IL SERVIZIO PSICHIATRICO TERRITORIALE: AGENZIA DI
SALUTE MENTALE, LABORATORIO DI RICERCA, AULA DI FORMAZIONE PROFESSIONALE
GIOVANNI DE PLATO (*)
Le ricerche di frontiera e le tecnologie di avanguardia, in particolare nel campo della biologia,
stanno suscitando preoccupazione e sconcerto.
Da più parti e con allarme viene
riaperto il dibattito sul ruolo della scienza nello sviluppo di questo sistema
sociale.
Gli studi di genetica stanno svelando la struttura
del codice della vita e già permettono di riprodurre in vitro
la fecondazione.
La proposta di Renato Dulbecco
di individuare la mappa del genoma umano pone in
termini nuovi il problema della progettazione, della realizzazione
e dei risultati della ricerca scientifica. La committenza si internazionalizza
e l'organizzazione si articola a livello multinazionale con una centralizzazione
dei poteri decisionali. A questo livello il confronto
sulle ipotesi e il controllo degli esiti si restringe ad una oligarchia di
scienziati.
Le conoscenze in via di produzione potrebbero
permettere di prevenire e curare le anomalie costituzionali, come sembrano
dimostrare te scoperte annunciate da alcuni
ricercatori dell'Università di Firenze che hanno individuato nel cromosoma 21
il difetto genetico della malattia di Alzheimer.
Le stesse conoscenze sui meccanismi biochimici nella
trasmissione cromosomica potrebbero, però, essere
usate per manipolare il genoma.
Potrebbero servire per mutare con arbitrio la sequela
e la composizione dei nucleotidi, di cui è composto il
patrimonio cromosomico umano. Evenienza da temere quando il potere viene delegato a chi governa e progetta la ricerca.
È incomprensibile l'ottimismo dello scientista che vede in questa ingegneria
genetica la possibilità di poter liberare l'uomo da quel che gli etnologi
chiamano «focolaio di egoismo, di avidità, di sensualità,
di aggressività, di ignavia, di odio e di invidia che ognuno di noi ha ricevuto
in eredità dal regno animale» (W.M. Wheeler). Si prospetta una via genetica per costruire un
uomo «buono e sano», o «bello e intelligente», variazioni
che lasciano capire quali deformazioni razzistiche può nascondere questo
«edificante» progetto. Il potere di correggere una deviazione cromosomica
generatrice di una malattia invalidante e di poter
costruire un uomo come prodotto di un codice progettato in laboratorio, ci obbliga,
comunque, a rivedere la nostra concezione della vita, della malattia e della
morte.
Tale riflessione inoltre è sollecitata da altri
processi che stanno drammaticamente trasformando la nostra natura, le nostre idee e i nostri comportamenti. Basta richiamare il
disastro di Chernobyl o la piaga dell'AIDS per
rendersi conto di come in poco tempo siano cambiate
le condizioni di vita e le possibilità per molti di sopravvivere.
Quella tappa dell'evoluzione, che Hegel
segnalò come punta in cui gli uomini «avevano qualcosa da dire», non appare
più fisiologicamente destinata nella sua totalità ad una prospettiva di emancipazione.
Sembra annunciarsi in qualche angolo di laboratorio un
possibile ritorno al silenzio dell'era glaciale. II linguaggio e il dialogo per
alcuni potrebbero interrompersi a essere sostituiti
da rumore di macchine.
Per altri la nascita segnerà l'inizio di una sviluppo
di morte. Si calcola che soltanto la nube radioattiva provocherà nelle regioni
dell'Unione Sovietica «40 mila casi di cancro nei prossimi 70 anni e nel resto
del mondo, per lo stesso periodo, 20 mila... » (Rubbia),
È sperabile che questa scenario
di un apocalittico futuro sia improbabile, ma il fatto stesso che sia divenuto
una variabile perversa o un calcolo ipotizzabile di quello che ci ostiniamo a
definire sviluppo, ci fa sentire più indifesi e meno fiduciosi.
Il caso di qualche scienziato che in qualche
laboratorio di qualche paese con un sovrano scellerato, possa costruire come
prodotto artificiale un nuovo codice della vita, non potrà essere spiegato
come un errore etico e una deviazione particolare di
un potere; comunque correggibili.
A quel punto dovremo imparare a vivere non solo coll'arma atomica e coll'energia
nucleare, ma anche colle mostruosità genetiche.
