Prospettive assistenziali, n. 80, ottobre-dicembre 1987

 

 

ESIGENZE E DIRITTI DEL CITTADINO UTENTE DEI SERVIZI

EGIDIO LANIVI (1)

 

 

Lo scopo di questa relazione è ambizioso:

- non solo fotografare la situazione generale nella quale amministratori, operatori, gruppi di volontariato, cooperative si trovano ad ope­rare per rispondere a richieste di servizi che provengono dal cittadino. Non solo, quindi, la fotografia di questo;

- né tantomeno il voler proclamare o denuncia­re lo stato di disagio nel quale i servizi si tro­vano per carenza di leggi, di finanziamenti o per precise volontà politiche;

- quanto il vedere attraverso l'ottica del citta­dino utente quali tendenze rispetto ai bisogni vecchi e nuovi questa società sta esprimen­do, quale l'evoluzione dei servizi, degli stru­menti operativi, istituzionali e finanziari, che devono essere resi disponibili a tutti coloro che in questo campo operano attraverso la realizzazione di un sistema organico di rap­porti e funzioni, per fare in modo che con le risorse a disposizione si possa ottenere il massimo dei risultati possibili.

Tutto ciò premesso con uno sforzo particolare rispetto al taglio del nostro lavoro: partire sem­pre dai bisogni e dai diritti del cittadino.

Il gruppo che ha elaborato le indicazioni per la stesura della relazione introduttiva cerca di non coltivare né illusioni né disperazione.

Certo, i problemi che abbiamo di fronte, le emergenze che ci troviamo in qualche modo a do­ver affrontare con più o meno sollecitudine, fan­no in qualche modo disperare o preoccupare. Ma una così grande presenza di amministratori, di operatori e di tecnici d'altro canto ci fa ben spe­rare. Evidenzia una attenzione ancor viva ai pro­blemi che la società esprime e alle esigenze di rispondere in modo più adeguato riflettendo, con­frontandosi, varando linee conclusive da effetti­vamente praticare.

A questi incontri è però generalmente assente il destinatario di questi servizi: il cittadino uten­te. È un rischio che anche qui possiamo correre se nei nostri ragionamenti non cerchiamo di par­tire costantemente dalla difesa dei diritti del cit­tadino utente.

Allora vorrei giocare sul mio ruolo di «rap­presentante eletto» ed impegnarmi a vedere «dalla parte del cittadino» quali sono le sue esi­genze, quali i suoi problemi rispetto all'insieme dei servizi socio-sanitari operanti sul territorio. Trovandosi in una situazione di bisogno il pri­ma dei problemi che si troverà ad affrontare è il sapere a chi rivolgersi per ottenere attenzione e aiuto rispetto alle sue esigenze. Egli stesso tal­volta non ha neppure chiara l'esigenza, e tanto­meno la risposta ad essa adeguata. Scoprirà al­lora che non esiste un solo referente. Dovrà ri­volgersi a diversi interlocutori, accostarsi a di­versi sportelli, per cercare di chiarire il suo pro­blema ed avere una risposta pertinente ed ade­guata. Si vivrà quindi come individuo abbandona­to a se stesso (emarginato) e, se considerato, composto allora in tanti segmenti, tanti quanti sono gli interlocutori con le possibili risposte («pezzi» di risposte) al suo disagio, fisico, psi­chico, sociale.

Non solo ma si scoprirà anche che i suoi inter­locutori fanno parte di diverse istituzioni, e che queste hanno procedure, tempi, parametri diversi rispetto al servizio da erogare; che in alcuni casi si deve pagare, mentre in altri il servizio è gratui­to; che alcune istituzioni hanno alcuni poteri che altre non hanno. Scoprirà in pratica che il percor­so per raggiungere il suo obiettivo, ammesso che lo ritrovi, é incerto, tortuoso, lungo. Se in questo peregrinare si dovesse stancare e abbandonare il campo, forse nessuno lo ricercherebbe; e se invece irritato cercasse di reagire, anche in que­sto caso incontrerebbe grosse difficoltà nell'indi­viduare il soggetto a cui rivolgersi per presenta­re reclamo; e se insoddisfatto non saprebbe a chi ritirare la «fiducia politica» a come trovare il mo­do di lottare per cambiare le cose. Molti di questi interlocutori sono lontani, altri sono rappresenta­ti da persone non elette direttamente ma nomi­nate attraverso meccanismi filtrati dalle segrete­rie dei partiti.

Nascono quindi nell'individuo tre precise esi­genze: avere per prima cosa chiari referenti ope­rativi e istituzionali, meglio se in prima istanza uno solo ben identificato; in secondo luogo, ave­re la possibilità di ottenere tutela se ignorato; infine di poter giudicare con lo strumento del vo­to l'operato dell'ente politicamente responsabile del servizio.

