, perché, anzi, quando si cade
malati, i deterioramenti del morbo, sovrapponendosi a
quelli dell'invecchiamento, dan sempre luogo a forme
di malattia di elevata gravità che più necessitano di alta tecnologia ed anche
di buoni farmaci.
L'organizzazione dei posti ove applicare le tecnologie,
gli stessi strumenti tecnici ed i medicamenti devono
in tal caso essere pensati ed utilizzati a misura di «vecchio» in modo da non
contrastare quei valori umanitari che possono rendere nuova e desiderabile la
vecchiaia.
«Tecnologia
avanzata - riferisce
Fabrizio Fabris,
professore di gerontologia dell'Università di Torino - non significa necessariamente ospedale, o
ospedale più specializzato perché più ricco di macchine. Può così capitare che
si muoia di più negli ospedali classificati di maggior livello e di mena,
invece, in ospedali apparentemente più poveri ove l'intensità delle cure è
misurata dalla passione e dalla dedizione di chi vi opera, piuttosto che dal
numero delle aree considerate intensive per la asetticità ed il numero di macchine». La maggior parte delle malattie per le quali è necessario un ricovero
traggono maggior beneficio dalla qualificazione del personale, di un personale
istruito per comprendere i problemi particolari e complessi dell'ammalato
anziano. Nella pratica ciò vuol dire che nella cura
degli ammalati anziani è da tener conto prioritariamente della personalità
dell'individuo, talora anche del demente!
Spesso anziani affetti da medesime malattie hanno bisogno di
interventi medici e sanitari differenti; le cure a cui vengono sottoposti
devono essere dettate da medesimi principi guida che risiedono in un insieme di
conoscenze scientifiche che formano la competenza del geriatra e dell'operatore
geriatrico. «Le
persone anziane stanno male perché si ammalano e non perché sono invecchiate,
quando si ammalano hanno più malattie, hanno una enorme
potenziale di recupero e, fondamentalmente, sono più felici e più sane se
possono vivere nella propria casa, se questa è messa a posto in modo a loro adeguato».
Guardandosi attorno, ci si rende conto di come i
principi guida della medicina geriatrica
siano prevalentemente disattesi nella attuale realtà sanitaria. Si incomincia dalla informazione: spesso è falsa, quasi
sempre a favore delle forze emergenti della popolazione, come quando si legge
che «il vecchio è detto abbandonato dalla
famiglia». La maggior parte degli ultra sessantacinquenni italiani,
invece, vivono in famiglia, sono ancora amati e,
quando necessitano, curati dai parenti.
L'etica giornalistica sembra del tutto scomparsa quando impudicamente riferisce ed accoglie solo le
notizie della parte antigeriatrica della medicina.
Così può capitare di leggere che «i vecchi rubano salute ai giovani occupando
letti ospedalieri» intorno ai quali mani illustri della medicina si
dichiarano fatate per guarire le malattie importanti, quelle dei
giovani appunto, e sono stregate per i vecchi. È evidente il sospetto
che l'importanza della malattia dipende dal numero di amici
del malato, i giovani ne hanno tanti che possono fare propaganda. Non si ha
pudore nel far grandi i titoli sui risultati di ricerche condotte su pochi
individui che riferiscono dell'ineluttabile condizionamento genetico di forme
morbose, quali la depressione o il decadimento cerebrale; si tace invece sui
risultati che denunciano come l'ospedalizzazione inadeguata, la povertà, la
soli-tudine sono elementi ambientali che fanno emergere
quelle stesse malattie negli anziani.
L'organizzazione dei reparti ospedalieri, sotto
alcuni punti di vista, può apparire oggi migliore di un tempo: scomparse le
vecchie crociere, pavimenti puliti, scarafaggi ipnotizzati dal bip bip dei monitor, caposale in cuffia e divisa. Ma
queste caratteristiche non sono sufficienti per fare della buona medicina,
anzi talora sono più curativi il disordinato vociare dei visitatori, le briciole
di spuntini consumati a tutte le ore, letti sgualciti dal sedere dei parenti,
il calore della mano sguantata che ti aiuta a
sollevare.