Le ricerche attuali e i grandi progetti per costruire
la mappa del patrimonio genetico per le loro mirabili o micidiali applicazioni
tecnologiche hanno fortunatamente provocato l'intervento di altri
saperi e di altri poteri.
Il pronunciamento di soggetti esterni alla società scientifica, però non garantisce un futuro con meno
incognite.
Con tempestività la Chiesa di Roma, forte dei suoi
tradizionali dogmi, si è dichiarata contro la fecondazione in vitro. Ha con fermezza riproposto
il ruolo di guida dei principi morali nella scienza.
La «Congregazione per la dottrina della fede» nel
documento sulla «dignità della procreazione» ha riaffermato che l'etica e la
fede devono essere parte dei presupposti ordinatori della scienza e della
genetica in particolare.
A1 di là di ogni discutibile
argomentazione che ha portato i vescovi cattolici a maturare questa presa di
posizione, appare legittimo che la questione della «liceità morale» venga
rivendicata anche dal teologo, e speriamo non solo da lui.
La richiesta della Chiesa di Roma agli Stati di
adeguare le rispettive legislazioni civili alle leggi morali della dottrina
cristiana si presenta, però, come ingerenza della gerarchia ecclesiastica nel
governo della società temporale, anche se la politica
dei governi viola i diritti dell'uomo e ne nega i bisogni di vita.
Al possibile arbitrio del ricercatore si contrappone il tradizionale integralismo della chiesa
cattolica, e si rinnovano così per altre vie i sistemi che escludono il
singolo e la collettività dall'essere partecipi di una realtà in divenire.
Nel pensiero del cattolicesimo esiste una continuità
storica nel credere, come testimoniano le encicliche da Leone XIII a Giovanni
Paolo II, che tra sviluppo del capitale industriale e del
capitale umano esiste una reciproca valorizzazione. La storia e le
vicende odierne dimostrano che il profitto contraddice i principi morali e mortifica la condizione umana.
Né la società liberal-borghese
è capace di riconoscersi in un'etica sociale e di offrire un avvenire di
civiltà.
Il dominio delle classi privilegiate si fonda e su un
uso distorto delle innovazioni tecnologiche e su un persistente sfruttamento dei più bisognosi con forme primitive di relazioni umane.
La tragica morte dei giovani di Ravenna sta a dimostrare che questo sistema sociale tollera ancora modi
arcaici di rapporto di lavoro e che li contiene come modi naturali. Non si
tratta di un residuo di una società preindustriale, come amano definirlo gli
economisti del modernismo,
Anche l'innovazione tecnologica, quando risponde
alle regole del profitto e della speculazione, nega il valore della persona e
cancella una identità di cittadino.
Non è un caso che nei paesi dove si esalta il libero
mercato e la deregulation emergono episodi sconcertanti, che rendono inverosimile la
coesistenza di una scienza di avanguardia e di un potere intriso di barbarie.
Nel 1980 la Corte Suprema degli Stati Uniti ha emesso una sentenza
che rende brevettabile la manipolazione genetica, cioè la possibilità di poter
utilizzare a fini commerciali anche una mostruosità genetica. Nel marzo 1987 è
stata emessa una sentenza in Inghilterra che condanna una giovane minorata scozzese alla sterilizzazione obbligatoria.
Il valore della vita di alcuni, in via di concepimento
o nati senza difese, in questi paesi si è ridotto ad una merce senza garanzie.
La ricerca scientifica si presenta in questo sistema
come forza produttiva diretta, che accentua il processo di subordinazione e di
scomposizione. Al fattore di progresso della scienza corrisponde
spesso quello di miseria, che contraddice ogni criterio di moralità e di
civiltà.
Il rapporto tra sviluppo delle conoscenze scientifiche
e valorizzazione della condizione umana è però, più
che mai irrisolta anche per le forze democratiche.
In particolare nella cultura della sinistra non emerge
con chiarezza una riflessione capace di dare risposte diverse a questa
contraddizione.
Caduta la tesi che con l'abolizione della proprietà
privata dei mezzi di produzione fosse possibile garantire il pieno sviluppo
della scienza e la sua utilizzazione a servizio dell'uomo, non si sono trovati
nuovi strumenti di elaborazione e la risposta manca.
La convinzione di Marx che «il capitalismo nella fase
dei monopoli, necessariamente tende a soffocare lo sviluppo della scienza e ad ostacolare l'utilizzazione delle sue scoperte nel processo
produttivo perché la rivoluzione scientifica e tecnologica entra in contraddizione
immediata con i rapporti capitalistici di produzione che sono troppo
restrittivi per contenerla» si è dimostrata inadeguata a cogliere la dinamicità
e la difformità del patere capitalistico.