La popolazione deve aviere, come referenti, servizi ben organizzati (quindi non sull'esigenza dei servizi ma delle persone che vi fanno riferi­mento), con chiarezza di funzioni e di compiti, espressione a loro volta di un sistema istituzionale ben costruito nei livelli e nei ruoli di governo. Sul piano più generale nasce quindi l'esigenza di ridisegnare la mappa dei poteri locali e dei compiti a loro attribuiti: individuare con preci­sione quali debbono essere i compiti dei Comuni, delle Associazioni fra Comuni, delle Comunità Montane, delle Province e delle Regioni.

Non devono sussistere conflitti di competenze né tantomeno confusioni di ruoli che talvolta di­vengono alibi per «scaricare» dal servizio il pro­blema che l'utente pone. E non debbono men che mai esistere più enti all'interno dello stesso en­te, come spesso accade anche per concorrenzia­lità fra i diversi settori.

Il ruolo, le funzioni, le responsabilità che le di­verse istituzioni hanno, devono assolutamente trovare un quadro di riferimento legislativo gene­rale che da troppo tempo si attende. Ma nel me­rito delle proposte per sciogliere il nodo istitu­zionale relazionerà il Prof. Onida.

A me intanto preme ribadire che non soltanto non credo a ricette miracolistiche quali quelle recentemente avanzate dal Ministro della sanità, Sen. Donat-Cattin, ma che anzi vedo nella sottra­zione al controllo democratico del comparto sani­tario, il negare anziché il favorire, il diritto indivi­duale di poter contare, partecipare in qualche modo alle determinazioni di governo di un set­tore così importante. Oltreché allontanare ancor più l'interlocutore dal cittadino.

Proseguendo poi nel suo percorso il cittadino utente alla ricerca del servizio in grado di rispon­dere alle sue necessità, una volta individuato l'ente erogatore e l'ufficio competente, potrebbe sentirsi rispondere che il servizio non viene ero­gato per mancanza di disponibilità finanziarie. Questo evidenzia come il bisogno socio-assisten­ziale sia ancora una esigenza e non un diritto pie­namente garantito. E di fatto le carenze di risorse a disposizione è un altro dei grossi problemi che gli amministratori debbono affrontare e che di anno in anno diventa più difficile da risolvere.

Le continue denunce fatte dai mass media su­gli sprechi che si attuerebbero nella gestione dei servizi pubblici hanno ormai raggiunto livelli dif­ficilmente accettabili da chi opera correttamente nelle pubbliche amministrazioni.

Anche in questo caso il responsabile principa­le delle disfunzioni andrebbe ricercato in altre di­rezioni. C'è una volontà precisa (il Convegno del­lo scorso anno mi pare l'abbia ben sottolineata) tendente a privilegiare settori forti a danno di quelli deboli, a demolire le conquiste in termini di sicurezza sociale a favore del mercato libero e incontrollato, a ridurre l'intervento pubblico a favore di quello privato, ad incentivare il volonta­riato visto non come integrazione importante, ma come sostituzione dei compiti e dei doveri dello

Stato anche nelle sue varie articolazioni rappre­sentate dal tessuto democratico delle autonomie locali. Insomma un «più privato e meno Stato» che rischia di concretizzarsi soltanto in una mag­giore deregolamentazione, in maggiori risorse e poteri per la parte forte della società, più marginalizzazione, meno diritti per la parte più debole. Meno welfar state, quindi, e tutt'al più maggiore beneficenza.

Di fronte a tutto ciò, anche il movimento rifor­matore (anche se occorre chiedersi se di movi­mento si può ancora parlare), va indietro. Non solo non si è riusciti ad approvare importanti ri­forme come quella delle autonomie, dell'assi­stenza, della scuola. Ma una dopo l'altra, le leggi finanziarie tagliano progressivamente le risorse ai Comuni sottraendole conseguentemente pro­prio al settore sociale. Guarda caso tutto ciò, aumentando le difficoltà, di fatto orienta il citta­dino utente verso servizi privati che di fronte al­le carenze, anche provocate, dei servizi pubblici finiscono per presentarsi come sinonimo di effi­cienza e serietà. Non credo che la valutazione ge­neralizzata debba essere: servizio pubblico inef­ficiente e sprecone, servizio privato efficiente ed economico. II quadro deve essere più approfon­dito, anche perché ben diverse sono le finalità e le regole che presiedono la gestione dell'uno e dell'altro tipo di servizio.

Tra le cause che generano questa semplicisti­ca e banale convinzione vi è sicuramente anche la disinformazione. Anche, se mi consentite, la malevola disinformazione compiuta per orientare il cittadino verso opinioni che fanno comodo pro­prio a quella parte di società che dalla preponde­ranza del privato sul pubblico anche nel sociale, è certa di avere più da guadagnare sia in termini meramente economici che di potere. Ma vi è an­che una non informazione, sicuramente non ma­levola. Infatti, contrariamente a quanto fa il pri­vato, l'ente pubblico non informa correttamente l'utente sui servizi a disposizione, sulle modalità d'accesso ai medesimi, sui diritti dell'individuo a ottenere determinate prestazioni, sulla dislo­cazione dei servizi. Stranamente la maggior par­te delle istituzioni pubbliche responsabili dei ser­vizi non informano, non educano all'uso del ser­vizio.

