ESIGENZE E DIRITTI DEL CITTADINO
UTENTE DEI SERVIZI
EGIDIO LANIVI (1)
Lo scopo di questa relazione è ambizioso:
- non solo fotografare la situazione generale nella
quale amministratori, operatori, gruppi di volontariato, cooperative si trovano
ad operare per rispondere a richieste di servizi che provengono dal cittadino.
Non solo, quindi, la fotografia di questo;
- né tantomeno il voler
proclamare o denunciare lo stato di disagio nel quale i servizi si trovano
per carenza di leggi, di finanziamenti o per precise
volontà politiche;
- quanto il vedere attraverso l'ottica del cittadino
utente quali tendenze rispetto ai bisogni vecchi e nuovi questa società sta
esprimendo, quale l'evoluzione dei servizi, degli strumenti operativi,
istituzionali e finanziari, che devono essere resi disponibili a tutti coloro che in questo campo operano attraverso la
realizzazione di un sistema organico di rapporti e funzioni, per fare in modo
che con le risorse a disposizione si possa ottenere il massimo dei risultati
possibili.
Tutto ciò premesso con uno sforzo
particolare rispetto al taglio del nostro lavoro: partire sempre dai bisogni e
dai diritti del cittadino.
Il gruppo che ha elaborato le indicazioni per la
stesura della relazione introduttiva cerca di non
coltivare né illusioni né disperazione.
Certo, i problemi che abbiamo di fronte, le emergenze che ci troviamo
in qualche modo a dover affrontare con più o meno sollecitudine, fanno in
qualche modo disperare o preoccupare. Ma una così grande
presenza di amministratori, di operatori e di tecnici d'altro canto ci fa ben
sperare. Evidenzia una attenzione ancor viva ai problemi
che la società esprime e alle esigenze di rispondere in modo più adeguato
riflettendo, confrontandosi, varando linee conclusive da effettivamente
praticare.
A questi incontri è però
generalmente assente il destinatario di questi servizi: il cittadino utente. È
un rischio che anche qui possiamo correre se nei nostri ragionamenti non
cerchiamo di partire costantemente dalla difesa dei
diritti del cittadino utente.
Allora vorrei giocare sul mio ruolo di «rappresentante
eletto» ed impegnarmi a vedere «dalla parte del cittadino» quali sono le sue
esigenze, quali i suoi problemi rispetto all'insieme
dei servizi socio-sanitari operanti sul territorio. Trovandosi in una
situazione di bisogno il prima dei problemi che si troverà ad affrontare è il
sapere a chi rivolgersi per ottenere attenzione e aiuto rispetto alle sue
esigenze. Egli stesso talvolta non ha neppure chiara
l'esigenza, e tantomeno la risposta ad essa adeguata. Scoprirà allora che non
esiste un solo referente. Dovrà rivolgersi a diversi interlocutori, accostarsi
a diversi sportelli, per cercare di chiarire il suo
problema ed avere una risposta pertinente ed adeguata. Si vivrà quindi come
individuo abbandonato a se stesso (emarginato) e, se
considerato, composto allora in tanti segmenti, tanti quanti sono gli
interlocutori con le possibili risposte («pezzi» di risposte) al suo disagio,
fisico, psichico, sociale.
Non solo ma si scoprirà anche che i
suoi interlocutori fanno parte di diverse istituzioni, e che queste hanno
procedure, tempi, parametri diversi rispetto al servizio da erogare; che in
alcuni casi si deve pagare, mentre in altri il servizio è gratuito; che alcune
istituzioni hanno alcuni poteri che altre non hanno. Scoprirà in pratica che il percorso per raggiungere
il suo obiettivo, ammesso che lo ritrovi, é incerto, tortuoso, lungo. Se in
questo peregrinare si dovesse stancare e abbandonare il campo, forse nessuno lo
ricercherebbe; e se invece irritato cercasse di reagire, anche in questo caso
incontrerebbe grosse difficoltà nell'individuare il soggetto a cui rivolgersi
per presentare reclamo; e se insoddisfatto non
saprebbe a chi ritirare la «fiducia politica» a come trovare il modo di
lottare per cambiare le cose. Molti di questi interlocutori sono
lontani, altri sono rappresentati da persone non elette direttamente ma
nominate attraverso meccanismi filtrati dalle segreterie dei partiti.
Nascono quindi nell'individuo tre precise esigenze:
avere per prima cosa chiari referenti operativi e istituzionali, meglio se in
prima istanza uno solo ben identificato; in secondo
luogo, avere la possibilità di ottenere tutela se ignorato; infine di poter
giudicare con lo strumento del voto l'operato dell'ente politicamente
responsabile del servizio.