Lo sviluppo della ricerca e della tecnologia militare
e spaziale non solo non è stato limitato. Anzi ha ricevuto
una dilatazione come deterrente di dominio dalle Superpotenze fino ad essere
usato per creare nuovi bisogni di massa con notevole incremento di nuove
produzioni. La contraddizione vera è che il sistema capitalistico da
una parte militarizza la scienza e dall'altra esclude dai propri progetti di
ricerca quei settori di particolare rilevanza sociale ed ecologica.
Il rapporto tra scienza, dominio e processo produttivo
non può essere visto, dunque, con schematismo, perché le articolazioni
strutturali si sono fatte complesse e meno leggibili nelle loro contraddizioni
colle categorie ortodosse.
Certamente laddove il marxismo ha realizzato la sua
rivoluzione, il rapporto tra il potere pubblico e la comunità scientifica non
è stato di libera crescita delle conoscenze.
Lavoisier nella rivoluzione francese e Lissenko
in quella russa hanno ricevuto pressioni e repressioni, che rendono ancora oggi
pesante quella vergogna.
Resta aperto per la sinistra, anche di quella non più
rivoluzionaria, il problema di quale scienza e per quali finalità sociali.
Questi errori di analisi
marxista, di governo socialista e le nuove contraddizioni irrisolte di questo
modello sociale non possono portare la sinistra a credere che non è più il
mosaico che va cambiato, ma che sono i singoli tasselli che vanno modificati
nel rispetto delle «forme» e dei «colori».
A questo punto il dibattito tra riformatori e
riformisti è decisivo per dare una prospettiva ad una
politica del rinnovamento che renda possibile un diverso rapporto tra società
e scienza.
Se l'orizzonte della riflessione viene riportato
esclusivamente nei margini di questo sistema la conclusione non può che essere:
bisogna imparare a vivere anche con quelle tecnologie che producono distruzione,
catastrofe e morte.
Su questo piano le aberrazioni
scientifiche diventano incontrollabili, perché si separa la scienza dalla
società e l'autonomia dello scienziato può farsi liceità. Al cittadino resta solo un'arma per contare: quella
del Referendum.
Il riformismo diventa di fatto
una modalità per regolare di volta in volta, a seconda delle esigenze dei
gruppi più potenti, le funzioni di una struttura o di una istituzione
riconosciute immodificabili.
Ai principi e agli ideali si sostituiscono le regole, che vengono scritte e riscritte rispetto ad un
codice invariabile e sugli interessi di corporazioni o di logge che
condizionano il potere di governo.
«Riformare la riforma» da slogan è divenuto un metodo
con un andamento ciclico che cambia e ricambia i dettagli di una macchina
istituzionale, che invece viene riconfermata nella
sua separatezza dal sociale e nella sua funzionalità
ad un sistema di dominio.
La proposta governativa di modifica della riforma
psichiatrica risponde ad una logica che non può tollerare una riforma di
struttura come la chiusura degli ospedali psichiatrici, né una risposta
alternativa come la creazione dei servizi psichiatrici territoriali.
Questo sistema sociale non può rinunciare ad un
contenitore istituzionale della devianza, può solo articolare in maniera più
soffice e diffusa i meccanismi di controllo che possono portare all'internamento
in una istituzione protetta.
Come non è in grado di contenere un servizio
sanitario che restituisca identità, voce ed autonomia
ad una persona sofferente attraverso una ricomposizione di sé come soggetto.
Liberarsi dal disagio psichico e ricostituirsi come autore della propria vita,
vorrebbe dire riaprire una conflittualità con le istituzioni per rivendicare
uno stato sociale.
Questo sistema non può aprirsi alla
domanda di salute, può solo rendere le sue istituzioni sociali e
sanitarie capaci di fornire meno assistenza e più sussistenza.
Le corporazioni e i loro gradi di potere si presentano
come le uniche vie per arrivare a realizzare il proprio interesse.
La politica dei tickets, la
stratificazione in fasce sociali e il rilancio delle
assicurazioni private escludono una politica per lo stato sociale e riaprono
quella per la sussistenza pubblica, cioè della miseria istituzionale e sociale.
In questo senso la proposta governativa di modifica
della riforma psichiatrica, o meglio la controriforma sanitaria, si presenta
come questione prevalentemente politica.
