Prospettive assistenziali, n. 79, luglio-settembre 1987

 

 

L'OSPEDALIZZAZIONE A DOMICILIO: PRIMO BILANCIO DI UNA ESPERIENZA POSITIVA

LUIGI PERNIGOTTI (*)

 

 

«L'ottimismo è un vero e proprio metodo tera­peutico, preventivo e perfino curativo; lottare contro il concetto di decadimento legato all'invec­chiamento è un atteggiamento benefico, non solo per le persone anziane, malate e non, ma anche per gli stessi medici». La salute dell'anziano ri­conosce determinanti quasi insospettati dalla cul­tura medica prevalente, l'ottimismo appunto, co­me argutamente dice il gerontologo Fiorentina Antonini, ma anche la convivenza, la socialità, la solidità economica, la religione, la libertà.

Questi aspetti sono delle costanti di riferi­mento che indicano quanto accettabile possa es­sere la vita di un anziano, e per chi ha il com­pito di tutelarne la salute divengono obiettivi di intervento. E se in tal modo, agendo per far con­quistare un maggior benessere all'anziano, si rie­sce ad evitare malanni e si incrementa la qualità della vita di chi é già malato, a buon diritto, que­ste metodologie di intervento devono conside­rarsi sanitarie, anche se inconsuete e avulse dal­la mentalità dì chi esercita una esclusiva medi­cina del farmaco dettata da pericolose concezio­ni organicistiche della malattia.

Non è che il farmaco e la tecnologia debbano essere negati all'anziano, ben altro si vuol dire, perché, anzi, quando si cade malati, i deteriora­menti del morbo, sovrapponendosi a quelli dell'invecchiamento, dan sempre luogo a forme di malattia di elevata gravità che più necessitano di alta tecnologia ed anche di buoni farmaci.

L'organizzazione dei posti ove applicare le tec­nologie, gli stessi strumenti tecnici ed i medica­menti devono in tal caso essere pensati ed utiliz­zati a misura di «vecchio» in modo da non con­trastare quei valori umanitari che possono ren­dere nuova e desiderabile la vecchiaia.

«Tecnologia avanzata - riferisce Fabrizio Fa­bris, professore di gerontologia dell'Università di Torino - non significa necessariamente ospeda­le, o ospedale più specializzato perché più ricco di macchine. Può così capitare che si muoia di più negli ospedali classificati di maggior livello e di mena, invece, in ospedali apparentemente più poveri ove l'intensità delle cure è misurata dalla passione e dalla dedizione di chi vi opera, piut­tosto che dal numero delle aree considerate in­tensive per la asetticità ed il numero di mac­chine». La maggior parte delle malattie per le quali è necessario un ricovero traggono maggior beneficio dalla qualificazione del personale, di un personale istruito per comprendere i problemi particolari e complessi dell'ammalato anziano. Nella pratica ciò vuol dire che nella cura degli ammalati anziani è da tener conto prioritariamen­te della personalità dell'individuo, talora anche del demente!

Spesso anziani affetti da medesime malattie hanno bisogno di interventi medici e sanitari dif­ferenti; le cure a cui vengono sottoposti devono essere dettate da medesimi principi guida che risiedono in un insieme di conoscenze scienti­fiche che formano la competenza del geriatra e dell'operatore geriatrico. «Le persone anziane stanno male perché si ammalano e non perché sono invecchiate, quando si ammalano hanno più malattie, hanno una enorme potenziale di recu­pero e, fondamentalmente, sono più felici e più sane se possono vivere nella propria casa, se questa è messa a posto in modo a loro ade­guato».

Guardandosi attorno, ci si rende conto di come i principi guida della medicina geriatrica siano prevalentemente disattesi nella attuale realtà sa­nitaria. Si incomincia dalla informazione: spesso è falsa, quasi sempre a favore delle forze emer­genti della popolazione, come quando si legge che «il vecchio è detto abbandonato dalla fami­glia». La maggior parte degli ultra sessantacin­quenni italiani, invece, vivono in famiglia, sono ancora amati e, quando necessitano, curati dai parenti.

