Prospettive assistenziali, n. 80, ottobre-dicembre 1987

 

 

LA SALUTE MENTALE VERSO IL VENTUNESIMO SECOLO

PAOLO CREPET (*)

 

 

È trascorso quasi un ventennio da quando la Direzione del PCI, allora in collaborazione con l'istituto Gramsci, organizzò un convegno nazio­nale intorno a questi temi. Più che un ventennio, da allora è trascorsa un'epoca di cui tutti noi av­vertiamo l'enorme responsabilità, non solo per la riforma conquistata o per il patrimonio culturale e di esperienze che mezzo mondo ha guardato e guarda con grande interesse, ma per l'eredità dell'incancellabile insegnamento di chi ha aper­to, costruito e difeso questo lungo cammino e che oggi non può più essere con noi.

La citazione di quel convegno diventa obbliga­toria non certo quindi per completezza bibliogra­fica o per formalismo storico-politico, ma per­ché rappresentò il prima momento di confronto fra le esperienze del movimento democratico di trasformazione della psichiatria istituzionale. con quelle del movimento operaio e con quanto allora emergeva dalla discussione all'interno del parti­to, che rese possibile gran parte della storia che abbiamo trascorso, le difficoltà che ne ave­vano accompagnato la fase preparatoria erano scaturite, infatti, non tanta da un ineludibile con­trasto prodotto dal confluire di culture ed ideo­logie a volte lontane, quanto piuttosto dal por­tato radicalmente riformatore delle esperienze nate in quegli anni, che avevano reso inelutta­bile ed irreversibile ciò che Sergio Piro ha iden­tificato come «crisi paradigmatica» dell'intero corpo psichiatrico, ovvero del suo apparato isti­tuzionale, culturale e scientifico (1).

Questa crisi non era tuttavia maturata sola nella psichiatria italiana, ma era già stata «an­nunciata», fin dall'immediato dopoguerra anche se solo parzialmente e contraddittoriamente, da alcune esperienze nordamericane, inglesi e fran­cesi. Si potrebbe sostenere anzi che la nostra esperienza, almeno nel suo esordio, si sia fonda­ta sulla traduzione e riformulazione di proposte che erano state importate da quel contesto inter­nazionale. Questo raffronto ci permette oggi, co­me vedremo oltre, di valutare ed apprezzare la «anomalia» della nostra esperienza, fornendoci elementi utili alla comprensione della trasforma­zione in corso, tanto più quanto si interpreti que­sta atipicità anche come contraddizione interna all'organizzazione stessa della psichiatria italia­na. Non ha qui il tempo per indulgere troppo su questo punto, al quale del resto abbiamo dedicata l'intera sezione di lavoro di questo pomeriggio, tuttavia vorrei proporre una riflessione.

Se rileggiamo oggi i contributi al dibattito del convegno del 1969, un punta mi sembra emerge­re con insistenza: l'esigenza di valutare e preve­dere l'impatto sul macrocosmo sociale di ciò che l'esperienza basagliana stava enucleando ed enunciando partendo dal microcosmo manicomia­le. In altre parole si trattava allora di capire quan­to dell'esperienza anti-istituzionale fosse trasfe­ribile a generalizzabile al l'organizzazione socia­le, quindi alla sfera politica; quanto di ciò che allora passava attraverso il rovesciamento della logica della «funzionalità istituzionale», potesse indurre un'analoga messa in crisi della «funzio­nalità sociale» come strumento primo del con­trollo sociale (2).

Ho l'impressione che parte di quel dibattito si sia, in questi anni, stemperato e svuotato senza che a questi interrogativi sia stata data ancora risposta. Credo, infatti, che la ricerca dell'acce­zione di aspecificità, pur all'interno di un settore fortemente specialistico, non umilii affatto que­st'ultimo, né, sia sinonimo di fuga in un conso­lante genericismo, ma, al contrario, tenda ad ac­creditarne un significato più universale, direi etico.