Da una tale situazione emerge facilmente un generico giudizio di condanna complessivo dello «schifo del servizio pubblico» e della «bontà del servizio privato». Generico e superficiale giudizio oltreché ingiusto perché, come vedremo nelle prossime giornate di questo incontro, non è così.

Ingiusto soprattutto se non si tiene conto de­gli enormi passi avanti fatti in questi anni. Ci si è dimenticati, e può essere normale da parte dei singoli cittadini, di come si stava prima delle ri­forme. Ci si è dimenticati dei disservizi esistenti prima del DPR 616 e della legge di riforma sani­taria. Non si vuole ricordare che allora, più di adesso, si morva nelle corsie degli ospedali, e allo stato di abbandono a cui erano destinati gli appartenenti alle categorie più deboli come gli anziani, i non autosufficienti, i malati di mente.

Non si vuole tenere conto di come in questi an­ni molti movimenti di opinione siano sorti a tu­tela dei diritti dei cittadini in situazioni di disa­gio. Pensiamo a tutte le associazioni che danno voce ai cittadini paraplegici, malati di mente, car­diopatici, dializzati, poliomielitici e via dicendo. Pensiamo come anche da momenti come il nostro convegno, svolto qui lo scorso anno, si favorisca una maggior consapevolezza sui problemi. Quan­ta strada, almeno nella convinzione dei singoli, si è fatta ad esempio sul problema dei diritti dei non autosufficienti, dei cronici, dei lungodegenti ad avere adeguate cure di carattere sanitario. Tali gruppi organizzati hanno giustamente reso possibile la denuncia delle carenze dei servizi messi a disposizione (e questo può anche aver favorito a colorare di nero il panorama del ser­vizio pubblico). Ma tali gruppi hanno anche dato indicazioni concrete per la realizzazione di servi­zi alternativi più funzionali al bisogno dell'utenza. Essi sono stati parte integrante del movimento riformatore che attorno a queste spinte si è creato negli anni passati.

I risultati sono concreti: pensiamo ad esempio all'avvenuta deistituzionalizzazione di migliaia di handicappati fisici, psichici e sensoriali; pen­siamo alle numerose realizzazioni ed inserimenti lavorativi di insufficienti mentali. Pensiamo alla riduzione consistente del numero dei minori in istituto (dai 310.000 del 1962, agli attuali 60-80 mila) in particolare dovuto all'azione di iniziative contro l'emarginazione: adozione, affidamenti fa­miliari a scopo educativo e soprattutto aiuti alle famiglie d'origine quali casa, lavoro, inserimento scolastico, pensioni adeguate.

In questi anni, quindi, la sensibilità dell'utente è cresciuta e la sua voce si è fatta sentire con toni più chiari e precisi. É cresciuta il livello di conoscenza dei propri diritti: dei diritti del cit­tadino ad avere risposte efficienti ed efficaci ai propri problemi nei confronti delle istituzioni erogatrici di servizi più vicini alle persone e an­che alla loro protesta o al loro giudizio (Comuni, USL, Comunità Montane) rispetto ad enti nazio­nali più distanti dall'utente (pensiamo all'INPS, alle FF.SS., alle Poste).

Tutto questa, apparentemente, ha contribuito ad alimentare la conflittualità sociale. In realtà ha dato la possibilità a chi non aveva voce allora, di esprimere giudizi, di avanzare proposte.

Ciò che va male oggi andava peggio alcuni an­ni fa: la differenza è solo che allora non se ne parlava, oppure non ci si aspettava un trattamen­to migliore di quello che veniva erogato.

Le case di ricovero ghettizzanti per handicap­pati, malati di mente o anziani cronici c'erano al­lora e arrivavano all'opinione pubblica solo per i fatti drammatici, che eccezionalmente superava­no i colpevoli silenzi, le connivenze e le omertà.

In questo campo; quindi, molto si è fatto in questi anni.

Ciò non toglie il fatto che molto c'è ancora da fare e quindi non siamo esentati dal denunciare le cause che ostacolano il progredire dei servizi alle persone in stato di disagio e dal ricercare soluzioni più adeguate alle ragioni di offerta del servizio.

Ecco la ragione, o meglio le ragioni di questo incontro!

Noi siamo convinti che i contenuti sostanziali della riforma andavano e vanno ancora bene. Ci sono stati, lungo la strada fino ad ora percorsa, vari ostacoli che devono essere affrontati e su­perati: la nostra incapacità, gli strumenti inade­guati, le normative vecchie, la burocrazia esaspe­rante, la riduzione delle risorse disponibili.