L'etica giornalistica sembra del tutto scompar­sa quando impudicamente riferisce ed accoglie solo le notizie della parte antigeriatrica della me­dicina. Così può capitare di leggere che «i vec­chi rubano salute ai giovani occupando letti ospe­dalieri» intorno ai quali mani illustri della me­dicina si dichiarano fatate per guarire le malattie importanti, quelle dei giovani appunto, e sono stregate per i vecchi. È evidente il sospetto che l'importanza della malattia dipende dal numero di amici del malato, i giovani ne hanno tanti che possono fare propaganda. Non si ha pudore nel far grandi i titoli sui risultati di ricerche condotte su pochi individui che riferiscono dell'inelutta­bile condizionamento genetico di forme morbose, quali la depressione o il decadimento cerebrale; si tace invece sui risultati che denunciano come l'ospedalizzazione inadeguata, la povertà, la soli-tudine sono elementi ambientali che fanno emer­gere quelle stesse malattie negli anziani.

L'organizzazione dei reparti ospedalieri, sotto alcuni punti di vista, può apparire oggi migliore di un tempo: scomparse le vecchie crociere, pa­vimenti puliti, scarafaggi ipnotizzati dal bip bip dei monitor, caposale in cuffia e divisa. Ma que­ste caratteristiche non sono sufficienti per fare della buona medicina, anzi talora sono più cura­tivi il disordinato vociare dei visitatori, le bri­ciole di spuntini consumati a tutte le ore, letti sgualciti dal sedere dei parenti, il calore della mano sguantata che ti aiuta a sollevare.

Purtroppo la tendenza è contraria, le visite sono regolamentate, l'ingresso alle corsie sbarrato da porte carcerarie, i pasti rapidi e dietetici; doma­ni poi, i grembiuli saranno più lunghi, nasceran­no le mascherine, gli occhiali e i guanti anti AIDS, sempre più isolati ci sì parlerà con l'interfono. E quindi dopo il danno la beffa: un vecchio impo­tente per tanti anni di inutili medicine si vedrà considerato soggetto a rischio di siero positività! Queste barriere culturali offendono profondamen­te e fanno aggravare le malattie in particolare dei più anziani. Sono un pericolo forse maggiore del­le barriere architettoniche; quest'ultime spesso possono essere superate con l'aiuto di un perso­nale intelligente, le altre sono difficili da sradi­care, feriscono subdolamente.

Sono la conseguenza di una non cultura stimo­lata da anni di disinteresse per i più poveri di salute e di anni da vivere, sono paradossalmen­te diffuse anche tra molti che hanno responsa­bilità d'insegnamento. Ho un ricordo emblemati­co di una caposala ignorante che si lamentava di non aver tempo di insegnare alle proprie allieve perché sempre impegnata a pulire malati incon­tinenti. Il luogo, ove si ostinava a far tenere or­dinate le padelle, era troppo lontano e troppo lungo il tempo per recuperarle: quando si assen­tava le allieve tenevano le padelle sotto il letto e nessuno dei pazienti era più incontinente.

Ma se non si può fuggire dalle cure ospedalie­re che sono state e rimangono un aspetto fon­damentale degli strumenti necessari per combat­tere le malattie, è necessario adeguarle in modo da evitare il cronicismo, ossia il fenomeno di quegli ammalati resi cronici ed invalidi da ca­renze del sistema ospedaliero.

Nel dipartimento di emergenza dell'ospedale più grande della nostra città si è visto come la disponibilità ad applicare cure di livello adegua­to alle patologie più gravi e tipiche degli an­ziani si realizza positivamente ogni giorno; in quella sede la frequentazione sempre più comu­ne di ammalati anziani ha affinato la cultura del personale, medico e non, ha fatto affiancare all'uso della macchina l'humanitas come mezzo te­rapeutico; non si rimanda a casa il vecchio am­malato che vive solo, e progressivamente è an­data crescendo la convinzione che non è tempo perso operare al massimo delle possibilità anche di fronte al grande vecchio. Vi si ottengono risul­tati impossibili negli ospedali ove la vecchiaia è di freno all'applicazione delle risorse tecnologi­che. E così, come nella maggior parte dei reparti ospedalieri attuali, quando effettuata la diagnosi ed impostata la terapia si considera esaurito il ricovero di competenza sanitaria, si compie una truffa. Anche nell'attesa della morte la medicina è in grado di proporre interventi positivi che non possono non essere considerati importanti o an­cor peggio lasciati al vaglio di chi è al di fuori della sanità.