E irrilevante continuare ad accusare di cattiva
volontà o di atteggiamento reazionario questo o quel
parlamentare, forza politica, associazione dei familiari o società scientifica.
Si tratta di capire che le scelte di queste forze
sono strettamente legate ai processi di questo sviluppo e che la riforma
sanitaria nel 1978 fu possibile perché si stava lavorando per un processo
economico e sociale diverso, e per una nuova scienza.
A distanza di 10 anni come sinistra abbiamo smarrito la necessità politica di cambiare il gioco
e abbiamo finito col delegare il cambiamento al governo delle regole.
Infatti, ritornano a rafforzarsi i processi di divisione
tra natura e scienza, tra uomo e ambiente, tra bene collettivo e interesse
privato, tra produzione e benessere, tra mente e corpo.
Questa dicotomia è un dato tipico della cultura
europea «dopo il crollo del mondo dell'antichità classica» ed è stata
incorporata dalla scienza positivistica
ed esasperata dallo sviluppo industriale.
La politica della riforma è stata un primo, e subito
soffocato, tentativo di cambiare questo pilastro del modello liberaldemocratico:
Oggi si ritorna a sancire l'inevitabilità di quella
scomposizione rigida dei fenomeni economici e sociali, e a rivalutarne
l'aspetto settoriale, perdendo di vista che anche nella manipolazione di una
molecola esiste una carica distruttiva che coinvolge non il singolo individuo
ma la storia naturale dell'uomo.
Se questo arretramento
culturale e politico in atto fosse credibile non sarebbe difficile una
revisione critica e l'abbandono dell'utopia delle riforme. Ma
così non è.
L'utopia che ha portato alla riforma sanitaria si dimostra un'intuizione realistica ed ha avviato
un processo, che se sarà rilanciato con una nuova progettualità
alternativa, è l'unico in grado di dare una risposta riunificante
di progresso e di civiltà ai nodi drammatici del nostro tempo.
Il riformismo, invece, crede che la modernità stia
racchiusa nei parametri di efficienza e di efficacia e
che la riforma va verificata e modificata su questo calcolo senza chiedersi
per chi e per cosa.
Parla di postmoderno e ignora che l'evoluzione delle conoscenze nel campo dell'informatica, della
chimica e della biologia pone interrogativi sempre più complessi alla morale e
alla politica.
La possibilità di costruire un gene artificiale, di
condizionare il pensiero e il comportamento di una persona, di costruire dei
sistemi uomo-macchina che riducono i valori di vita e di
morte a segnali dì input e di output, sono solo alcuni esempi di come si
potenzia e si generalizza un meccanismo di espropriazione e di alterazione.
Cresce la miseria anche morale, si allarga la
sofferenza, si avvertano minacce e pericoli da ogni
parte e la vita del singolo si fa più pesante ed intollerabile.
Gli indicatori di questo crescente malessere sociale
sono molteplici: un'infanzia indifesa e violentata, i suicidi giovanili,
l'incremento delle malattie infettive, invalidanti e incurabili, l'uso diffuso
di psicofarmaci, l'abbandono dell'anziano.
Ai grandi temi della guerra e dell'inquinamento, che
rendono fa paura e l'angoscia ormai elementi costitutivi del vissuto personale,
si aggiungono gli innumerevoli microconflitti di una quotidianità sempre meno ricca anche di socialità e
priva dì solidarietà.
Ai tradizionali meccanismi di stratificazione e dì
emarginazione si aggiungono fenomeni che portano a recidere i rapporti sociali,
a restringere la rete dei contatti e ad autoescludersi.
L'esilio nell'isola individuale viene
imposto come difesa: da un qualcosa che per essere esterno alla propria sfera
è già una minaccia.
Un esempio é la campagna informativa sull'AIDS, che è
stata impostata dal Ministero della sanità non per favorire la diffusione di una corretta informazione scientifica ma per risvegliare
antichi tabù e tradizionali pregiudizi in modo da favorire l'autoisolamento e da far temere il diverso.
Da un'indagine sociale dell'Eurisko
(rapporto 1986) risulta che l'88% degli italiani mette
al primo posto la salute e che solo il 2% é «molto soddisfatto» dell'attuale
sistema sanitario. Nell'uomo della strada esiste la convinzione che i processi
economici e sociali sono tesi più a distruggere che a
valorizzare le risorse, da quelle ambientali a quelle umane.