Malgrado tutta, delle significative esperienze sono state fatte. Alcune, che non pretendiamo essere le più significative, ma che si offrono co­me oggetto di verifica, ci verranno domani pre­sentate e le potremo valutare criticamente. Ciò che è importante è che le esperienze significati­ve siano socializzate, diventino, nel bene e nel male, patrimonio degli amministratori e degli operatori.

Questa la prima ragione di quest'incontro.

La seconda, che troverà concretezza attraver­so gli incontri settoriali di tutti o quasi tutti co­loro che operano nel sociale a vario titolo e con varie e diverse responsabilità, è quella di attivare comunicazione, dialogo, coinvolgimento per far emergere proposte che consentano di raziona­lizzare, migliorare e modificare le varie aree di servizi e se è il caso, l'insieme del sistema pre­posto all'erogazione dei servizi, consentendo di sviluppare e generalizzare le esperienze positive che in questi anni sono state realizzate. In que­sta direzione vanno le proposte che come grup­po abbiamo discusso ed il quadro generale nel quale le stesse vanno inserite.

Ma anche qui si corre un rischio che vorrei rimuovere con un richiamo innanzitutto a me stesso e poi a tutti voi, per il prosieguo del no­stra lavoro. Vaglieremo insieme esperienze e proposte tendenti a cambiare le cose per rende­re più efficace la nostra azione. Allora dovremo sforzarci (e questa si che sarebbe la discrimi­nante decisiva), di sviscerare le nostre .proposte ponendo a base dei nostri ragionamenti i diritti fondamentali del cittadino. Richiamo a questo «fil rouge» il denominatore comune di tutto l'in­contro. Senza ciò perderemmo il contatto con le elaborazioni, il lavoro, le ricerche, le azioni che come convinti riformatori negli anni scorsi abbiamo condotto. Certo, come gli astronomi che non si ripetono ogni giorno che è la terra a girare attorno al sole, neanche noi è il caso che dogma­ticamente si premetta la dichiarazione innanzi detta ad ogni nostro discorso. Ma come i ragio­namenti degli astronomi sono permeati da quel­la certezza e dalle conseguenze che vi derivano, così anche noi quando ragioneremo di organizza­zione dei servizi, di reperimento e quantifica­zione delle risorse economiche, quando affron­teremo i problemi gestionali e di formazione del personale, quando discuteremo di riordino isti­tuzionale non possiamo esimerci dal permeare ogni ragionamento, ogni elaborazione, ogni azio­ne dal concetto di rispetto dell'esercizio da par­te del cittadino dei suoi proprii diritti fondamen­tali verso la società e i servizi. Di tutti i cittadini ma soprattutto di quelli che per condizioni eco­nomiche, fisiche, relazionali, psicologiche hanno la necessità più di ogni altro di vedere i proprii diritti tutelati.

E non è certo con la graduale demolizione del­lo stato sociale che tali diritti possono adeguata­mente essere tutelati.

L'attacco allo stato sociale è superficiale e fuorviante.

È superficiale perché si addebita ai soli inter­venti a tutela dei cittadini in uno stato di disagio il preoccupante aumento della spesa pubblica (il che non è vero, come verrà ampiamente illu­strato in comunicazioni e tavole rotonde nei pros­simi giorni) ed è fuorviante perché ciò che si è finora attuato in Italia non è lo stato sociale ma, al massimo, lo stato assistenziale, lo stato come ente di beneficenza, sovente lo stato clientelare. Non solo. Esso si basa su presupposti non veri. Se depuriamo il puro assistenzialismo (pensioni baby, invalidità fasulle, ecc.) troviamo poi che sostanziali interventi sono andati ad ingrossare ben altri canali di finanziamento. I dati che l'ex Presidente del Consiglio Craxi fornì durante il suo scontro polemico con il Presidente della Con­findustria Lucchini sono illuminanti: nel solo 1984 ben 37.000 miliardi sarebbero stati destinati alle imprese dallo Stato, sotto forma di fiscalizzazione degli oneri sociali, cassa integrazione, incentivi e trasferimenti. Imprese che, anche grazie a tali interventi; hanno aumentato sensibilmente gli utili distribuendo conseguentemente buoni divi­dendi agli azionisti, lucrando magari anche (lad­dove minore è stata la coscienza civica degli imprenditori e più scarso il controllo e la pressio­ne sindacale) sui contratti di formazione lavoro, creando così altro disagio proprio alle consistenti masse giovanili di disoccupati. Come si può par­lare di welfare state se 1a divaricazione fra chi ha e chi non ha si allarga sempre di più?

Bisogna invece creare le condizioni affinché i bisogni e i diritti fondamentali delle persone sia­no tenuti presenti e garantiti. Per fare questo è necessario però analizzare con continuità i biso­gni delle persone e comunque creare le condizio­ni affinché il sistema di sicurezza sociale man­tenga connotazioni universalistiche ed egualita­rie e i servizi abbiano come connotati fondamen­tali la sensibilità al bisogno e alla sua prevenzio­ne, l'unitarietà degli interventi in capo alla per­sona, la tutela delle fasce più deboli senza «eti­chettarle».