Queste riflessioni fanno intravedere la neces­sità di elementi innovativi nell'assistenza sani­taria. L'attualità di tecnologie avanzate anche a favore del vecchio e del malato cronico, la pre­venzione dei turbamenti innescati dal ricovero, l'attenzione ai pericoli del cronicismo suggerisco­no servizi ospedalieri graduati secondo le effetti­ve necessità dei pazienti e strutturati in modo da poter trasferire alcune prestazioni sul terri­torio. «Rendere estesa la possibilità di curare il paziente anziano nel proprio ambiente, ospeda­lizzandolo a casa» è una metodologia assisten­ziale ribadita dal Consiglio d'Europa tramite il Comitato per la programmazione degli interventi sanitari (Council of Europe, European Health Committee, 18th Meeting, Strasbourg 26-29 no­vembre 1985).

Sin dalla fine degli anni settanta, la scuola gerontologica torinese ha fatto opera di diffusio­ne di tali concetti auspicando l'attivazione di for­me assistenziali che potessero garantire una con­tinuità di cura tra ospedale e domicilio. La ricer­ca di nuove forme di intervento a favore degli anziani cronici ha trovato significative e determi­nanti convergenze di opinioni da parte di organiz­zazioni e gruppi diversi. Tra questi, vigoroso risulta l'impegno del Csa (Coordinamento sanità e assistenza fra i movimenti di base) e di questa stessa rivista (in particolare ricordiamo la monografia «Vecchi da morire», di F. Santanera e M.G. Breda).

La determinazione di G. Poli, già presidente dell'USL di Torino, nel perseguire una politica sani­taria rispondente alle esigenze della popolazione, e quindi tesa a sperimentare nuove forme di in­tervento, ha permesso, con la collaborazione di W. Neri, già responsabile degli ospedali di To­rino, la deliberazione di un progetto sperimen­tale di assistenza ospedaliera a domicilio (delibera 1134.4.84 USL 1-23 Torino riportata sul n. 69 di questa rivista).

Dall'ottobre 1985 alcuni infermieri professio­nali, distaccati dall'assistenza sanitaria di base per l'avvio del progetto, si sono organizzati in équipe di intervento domiciliare con alcuni me­dici della divisione universitaria di geriatria di Torino. Il servizio, in genere, ha operato in alterna­tiva al ricovero in reparti per acuti sia nel senso di una ospedalizzazione di pazienti inviati dal cu­rante di famiglia che nel senso di una dimissione protetta da strutture ospedaliere. I risultati dell'esperienza di più di un anno sono chiaramente positivi e rafforzano la convinzione che nell'as­sistenza ai malati anziani sono necessarie for­mule alternative e differenziate. Sono stati se­guiti 200 pazienti: ci pare utile ricordare alcune storie esemplificative.

 

Vive in casa di riposo per anziani, è portatrice di ano artificiale da diversi anni, in seguito ad intervento per tumore del retto. È affetta da scle­rodermia che le comporta dolori da anni, agli arti superiori con difficoltà nei movimenti fini: riusci­va tuttavia sino a poco tempo addietro a telefo­nare, e per tale via si assicurava l'intervento dei famigliari o di assistenza infermieristica nei mo­menti di accentuazione del dolore. Da alcuni mesi è sotto costante terapia antalgica. Presenta esiti locali di distruzione chirurgica perineale per la quale necessita di medicazioni quotidiane.

All'atto della decisione del curante di procede­re al ricovero, per peggioramento delle condizio­ni generali e necessità di una accentuazione del­le cure infermieristiche, le si propone di rima­nere al proprio domicilio.

L'intervento dell'équipe risulta di sollievo per i familiari e permette di ritardare il ricovero in regime di degenza. Le condizioni sono andate peggiorando progressivamente, tuttavia nei primi giorni si era ancora riusciti a farle passare alcune ore seduta in poltrona.

Al termine si è dovuto procedere al ricovero per «esaurimento economico» dei famigliari in­capaci a sostenere ulteriormente il carico, oltre che della retta dell'istituto, dell'assistenza in­fermieristica notturna resasi necessaria per la impossibilità della paziente all'utilizzazione di qualsiasi allarme. Al ricovero in reparto per acuti le condizioni peggiorarono rapidamente, e dopo due giorni la paziente è deceduta.