Questo degrado delle condizioni di vita viene avvertito dalla gente come divaricazione tra bisogni
di salute e di libertà ed innovazioni tecnologiche.
Emergono domande nuove di benessere, di ecologia, dì lavoro, di sviluppo reale..., e sono tutte
contraddette dall'industrialismo e dal malgoverno.
Ai soggetti che li esprimono si può rispondere solo
con un progetto riformatore . Occorrono riforme di
struttura per ridisegnare un'immagine possibile di vita, che non sia più quella di questo mosaico decrepito anche se a volte
luccicante, ma pur sempre di una luce funerea.
Per dirla con Ingrao: «Anche qui non è risolutiva una forza dello Stato, che sia
solo capace di statuire proibizioni e limiti. Conta e decide la costruzione di
una determinata comunità scientifica, e il rapporto tra questa comunità scientifica
e le istituzioni rappresentative, le organizzazioni sociali, le masse».
Su questa linea politica gli operatori della riforma
psichiatrica stanno tentando di costruire una nuova scienza, capace di produrre
salute e di permettere al cittadino di acquisire conoscenze per prendersi cura
della sua esistenza e di quella degli altri.
La critica all'ospedale psichiatrico è partita dalla
constatazione della disumanità dell'internamento del
folle, e dalla convinzione che il fondamento scientifico dell'innatismo
biologico era una falsità insostenibile.
Si ricorreva ad un artificio teorico, mutuato
meccanicamente da modelli esterni alla psichiatria, per giustificare la cura asilare e la cronicizzazione della malattia mentale.
Il determinismo organicista
aveva ridotto il ruolo e la professionalità dello psichiatra e dell'infermiere
ad un sapere senza conoscenze ed a una pratica
aberrante.
Il superamento delle mura manicomiali è stato e deve
essere un modo per uscire da uno squallore professionale e per costruire una
dimensione scientifica.
L'interesse per le condizioni del folle e l'alleanza
con i movimenti della contestazione, dagli anni '60 in poi, sono avvenuti da
parte degli operatori psichiatrici, per lo meno di quelli più convinti, non su motivi ideologici o su spinte genericamente umanitarie o
libertarie, ma sul rifiuto di una scienza che si dimostrava senza un oggetto
reale e senza una metodologia credibile. Oggi sarà difficile riportare il folle
nell'isolamento delle mura istituzionali, ma certamente sarà impossibile farvi
ritornare a lavorare chi faticosamente nei servizi territoriali è riuscito a
ricostruire una identità professionale e a ritrovare
un impegno scientifico.
La riforma psichiatrica del 1978 è una riforma unica
in occidente; essa sta a dimostrare che in Italia in
modo compiuto è stato portato a termine quel processo avviato da Pinel alla fine del '700 di critica al custodialismo e di
costruzione di una terapia della liberazione.
Come per Freud fu possibile
scoprire l'inconscio e costruire la psicoanalisi a partire
dalle riflessioni sul trattamento di Anna O. da parte di Joseph Breuer nel 1880-82, così
per noi è stato possibile scoprire quell'intreccio
di elementi biologici-psicologici-ambientali che
concorrono ad alterare la psiche di una persona, a partire da una pratica di
servizio che permette una conoscenza diretta della sofferenza senza la deformazione
dell'isolamento istituzionale e del ricovero ospedaliero.
Questo metodo non trova riscontro in altre discipline
specialistiche e rompe col modello medico che, nell'assolutizzare
il meccanismo biologico, si è dimostrato sempre incongruo e inaffidabile.
Finalmente con la riforma, abbiamo sancito anche un
metodo che permette alla psichiatria di costituire la sua autonomia di scienza
e la sua specificità di specializzazione.
Aprire una riflessione e avviare uno studio sui dati
espliciti ed impliciti della pratica reale nei servizi psichiatrici, ha voluto
dire ribaltare i tradizionali sistemi della diagnosi-cura-riabilitazione e inventare un ruolo ed
una competenza per produrre salute.
La novità scientifica di questo metodo impone un
lavoro di formalizzazione dei concetti, di esplicitazione delle procedure e di validazione
dei risultati.
L'autocritica deve essere puntuale e severa su questo
terreno senza sentirsi più deboli, perché meno capaci di risposte e più inclini
agli interrogativi.
Come esistono responsabilità politiche sul mancato
avanzamento delle riforme di struttura così esistono gravi errori del movimento
degli operatori democratici sul mancato sviluppo dei temi posti dalla riforma.