Purtroppo la tendenza è contraria, le visite sono
regolamentate, l'ingresso alle corsie sbarrato da porte carcerarie, i pasti
rapidi e dietetici; domani poi, i grembiuli saranno più lunghi, nasceranno le
mascherine, gli occhiali e i guanti anti AIDS, sempre
più isolati ci sì parlerà con l'interfono. E quindi
dopo il danno la beffa: un vecchio impotente per
tanti anni di inutili medicine si vedrà considerato soggetto a rischio di siero
positività! Queste barriere culturali offendono profondamente e fanno
aggravare le malattie in particolare dei più anziani. Sono un pericolo forse
maggiore delle barriere architettoniche; quest'ultime
spesso possono essere superate con l'aiuto di un personale
intelligente, le altre sono difficili da sradicare, feriscono subdolamente.
Sono la conseguenza di una non cultura stimolata da anni di disinteresse per i più poveri di
salute e di anni da vivere, sono paradossalmente diffuse anche tra molti che
hanno responsabilità d'insegnamento. Ho un ricordo emblematico di una
caposala ignorante che si lamentava di non aver tempo di insegnare alle proprie
allieve perché sempre impegnata a pulire malati incontinenti. Il luogo, ove si
ostinava a far tenere ordinate le padelle, era troppo lontano e troppo lungo
il tempo per recuperarle: quando si assentava le
allieve tenevano le padelle sotto il letto e nessuno dei pazienti era più
incontinente.
Ma se non si può fuggire dalle cure ospedaliere che
sono state e rimangono un aspetto fondamentale degli strumenti necessari per
combattere le malattie, è necessario adeguarle in modo da evitare il cronicismo, ossia il fenomeno di quegli ammalati resi cronici ed invalidi da carenze del sistema
ospedaliero.
Nel dipartimento di emergenza
dell'ospedale più grande della nostra città si è visto come la disponibilità ad
applicare cure di livello adeguato alle patologie più gravi e tipiche degli anziani
si realizza positivamente ogni giorno; in quella sede la frequentazione sempre
più comune di ammalati anziani ha affinato la cultura del personale, medico e
non, ha fatto affiancare all'uso della macchina l'humanitas come mezzo terapeutico;
non si rimanda a casa il vecchio ammalato che vive solo, e progressivamente è
andata crescendo la convinzione che non è tempo perso operare al massimo delle
possibilità anche di fronte al grande vecchio. Vi si ottengono risultati
impossibili negli ospedali ove la vecchiaia è di freno all'applicazione delle
risorse tecnologiche. E così, come nella maggior parte dei reparti ospedalieri
attuali, quando effettuata la diagnosi ed impostata la
terapia si considera esaurito il ricovero di competenza sanitaria, si compie
una truffa. Anche nell'attesa della morte la medicina è in grado di proporre
interventi positivi che non possono non essere
considerati importanti o ancor peggio lasciati al vaglio di chi è al di fuori
della sanità.
Queste riflessioni fanno intravedere la necessità di elementi innovativi nell'assistenza sanitaria.
L'attualità di tecnologie avanzate anche a favore del vecchio e del malato
cronico, la prevenzione dei turbamenti innescati dal ricovero, l'attenzione ai
pericoli del cronicismo suggeriscono
servizi ospedalieri graduati secondo le effettive necessità dei pazienti e
strutturati in modo da poter trasferire alcune prestazioni sul territorio. «Rendere estesa la
possibilità di curare il paziente anziano nel proprio ambiente, ospedalizzandolo
a casa» è una metodologia assistenziale ribadita dal Consiglio d'Europa
tramite il Comitato per la programmazione degli interventi sanitari (Council of Europe, European Health Committee, 18th Meeting, Strasbourg
26-29 novembre 1985).
Sin dalla fine degli anni settanta, la scuola gerontologica torinese ha fatto opera di diffusione di tali concetti auspicando l'attivazione di forme
assistenziali che potessero garantire una continuità di cura tra ospedale e
domicilio. La ricerca di nuove forme di intervento a
favore degli anziani cronici ha trovato significative e determinanti
convergenze di opinioni da parte di organizzazioni e gruppi diversi. Tra
questi, vigoroso risulta l'impegno del Csa (Coordinamento sanità e assistenza
fra i movimenti di base) e di questa stessa rivista (in particolare ricordiamo
la monografia «Vecchi da morire», di F.