Forse alla base di questa rimozione collettiva sta anche la difficoltà di comprensione e di iden­tificazione del problema- Come se i margini della contraddizione, allora più netti e vividi, si fosse­ro progressivamente sfumati. fino al punto che, per dirla con Franco Fortini, «la differenza fra i fuori legge dello scorso secolo... che si infrange­vano contro la società e quelli del nostro tempo, fenomeno minoritario ma imponente, è stata an­che nella capacità eccezionale che la società ha dimostrato, di riceverlo ed assorbirlo, di inca­sellarlo. Non sto parlando dei cunicoli scavati e delle generose mine introdotte per far saltare le cosiddette "istituzioni totali", ma semmai di come una immagine sempre meno barbarica o magica a, se vogliamo, sempre più razionale e magari solidaristica del malato mentale, del de­viante e del marginale, conviva con forme abiet­te di razzismo, misoneismo, irrazionalismo, spes­so negli stessi soggetti o nelle loro immediate vicinanze» (3).

Di qui uno dei motivi principali che hanno gui­dato e sostenuto la decisione di organizzare que­sto convegno. La necessità di rileggere, anche criticamente, la storia recente del movimento ri­formatore della psichiatria nel nostro paese, per comprenderne in pieno la portata trasformatrice, ma anche i motivi delle omissioni, delle carenze e delle incertezze che hanno limitato la sua tra­duzione operativa. Così come oggi dobbiamo ave­re la forza, partendo proprio da questo bilancio, di indicare le linee di tendenza culturali ed orga­nizzative, teoriche e pratiche che investiranno questo settore negli anni a venire. In altre pa­role avere la consapevolezza ed il coraggio di proporre e progettare una seconda fase della ri­forma, dalla quale possa emergere un disegno capace di contenere, arricchendolo e maturando­lo, ciò che le esperienze acquisite hanno dimo­strato in questi anni e di integrare quei saperi e quelle conoscenze che, pur con radici e prove­nienze lontane, sono stati in grado di piegarli alla funzione etica e alle esigenze organizzative che devono contraddistinguere un servizio sani­tario pubblico.

Questo convegno vuole essere quindi il luogo di incontro e di confronto fra i protagonisti di questa grande impresa e l'occasione per un ri­lancio culturale e politico della riforma e del suo patrimonio di idee e di esperienze.

 

Le riforme e la situazione attuale

Il terreno riformatore é un altro elemento di continuità con il dibattito della fine degli anni '60. Un tema che lo animò e che trovò eco anche nel convegno del '69, fu rappresentato da quello che Agostino Pirella chiamava «l'illusione legislati­va». Se da un lato, infatti, si avvertiva profon­damente l'esigenza di uno svecchiamento delle norme ottocentesche che regolavano la psichia­tria nel nostro paese, dall'altro si temeva che ciò potesse essere riassorbito e ricondotto ad una razionalizzazione tutta interna all'assetto isti­tuzionale, come andavano richiedendo ampi set­tori dell'accademia, i rappresentanti sindacali de­gli psichiatri manicomiali ed i padroni delle case di cura private (4).

Il dibattito intorno all'opportunità di un «new deal» per la psichiatria italiana durava, infatti, già da quasi un ventennio, da quando cioè, nel 1952, l'on. Ceravolo aveva presentato in Parla­mento la prima proposta di riforma; ma neppure l'approvazione della legge-stralcio del '68 con­tribuì alla soluzione di questa contraddizione. Es­sa, infatti, pur costituendo un passo avanti, ri­conosciuto da tutti, sia dal punto di vista dei re­golamenti interni degli ospedali psichiatrici am­mettendo il ricovero volontario, sia per aver av­viato l'era dell'assistenza extra-murale attraver­so l'istituzione dei servizi territoriali, non coglie­va un'esigenza già maturata nel settore più avan­zato del dibattito psichiatrico: quella del supe­ramento di una normativa speciale per la psichia­tria, ovvero l'abolizione della legge del 1904, che la riforma Mariotti fasciava invece inalterata.

Rivisto oggi, tale dibattito mantiene una buona parte di interesse e d'attualità. Innanzitutto va ricordato che la legislazione speciale è tuttora in vigore nella stragrande maggioranza dei paesi occidentali e rappresenta uno dei punti «caldi» delle lotte che le associazioni degli psichiatriz­zati stanno compiendo nei confronti delle auto­rità statali, soprattutto nei paesi nordeuropei e nordamericani. In secondo luogo perché anche da noi, nonostante che la legge 180 sia stata in­serita nella riforma sanitaria, molte regioni han­no successivamente adottato leggi «speciali» snaturando la scelta compiuta nel 1978.