Se non si perseguono questi obiettivi si rischia di erogare dei servizi con i negativi connotati dell'assistenzialismo a favore delle categorie più deboli, di alimentare le richieste corporative dei gruppi più forti, di creare artificiosi conflitti di competenza tra enti erogatori dei servizi. Nella confusione non si avrebbe, nelle situazioni socia­li più difficili, alcun intervento concreto, scari­candosi le varie istituzioni le responsabilità di organizzare i servizi di sostegno a favore di questi «ultimi» (cito ad esempio il problema dei senza fissa dimora o dei barboni). Parlare quindi di stato sociale in queste condizioni mi pare per­lomeno azzardato.

Per indirizzare tutte le risorse alla costruzione di un vero stato sociale, occorre assumere alcu­ne coerenti scelte di indirizzo, e perseguirle con decisione e tenacia. Vorrei ancora una volta ri­proporle a partire dalla popolazione, invece che dal servizio, come si è solito fare. Una prima esi­genza è quella di considerare la popolazione non solo come consumatore ma anche come risorsa, attuale o almeno attivabile. Gran parte dei biso­gni trovano risposta nella società stessa, attra­verso reti dì scambi di servizi e di solidarietà fa­miliari, vicinali e della più svariata natura. Non solo. Anche nel rapporto cittadino-servizi, il pri­mo non è solo utente, ma anche risorsa informa­tiva; progettuale, operativa, nella misura in cui non viene passivizzato, ma rispettato e anzi valo­rizzato. come protagonista, nei cui confronti il servizio deve rapportarsi per assumere significa­tività rispetto ad esso.

Così facendo il servizio aumenta certo la sua efficacia, e può condividere e ripartire oneri e responsabilità con l'interlocutore, persona o gruppo che sia.

La prevenzione così può cessare di essere slo­gan ripetuto per convenienza o conformismo, e divenire realtà praticata solo all'interno di un rap­porto popolazione e servizi così ridefinito, da cui la stessa assistenza esce radicalmente reim­postata in rapporto alla persona, considerata nei suo insieme, senza smembramenti dovuti alle esigenze tecnico operative o amministrative dei servizi, nelle sue reti di relazioni familiari e so­ciali, con le loro ingenti risorse di supporto affet­tivo, psicologico, e anche assistenziale. Risorse ora umiliate con una impostazione spesso rigida e dualistica: o tutta a carico dell'utenza - istitu­zionalizzazione, ospedalizzazione - o tutta a carico dei servizio che non consente di attivare una complementarietà di sforzi invece estrema­mente necessaria.

Da qui la tematizzazione in questo secondo in­contro nazionale dei territorio, inteso non solo come spazio, sul quale avvicinare i servizi alla utenza, ma come luogo di lettura e comprensione delle esigenze e delle tendenze, personali e col­lettive, dì individuazione delle risorse, ovunque presenti ed attivabili, di loro promozione e coor­dinamento da parte dell'ente pubblico, in primo luogo.

La priorità concettuale e anche operativa dei servizi territoriali trova questo fondamento così come la centralità nell'ambito dei servizi territo­riali dei servizi sociali, più attrezzati a cogliere esigenze e tendenze nel loro insieme, laddove altri servizi le colgono secondo approcci più spe­cifici.

I servizi sociali possono svolgere sul territorio una funzione di comunicazione, di interconnessio­ne, di collegamento, fra altri servizi sanitari, psi­cologici, di animazione, di formazione, enfatiz­zando il taglio preventivo e socializzante, e l'ap­proccio complessivo e integrato.

È facile comprendere quanto le tendenze in at­to alla marginalizzazione dei servizi socio­assistenziali sia regressiva e pericolosa, negatrice di fondamentali obiettivi di riforma, dovuta sostan­zialmente al peso che settori consistenti di mer­cato, di spesa, e tendenze corporative esercitano dirottando attenzione e risorse dell'ente pubblico secondo le proprie attese. È una deviazione da contrastare e correggere, in una visione di insie­me e su una scelta di priorità fondata su ragioni di merito.

In questo quadro acquista anche senso e chia­rezza maggiore il tema dell'osservatorio sociale cui alcune amministrazioni stanno pensando.

Non si tratta tante di inventare un ennesimo ufficio a se stante, quanto di promuovere e coor­dinare nei servizi (in particolare territoriali) la funzione e la capacità di lettura delle trasforma­zioni della realtà, delle esigenze emergenti per proporre le modifiche e gli adattamenti necessari per adeguarvi l'azione dei servizi.

Tali obiettivi, di adeguamento organizzativo e tecnico, richiede che l'osservazione rientri nella normale prassi di lavoro dei servizi, quale mo­mento dei processo di controllo e valutazione della propria qualità, oltre che della propria effi­cienza ed efficacia. Qualità intesa come capacità di sviluppare relazioni «significative» e quindi incidenti con la popolazione (e con i singoli), per affrontare i problemi e le esigenze di cui essa è portatrice.