Santanera e M.G. Breda).
La determinazione di G. Poli, già presidente dell'USL
di Torino, nel perseguire una politica sanitaria rispondente alle esigenze
della popolazione, e quindi tesa a sperimentare nuove forme di
intervento, ha permesso, con la collaborazione di W.
Neri, già responsabile degli ospedali di Torino, la deliberazione di un
progetto sperimentale di assistenza ospedaliera a domicilio (delibera
1134.4.84 USL 1-23 Torino riportata sul n. 69 di questa rivista).
Dall'ottobre 1985 alcuni infermieri professionali,
distaccati dall'assistenza sanitaria di base per l'avvio del progetto, si sono
organizzati in équipe di intervento domiciliare con
alcuni medici della divisione universitaria di geriatria di Torino. Il
servizio, in genere, ha operato in alternativa al ricovero in reparti per
acuti sia nel senso di una ospedalizzazione di
pazienti inviati dal curante di famiglia che nel senso di una dimissione
protetta da strutture ospedaliere. I risultati dell'esperienza di più di un
anno sono chiaramente positivi e rafforzano la
convinzione che nell'assistenza ai malati anziani sono necessarie formule
alternative e differenziate. Sono stati seguiti 200 pazienti: ci pare utile
ricordare alcune storie esemplificative.
Vive in casa
di riposo per anziani, è portatrice di ano artificiale
da diversi anni, in seguito ad intervento per tumore del retto. È affetta da
sclerodermia che le comporta dolori da anni, agli arti superiori con
difficoltà nei movimenti fini: riusciva tuttavia sino a poco tempo addietro a
telefonare, e per tale via si assicurava l'intervento dei famigliari o di assistenza infermieristica nei momenti di accentuazione
del dolore. Da alcuni mesi è sotto costante terapia antalgica. Presenta esiti
locali di distruzione chirurgica perineale per la
quale necessita di medicazioni quotidiane.
All'atto
della decisione del curante di procedere al ricovero, per peggioramento delle
condizioni generali e necessità di una accentuazione
delle cure infermieristiche, le si propone di rimanere al proprio domicilio.
L'intervento
dell'équipe risulta di sollievo per i familiari e
permette di ritardare il ricovero in regime di degenza. Le condizioni sono
andate peggiorando progressivamente, tuttavia nei primi giorni si era ancora
riusciti a farle passare alcune ore seduta in
poltrona.
Al termine
si è dovuto procedere al ricovero per «esaurimento economico» dei famigliari incapaci
a sostenere ulteriormente il carico, oltre che della retta dell'istituto,
dell'assistenza infermieristica notturna resasi necessaria per la impossibilità della paziente all'utilizzazione di
qualsiasi allarme. Al ricovero in reparto per acuti le condizioni peggiorarono rapidamente, e dopo due giorni la paziente è
deceduta.
È un signore
di 73 anni, pensionato da 10 anni, che vive con la
moglie in una casa decorosa. Ha gravi difficoltà di movimento, riesce ad
esprimersi a stento con gesti e parole un po'
affastellate, non trattiene le urine, ha dei grandi vuoti di memoria. È un
quadro di cerebropatia cronica. La moglie gli si è dedicata prestando un'assistenza
encomiabile da quando, quattro anni addietro, sono
iniziati i primi sintomi, dopo un infarto miocardico.