La popolazione deve aviere, come referenti, servizi
ben organizzati (quindi non sull'esigenza dei servizi ma delle persone che vi
fanno riferimento), con chiarezza di funzioni e di compiti, espressione a loro
volta di un sistema istituzionale ben costruito nei livelli e nei ruoli di
governo. Sul piano più generale nasce quindi l'esigenza di ridisegnare la mappa
dei poteri locali e dei compiti a loro attribuiti: individuare con precisione
quali debbono essere i compiti dei Comuni, delle
Associazioni fra Comuni, delle Comunità Montane, delle Province e delle
Regioni.
Non devono sussistere conflitti di competenze né tantomeno confusioni di ruoli che talvolta divengono alibi
per «scaricare» dal servizio il problema che l'utente pone. E non debbono men che mai esistere più
enti all'interno dello stesso ente, come spesso accade anche per concorrenzialità fra i diversi settori.
Il ruolo, le funzioni, le responsabilità che le diverse
istituzioni hanno, devono assolutamente trovare un quadro di riferimento
legislativo generale che da troppo tempo si attende. Ma nel merito delle proposte
per sciogliere il nodo istituzionale relazionerà il Prof. Onida.
A me intanto preme ribadire
che non soltanto non credo a ricette miracolistiche quali quelle recentemente
avanzate dal Ministro della sanità, Sen. Donat-Cattin, ma che anzi vedo nella sottrazione al
controllo democratico del comparto sanitario, il negare anziché il favorire,
il diritto individuale di poter contare, partecipare in qualche modo alle
determinazioni di governo di un settore così importante. Oltreché
allontanare ancor più l'interlocutore dal cittadino.
Proseguendo poi nel suo percorso il cittadino utente
alla ricerca del servizio in grado di rispondere alle sue necessità,
una volta individuato l'ente erogatore e l'ufficio competente, potrebbe
sentirsi rispondere che il servizio non viene erogato per mancanza di
disponibilità finanziarie. Questo evidenzia come il bisogno socio-assistenziale
sia ancora una esigenza e non un diritto pienamente
garantito. E di fatto le carenze di risorse a
disposizione è un altro dei grossi problemi che gli amministratori debbono
affrontare e che di anno in anno diventa più difficile da risolvere.
Le continue denunce fatte dai mass media
sugli sprechi che si attuerebbero nella gestione dei servizi pubblici hanno
ormai raggiunto livelli difficilmente accettabili da chi opera correttamente
nelle pubbliche amministrazioni.
Anche in questo caso il responsabile principale delle
disfunzioni andrebbe ricercato in altre direzioni. C'è una volontà precisa (il
Convegno dello scorso anno mi pare l'abbia ben sottolineata)
tendente a privilegiare settori forti a danno di quelli deboli, a demolire le
conquiste in termini di sicurezza sociale a favore del mercato libero e
incontrollato, a ridurre l'intervento pubblico a favore di quello privato, ad
incentivare il volontariato visto non come integrazione importante, ma come
sostituzione dei compiti e dei doveri dello
Stato anche nelle sue varie
articolazioni rappresentate dal tessuto democratico delle autonomie locali. Insomma un «più privato e meno Stato» che rischia di concretizzarsi soltanto in una maggiore
deregolamentazione, in maggiori risorse e poteri per la parte forte della
società, più marginalizzazione, meno diritti per la
parte più debole. Meno welfar state, quindi, e tutt'al più
maggiore beneficenza.
Di fronte a tutto ciò, anche il movimento riformatore
(anche se occorre chiedersi se di movimento si può ancora parlare), va
indietro. Non solo non si è riusciti ad approvare importanti riforme come
quella delle autonomie, dell'assistenza, della
scuola. Ma una dopo l'altra, le leggi finanziarie
tagliano progressivamente le risorse ai Comuni sottraendole conseguentemente
proprio al settore sociale. Guarda caso tutto ciò, aumentando le difficoltà,
di fatto orienta il cittadino utente verso servizi privati che di fronte alle
carenze, anche provocate, dei servizi pubblici
finiscono per presentarsi come sinonimo di efficienza e serietà. Non credo che
la valutazione generalizzata debba essere: servizio pubblico inefficiente e
sprecone, servizio privato efficiente ed economico. II
quadro deve essere più approfondito, anche perché ben diverse sono le finalità
e le regole che presiedono la gestione dell'uno e dell'altro tipo di servizio.
Tra le cause che generano questa
semplicistica e banale convinzione vi è sicuramente anche la disinformazione.
Anche, se mi consentite, la malevola disinformazione compiuta per orientare il
cittadino verso opinioni che fanno comodo proprio a quella parte di società
che dalla preponderanza del privato sul pubblico anche nel sociale, è certa di
avere più da guadagnare sia in termini meramente economici che
di potere. Ma vi è anche una non informazione,
sicuramente non malevola. Infatti, contrariamente a quanto fa il privato,
l'ente pubblico non informa correttamente l'utente sui servizi a disposizione,
sulle modalità d'accesso ai medesimi, sui diritti dell'individuo a ottenere determinate prestazioni, sulla dislocazione dei
servizi. Stranamente la maggior parte delle
istituzioni pubbliche responsabili dei servizi non informano, non educano
all'uso del servizio.