Anche per quanto riguarda «l'illusione legi­slativa» dovremmo riprendere ed aggiornare al­cuni punti della discussione di allora. Dopo la riforma del '78, sembra infatti essersi innescata una corsa di emulazione fra assessorati, consigli regionali o comunali, comitati di gestione, gruppi di esperti, partiti e rappresentanti sindacali: tut­ti sembrano essersi trasformati in ostinati le­gulei con il risultato di creare una pletora di provvedimenti e regolamenti minuziosissimi, ma che sono rimasti quasi ovunque inapplicati. Anzi si ha l'impressione che viga una forma di com­penso riparativo secondo la quale tanto meno si è governato ed amministrato, tanto più le leggi o i regolamenti sono meticolosi fino quasi all'ossessione.

In fin dei conti è una storia che tende a ripe­tersi: da sempre le leggi in psichiatria si appro­vano senza che quelle che le hanno precedute siano state applicate. È successo con (a legge del 1904 e con il regio decreto del '19, si è ripe­tuto con quella del '68 ed ora sta accadendo la stessa cosa con la 833 e le leggi regionali. Tut­tavia, che la verifica della bontà dell'assistenza psichiatrica non si basi solo su quella dei suoi regolamenti, è realtà comune a contesti sociali e politici anche lontani dal nostro; per tutti i com­menti possibili potrebbe bastare quello di un ex-paziente psichiatrico, ora consigliere comuna­le a Toronto: «quando ti trovi rannicchiato in un copertone di una discarica alle 3 della matti­na con 30 cents in tasca, non credo che ti inte­ressi molto di quello che dice la legge psichia­trica dei tuoi diritti».

Sgravata da ogni investimento taumaturgico, la riforma del '78 resta comunque come il capo­saldo irrinunciabile per qualsiasi sforzo di tra­sformazione dell'assistenza psichiatrica nel no­stro paese. Ad essa mi riferirò quindi per ten­tare un bilancio dei nove anni della sua appli­cazione e per individuare, partendo da questo, prossimi sviluppi e priorità da affrontare.

Per esigenze di sintesi, suddividerò la descri­zione della situazione attuale in alcune aree pro­blematiche.

 

Manicomi e dintorni

Sappiamo che la situazione ereditata dalla legge del 1904 era, ancora alla fine degli anni '70, drammaticamente eterogenea: un terzo del terri­torio nazionale non aveva servizi psichiatrici di alcun tipo, nemmeno manicomi, mentre oltre il 20% era assistito solo da quelli privati (5).

Nonostante queste enormi carenze, la popola­zione ricoverata negli ospedali psichiatrici pub­blici ha subito, come noto, un calo considerevole già a partire dalla metà degli anni '60. Se pren­diamo infatti il periodo di tempo compreso fra gli otto anni precedenti la riforma del '78 e quelli ad essa successivi, possiamo notare che il calo percentuale è, in entrambi i casi, assai cospicuo: fra il 1971 e il 1978 è stato del 33%, contro il 44% del periodo 1979-86. Va detto inoltre che la diminuzione, in alcune regioni, negli ultimi anni è stata addirittura maggiore, come nel Lazio dove le presenze sono calate del 56%.

Tuttavia questo dato non coincide necessaria­mente con il tasso di deospedalizzazione e tanto mano con quello di deistituzionalizzazione. Nel primo caso infatti ad esso va sottratta la percen­tuale relativa alla mortalità intra-istituzionale che, essendo valutabile intorno al 3% annuo (6), ri­dimensiona l'entità del calo a circa il 7% nel primo periodo ed al 10% nel secondo.