È stato inquadrato in precedenti ricoveri presso l'ospedale di giorno di
geriatria. La malattia è progressiva e rapida; i lunghi periodi di adinamia favoriscono il
ripetersi di infezioni delle vie urinarie e respiratorie. Quando, dopo un calo
notevole delle condizioni generali, insorge febbre, iniziale decubito sacrale, ulteriore deperimento globale, viene proposto dal curante
il ricovero in ospedale. In alternativa viene
attivato il servizio. Si procede a prestazioni di tipo diagnostico,
di supporto generale. di terapia infusionale,
di igiene globale e stimolazione psico-motoria. Viene
raggiunto un nuovo equilibrio che permette dopo giorni di visite quotidiane un
rallentamento della sorveglianza. Il decorso è caratterizzato da nuovi
similari episodi di peggioramento con fasi di
parziale recupero: tuttavia alla risoluzione di ogni riacutizzazione le
condizioni sia fisiche che mentali si assestano in un grado maggiore di
deterioramento. Dopo alcuni mesi il quadro risulta di
dipendenza totale, l'alimentazione è un «impegno» notevole della moglie e
degli infermieri, la rigidità impedisce anche l'uso della carrozzella;
allettato i decubiti si espandono, si sovrappone uno squilibrio metabolico e
dopo settimane di supporto con alimentazione parenterale decede. L'équipe
medico-infermieristica dell'ospedalizzazione a domicilio è
dovuta intervenire spesso anche durante la notte per superare
situazioni di pre-edema polmonare. Oltre alle cure
prestate al paziente si è compiuta una opera di
«sollievo» per la moglie.
Ha 72 anni,
è un pensionato del Comune dove lavorava come messo, vive in un'abitazione nel
centro storico di due stanzette prive di luce, al 2° piano senza ascensore, scaldate
da una stufa a legna (i servizi sono sul ballatoio, l'igiene degli ambienti è molto
scarsa). Vive con lui la moglie e l'unico figlio quarantenne etilista. Da anni
è affetto da edemi elefantiasici agli arti, sostenuti
prima da una insufficienza cronica della circolazione
venosa e negli ultimi tempi da scompenso cardiaco. Da mesi trascorre la più
parte del giorno su una sedia divenuta anche il suo giaciglio notturno. È
portatore di una mostruosa ernia scrotale che
contribuisce a impacciarlo nei movimenti e nella
minzione. Ultimamente sulle gambe si sono aperte diffuse e profonde
ulcerazioni. Il curante più volte ha proposto un
ricovero ospedaliero, rifiutato per non abbandonare il figlio. Il servizio
territoriale di assistenza sociale ed infermieristica
è a conoscenza del caso, ha effettuato in precedenza alcuni interventi ma non
riesce a sostenere la gravità della situazione. L'intervento dell'équipe
medico-infermieristica dell'ospedalizzazione a domicilio viene
accolta molto favorevolmente in quanto anche il paziente si è reso conto della
estrema precarietà e pericolosità del suo stato di salute.
Si attuano
misure terapeutiche intese al compenso cardiaco, alla pulizia delle ferite,
alla loro quotidiana medicazione, si eseguono accertamenti ematochimici
e elettrocardiografici, ci
si interessa a che venga mantenuta una maggiore igiene ambientale. Lentamente
si assiste ad un buon miglioramento delle condizioni cardiache, con progressiva
guarigione delle ulcere. Si rallentano gli interventi
e si giunge a dimettere il paziente in condizioni quasi del tutto ristabilite:
è tornato a dormire nel letto. Si muove più disinvoltamente. Il distacco dal
servizio è vissuto in modo un po' traumatizzante, ma gradualmente il paziente
riprende fiducia e si accorge di poter «far da solo». Viene
tuttavia mantenuto uno sporadico controllo e dopo alcuni mesi, ai primi segni
di riacutizzazione di scompenso cardiaco e di nuove lesioni cutanee agli arti,
si riattiva una protezione più assidua. Nel corso del lungo periodo di ospedalizzazione hanno collaborato con l'équipe anche i
sanitari della divisione universitaria di dermatologia.
Rappresentante
di commercio, dotato di molto dinamismo ha condotto una vita priva di precauzioni
igieniche. Fortissimo fumatore, cefalalgico.