Da una tale situazione emerge facilmente un generico
giudizio di condanna complessivo dello «schifo del servizio pubblico» e della «bontà
del servizio privato». Generico e superficiale
giudizio oltreché ingiusto perché, come vedremo nelle
prossime giornate di questo incontro, non è così.
Ingiusto soprattutto se non si
tiene conto degli enormi passi avanti fatti in questi anni. Ci si è dimenticati, e può essere normale da parte
dei singoli cittadini, di come si stava prima delle riforme. Ci si è
dimenticati dei disservizi esistenti prima del DPR 616 e della legge di riforma
sanitaria. Non si vuole ricordare che allora, più di adesso, si morva nelle corsie degli ospedali, e allo stato di
abbandono a cui erano destinati gli appartenenti alle categorie più deboli come
gli anziani, i non autosufficienti, i malati di mente.
Non si vuole tenere conto di come in questi anni
molti movimenti di opinione siano sorti a tutela dei
diritti dei cittadini in situazioni di disagio.
Pensiamo a tutte le associazioni che danno voce ai cittadini paraplegici,
malati di mente, cardiopatici, dializzati, poliomielitici e via dicendo.
Pensiamo come anche da momenti come il nostro convegno, svolto qui lo scorso
anno, si favorisca una maggior consapevolezza sui problemi. Quanta strada,
almeno nella convinzione dei singoli, si è fatta ad esempio sul problema dei
diritti dei non autosufficienti, dei cronici, dei lungodegenti ad avere
adeguate cure di carattere sanitario. Tali gruppi organizzati hanno giustamente
reso possibile la denuncia delle carenze dei servizi
messi a disposizione (e questo può anche aver favorito a colorare di nero il
panorama del servizio pubblico). Ma tali gruppi hanno
anche dato indicazioni concrete per la realizzazione di servizi alternativi
più funzionali al bisogno dell'utenza. Essi sono stati parte integrante del
movimento riformatore che attorno a queste spinte si è
creato negli anni passati.
I risultati sono concreti: pensiamo ad esempio
all'avvenuta deistituzionalizzazione di migliaia di
handicappati fisici, psichici e sensoriali; pensiamo alle numerose
realizzazioni ed inserimenti lavorativi di insufficienti
mentali. Pensiamo alla riduzione consistente del numero dei minori in istituto
(dai 310.000 del 1962, agli attuali 60-80 mila) in particolare dovuto
all'azione di iniziative contro l'emarginazione:
adozione, affidamenti familiari a scopo educativo e soprattutto aiuti alle
famiglie d'origine quali casa, lavoro, inserimento scolastico, pensioni
adeguate.
In questi anni, quindi, la sensibilità dell'utente è
cresciuta e la sua voce si è fatta sentire con toni più chiari e precisi. É
cresciuta il livello di conoscenza dei propri diritti: dei diritti del cittadino
ad avere risposte efficienti ed efficaci ai propri problemi nei confronti delle
istituzioni erogatrici di servizi più vicini alle persone e anche alla loro
protesta o al loro giudizio (Comuni, USL, Comunità Montane) rispetto ad enti
nazionali più distanti dall'utente (pensiamo all'INPS, alle FF.SS., alle Poste).
Tutto questa, apparentemente, ha contribuito ad
alimentare la conflittualità sociale. In realtà ha
dato la possibilità a chi non aveva voce allora, di esprimere giudizi, di
avanzare proposte.
Ciò che va male oggi andava peggio alcuni anni fa:
la differenza è solo che allora non se ne parlava, oppure non ci si aspettava
un trattamento migliore di quello che veniva erogato.
Le case di ricovero ghettizzanti per handicappati,
malati di mente o anziani cronici c'erano allora e arrivavano all'opinione
pubblica solo per i fatti drammatici, che eccezionalmente superavano i colpevoli
silenzi, le connivenze e le omertà.
In questo campo; quindi, molto si è fatto in questi
anni.
Ciò non toglie il fatto che
molto c'è ancora da fare e quindi non siamo esentati dal denunciare le cause
che ostacolano il progredire dei servizi alle persone in stato di disagio e dal
ricercare soluzioni più adeguate alle ragioni di offerta del servizio.
Ecco la ragione, o meglio le ragioni di questo incontro!
Noi siamo convinti che i contenuti sostanziali della
riforma andavano e vanno ancora bene. Ci sono stati,
lungo la strada fino ad ora percorsa, vari ostacoli che devono essere
affrontati e superati: la nostra incapacità, gli strumenti inadeguati, le normative vecchie, la burocrazia esasperante, la
riduzione delle risorse disponibili.