 

È un signore di 73 anni, pensionato da 10 anni, che vive con la moglie in una casa decorosa. Ha gravi difficoltà di movimento, riesce ad esprimer­si a stento con gesti e parole un po' affastellate, non trattiene le urine, ha dei grandi vuoti di me­moria. È un quadro di cerebropatia cronica. La moglie gli si è dedicata prestando un'assistenza encomiabile da quando, quattro anni addietro, so­no iniziati i primi sintomi, dopo un infarto mio­cardico. È stato inquadrato in precedenti ricoveri presso l'ospedale di giorno di geriatria. La ma­lattia è progressiva e rapida; i lunghi periodi di adinamia favoriscono il ripetersi di infezioni del­le vie urinarie e respiratorie. Quando, dopo un calo notevole delle condizioni generali, insorge febbre, iniziale decubito sacrale, ulteriore depe­rimento globale, viene proposto dal curante il ri­covero in ospedale. In alternativa viene attivato il servizio. Si procede a prestazioni di tipo dia­gnostico, di supporto generale. di terapia infusio­nale, di igiene globale e stimolazione psico-mo­toria. Viene raggiunto un nuovo equilibrio che permette dopo giorni di visite quotidiane un ral­lentamento della sorveglianza. Il decorso è ca­ratterizzato da nuovi similari episodi di peggiora­mento con fasi di parziale recupero: tuttavia alla risoluzione di ogni riacutizzazione le condizioni sia fisiche che mentali si assestano in un grado maggiore di deterioramento. Dopo alcuni mesi il quadro risulta di dipendenza totale, l'alimenta­zione è un «impegno» notevole della moglie e degli infermieri, la rigidità impedisce anche l'uso della carrozzella; allettato i decubiti si espando­no, si sovrappone uno squilibrio metabolico e dopo settimane di supporto con alimentazione pa­renterale decede. L'équipe medico-infermieristi­ca dell'ospedalizzazione a domicilio è dovuta in­tervenire spesso anche durante la notte per su­perare situazioni di pre-edema polmonare. Oltre alle cure prestate al paziente si è compiuta una opera di «sollievo» per la moglie.

 

Ha 72 anni, è un pensionato del Comune dove lavorava come messo, vive in un'abitazione nel centro storico di due stanzette prive di luce, al 2° piano senza ascensore, scaldate da una stufa a legna (i servizi sono sul ballatoio, l'igiene degli ambienti è molto scarsa). Vive con lui la moglie e l'unico figlio quarantenne etilista. Da anni è affetto da edemi elefantiasici agli arti, sostenuti prima da una insufficienza cronica della circola­zione venosa e negli ultimi tempi da scompenso cardiaco. Da mesi trascorre la più parte del gior­no su una sedia divenuta anche il suo giaciglio notturno. È portatore di una mostruosa ernia scrotale che contribuisce a impacciarlo nei movimen­ti e nella minzione. Ultimamente sulle gambe si sono aperte diffuse e profonde ulcerazioni. Il curante più volte ha proposto un ricovero ospe­daliero, rifiutato per non abbandonare il figlio. Il servizio territoriale di assistenza sociale ed in­fermieristica è a conoscenza del caso, ha effet­tuato in precedenza alcuni interventi ma non riesce a sostenere la gravità della situazione. L'in­tervento dell'équipe medico-infermieristica dell'ospedalizzazione a domicilio viene accolta mol­to favorevolmente in quanto anche il paziente si è reso conto della estrema precarietà e pericolo­sità del suo stato di salute.

Si attuano misure terapeutiche intese al com­penso cardiaco, alla pulizia delle ferite, alla loro quotidiana medicazione, si eseguono accertamen­ti ematochimici e elettrocardiografici, ci si in­teressa a che venga mantenuta una maggiore igiene ambientale. Lentamente si assiste ad un buon miglioramento delle condizioni cardiache, con progressiva guarigione delle ulcere. Si ral­lentano gli interventi e si giunge a dimettere il paziente in condizioni quasi del tutto ristabilite: è tornato a dormire nel letto. Si muove più di­sinvoltamente. Il distacco dal servizio è vissuto in modo un po' traumatizzante, ma gradualmente il paziente riprende fiducia e si accorge di poter «far da solo». Viene tuttavia mantenuto uno sporadico controllo e dopo alcuni mesi, ai primi segni di riacutizzazione di scompenso cardiaco e di nuove lesioni cutanee agli arti, si riattiva una protezione più assidua. Nel corso del lungo pe­riodo di ospedalizzazione hanno collaborato con l'équipe anche i sanitari della divisione univer­sitaria di dermatologia.