Consumava grandi quantità di analgesici in particolare
Saridon (sino a 10 pastiglie al giorno!). Sei anni
addietro, a sessant'anni,
incomincia ad essere limitato da problemi di respirazione dovuti all'evoluzione
in fibrosi dei processi flogistici bronchiali inveterati. Si inizia
a curare, frequentemente è ricoverato in ospedale, ma le condizioni non
migliorano e all'ambascia respiratoria si associano con il tempo edemi agli
arti. Gli viene diagnosticato tumore renale per il
quale viene nefrectomizzato. Successivamente
si evidenziano i segni di una malattia nel rene residuo: in seguito ai danni
dovuti al grande consumo di fenacetina si è
instaurata una sindrome nefrosica per la quale è da
tre anni che periodicamente si sottopone ad infusione di albumina e plasma. Per
necessità di tale terapia e per la comparsa di problemi cardiaci (fibrillazione
atriale) viene indirizzato alla divisione di qeriatria, ove viene curato per
qualche tempo. Dimesso, viene seguito presso
l'ospedale di giorno. La comparsa di scompenso
cardiaco suggerisce una ulteriore limitazione degli sforzi e, per questo
motivo, inizia ad usufruire dell'intervento dell'équipe che provvede al
domicilio alle infusioni di albumina e al controllo clinico. La malattia, però,
è progressiva, con periodi di peggioramento a cui si alternano sempre più brevi
momenti di relativo benessere, durante i quali il
paziente ha ancora la forza di recarsi da Torino in campagna. Con il tempo si
accentuano le perdite proteiche e la necessità di terapia sostitutiva. L'équipe
è impegnata molte volte nella risoluzione di gravi problemi cardiocircolatori
(edema polmonare); lo segue infine più volte al
giorno. A1 termine compaiono anche dolori ossei
diffusi, l'umore è sempre più difficile da sostenere, si devono somministrare
analgesici maggiori. Si deve più volte intervenire d'emergenza anche di notte.
È assistito costantemente dalla moglie; ad essa negli
ultimi tempi si deve dedicare un supporto particolare, è giunta all'«esaurimento
fisico e psicologico», spesso è in forse sul continuare a volere il marito a
casa, ma prevale il desiderio di non nuocere a quel poco di serenità che deriva
al marito dal suo letto, dalla sua stanza. La morte giunge inconscia e relativamente
serena.
La
conduzione medica é stata eseguita costantemente dal medico ospedaliero
dell'équipe sia per la complessità e continuità degli interventi sia per il
fatto che il curante di famiglia abitava lontano,
fuori della città, in campagna, ove il paziente aveva mantenuto la residenza.
47 anni, è
stata sottoposta a mastectomia sinistra e, successivamente alla comparsa di metastasi, a mastectomia controlaterale. È
ricoverata in regime di degenza con frattura dell'omero destro e ulcere neoplastiche
diffuse al dorso, alla spalla e al braccio. La prognosi è rapidamente infausta:
il marito si dedica ad assisterla continuamente congedandosi dal lavoro. Le si propone quindi di riportarla al domicilio attivando
l'intervento dell'équipe. La gravità delle lesioni, nonostante un pieno
mantenimento delle condizioni psichiche, impone la necessità di una assistenza impegnativa con più interventi quotidiani. Le
ulcere sono emorragiche. La paziente è lucida, si sostiene alla presenza dei
quattro figli giovani, ha tuttavia momenti critici di ansia
e depressione mentre avanza la cachessia. Si dà luogo a terapia parenterale di
supporto, terapia antalgica, si emotrasfonde, si
controbatte la superinfezione delle lesioni e la presenza di
insufficienza respiratoria insorta per diffusione polmonare delle
metastasi. Trascorso il Natale ancora alzata al tavolo, inizia il crollo
terminale.
Vive con la
moglie, sola nell'assisterlo: ha un figlio con cui nutre cattivi rapporti. La
casa è vecchia, ma dotata dei servizi essenziali: è
però molto ingombra così da ostacolare la deambulazione già precaria.
È affetto da
neoplasia polmonare; sono frequenti episodi sovrapposti di infezione
broncopneumonica con febbre e stato tossinfettivo che aggrava un quadro di insufficienza
epatica da epatopatia alcoolica
per potus non ancora dimenticato. Necessita
di cure di sostegno sia al fisico che allo stato psichico, e queste sono
necessarie anche nei confronti della moglie, al limite dell'«esaurimento»,
all'inizio dell'ospedalizzazione a domicilio. Questa viene
attivata onde rendere meno faticose le terapie sino allora espletate in regime
di degenza diurna. Si continuano emotrasfusioni,
infusioni di albumina, supporto idroelettrolitico
e terapia antibiotica. Le cure risultano
sufficienti a compensare l'insufficienza epatica e ristabilire le forze della
moglie, evitando per un lungo periodo la necessità di ricovero in regime di
degenza.