Malgrado tutta, delle significative
esperienze sono state fatte. Alcune, che non pretendiamo essere le più significative, ma che si offrono come oggetto di verifica,
ci verranno domani presentate e le potremo valutare criticamente. Ciò che è
importante è che le esperienze significative siano
socializzate, diventino, nel bene e nel male, patrimonio degli amministratori e
degli operatori.
Questa la prima ragione di quest'incontro.
La seconda, che troverà concretezza attraverso gli
incontri settoriali di tutti o quasi tutti coloro che operano nel sociale a
vario titolo e con varie e diverse responsabilità, è quella di attivare
comunicazione, dialogo, coinvolgimento per far emergere proposte che consentano
di razionalizzare, migliorare e modificare le varie
aree di servizi e se è il caso, l'insieme del sistema preposto all'erogazione
dei servizi, consentendo di sviluppare e generalizzare le esperienze positive
che in questi anni sono state realizzate. In questa direzione vanno le
proposte che come gruppo abbiamo discusso ed il
quadro generale nel quale le stesse vanno inserite.
Ma anche qui si corre un rischio che vorrei rimuovere
con un richiamo innanzitutto a me stesso e poi a tutti
voi, per il prosieguo del nostra lavoro. Vaglieremo insieme esperienze e
proposte tendenti a cambiare le cose per rendere più
efficace la nostra azione. Allora dovremo sforzarci (e questa si che sarebbe la discriminante decisiva), di sviscerare le
nostre .proposte ponendo a base dei nostri
ragionamenti i diritti fondamentali del cittadino. Richiamo a
questo «fil rouge» il denominatore comune di tutto l'incontro.
Senza ciò perderemmo il contatto con le elaborazioni,
il lavoro, le ricerche, le azioni che come convinti riformatori negli anni
scorsi abbiamo condotto. Certo, come gli astronomi che non si ripetono ogni
giorno che è la terra a girare attorno al sole, neanche noi è
il caso che dogmaticamente si premetta la dichiarazione innanzi detta ad ogni
nostro discorso. Ma come i ragionamenti degli astronomi sono permeati da quella
certezza e dalle conseguenze che vi derivano, così anche noi quando ragioneremo
di organizzazione dei servizi, di reperimento e quantificazione delle risorse
economiche, quando affronteremo i problemi gestionali
e di formazione del personale, quando discuteremo di riordino istituzionale
non possiamo esimerci dal permeare ogni ragionamento, ogni elaborazione, ogni
azione dal concetto di rispetto dell'esercizio da parte del cittadino dei
suoi proprii diritti fondamentali verso la società e
i servizi. Di tutti i cittadini ma soprattutto di quelli che per condizioni economiche,
fisiche, relazionali, psicologiche hanno la necessità più di ogni
altro di vedere i proprii diritti tutelati.
E non è certo con la graduale demolizione dello stato
sociale che tali diritti possono adeguatamente essere tutelati.
L'attacco allo stato sociale è superficiale e
fuorviante.
È superficiale perché si addebita ai soli interventi
a tutela dei cittadini in uno stato di disagio il preoccupante aumento della
spesa pubblica (il che non è vero, come verrà ampiamente illustrato in
comunicazioni e tavole rotonde nei prossimi giorni) ed è fuorviante perché ciò
che si è finora attuato in Italia non è lo stato sociale ma, al massimo, lo
stato assistenziale, lo stato come ente di beneficenza,
sovente lo stato clientelare. Non solo. Esso si basa su presupposti non veri.
Se depuriamo il puro assistenzialismo (pensioni baby, invalidità fasulle, ecc.)
troviamo poi che sostanziali interventi sono andati ad
ingrossare ben altri canali di finanziamento. I dati che l'ex Presidente del
Consiglio Craxi fornì durante il suo scontro polemico
con il Presidente della Confindustria Lucchini sono
illuminanti: nel solo 1984 ben 37.000 miliardi sarebbero stati destinati alle
imprese dallo Stato, sotto forma di fiscalizzazione degli oneri sociali, cassa
integrazione, incentivi e trasferimenti. Imprese che, anche grazie a tali
interventi; hanno aumentato sensibilmente gli utili distribuendo
conseguentemente buoni dividendi agli azionisti, lucrando magari anche (laddove
minore è stata la coscienza civica degli imprenditori e più scarso il controllo
e la pressione sindacale) sui contratti di formazione
lavoro, creando così altro disagio proprio alle consistenti masse giovanili di
disoccupati. Come si può parlare di welfare state se 1a divaricazione fra chi ha e chi non ha si allarga
sempre di più?
Bisogna invece creare le condizioni affinché i
bisogni e i diritti fondamentali delle persone siano
tenuti presenti e garantiti. Per fare questo è necessario
però analizzare con continuità i bisogni delle persone e comunque
creare le condizioni affinché il sistema di sicurezza sociale mantenga
connotazioni universalistiche ed egualitarie e i servizi abbiano come
connotati fondamentali la sensibilità al bisogno e alla sua prevenzione,
l'unitarietà degli interventi in capo alla persona, la tutela delle fasce più
deboli senza «etichettarle».