 

Rappresentante di commercio, dotato di molto dinamismo ha condotto una vita priva di precau­zioni igieniche. Fortissimo fumatore, cefalalgico. Consumava grandi quantità di analgesici in parti­colare Saridon (sino a 10 pastiglie al giorno!). Sei anni addietro, a sessant'anni, incomincia ad es­sere limitato da problemi di respirazione dovuti all'evoluzione in fibrosi dei processi flogistici bronchiali inveterati. Si inizia a curare, frequente­mente è ricoverato in ospedale, ma le condizioni non migliorano e all'ambascia respiratoria si as­sociano con il tempo edemi agli arti. Gli viene diagnosticato tumore renale per il quale viene nefrectomizzato. Successivamente si evidenzia­no i segni di una malattia nel rene residuo: in seguito ai danni dovuti al grande consumo di fenacetina si è instaurata una sindrome nefrosica per la quale è da tre anni che periodicamente si sottopone ad infusione di albumina e plasma. Per necessità di tale terapia e per la comparsa di problemi cardiaci (fibrillazione atriale) viene in­dirizzato alla divisione di qeriatria, ove viene cu­rato per qualche tempo. Dimesso, viene seguito presso l'ospedale di giorno. La comparsa di scom­penso cardiaco suggerisce una ulteriore limita­zione degli sforzi e, per questo motivo, inizia ad usufruire dell'intervento dell'équipe che provve­de al domicilio alle infusioni di albumina e al controllo clinico. La malattia, però, è progressiva, con periodi di peggioramento a cui si alternano sempre più brevi momenti di relativo benessere, durante i quali il paziente ha ancora la forza di recarsi da Torino in campagna. Con il tempo si accentuano le perdite proteiche e la necessità di terapia sostitutiva. L'équipe è impegnata molte volte nella risoluzione di gravi problemi cardio­circolatori (edema polmonare); lo segue infine più volte al giorno. A1 termine compaiono anche dolori ossei diffusi, l'umore è sempre più diffi­cile da sostenere, si devono somministrare anal­gesici maggiori. Si deve più volte intervenire d'emergenza anche di notte. È assistito costante­mente dalla moglie; ad essa negli ultimi tempi si deve dedicare un supporto particolare, è giun­ta all'«esaurimento fisico e psicologico», spesso è in forse sul continuare a volere il marito a casa, ma prevale il desiderio di non nuocere a quel poco di serenità che deriva al marito dal suo letto, dalla sua stanza. La morte giunge in­conscia e relativamente serena.

La conduzione medica é stata eseguita costan­temente dal medico ospedaliero dell'équipe sia per la complessità e continuità degli interventi sia per il fatto che il curante di famiglia abitava lontano, fuori della città, in campagna, ove il paziente aveva mantenuto la residenza.

 

47 anni, è stata sottoposta a mastectomia sini­stra e, successivamente alla comparsa di meta­stasi, a mastectomia controlaterale. È ricoverata in regime di degenza con frattura dell'omero de­stro e ulcere neoplastiche diffuse al dorso, alla spalla e al braccio. La prognosi è rapidamente infausta: il marito si dedica ad assisterla conti­nuamente congedandosi dal lavoro. Le si propone quindi di riportarla al domicilio attivando l'inter­vento dell'équipe. La gravità delle lesioni, nono­stante un pieno mantenimento delle condizioni psichiche, impone la necessità di una assistenza impegnativa con più interventi quotidiani. Le ul­cere sono emorragiche. La paziente è lucida, si sostiene alla presenza dei quattro figli giovani, ha tuttavia momenti critici di ansia e depressio­ne mentre avanza la cachessia. Si dà luogo a terapia parenterale di supporto, terapia antalgi­ca, si emotrasfonde, si controbatte la superinfe­zione delle lesioni e la presenza di insufficienza respiratoria insorta per diffusione polmonare del­le metastasi. Trascorso il Natale ancora alzata al tavolo, inizia il crollo terminale.

 

Vive con la moglie, sola nell'assisterlo: ha un figlio con cui nutre cattivi rapporti. La casa è vecchia, ma dotata dei servizi essenziali: è però molto ingombra così da ostacolare la deambula­zione già precaria.