Anni 75, è vedova con due figli, con i quali alternativamente abita. In passato
era ricoverata in un istituto di riposo per anziani nel quale non era stata più
possibile ospitarla in quanto, pur conservando una discreta lucidità, in alcuni
momenti manifestava fasi di aprassia e disorientamento,
segni di chiaro deterioramento mentale. Il quadro era insorto seppur
gradualmente dopo l'istituzionalizzazione. È in
discrete condizioni fisiche, però da anni le capita
di cadere. Erano stati eseguiti accertamenti in sede di ospedalizzazione
di giorno: è possibile che alcune cadute siano espressione di insufficienza cerebrovascolare, ma certamente alcune volte esse sono conseguenza
del suo modo, ormai incerto e pauroso, di muoversi. In una ennesima
caduta si frattura l'omero sinistro, viene trasportata d'urgenza in ospedale.
Applicato bendaggio molle, è rinviata, su richiesta
dei parenti, al domicilio. Ha un po' di dolore, molta paura, si
«blocca»: per questo si rivolge al nostro reparto per consigli. Si inizia un'assistenza quotidiana dell'équipe volta a attivazione:
è difficile farla alzare dal letto; la deambulazione è quasi del tutto
impedita. Appare anche una velata volontarietà nel rifiutare il recupero,
motivata dalla paura di essere rinviata all'istituto di riposo. L'équipe si impegna in una stimolazione che sortisce in qualche
passo in giardino. Si solleva la famiglia in parti assistenziali
fondamentali: il bagno ad esempio. Dopo la rimozione
del bendaggio con le indicazioni del fisioterapista di reparto, si procede a
riabilitazione motoria dell'arto traumatizzato.
L'intervento
dell'équipe ha evitato il peggioramento e risolto
parzialmente una sindrome ipocinetica la cui evoluzione avrebbe
definitivamente segnato la non autosufficienza totale della paziente.
Signora di anni 80, senza figli, abitante con l'anziano marito in un
alloggetto dotato di sufficienti servizi. Da 10 anni
ha problemi di movimento a causa di deterioramento cerebrale con «parkinsonismo». La malattia era vissuta con grande ansia e depressione per le quali ricorreva ad uso
eccessivo di psicofarmaci. Viene ricoverata in ospedale, in reparto di
medicina ove rimane, quasi sempre allettata, per
oltre due mesi. Quando viene dimessa è incapace a
comunicare, ha lesioni da decubito, non mantiene il controllo degli sfinteri,
alterna fasi di sonnolenza con momenti di agitazione. Dopo nove giorni a casa,
mentre con l'aiuto del marito cerca di spostarsi, cade e viene di nuovo ricoverata d'urgenza In reparto di medicina. Quando
l'assistente sociale dell'ospedale è interpellata per istruire una pratica di
ricovero in istituzione, consultato il servizio di
assistenza di quartiere dal quale la situazione della famiglia era conosciuta,
si propone al marito un tentativo di dimissione protetta con l'intervento
dell'équipe di ospedalizzazione a domicilio. D'accordo con il curante di famiglia,
l'équipe infermieristica, mattino e sera, si impegna
in prestazioni di «sollievo» per il coniuge, aiutandolo nell'igiene della
malata, iniziando a farla camminare in casa, inoltre medica il decubito e, con
il controllo del medico ospedaliero, attua endovenose e infusioni reidratanti e
di supporto alimentare. Il consumo di psicofarmaci viene
modulato quotidianamente. Dopo alcuni giorni 1a paziente riprende la continenza
degli sfinteri, mangia autonomamente; si riducono le necessità di sedativi.
Alla dimissione dal servizio la paziente esce quasi
tutti i giorni di casa, è in grado di recarsi con il marito nell'ambulatorio
del medico curante. Nel periodo estivo è andata «in vacanza» al mare. Dopo sei
mesi è stato necessario un secondo breve periodo di intervento.
In pochi giorni di quotidiana attivazione, di fleboclisi reidratanti si è evitata
la ricaduta e «dando una mano al marito» si è scongiurata la necessità di un
ricovero in regime di degenza.