Nel secondo caso, data la carenza di dati, è pressoché impossibile sia emettere un giudizio definitivo sul destino dei dimessi dagli ospedali psichiatrici, sia affermare che esso non sia coin­ciso con l'internamento di una parte di questi in altri istituti di ricovero. Le poche ricerche dispo­nibili ci offrono infatti un quadro assai contrad­dittorio. Nell'area veneziana, il 34% dei dimessi si trovavano, a due anni di distanza, ricoverati in case di riposo e solo il 13% ha un'occupazione remunerativa (7), mentre il tasso di mortalità è risultato essere tre volte superiore a quello in­tra-istituzionale, dato sostanzialmente identico a quello rilevato da un'analoga indagine in corso nel Lazio (8). Nel Piemonte la situazione sembra essere decisamente migliore visto che l'83% dei dimessi risiede ora in comunità terapeutiche o in case famiglia (9).

L'impressione che se ne può ricavare è che, accanto a situazioni esemplari come Trieste, Pordenone, Arezzo, Torino e poche altre, convi­vano nel paese realtà di internamento ancora massiccio come è il caso emblematico della casa di riposo «Cardinal Maffi» a Cecina o quello di alcune realtà del meridione, come la Provincia di Catania.

Non sempre siamo riusciti ad opporci a questo degrado, né, a volte, nemmeno a denunciarlo. Così come dobbiamo oggi rimarcare, con altret­tanta schiettezza, il grave calo di tensione nell'opera di critica a quelle realtà di nuova reclu­sione ed internamento che non riguardano solo chi è stato dimesso da un manicomio, ma anche gli anziani, gli handicappati o i bambini. A Roma, ad esempio, più di 1500 bambini sono ancora ri­coverati, a vario titolo, nei brefotrofi; ma quanti altri va ne sona ancora nel paese ed in quali condizioni? Quanti vecchi vivono in ospizi inde­centi? Quale sorte incontra chi ha un handicap invalidante?

Questa non è certo una parte d'Italia che sta cambiando, ma quale forza politica, se non la nostra, dovrebbe gridare a questo scandalo in­degno di un paese civile e democratico?

Un'ultima considerazione vorrei aggiungere a questo punto. Nonostante il calo di cui abbiamo detto, poco meno di 50.000 cittadini sono ancora ricoverati nei manicomi pubblici e privati. La te­levisione ed alcuni quotidiani si sono recente­mente interessati di casi assurti alla cronaca na­zionale: il manicomio di Cagliari dove un pazien­te è morto mangiato dai topi, quello di Reggio Calabria dove chi vi è internato non ha nemme­no le scarpe, quello di Roma dove le pensioni dei quasi 700 ricoverati sono state più volte sac­cheggiate o quello di Imola dove un magistrato vuole interdire tutti gli internati. Questo elenco potrebbe diventare lunghissimo se volessi ricor­dare tutti i soprusi, le morti colpose, le rapine che da sempre vengono perpetuate ai danni di chi è ricoverato in un ospedale psichiatrico. D'al­tra parte non possiamo affermare che la situa­zione, negli anni successivi alla riforma, sia mi­gliorata: paradossalmente molti amministratori hanno interpretato la legge come una sorta di «mandato di estinzione» dei ricoverati. Realtà come quella del manicomio di Pesaro, dove 200 persone sono ricoverate in un ex-convento, fati­scente e maleodorante, senza nemmeno i termo­sifoni per riscaldarsi, sarebbero altrimenti diffi­cilmente spiegabili.

Di chi, dunque, la responsabilità di questo spa­ventoso degrado, solo del pentapartito od è an­che in parte nostra, visto che il nostro partito governa o comunque è presente nei comitati di gestione delle USL e nei consigli regionali?

Ogni anno si spendono circa 1.200 miliardi per mantenere i manicomi pubblici e 1.800 per quel­li privati, mentre una struttura intermedia costa un terzo e consente un'assistenza impensabile nei corridoi desolati dei cento manicomi italiani. É dunque solo un problema di scarse risorse fi­nanziarie o piuttosto anche di volontà di governo della riforma?

Prendiamo per ultimo l'esempio della mobili­tà: quante persone lavorano ancora nei manico­mi? A sentire il parere dei direttori sembrerebbe che non vi sia più nessuno, ma quasi ovunque, al contrario, ve ne sono ancora di più di quelli previsti dalla legge ospedaliera del '68 che in­dicava un rapporto ottimale di un infermiere ogni tre ricoverati: negli ospedali della Sardegna gli infermieri sono quasi il doppio dei pazienti. Che ruolo hanno giocato i sindacati nel rendere possi­bile questa situazione? Quanto spesso ragioni di comodità o di convenienza rispetto al lavoro ter­ritoriale o, peggio ancora, di necessità di coper­tura di realtà di doppio lavoro hanno sovrastato l'obbligo di concedere un futuro dignitoso a chi ancora è internato?