Se non si perseguono questi obiettivi
si rischia di erogare dei servizi con i negativi connotati dell'assistenzialismo
a favore delle categorie più deboli, di alimentare le richieste corporative dei
gruppi più forti, di creare artificiosi conflitti di competenza tra enti
erogatori dei servizi. Nella confusione non si avrebbe, nelle situazioni sociali più difficili, alcun intervento concreto, scaricandosi
le varie istituzioni le responsabilità di organizzare i servizi di sostegno a
favore di questi «ultimi» (cito ad esempio il problema dei senza fissa dimora o
dei barboni). Parlare quindi di stato sociale in queste condizioni mi pare perlomeno
azzardato.
Per indirizzare tutte le risorse alla costruzione di
un vero stato sociale, occorre assumere alcune
coerenti scelte di indirizzo, e perseguirle con decisione e tenacia. Vorrei
ancora una volta riproporle a partire dalla popolazione,
invece che dal servizio, come si è solito fare. Una prima esigenza è quella di
considerare la popolazione non solo come consumatore
ma anche come risorsa, attuale o almeno attivabile. Gran parte dei bisogni trovano risposta nella società stessa, attraverso reti dì
scambi di servizi e di solidarietà familiari, vicinali e della più svariata
natura. Non solo. Anche nel rapporto cittadino-servizi, il primo non è solo
utente, ma anche risorsa informativa; progettuale, operativa, nella misura in
cui non viene passivizzato,
ma rispettato e anzi valorizzato. come protagonista,
nei cui confronti il servizio deve rapportarsi per assumere significatività
rispetto ad esso.
Così facendo il servizio aumenta certo la sua
efficacia, e può condividere e ripartire oneri e responsabilità con
l'interlocutore, persona o gruppo che sia.
La prevenzione così può cessare di essere
slogan ripetuto per convenienza o conformismo, e divenire realtà praticata
solo all'interno di un rapporto popolazione e servizi così ridefinito, da cui
la stessa assistenza esce radicalmente reimpostata in rapporto alla persona,
considerata nei suo insieme, senza smembramenti dovuti alle esigenze tecnico
operative o amministrative dei servizi, nelle sue reti di relazioni familiari e
sociali, con le loro ingenti risorse di supporto affettivo, psicologico, e
anche assistenziale. Risorse ora umiliate con una impostazione
spesso rigida e dualistica: o tutta a carico dell'utenza - istituzionalizzazione,
ospedalizzazione - o tutta a carico dei servizio che non consente di attivare
una complementarietà di sforzi invece estremamente necessaria.
Da qui la tematizzazione in
questo secondo incontro nazionale dei territorio,
inteso non solo come spazio, sul quale avvicinare i servizi alla utenza, ma
come luogo di lettura e comprensione delle esigenze e delle tendenze, personali
e collettive, dì individuazione delle risorse, ovunque presenti ed attivabili,
di loro promozione e coordinamento da parte dell'ente pubblico, in primo luogo.
La priorità concettuale e anche operativa dei servizi
territoriali trova questo fondamento così come la centralità nell'ambito dei
servizi territoriali dei servizi sociali, più attrezzati a cogliere esigenze e
tendenze nel loro insieme, laddove altri servizi le colgono
secondo approcci più specifici.
I servizi sociali possono svolgere sul territorio una
funzione di comunicazione, di interconnessione, di
collegamento, fra altri servizi sanitari, psicologici, di animazione, di
formazione, enfatizzando il taglio preventivo e socializzante, e l'approccio
complessivo e integrato.
È facile comprendere quanto le tendenze in atto alla
marginalizzazione dei servizi socioassistenziali sia regressiva e pericolosa, negatrice di
fondamentali obiettivi di riforma, dovuta sostanzialmente al peso che settori
consistenti di mercato, di spesa, e tendenze corporative esercitano dirottando
attenzione e risorse dell'ente pubblico secondo le proprie attese. È una
deviazione da contrastare e correggere, in una visione di insieme
e su una scelta di priorità fondata su ragioni di merito.
In questo quadro acquista anche senso e chiarezza
maggiore il tema dell'osservatorio sociale cui alcune amministrazioni stanno
pensando.
Non si tratta tante di inventare un ennesimo ufficio
a se stante, quanto di promuovere e coordinare nei servizi (in
particolare territoriali) la funzione e la capacità di lettura delle
trasformazioni della realtà, delle esigenze emergenti per proporre le
modifiche e gli adattamenti necessari per adeguarvi l'azione dei servizi.
Tali obiettivi, di adeguamento
organizzativo e tecnico, richiede che l'osservazione rientri nella normale
prassi di lavoro dei servizi, quale momento dei processo di controllo e
valutazione della propria qualità, oltre che della propria efficienza ed
efficacia. Qualità intesa come capacità di sviluppare relazioni «significative» e quindi incidenti con la popolazione (e con
i singoli), per affrontare i problemi e le esigenze di cui essa è portatrice.