Il ricovero al domicilio è servito a risolvere una forma
depressiva senile sicuramente aggravata dalla degenza ospedaliera. In tale sede
la paziente era non autonoma e ritenuta affetta da
una forma inevitabilmente progressiva ed irrecuperabile.
Il curante di
famiglia, pur continuando la gestione della paziente, nelle fasi più acute ha
delegato al medico ospedaliero la cura, data la difficoltà della modulazione
degli psicofarmaci e del controllo dei loro effetti.
Nelle cure
domiciliari è intervenuto anche il servizio infermieristico di quartiere che,
nei giorni non festivi, si alternava nelle visite mattutine all'équipe
ospedaliera.
Signore di
82 anni, vive in una casa modesta, in compagnia della maglie,
premurosa ed attenta, ma ormai stanca ed «esaurita». Il paziente è affetto
da mieloma multiplo con localizzazione
ossea vertebrale responsabile di paraparesi. È perciò costretto a giacere nel
proprio letto per tutto il giorno; le condizioni generali sono nettamente
scadute.
L'attivazione
del servizio avviene su richiesta dei medici della
divisione di neurologia ed in accordo con il medico curante. L'équipe
interviene con terapie di supporto parenterali, e soprattutto con terapia
antalgica; provvede alla mobilizzazione del paziente,
svolge interventi igienici fondamentali. Dopo un breve periodo di
miglioramento, le condizioni decadono ed il paziente decede.
La paziente viene dimessa dal reparto di degenza in condizioni preterminali per iniziale cachessia neoplastica, da
recidiva del carcinoma del colon che ha invaso l'addome, inglobando l'uretere
destro e determinando idronefrosi con infezione e
stato settico. Ha piaghe da decubito, è ancora lucida e i famigliari hanno
accolto la proposta di farle trascorrere gli ultimi giorni a casa. Vive con il
marito in una casa modesta, ma dotata dei servizi
necessari: è ancora «giovane», 63 anni. Gli interventi sono impegnativi: necessita di terapia del dolore, medicazioni, terapia
generale di supporto. In alcuni momenti la serenità dell'ambiente riesce a dare attimi di miglioramento. Oltre
al marito si alternano ad assisterla le figlie premurose ed assidue.
Dopo un mese decede.
Ha un tumore
addominale che comprime le vie urinarie. Era già stato
operato, adesso le condizioni sono molto scadute. Non si può far altro
che terapia di supporto ed antalgica. Vive attorniato dalla
moglie e dalla figlia. L'équipe lo visita quotidianamente, spesso più
volte al giorno: lo accudisce, somministra infusioni nutritizie, lo accompagna ad un controllo radiologico ed urologico in ospedale. Lentamente le condizioni decadono
fino alla morte che avviene serena nel conforto dei
famigliari.
Vedovo, vive solo in un appartamento sito nello stesso stabile
in cui abitano le due figlie sposate. È in buone condizioni; indipendente, ha
amici, provvede da solo alle faccende di casa. È colpito da crisi epilettica;
dagli esami emerge una metastasi al cervello, diffusasi da tumore del polmone
sino ad ora silente. In ospedale segue un ciclo di terapia radiante, quindi
continua a casa le cure. Sono necessarie fleboclisi di supporto a cui provvede
un servizio privato. Le condizioni generali declinano,
le cure devono essere accentuate: il carico delle spese infermieristiche
private diviene un problema. Si rivolge al servizio di assistenza
sociale di quartiere che, interpellato il medico curante, si fa da tramite
perché venga attivata l'ospedalizzazione domiciliare. L'équipe si impegna nella terapia infusionale,
si occupa dell'igiene della persona, aiuta anche le figlie nell'ordinare la
camera del malato. Si aggrava, insorge subocclusione
intestinale: è accompagnato in pronto soccorso e dopo qualche tempo di osservazione lo si riaccompagna a casa. La famiglia lo
assiste con attenzione: le figlie si congedano temporaneamente dal lavoro per poterlo accudire, i nipoti vanno a studiare dal nonno: gli
ultimi momenti di vita sono intimi e sereni.