Il ritardo maggiore è infatti nel mancato cam­biamento organizzativo e operativo. Tale cambia­mento non può avvenire senza il coinvolgimento e la partecipazione degli operatori, alla cui sen­sibilizzazione e maturazione culturale e profes­sionale nella logica sopra richiamata, occorre prestare grande attenzione investendo le neces­sarie risorse.

Da qui la tematizzazione nel nostro incontro della formazione, da affrontare con impostazioni nuove, legate strettamente all'innovazione orga­nizzativa e professionale, che necessita di sensi­bilità e di cultura operativa adeguata e coerente ella prospettiva di sviluppo individuata, grazie al­la quale gli operatori stessi possano proporsi co­me protagonisti responsabili del processo.

È chiaro che la riorganizzazione dei servizi sul territorio deve orientarsi alla costruzione del di­stretto che, se assunto nei suoi contenuti quali­ficanti, risulta un vero e proprio indicatore del grado di attuazione della riforma nella riorganiz­zazione ed integrazione dei servizi socio-sanitari. Non a caso vi si presta inadeguata attenzione e soprattutto poco si opera per realizzarlo!

Il distretto socio-sanitario è il terminale perife­rico del sistema dei servizi, in grado di leggere e rispondere in modo integrato grazie all'apporto di qualificate professionalità di base a competen­za «generale», alle esigenze sociali e sanitarie della popolazione nel suo complesso, operando in modo coordinato e in una ottica anche preven­tiva (e quindi di socializzazione) e con metodo progettuale, tanto rispetto al singolo utente che alla popolazione. Il distretto deve essere il refe­rente permanente dei cittadini, delle famiglie, dei gruppi, e attraverso esso si può realizzare un nuovo rapporto fra istituzioni e società. È mo­mento di attuazione e collegamento delle energie presenti sul territorio con finalità di promozione del benessere, in tutte le sue dimensioni, a favo­re e con la partecipazione di tutta la popolazione e con la particolare attenzione ai soggetti e ai gruppi più esposti a emarginazione e a bisogno, nei confronti dei quali la rete dei servizi deve ga­rantire attenzione, rapporti, risposte adeguate. Tale sottolineatura definisce una direzione di ricerca e sviluppo su un terreno di diffusa arre­tratezza, che dalla modellistica e dalla legisla­zione «di principio» deve passare alla sperimen­tazione diffusa e all'impegno gestionale, a tutti i livelli politici e dirigenziali coinvolti.

Ma non basta solo sapere cosa fare per riusci­re a fare.

Anche lo strumento istituzionale va fortemen­te riadeguato: da anni si parla di riordino del sistema delle autonomie divenuto inadeguato nella strutturazione attuale rispetto alle compe­tenze progressivamente decentrate.

È impensabile continuare a credere che un en­te locale attrezzato e intimamente organizzato per rispondere alle esigenze dei cittadini di mezzo secolo fa sia nelle condizioni di essere ra­zionale, efficiente ed efficace interlocutore delle richieste del cittadino di oggi. E la riforma non può essere un marchingegno che, pretendendo sulla carta di cambiare tutto, nella sostanza fini­sca per non cambiare nulla.

Deve essere una riforma coraggiosa che, uscendo dalle secche degli interessi di parte, tenga veramente conto dei possibili livelli di in­tervento sul territorio per realizzare quella unici­tà di referente operativa e politico fortemente voluta dalla gente.

Occorre una legge nazionale quadro che, fis­sati principi unitari, lasci sul piano organizzativo grande spazio alla legislazione attuativa regiona­le, sia per recuperare il ruolo centrale delle re­gioni sul piano del riordino del sistema autono­mistico, sia per consentire effettivamente il di­spiegarsi delle esigenze specifiche delle diverse realtà territoriali regionali.

Abbiamo bisogno di norme chiare che fissino e rilancino il ruolo unicamente legislativo, di in­dirizzo e programmazione delle Regioni che non debbono avere competenze gestionali dirette ma attribuirle agli altri livelli dell'articolazione del sistema delle autonomie in quella regione. Vi è la necessità di ridefinire il ruolo delle Province in modo precisa sia come momento di raccordo e coordinamento delle politiche locali con quella regionale, sia come gestore di competenze e ser­vizi che per la loro ampiezza e dimensione non possono essere compiutamente svolti dai livello comunale e intercomunale.

Occorre riconoscere la specificità delle aree metropolitane e risolvere il nodo dell'effettivo e reale decentramento delle grandi città, mentre il più delle volte l'attuale decentramento circoscri­zionale é pura facciata.