Il ritardo maggiore è infatti
nel mancato cambiamento organizzativo e operativo. Tale cambiamento non può
avvenire senza il coinvolgimento e la partecipazione degli operatori, alla cui
sensibilizzazione e maturazione culturale e professionale nella logica sopra
richiamata, occorre prestare grande attenzione
investendo le necessarie risorse.
Da qui la tematizzazione
nel nostro incontro della formazione, da affrontare con impostazioni nuove,
legate strettamente all'innovazione organizzativa e professionale, che necessita di sensibilità e di cultura operativa adeguata e
coerente ella prospettiva di sviluppo individuata, grazie alla quale gli
operatori stessi possano proporsi come protagonisti responsabili del processo.
È chiaro che la riorganizzazione dei servizi sul
territorio deve orientarsi alla costruzione del distretto
che, se assunto nei suoi contenuti qualificanti, risulta un vero e proprio
indicatore del grado di attuazione della riforma nella riorganizzazione ed
integrazione dei servizi socio-sanitari. Non a caso vi si presta inadeguata
attenzione e soprattutto poco si opera per realizzarlo!
Il distretto socio-sanitario è il terminale periferico
del sistema dei servizi, in grado di leggere e rispondere in modo integrato
grazie all'apporto di qualificate professionalità di base a competenza «generale»,
alle esigenze sociali e sanitarie della popolazione nel suo complesso, operando
in modo coordinato e in una ottica anche preventiva
(e quindi di socializzazione) e con metodo progettuale, tanto rispetto al
singolo utente che alla popolazione. Il distretto deve essere il referente
permanente dei cittadini, delle famiglie, dei gruppi, e attraverso esso si può
realizzare un nuovo rapporto fra istituzioni e società. È momento di attuazione e collegamento delle energie presenti sul
territorio con finalità di promozione del benessere, in tutte le sue
dimensioni, a favore e con la partecipazione di tutta la popolazione e con la
particolare attenzione ai soggetti e ai gruppi più esposti a emarginazione e a
bisogno, nei confronti dei quali la rete dei servizi deve garantire
attenzione, rapporti, risposte adeguate. Tale sottolineatura definisce una
direzione di ricerca e sviluppo su un terreno di diffusa arretratezza,
che dalla modellistica e dalla legislazione «di principio» deve passare alla sperimentazione
diffusa e all'impegno gestionale, a tutti i livelli politici e dirigenziali
coinvolti.
Ma non basta solo sapere cosa fare per riuscire a
fare.
Anche lo strumento istituzionale va fortemente riadeguato: da anni si parla di riordino del sistema delle
autonomie divenuto inadeguato nella strutturazione attuale rispetto alle competenze
progressivamente decentrate.
È impensabile continuare a credere che un ente
locale attrezzato e intimamente organizzato per rispondere alle esigenze dei
cittadini di mezzo secolo fa sia nelle condizioni di essere
razionale, efficiente ed efficace interlocutore delle richieste del cittadino
di oggi. E la riforma non può essere un marchingegno che, pretendendo sulla
carta di cambiare tutto, nella sostanza finisca per
non cambiare nulla.
Deve essere una riforma coraggiosa che, uscendo dalle
secche degli interessi di parte, tenga veramente conto
dei possibili livelli di intervento sul territorio per realizzare quella unicità
di referente operativa e politico fortemente voluta dalla gente.
Occorre una legge nazionale quadro che, fissati
principi unitari, lasci sul piano organizzativo grande spazio alla legislazione
attuativa regionale, sia per recuperare il ruolo
centrale delle regioni sul piano del riordino del
sistema autonomistico, sia per consentire
effettivamente il dispiegarsi delle esigenze specifiche delle diverse realtà
territoriali regionali.
Abbiamo bisogno di norme chiare che fissino e rilancino il ruolo unicamente legislativo, di indirizzo
e programmazione delle Regioni che non debbono avere competenze gestionali
dirette ma attribuirle agli altri livelli dell'articolazione del sistema delle autonomie
in quella regione. Vi è la necessità di ridefinire il ruolo delle Province in
modo precisa sia come momento di raccordo e coordinamento delle politiche
locali con quella regionale, sia come gestore di competenze e servizi che per
la loro ampiezza e dimensione non possono essere
compiutamente svolti dai livello comunale e intercomunale.
Occorre riconoscere la specificità delle aree
metropolitane e risolvere il nodo dell'effettivo e reale decentramento delle
grandi città, mentre il più delle volte l'attuale decentramento circoscrizionale
é pura facciata.