Abbiamo curato a casa malati
con bisogni che di solito richiedono il ricovero in ospedale, ma per i quali
fosse garantita una fattiva collaborazione da parte della famiglia. Si sono
osservate situazioni in cui il ruolo del parente nell'assistenza
ha avuto un significato altamente terapeutico contribuendo a sollevare la
qualità della vita o di quel poco di vita residua. Ciò è avvenuto spesso con
sacrificio sino all'esaurimento fisico e finanziario. È necessario considerare
che si dovrà riconoscere chiaramente quanta terapia può fare la famiglia e
compensarne economicamente le spese in modo da poter utilizzare il suo contributo
nella maniera più ampia possibile.
Ospedalizzando a casa, si sono trovate linee di qualificazione e
gratificazione per il personale sanitario, infermieri e medici. Gli infermieri,
abbandonata la nozionistica cultura pseudomedica
prevalente nelle scuole e nei reparti, hanno maturato una competenza
scientifica consistente in un approccio multifattoriale
al malato anziano e al cronico, hanno raggiunto la coscienza di «un ruolo infermieristico vivacizzato dalla
possibilità di misurare in prima persona gli effetti di un lavoro creativo e
non isterilito dai rigidi protocolli in uso nei
reparti di degenza». Queste sono state le loro impressioni; tenendo conto
che la maggior parte della loro opera si è svolta per pazienti da assistere nel
termine della vita mi pare giusto riferirle, a dimostrazione di quella
metodologia dell'ottimismo citata in apertura.
Si può correttamente ritenere che questi aspetti,
uniti alla possibilità del continuo contatto con l'ospedale mediato da medici
che si impegnino in un lavoro realmente d'équipe,
rendono l'ospedalizzare a casa un momento sanitario tra i più qualificati,
espressione di un concetto moderno di alta tecnologia sanitaria.
Il completamento del modello sperimentato con altri
interventi (convenzione con operatori sociosanitari, attivazione ed
organizzazione del volontariato, il già citato contributo economico alla
famiglia) potrebbe renderne più ampia l'applicazione, contribuendo a meglio
rispondere agli obblighi costituzionali di assistenza
agli ammalati anche se cronici ed anziani.
D'altro canto la disponibilità di cure infermieristiche
di tipo ospedaliero sul territorio può essere un efficace stimolo a rafforzare
il rapporto tra il paziente e il medico di famiglia (in particolare per quei
malati che non richiedano una continuità di intervento
medico-specialistico), riportando quest'ultimo in
una posizione culturale oltreché operativa di
centralità nella gestione delle cure ai pazienti malati cronicamente. Anche
nella nostra esperienza si sono individuati ampi spazi per un fattivo ed utile
intervento del medico di famiglia.
Non si nasconde che la sistemazione dei rapporti tra
le varie aree sanitarie (medicina di base, medicina ospedaliera) possa essere problematica, tuttavia si possono intravedere
modi che consentano la risoluzione di concezioni solo in superficie controverse.
Ad esempio la programmazione di: 1) servizi di
ospedalizzazione a domicilio che affianchino i reparti di degenza tradizionale
(sia degli attuali presidi ospedalieri, sia delle future auspicabili strutture
per «cure minime»); 2) servizi di assistenza sanitaria domiciliare con
personale infermieristico direttamente gestito dai medici di medicina generale
o dal geriatra di territorio.
Da queste note mi pare che emergono sufficienti
stimoli a che l'ospedalizzare in casa divenga un metodo diffuso, a Torino
potrebbero subito svilupparsi nuovi centri di attività,
almeno uno per ogni ospedale servito da reparti di geriatria. Non sono
accettabili ulteriori latenze, non sono sostenibili
obiezioni economiche. Con costi non troppo elevati e inferiori a quelli della
degenza in ospedale (pur tenendo conto degli eventuali contributi ai familiari)
si potrebbe iniziare a risolvere i problemi di quella piccolissima parte della
popolazione (piccola anche nella stessa fascia di anziani)
che forse perché tale, indifesa e trascurata sinora, è in condizione di gravissima
emergenza sanitaria.
(*) Aiuto di geriatria dell'Università
degli studi di Torino.
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