Ma è a livello di comuni minori che accorre operare in modo consistente perché lì la realtà è più complessa e articolata e solo con il ridisegno della mappa di questi enti condotta a livello re­gionale può essere possibile il superamento del­la stallo attuale. In questi giorni il gruppo di ap­profondimento dei comuni minori e delle comuni­tà montane affronterà l'esame di una proposta che l'UNCEM e la lega delle Autonomie del Pie­monte hanno pensata e che in parte ridefinisce sperimentazioni già in passato effettuate almeno parzialmente in alcune parti del Paese. Noi sotto­poniamo a voi tali proposte che ci sembrano di grosso interesse, fra l'altro (e non è certo una ragione secondaria) perché partono dall'elabora­zione diretta di amministratori di tendenze poli­tiche anche diametralmente opposte e non dalla mediazione fra i partiti.

Tale proposta che salvaguarda l'esigenza di ri­conoscimento della secolare autonomia anche del piccolo centro, riorganizza però le competen­ze di area più vasta in capo a nuovi enti di dimen­sione sovracomunale (nuove Comunità montane in montagna e Unità amministrative di pianura), enti con proprie competenze, proprie risorse eco­nomiche e di personale, eletti direttamente dai cittadini, con la grande novità di creare un siste­ma integrato di competenze non a settori ma a livello di decisione pur in un medesimo settore. La maggior economicità di gestione e professio­nalità che può avere un ente maggiore si com­penetra quindi con la maggior conoscenza, la tempestività nelle decisioni dell'ente di minore dimensione. Ma soprattutto consente finalmente di non veder più operare enti esclusivamente set­toriali come le attuali USL o i consorzi per singo­le competenze, ma di attribuire ai livello locale la competenza di governo generale del proprio territorio.

Questa trasposizione rovesciata della città nel resto del territorio (in città il Comune centrale governa l'intero territorio decentrandosi in cir­coscrizioni, in montagna e nelle aree periferiche il decentramento è rappresentato dagli attuali co­muni mentre il comune nuovo viene creato rea­lizzando la struttura centrale territoriale) è anche una risposta netta a chi pensa di risolvere i pro­blemi riaccentrando ed espropriando il sistema delle autonomie locali da competenze proprie come ad esempio la gestione del comparto sani­tario.

Il centralismo non solo è duro a morire, ma in questa fase è più forte che mai. Dopo anni in cui gradualmente si sono sottratte risorse ai Comuni, Comunità montane, Province e Regioni aumen­tando contemporaneamente i livelli di spesa del­lo Stato, adesso si passa alla sottrazione diretta delle competenze in modo tale da ridurre sempre di più le autonomie locali a meri centri di spesa non autonomi, ma strettamente legati alle deci­sioni del governo. Tuttalpiù in questa fase si co­stringono le autonomie locali a prelevare ulterio­ri risorse con nuovi balzelli come le varie addi­zionali alle tariffe raccolta rifiuti.

Indipendentemente però dalla riforma delle au­tonomie accorre che l'ente locale sappia ade­guarsi ad un nuovo moda di intendere la sua azio­ne nell'ambito dei servizi sociali. L'intervento non può più essere frazionato fra mille compe­tenze, ma anche qui il bisogno dell'individuo va preso nel suo complesso e non frammentato. Sembrerà puerile e pleonastico affermare che la giunta deve essere un organo collegiale e che il problema della casa deve valere nella stessa mi­sura sia per il cittadino disabile che per quello cosiddetto «normale». Che i trasporti non posso­no essere trattati da due centri decisionali diver­si a seconda che essi riguardino la gran parte dei cittadini a i portatori di handicaps. Così come la promozione dei servizi sociali per tutti i cittadini non deve far venire meno l'attenzione per gli in­terventi propriamente assistenziali nei confronti di coloro che sono in condizioni di maggior bisogno.

Non è invece purtroppo inutile ricordarlo poiché non è così. Non è così per lo Stato per cui un ammalato giovane può essere curato gratuita­mente dal servizio sanitario e uno anziano croni­co, invece, deve essere tuttalpiù assistito a paga­mento dal servizio assistenziale. Ma è così oggi anche per il Comune nonostante che esso, sog­getto generale di governo del territorio vicino al cittadino, si dovrebbe porre con maggior facilità di fronte al bisogno complessivo dell'individuo.

L'ente locale deve poi sapersi porre come la­boratorio delle politiche dei servizi. È indispensa­bile che l'istituzione valuti costantemente in ter­mini di costi-benefici gli interventi che attua. Questo non in termini esclusivamente economici, ma in funzione degli obiettivi fissati.

Tutto ciò postula una chiara definizione delle competenze tra amministratori e tecnici dirigenti dei servizi, sia per evitare sovrapposizioni di ruo­li e decisioni (e contemporaneamente garantire alibi), redistribuendo anche i livelli di responsa­bilità rispetto ai risultati delle singole azioni nell'ambito del governo locale del comparto di com­petenza.

Ma tutto questo non avverrà se non si modifi­cherà sostanzialmente lo stato giuridico dei diri­genti, favorendo da un lato lo sviluppo delle pro­fessionalità e la conseguente responsabilizzazio­ne dei dirigente nell'ambito della sfera funziona­le e consentendo maggiore possibilità di mobili­tà di tale personale dirigente pur garantendo, ov­viamente, le prerogative e i diritti dei lavoratore.