Ma è a livello di comuni minori che accorre operare in modo consistente perché lì la realtà è più
complessa e articolata e solo con il ridisegno della mappa di questi enti
condotta a livello regionale può essere possibile il superamento della stallo
attuale. In questi giorni il gruppo di approfondimento
dei comuni minori e delle comunità montane affronterà l'esame di una proposta
che l'UNCEM e la lega delle Autonomie del Piemonte
hanno pensata e che in parte ridefinisce sperimentazioni già in passato
effettuate almeno parzialmente in alcune parti del Paese. Noi sottoponiamo a
voi tali proposte che ci sembrano di grosso interesse, fra l'altro (e non è
certo una ragione secondaria) perché partono dall'elaborazione diretta di amministratori di tendenze politiche anche
diametralmente opposte e non dalla mediazione fra i partiti.
Tale proposta che salvaguarda l'esigenza di riconoscimento
della secolare autonomia anche del piccolo centro, riorganizza
però le competenze di area più vasta in capo a nuovi enti di dimensione
sovracomunale (nuove Comunità montane in montagna e
Unità amministrative di pianura), enti con proprie competenze, proprie risorse
economiche e di personale, eletti direttamente dai cittadini, con la grande
novità di creare un sistema integrato di competenze non a settori ma a livello
di decisione pur in un medesimo settore. La maggior economicità
di gestione e professionalità che può avere un ente maggiore
si compenetra quindi con la maggior conoscenza, la tempestività nelle
decisioni dell'ente di minore dimensione. Ma soprattutto consente finalmente di
non veder più operare enti esclusivamente settoriali come le attuali USL o i
consorzi per singole competenze, ma di attribuire ai livello
locale la competenza di governo generale del proprio territorio.
Questa trasposizione rovesciata della città nel resto
del territorio (in città il Comune centrale governa l'intero territorio
decentrandosi in circoscrizioni, in montagna e nelle aree periferiche il
decentramento è rappresentato dagli attuali comuni mentre
il comune nuovo viene creato realizzando la struttura centrale territoriale) è
anche una risposta netta a chi pensa di risolvere i problemi riaccentrando ed espropriando il sistema delle autonomie
locali da competenze proprie come ad esempio la gestione del comparto sanitario.
Il centralismo non solo è duro a morire, ma in questa
fase è più forte che mai. Dopo anni in cui gradualmente si
sono sottratte risorse ai Comuni, Comunità montane, Province e Regioni aumentando
contemporaneamente i livelli di spesa dello Stato, adesso si passa alla
sottrazione diretta delle competenze in modo tale da ridurre sempre di più le
autonomie locali a meri centri di spesa non autonomi, ma strettamente legati
alle decisioni del governo. Tuttalpiù in
questa fase si costringono le autonomie locali a prelevare ulteriori risorse
con nuovi balzelli come le varie addizionali alle tariffe raccolta rifiuti.
Indipendentemente però dalla riforma delle autonomie
accorre che l'ente locale sappia adeguarsi ad un
nuovo moda di intendere la sua azione nell'ambito dei servizi sociali.
L'intervento non può più essere frazionato fra mille competenze, ma anche qui
il bisogno dell'individuo va preso nel suo complesso e non frammentato.
Sembrerà puerile e pleonastico affermare che la giunta deve essere un organo collegiale
e che il problema della casa deve valere nella stessa misura sia per il
cittadino disabile che per quello cosiddetto
«normale». Che i trasporti non possono essere
trattati da due centri decisionali diversi a seconda che essi riguardino la
gran parte dei cittadini a i portatori di handicaps.
Così come la promozione dei servizi sociali per tutti
i cittadini non deve far venire meno l'attenzione per gli interventi
propriamente assistenziali nei confronti di coloro che sono in condizioni di
maggior bisogno.
Non è invece purtroppo inutile ricordarlo poiché non
è così. Non è così per lo Stato per cui un ammalato
giovane può essere curato gratuitamente dal servizio sanitario e uno anziano
cronico, invece, deve essere tuttalpiù assistito a
pagamento dal servizio assistenziale. Ma è così oggi
anche per il Comune nonostante che esso, soggetto generale di governo del
territorio vicino al cittadino, si dovrebbe porre con maggior facilità di
fronte al bisogno complessivo dell'individuo.
L'ente locale deve poi sapersi porre come laboratorio
delle politiche dei servizi. È indispensabile che l'istituzione valuti
costantemente in termini di costi-benefici gli interventi che attua. Questo non in termini esclusivamente economici, ma in funzione
degli obiettivi fissati.
Tutto ciò postula una chiara definizione delle
competenze tra amministratori e tecnici dirigenti dei servizi, sia per evitare
sovrapposizioni di ruoli e decisioni (e
contemporaneamente garantire alibi), redistribuendo
anche i livelli di responsabilità rispetto ai risultati delle singole azioni
nell'ambito del governo locale del comparto di competenza.
Ma tutto questo non avverrà se non si modificherà
sostanzialmente lo stato giuridico dei dirigenti, favorendo da un lato lo
sviluppo delle professionalità e la conseguente responsabilizzazione dei dirigente nell'ambito della sfera funzionale e
consentendo maggiore possibilità di mobilità di tale personale dirigente pur
garantendo, ovviamente, le prerogative e i diritti dei lavoratore.