È affetto da neoplasia polmonare; sono fre­quenti episodi sovrapposti di infezione bronco­pneumonica con febbre e stato tossinfettivo che aggrava un quadro di insufficienza epatica da epa­topatia alcoolica per potus non ancora dimenti­cato. Necessita di cure di sostegno sia al fisico che allo stato psichico, e queste sono necessarie anche nei confronti della moglie, al limite dell'«esaurimento», all'inizio dell'ospedalizzazione a domicilio. Questa viene attivata onde rendere meno faticose le terapie sino allora espletate in regime di degenza diurna. Si continuano emotra­sfusioni, infusioni di albumina, supporto idroelet­trolitico e terapia antibiotica. Le cure risultano sufficienti a compensare l'insufficienza epatica e ristabilire le forze della moglie, evitando per un lungo periodo la necessità di ricovero in regime di degenza.

 

Anni 75, è vedova con due figli, con i quali alternativamente abita. In passato era ricoverata in un istituto di riposo per anziani nel quale non era stata più possibile ospitarla in quanto, pur conservando una discreta lucidità, in alcuni mo­menti manifestava fasi di aprassia e disorienta­mento, segni di chiaro deterioramento mentale. Il quadro era insorto seppur gradualmente dopo l'istituzionalizzazione. È in discrete condizioni fi­siche, però da anni le capita di cadere. Erano stati eseguiti accertamenti in sede di ospedaliz­zazione di giorno: è possibile che alcune cadute siano espressione di insufficienza cerebrovasco­lare, ma certamente alcune volte esse sono con­seguenza del suo modo, ormai incerto e pauroso, di muoversi. In una ennesima caduta si frattura l'omero sinistro, viene trasportata d'urgenza in ospedale. Applicato bendaggio molle, è rinviata, su richiesta dei parenti, al domicilio. Ha un po' di dolore, molta paura, si «blocca»: per questo si rivolge al nostro reparto per consigli. Si inizia un'assistenza quotidiana dell'équipe volta a atti­vazione: è difficile farla alzare dal letto; la deam­bulazione è quasi del tutto impedita. Appare an­che una velata volontarietà nel rifiutare il recu­pero, motivata dalla paura di essere rinviata all'istituto di riposo. L'équipe si impegna in una sti­molazione che sortisce in qualche passo in giar­dino. Si solleva la famiglia in parti assistenziali fondamentali: il bagno ad esempio. Dopo la rimo­zione del bendaggio con le indicazioni del fisio­terapista di reparto, si procede a riabilitazione motoria dell'arto traumatizzato.

L'intervento dell'équipe ha evitato il peggiora­mento e risolto parzialmente una sindrome ipo­cinetica la cui evoluzione avrebbe definitivamente segnato la non autosufficienza totale della pa­ziente.

 

Signora di anni 80, senza figli, abitante con l'anziano marito in un alloggetto dotato di suffi­cienti servizi. Da 10 anni ha problemi di movi­mento a causa di deterioramento cerebrale con «parkinsonismo». La malattia era vissuta con grande ansia e depressione per le quali ricorreva ad uso eccessivo di psicofarmaci. Viene ricove­rata in ospedale, in reparto di medicina ove ri­mane, quasi sempre allettata, per oltre due mesi. Quando viene dimessa è incapace a comunicare, ha lesioni da decubito, non mantiene il controllo degli sfinteri, alterna fasi di sonnolenza con mo­menti di agitazione. Dopo nove giorni a casa, mentre con l'aiuto del marito cerca di spostarsi, cade e viene di nuovo ricoverata d'urgenza In reparto di medicina. Quando l'assistente sociale dell'ospedale è interpellata per istruire una pra­tica di ricovero in istituzione, consultato il ser­vizio di assistenza di quartiere dal quale la si­tuazione della famiglia era conosciuta, si propo­ne al marito un tentativo di dimissione protetta con l'intervento dell'équipe di ospedalizzazione a domicilio. D'accordo con il curante di famiglia, l'équipe infermieristica, mattino e sera, si impe­gna in prestazioni di «sollievo» per il coniuge, aiutandolo nell'igiene della malata, iniziando a farla camminare in casa, inoltre medica il decu­bito e, con il controllo del medico ospedaliero, attua endovenose e infusioni reidratanti e di sup­porto alimentare. Il consumo di psicofarmaci vie­ne modulato quotidianamente. Dopo alcuni giorni 1a paziente riprende la continenza degli sfinteri, mangia autonomamente; si riducono le necessità di sedativi. Alla dimissione dal servizio la pazien­te esce quasi tutti i giorni di casa, è in grado di recarsi con il marito nell'ambulatorio del medico curante. Nel periodo estivo è andata «in vacan­za» al mare. Dopo sei mesi è stato necessario un secondo breve periodo di intervento. In pochi giorni di quotidiana attivazione, di fleboclisi rei­dratanti si è evitata la ricaduta e «dando una mano al marito» si è scongiurata la necessità di un ricovero in regime di degenza.