Sono mancate non solo una progettualità scientifica che sapesse valorizzare un
metodo che si fonda sulla pratica, ma in particolare una formazione
interdisciplinare, che sollecitasse il confronto con altri specialismi
per abbattere le barriere di chi vuol restare estraneo ad una ricerca di
progresso.
Occorre riprendere con forza la costruzione di una
teoria e di una pratica scientifica, senza temere di
ricadere nella codificazione che ipostatizza un
fenomeno in continua evoluzione.
La nostra alternativa è credibile
se riesce anche sui piano della costruzione teorica a trovare nuovi concetti e
nuovi strumenti per descrivere in modo preciso le particolarità del fenomeno
psichico.
Quello che all'interno della nuova psichiatria ci può
differenziare è se lo strumento della critica deve
portarci a smarrire il sapere alternativa nella teoria dell'ineffabile e
dell'indicibile o deve permetterci di costruire una leva che sappia smontare e
ricostruire i saperi e le tecniche per una teoria critica della scienza.
Sappiamo tutti che un disturbo psichico, anche il più
lieve, non è mai riportabile ad una causa, ad una spiegazione e ad una
risposta.
La sua unicità rimanda alla multifattorialità
e al polimorfismo, che possono essere osservati solo
attraverso il vissuto della persona.
La relazione terapeutica richiede una bussola, una strumento di orientamento che permetta di approntare un
programma di aiuto la cui modalità e finalità vanno costantemente ridefinite
secondo coordinate prevedibili.
Questa bussola non solo serve ma va costruita con le conoscenze più avanzate
e con le tecnologie più perfette. Da qui la necessità che un servizio
psichiatrico, per fare a meno delle mura istituzionali, deve organicamente
svolgere le funzioni di servizio, di ricerca e di formazione.
L'unitarietà di queste tre funzioni permette di
assumere i compiti propri della fase di transizione della psichiatria dal manicomialismo alla salute mentale.
Il Servizio psichiatrico territoriale, là dove é
stato istituito dopo la riforma, si è sviluppato in modi così difformi da far dire che ogni servizio ha una sua storia, una sua struttura
e una sua organizzazione.
Non solo gli spazi sono atipici l'uno dall'altro, ma
sono diversi anche la stile di lavoro e le sue
finalità.
Sicuramente ha pesato un'eredità muraria, amministrativa
e clinica locale. Oggi dobbiamo essere in grado di andare oltre tale
disseminazione particolaristica dei servizi.
Mi soffermo solo su uno degli aspetti di carattere
generale che dovrebbe qualificare ogni servizio
psichiatrica. Sono convinto che la professionalità di un terapeuta e la efficacia di un intervento sono direttamente legate allo
stile di lavoro di un'équipe e sono strettamente dipendenti dalla struttura
che li contiene.
Questo mi autorizza a dire
che nel servizio non può determinarsi un rapporto di delega assoluto come
chiede il clinico, né può avvenire solo uno «scambio di parole» come dice Freud.
La specificità del servizio impone uno «scambio di
risorse tra operatore, équipe, struttura e persona bisognosa di
aiuto. Le risorse che possono permettere uno scambio positivo
e terapeutico sono la qualità umana e professionale dell'operatore, il sapere multidisciplinare dell'équipe e inoltre la capacità del
servizio di sapere individuare e valorizzare le risorse di comprensione, di
solidarietà e di sostegno dei cittadini e delle strutture sociali presenti nel
territorio « (De Plato).
Il servizio va progettato come una rete di spazi
interni e esterni, diversificati ed adattabili per
costruire una molteplicità di relazioni privilegiate con una presenza ed una
intensità modulabili, e tali da permettere alle persone disturbate di
ricomporre la frantumazione del proprio io e di ricostruire un programma di
emancipazione e non solo di seguire un trattamento psicoterapeutico.
In questo senso la metafora del servizio come agenzia
per la salute mentale serve a chiarire come il prendersi cura di una persona
non vuol dire «curare per guarire» ma approntare via via
che la domanda di salute si precisa nella relazione
terapeutica una gamma di risposte lungo un iter da tracciare e da percorrere
con mezzi la cui idoneità è ogni volta da verificare.
Questo stile di lavoro porta a ritenere che la
sofferenza e la salute non sono entità misurabili con
indicatori standardizzati.
Lo star male e lo star bene
rispondono a criteri relativi, che comportano una convalida consensuale tra
operatore, équipe e persona disturbata, famiglia, gruppo sociale.