Occorre quindi con coraggio avviare con i sinda­cati un confronto serrato, serio e approfondito su tutte le problematiche dei pubblico impiego nel settore degli enti locali.

E contemporaneamente occorrerà privilegiare da parte degli enti locali una inversione di ten­denza nell'ambito delle proprie piante organiche, favorendo ed incentivando la crescita numerica dei livelli medio alti e direzionali oggi decisa­mente sattodimensionati. Questa non significa che sia negli intendimenti dei relatore il subap­palto di tutte le competenze operative al privato o peggio ancora al volontariato per mantenere solo una competenza generale di programmazio­ne e direzione. Ciò significherebbe negare validi­tà ai servizi direttamente gestiti dall'ente pub­blico finendo per assecondare l'affermazione che solo il «privato» è «bello, economico, efficiente ed efficace». Non è certamente questo nelle mie intenzioni.

Affermo però con convinzione che nemmeno l'ente locale può lasciare nelle mani dei privati (o peggio ancora non fare) la programmazione, la direzione e il controllo di qualità, efficienza ed efficacia dei servizi erogati. Ecco allora che il Co­mune deve assumere la capacità di dirigere vera­mente la politica sociale sul proprio territorio, sapendo compenetrare i servizi direttamente svolti con le risorse che privati, cooperative, vo­lontariato mettono a disposizione,

A se stessa, ai proprii servizi e a tutto questo insieme di attori operanti nel settore, l'istituzio­ne deve essere in grado di fornire indirizzi pre­cisi e soprattutto di controllare durante e dopo l'azione, la bontà dell'intervento e i risultati tan­gibili e remati che esso produce sulla società, controllo che debbono fare i tecnici sulla scorta delle scelte adottate a livello politico.

Anche nel caso in cui taluni servizi siano ero­gati attraverso convenzioni con cooperative o pri­vati o associazioni, il parametro di congruità non può essere solo quella economico come spessa talora avviene. Non si tratta di dare in gestione la pulizia delle strade, ma servizi finalizzati a precisi obiettivi sociali: allora la valutazione del­la economicità della gestione passa necessa­riamente attraversa la leggibilità dei progetto, la professionalità degli operatori, la disponibilità di strumenti, ecc.

E di nuovo in tale situazione è importante per l'ente pubblico avere a disposizione personale che sappia valutare tutti questi dati e che quindi deve possedere un alto livello di professionalità.

Diversamente, programmazione e controllo fi­niscono per essere delegati a terzi con il bel ri­sultato di favorire al di fuori dell'ente locale che il controllato divenga controllore di se stesso.

Sono sicuro che comprenderete come io stia soltanto enunciando i problemi: il loro approfon­dimento sia in assemblea plenaria che nei lavori di gruppo, sarà compito di altri relatori.

Ciò che ancora vorrei dire, avviandomi alla conclusione, è che sbagliano profondamente co­loro che attaccano con tanta durezza l'attuale, certo imperfetto, stato sociale.

In una realtà sociale come la nostra, in un pae­se industrializzato che sta al vertice delle econo­mie mondiali, va garantita la sicurezza sociale di tutti i cittadini. Ma l'attenzione massima va posta a tutela delle fasce deboli della popolazione per ragioni di giustizia. È quindi nell'interesse di tut­to il paese realizzare servizi in grado di consen­tire una vita dignitosa a tutti.

È nell'interesse di tutti noi costruire un siste­ma di sicurezza sociale basato sulla giustizia e sulla solidarietà e non sulla beneficenza e sul clientelismo.

Tutto ciò che ho fino ad ora detto presuppone una grande forza e volontà innovative: è un salto di qualità notevole che va fatto. E la cosa più impegnativa è che va fatto con il treno in corsa nel senso che non si possono chiudere i servizi e gli enti pubblici in attesa di nuove attribuzioni di compiti, responsabilità, strumenti e dello svi­luppo di organizzazione e professionalità più adeguate.

Scopo di questo secondo incontro nazionale è quindi anche quello di dimostrare che molto è stato fatto, di informare su come si è operato, socializzando esperienze significative effettiva­mente realizzate e sottoponendole ad analisi e valutazioni critiche.

L'auspicio è che alla fine di questo incontro si possano indicare concretamente e con più chiarezza i nodi da sciogliere, le modifiche da apportare all'attuale organizzazione dell'assisten­za pubblica per realizzare finalmente uno stato sociale basato sulla tutela dei diritti di tutti i cit­tadini, fondato sulla giustizia e sulla solidarietà e connotato da efficienza, efficacia ed elasticità.

 

  

(1) Assessore all'assistenza del Comune di Aosta. Rela­zione introduttiva tenuta in occasione del convegno «Po­litiche e interventi sul territorio: esperienze a confronto» (Aosta, 7-8-9-10 ottobre 1987).

 

 

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