Il ricovero al domicilio è servito a risolvere una forma depressiva senile sicuramente aggravata dalla degenza ospedaliera. In tale sede la pazien­te era non autonoma e ritenuta affetta da una forma inevitabilmente progressiva ed irrecupe­rabile.

Il curante di famiglia, pur continuando la ge­stione della paziente, nelle fasi più acute ha de­legato al medico ospedaliero la cura, data la dif­ficoltà della modulazione degli psicofarmaci e del controllo dei loro effetti.

Nelle cure domiciliari è intervenuto anche il servizio infermieristico di quartiere che, nei giorni non festivi, si alternava nelle visite mattutine all'équipe ospedaliera.

 

Signore di 82 anni, vive in una casa modesta, in compagnia della maglie, premurosa ed attenta, ma ormai stanca ed «esaurita». Il paziente è af­fetto da mieloma multiplo con localizzazione os­sea vertebrale responsabile di paraparesi. È per­ciò costretto a giacere nel proprio letto per tutto il giorno; le condizioni generali sono nettamente scadute.

L'attivazione del servizio avviene su richiesta dei medici della divisione di neurologia ed in ac­cordo con il medico curante. L'équipe interviene con terapie di supporto parenterali, e soprattutto con terapia antalgica; provvede alla mobilizzazio­ne del paziente, svolge interventi igienici fonda­mentali. Dopo un breve periodo di miglioramento, le condizioni decadono ed il paziente decede.

 

La paziente viene dimessa dal reparto di degen­za in condizioni preterminali per iniziale caches­sia neoplastica, da recidiva del carcinoma del co­lon che ha invaso l'addome, inglobando l'uretere destro e determinando idronefrosi con infezione e stato settico. Ha piaghe da decubito, è ancora lucida e i famigliari hanno accolto la proposta di farle trascorrere gli ultimi giorni a casa. Vive con il marito in una casa modesta, ma dotata dei ser­vizi necessari: è ancora «giovane», 63 anni. Gli interventi sono impegnativi: necessita di terapia del dolore, medicazioni, terapia generale di sup­porto. In alcuni momenti la serenità dell'ambien­te riesce a dare attimi di miglioramento. Oltre al marito si alternano ad assisterla le figlie premu­rose ed assidue. Dopo un mese decede.

 

Ha un tumore addominale che comprime le vie urinarie. Era già stato operato, adesso le condi­zioni sono molto scadute. Non si può far altro che terapia di supporto ed antalgica. Vive attorniato dalla moglie e dalla figlia. L'équipe lo visita quo­tidianamente, spesso più volte al giorno: lo accu­disce, somministra infusioni nutritizie, lo accom­pagna ad un controllo radiologico ed urologico in ospedale. Lentamente le condizioni decadono fino alla morte che avviene serena nel conforto dei famigliari.

 

Vedovo, vive solo in un appartamento sito nel­lo stesso stabile in cui abitano le due figlie spo­sate. È in buone condizioni; indipendente, ha ami­ci, provvede da solo alle faccende di casa. È col­pito da crisi epilettica; dagli esami emerge una metastasi al cervello, diffusasi da tumore del polmone sino ad ora silente. In ospedale segue un ciclo di terapia radiante, quindi continua a casa le cure. Sono necessarie fleboclisi di sup­porto a cui provvede un servizio privato. Le condizioni generali declinano, le cure devono esse­re accentuate: il carico delle spese infermieri­stiche private diviene un problema. Si rivolge al servizio di assistenza sociale di quartiere che, interpellato il medico curante, si fa da tramite perché venga attivata l'ospedalizzazione domici­liare. L'équipe si impegna nella terapia infusio­nale, si occupa dell'igiene della persona, aiuta anche le figlie nell'ordinare la camera del malato. Si aggrava, insorge subocclusione intestinale: è accompagnato in pronto soccorso e dopo qualche tempo di osservazione lo si riaccompagna a casa. La famiglia lo assiste con attenzione: le figlie si congedano temporaneamente dal lavoro per po­terlo accudire, i nipoti vanno a studiare dal non­no: gli ultimi momenti di vita sono intimi e sereni.