Le innumerevoli variabili che concorrono a determinare
uno stato di sofferenze e le molteplici modalità di intervento
impongono comunque di arrivare ad una valutazione precisa ed a un trattamento
mirato.
Per questo uno strumento di orientamento
può essere il sapere psicoterapico e deve essere il lavoro d'équipe.
Le conoscenze di psicoterapia, e non le sue infinite
traduzioni in scuole esclusive e in tecniche codificate, sono un riferimento
teorico valido che dobbiamo concorrere a costruire e a perfezionare.
La psicoterapia come funzione del servizio è una
novità operativa che non possiamo ridurre ad una ulteriore
copia delle duecento e più scuole già censite.
Si presenta nelle esperienze alternative come un modo
originale che ipotizza nuovi fondamenti e crea nuove
finalità.
Da queste brevi considerazioni su un aspetto che deve
qualificare i servizi psichiatrici, scaturisce la proposta che la istituzione dei dipartimenti di salute mentale deve
affermare la centralità dei servizi territoriali e assumerne lo stile di
lavoro, riconoscendo come rimedio eccezionale e sempre transitorio, il ricorso
alla obbligatorietà terapeutica, al ricovero e alla ospitalità protetta.
È chiaro che parlare di dipartimento come funzione
dipartimentale del servizio vuol dire ribaltare la logica dell'accorpamento degli istituti confinanti e delle specializzazioni
affini.
Si verticalizza una metodologia e non un potere, e si articola e non si centralizza la rete dei
servizi a livello di distretto e di unità elementare.
In particolare il dipartimento deve integrare nelle
attività di servizio anche quella della ricerca scientifica. La ricerca
scientifica ufficiale, quella delle cliniche universitarie e degli istituti
pubblici e privati, resta estranea alle esperienze dei
servizi psichiatrici.
Le tendenze in atto dimostrano un andamento quanto meno paradossale delle varie scuole nel campo della
psichiatria. La psicoanalisi ortodossa dopo i fasti della sua scientificità e terapeuticità è costretta a parlare della
ambiguità irrisoria di Freud tra dato clinico
e meta-psicologia. Qualche psicoanalista si spinge a dire
che il setting, le interpretazioni e le libere
associazioni si sono dimostrati strumenti privi di una valenza terapeutica e
anche conoscitiva.
Si ritorna ad avanzare l'importanza del dato clinico,
si riconosce la falsità della meta-psicologia e si ripresenta, come più
produttiva, l'ipotesi di una neurofisiologia
dell'inconscio.
La neurobiologia, invece,
con le sue rivoluzionarie scoperte arriva a
riconoscere e a valutare l'importanza dei fattori ambientali.
Alberto Oliviero, nel commentare il premio Nobel
assegnato a Rita Levi Montalcini, così scriveva
sull'Unità: «Il cervello è un organo ibrido, in parte predeterminato nelle sue
funzioni ed in parte aperto alle esperienze, in parte organizzato secondo
piani comuni a tutte le specie ed in parte aperto a nuove "formule" variabili da individuo ad individuo a seconda della sua
identità biologica ed esperienza di vita».
Dall'inconscio alla neurofisiologia
e dalla neurobiologia all'esperienza, sono percorsi
contraddittori che diventano comprensibili rispetto ad una teoria della
bipolarità, a cui sfugge il concorso unitario di
fattori diversi nel determinare la nascita e lo sviluppo del fenomeno psichico.
Fin dalle prime elaborazioni delle esperienze
alternative all'ospedale psichiatrico, un punto fermo e comune agli operatori
democratici era e resta che anche nella forma più
lieve del disagio psichico entrano fattori biologici, psicologici, ambientali
con un intreccio, difficilmente districabile.
Questa acquisizione viene
tradotta in ipotesi di ricerca e porta i grandi nomi italiani della psicologia,
Minguzzi e Misiti, della
epidemiologia, Maccacaro, della psicoanalisi, Risso,
e della psichiatria, Basaglia, a firmare il primo
progetto finalizzato del C.N.R. sulla psichiatria.
I farneticanti denigratori della psichiatria della riforma
si inventano accuse come «la malattia mentale non
esiste», che ripetono con ossessione e ignorano la storia e i documenti di una
ricca e prestigiosa rivoluzione scientifica. Quegli scienziati, purtroppo e per
una natura crudele, sono tutti prematuramente scomparsi. Rimane un grande
insegnamento e un'interessante elaborazione che oggi vanno
ripresi e sviluppati.