Occorre quindi con coraggio avviare con i sindacati
un confronto serrato, serio e approfondito su tutte le problematiche dei
pubblico impiego nel settore degli enti locali.
E contemporaneamente occorrerà privilegiare
da parte degli enti locali una inversione di tendenza nell'ambito delle
proprie piante organiche, favorendo ed incentivando la crescita numerica dei
livelli medio alti e direzionali oggi decisamente sattodimensionati.
Questa non significa che sia negli intendimenti dei
relatore il subappalto di tutte le competenze operative al privato o peggio
ancora al volontariato per mantenere solo una competenza generale di
programmazione e direzione. Ciò significherebbe negare validità ai servizi
direttamente gestiti dall'ente pubblico finendo per
assecondare l'affermazione che solo il «privato» è «bello, economico,
efficiente ed efficace». Non è certamente questo nelle mie intenzioni.
Affermo però con convinzione che nemmeno l'ente
locale può lasciare nelle mani dei privati (o peggio ancora non fare) la
programmazione, la direzione e il controllo di qualità, efficienza ed efficacia
dei servizi erogati. Ecco allora che il Comune deve assumere la capacità di
dirigere veramente la politica sociale sul proprio territorio, sapendo
compenetrare i servizi direttamente svolti con le risorse che privati,
cooperative, volontariato mettono a disposizione,
A se stessa, ai proprii
servizi e a tutto questo insieme di attori operanti
nel settore, l'istituzione deve essere in grado di fornire indirizzi precisi
e soprattutto di controllare durante e dopo l'azione, la bontà dell'intervento
e i risultati tangibili e remati che esso produce sulla società, controllo che
debbono fare i tecnici sulla scorta delle scelte adottate a livello politico.
Anche nel caso in cui taluni servizi siano erogati attraverso convenzioni con cooperative o privati
o associazioni, il parametro di congruità non può essere solo quella economico
come spessa talora avviene. Non si tratta di dare in gestione la pulizia delle strade, ma servizi finalizzati a precisi obiettivi sociali:
allora la valutazione della economicità della
gestione passa necessariamente attraversa la leggibilità dei progetto, la
professionalità degli operatori, la disponibilità di strumenti, ecc.
E di nuovo in tale situazione è importante per l'ente
pubblico avere a disposizione personale che sappia
valutare tutti questi dati e che quindi deve possedere un alto livello di
professionalità.
Diversamente, programmazione e controllo finiscono
per essere delegati a terzi con il bel risultato di favorire al di fuori dell'ente locale che il controllato divenga controllore di
se stesso.
Sono sicuro che comprenderete come io stia soltanto
enunciando i problemi: il loro approfondimento sia in assemblea plenaria che nei lavori di gruppo, sarà compito di altri relatori.
Ciò che ancora vorrei dire, avviandomi alla
conclusione, è che sbagliano profondamente coloro che attaccano con tanta
durezza l'attuale, certo imperfetto, stato sociale.
In una realtà sociale come la nostra, in un paese
industrializzato che sta al vertice delle economie mondiali, va garantita la sicurezza sociale di tutti i cittadini. Ma l'attenzione massima va posta a tutela delle fasce deboli
della popolazione per ragioni di giustizia. È quindi nell'interesse di tutto
il paese realizzare servizi in grado di consentire una vita dignitosa a tutti.
È nell'interesse di tutti noi costruire un sistema
di sicurezza sociale basato sulla giustizia e sulla solidarietà e non sulla
beneficenza e sul clientelismo.
Tutto ciò che ho fino ad ora detto
presuppone una grande forza e volontà innovative: è un salto di qualità
notevole che va fatto. E la cosa più impegnativa è che va fatto con il treno in
corsa nel senso che non si possono chiudere i servizi
e gli enti pubblici in attesa di nuove attribuzioni di compiti, responsabilità,
strumenti e dello sviluppo di organizzazione e professionalità più adeguate.
Scopo di questo secondo incontro nazionale è quindi
anche quello di dimostrare che molto è stato fatto, di informare su come si è
operato, socializzando esperienze significative
effettivamente realizzate e sottoponendole ad analisi e valutazioni critiche.
L'auspicio è che alla fine di questo
incontro si possano indicare concretamente e con più chiarezza i nodi da
sciogliere, le modifiche da apportare all'attuale organizzazione dell'assistenza
pubblica per realizzare finalmente uno stato sociale basato sulla tutela dei
diritti di tutti i cittadini, fondato sulla giustizia e sulla solidarietà e
connotato da efficienza, efficacia ed elasticità.
(1) Assessore all'assistenza del Comune
di Aosta. Relazione introduttiva tenuta in occasione del convegno «Politiche e interventi sul territorio: esperienze a confronto»
(Aosta, 7-8-9-10 ottobre 1987).
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