 

Abbiamo curato a casa malati con bisogni che di solito richiedono il ricovero in ospedale, ma per i quali fosse garantita una fattiva collabora­zione da parte della famiglia. Si sono osservate situazioni in cui il ruolo del parente nell'assi­stenza ha avuto un significato altamente terapeu­tico contribuendo a sollevare la qualità della vita o di quel poco di vita residua. Ciò è avvenuto spesso con sacrificio sino all'esaurimento fisico e finanziario. È necessario considerare che si do­vrà riconoscere chiaramente quanta terapia può fare la famiglia e compensarne economicamente le spese in modo da poter utilizzare il suo con­tributo nella maniera più ampia possibile.

Ospedalizzando a casa, si sono trovate linee di qualificazione e gratificazione per il personale sanitario, infermieri e medici. Gli infermieri, ab­bandonata la nozionistica cultura pseudomedica prevalente nelle scuole e nei reparti, hanno ma­turato una competenza scientifica consistente in un approccio multifattoriale al malato anziano e al cronico, hanno raggiunto la coscienza di «un ruolo infermieristico vivacizzato dalla possibilità di misurare in prima persona gli effetti di un lavoro creativo e non isterilito dai rigidi proto­colli in uso nei reparti di degenza». Queste sono state le loro impressioni; tenendo conto che la maggior parte della loro opera si è svolta per pazienti da assistere nel termine della vita mi pare giusto riferirle, a dimostrazione di quella metodologia dell'ottimismo citata in apertura.

Si può correttamente ritenere che questi aspet­ti, uniti alla possibilità del continuo contatto con l'ospedale mediato da medici che si impegnino in un lavoro realmente d'équipe, rendono l'ospe­dalizzare a casa un momento sanitario tra i più qualificati, espressione di un concetto moderno di alta tecnologia sanitaria.

Il completamento del modello sperimentato con altri interventi (convenzione con operatori socio­sanitari, attivazione ed organizzazione del volon­tariato, il già citato contributo economico alla famiglia) potrebbe renderne più ampia l'applica­zione, contribuendo a meglio rispondere agli ob­blighi costituzionali di assistenza agli ammalati anche se cronici ed anziani.

D'altro canto la disponibilità di cure infermie­ristiche di tipo ospedaliero sul territorio può es­sere un efficace stimolo a rafforzare il rapporto tra il paziente e il medico di famiglia (in parti­colare per quei malati che non richiedano una continuità di intervento medico-specialistico), ri­portando quest'ultimo in una posizione culturale oltreché operativa di centralità nella gestione del­le cure ai pazienti malati cronicamente. Anche nella nostra esperienza si sono individuati ampi spazi per un fattivo ed utile intervento del me­dico di famiglia.

Non si nasconde che la sistemazione dei rap­porti tra le varie aree sanitarie (medicina di base, medicina ospedaliera) possa essere problemati­ca, tuttavia si possono intravedere modi che con­sentano la risoluzione di concezioni solo in su­perficie controverse. Ad esempio la programma­zione di: 1) servizi di ospedalizzazione a domi­cilio che affianchino i reparti di degenza tradizio­nale (sia degli attuali presidi ospedalieri, sia delle future auspicabili strutture per «cure mi­nime»); 2) servizi di assistenza sanitaria domi­ciliare con personale infermieristico direttamen­te gestito dai medici di medicina generale o dal geriatra di territorio.

Da queste note mi pare che emergono suffi­cienti stimoli a che l'ospedalizzare in casa di­venga un metodo diffuso, a Torino potrebbero su­bito svilupparsi nuovi centri di attività, almeno uno per ogni ospedale servito da reparti di ge­riatria. Non sono accettabili ulteriori latenze, non sono sostenibili obiezioni economiche. Con costi non troppo elevati e inferiori a quelli della degenza in ospedale (pur tenendo conto degli eventuali contributi ai familiari) si potrebbe ini­ziare a risolvere i problemi di quella piccolissima parte della popolazione (piccola anche nella stes­sa fascia di anziani) che forse perché tale, indi­fesa e trascurata sinora, è in condizione di gra­vissima emergenza sanitaria.

 

 

(*) Aiuto di geriatria dell'Università degli studi di Torino.

 

 

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