Diversamente dal passato bisogna rivendicare che ogni
Servizio psichiatrico sia messo in condizioni
ottimali di fare ricerca.
La metafora che ogni servizio deve anche essere un
laboratorio scientifico serve a chiarire che nel campo della psicologia, della
psicoanalisi e della psichiatria si «procede a tentoni
avvalendosi dell'esperienza» (Freud).
Si tratta di prendere atto che la lettura di un caso
da valutare è anche una coscienza da sistematizzare,
e che il trattamento psicoterapico è anche un dato da convalidare. Intervento e
ricerca in un servizio psichiatrica territoriale sono
aspetti inscindibili.
Da cui la proposta che il dipartimento di salute mentale deve contenere anche le strutture e le
competenze per svolgere un'attività di ricerca, avvalendosi della
collaborazione degli istituti scientifici più qualificati e disponibili ad un
impegno sui temi della riforma.
Sarebbe auspicabile organizzare un prossimo convegno
per elaborare un progetto aperto di ricerca nel campo della salute mentale che
rilanci i servizi psichiatrici come laboratori locali e richieda
al Ministero della sanità un finanziamento finalizzato alla qualificazione
scientifica dei servizi pubblici.
Un servizio psichiatrico con questi compiti e con
questa finalità richiede professionalità e competenze che non vengono fornite da alcun iter formativo e scuole di specializzazione.
La professionalità d'équipe, il programma psicoterapeutico
individuale e la funzione psicoterapica del servizio sono elementi innovativi
propri delle esperienze psichiatriche che mettono in discussione quei saperi
monoteistici e vanno oltre il contesto sanitario.
Le esperienze avanzate hanno accelerato la crisi del
paradigma clinico-asilare e hanno permesso un
mutamento operativo che sollecita un nuovo sistema teorico e formativo di
riferimento.
La facoltà di medicina e chirurgia, il corso di laurea
in psicologia, le scuole professionali per infermieri sono del
tutto impreparati a fornire una formazione specialistica aperta ad una
professionalità multidisciplinare.
Il lavoro d'équipe richiede una specializzazione sempre più ricca del singolo operatore sulla specifica
competenza e una integrazione sempre più stretta con altri specialismi
di altri saperi.
Per questo non basta fermarsi alla richiesta di una
riforma degli studi e delle specializzazioni; occorre
prendere atto che il Servizio sanitario nazionale a livello della Regione deve
dotarsi di un proprio servizio di formazione e di aggiornamento che sappia
dare risposte a domande di conoscenza scientifica degli operatori rispetto ai
livelli di pratica che maturano nei servizi.
La proposta di un servizio regionale di formazione
sul campo della salute mentale deve partire dal servizio territoriale come
aula dove sì trasmettono le conoscenze e si formalizzano i temi di ulteriore crescita scientifica.
L'équipe è il soggetto da formare, da qualificare e
da aggiornare sicuramente con la partecipazione di quelle scuole private e
pubbliche che sanno dare un contributo qualificato alla costruzione di questo nuovo asse formativo.
Sono convinto che questi spunti di riflessione
possono trovare una più compiuta elaborazione nella proposta del PCI di avviare
una seconda fase della riforma, così come è stata
presentata nel seminario di Ariccia nel novembre '86.
Gli errori, i ritardi e le difficoltà nell'applicazione della riforma sanitaria come le proposte
governative di modifica per liquidarne gli aspetti innovativi non possono
portarci a credere che siamo in una fase di arretramento, che bisogna restringere
il campa della scontro e che occorre con realismo accontentar-si di
qualche parziale concessione. Nel campo della scienza quando si ritorna a
rivalutare il particolare e si rinuncia a sviluppare la critica sugli aspetti
di contesto e sui rapporti con altri contesti, si
finisce non con l'essere più realistici e col procedere a piccoli passi, si
rischia di smarrire ogni interesse e capacità di lavorare per il nuovo.
Bisogna ancora riuscire a guardare oltre le mura e a costruire una prospettiva
culturale e scientifica più avanzata se vogliamo ricomporre e allargare quell'area dei soggetti sociali interessati ad essere protagonisti
con noi di un progetto per la salute mentale, che sia anticipazione di un
nuovo rapporto tra una scienza e una società da trasformare.
(*) Relazione tenuta al Convegno
nazionale del PCI «Dalla psichiatria alla salute mentale», svoltosi a Roma dal
3 al 5 aprile 1987.
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