Credo che nella terza sezione di lavoro del con­vegno troveremo lo spazio per affrontare anche questo, che é un punto chiave per la credibilità della nostra proposta politica.

 

I servizi psichiatrici negli ospedali generali

Sebbene siano stati formalmente previsti per legge solo dalla riforma del '78, il rapporto fra psichiatria ed ospedali generali data anch'esso da molti anni. Nato come alternativa all'espansio­ne degli ospedali psichiatrici olandesi nell'espe­rienza di Querido ad Amsterdam nel 1936 (10), dopo la fine della guerra, si è sviluppato soprat­tutto in Gran Bretagna ed in Scandinavia. Da noi se ne parlava già all'inizio degli anni '60, tanto che Basaglia ne aveva previsto l'uso nella sua relazione alla «Commissione di studio per l'ag­giornamento delle vigenti norme sulle costruzio­ni ospedaliere» che avrebbe in seguìto formulato il testo della legge del 1968.

Nonostante la nostra esperienza non sia quin­di così recente, il numero di posti-letto rimane uno dei più bassi d'Europa, superati in negativo solo dalla Grecia e dall'Irlanda, e copre solo il 6% dell'intero patrimonio ospedaliero psichiatri­co, così come avviene solo in Gran Bretagna ed in Grecia (11).

Un'indagine condotta dal CENSIS per conto del Ministero della sanità che ha avuto solo re­centemente il nulla osta per essere pubblicata, ha censito 236 servizi di diagnosi e cura (12), in­dicando una crescita, nel periodo 1980-84, del 23,3%. Tuttavia la distribuzione di questi servizi è avvenuta in modo estremamente eterogeneo: oltre la metà è infatti dislocata nel nord e l'85% di questi reparti opera in luoghi non idonei per spazio o per collocamento: il caso più clamoroso è quello della situazione romana con soli 45 posti letto per una popolazione di 4 milioni di cittadini. Da quasi nove anni, infatti, la regione Lazio non ha aperto un solo servizio in più rispetto a quelli decisi all'indomani della riforma, anche se questi sono stati ampiamente previsti dalla legge re­gionale sulla psichiatria del 1984 e dal successi­vo piano particolareggiato; ma è forse un caso che questo accada nella città che da sola assorbe oltre il 50% dei posti-letto delle case di cura private?

Le difficoltà, che ne hanno vincolato la crescita e la distribuzione, questa volta non sembrano sia­no collegabili al problema dei costi o della man­canza di personale, visto che questi servizi co­stano molto meno dei manicomi e che vi lavorano in media due operatori per ogni ricoverato; ciò che non ha funzionato sembra piuttosto da do­versi ricercare nello scollegamento fra questi servizi e quelli territoriali (solo un terzo di questi ha rapporti con il servizio territoriale competente per quel determinato paziente), tanto da farli diventare i luoghi più adatti per una riedizione di una psichiatria medicalizzata, ove il ricovero di­viene l'unica forma di trattamento ed il farmaco il solo strumento. I dati sul personale conferma­no questa interpretazione: gli operatori sono quasi esclusivamente medici ed infermieri, il 77% dei quali proviene dagli ospedali psichiatrici.

Un dato rassicurante ci viene invece dall'ana­lisi dei ricoveri. La durata media sembra essersi attestata intorno ai 12 giorni, ovvero sensibil­mente più alta di quella verificatasi nel periodo immediatamente successivo alla riforma, che era di poco superiore agli otto giorni. Questo po­trebbe significare che, da un lato è diminuito il fenomeno dell'allontanamento immediatamente dopo il ricovero, dall'altro che si tende a ricove­rare solo persone che abbiano effettivamente ne­cessità di intervento.

Ciò dovrebbe far riflettere chiunque voglia ap­portare modifiche alla legge in questo punto, come fa la proposta governativa. Va detto tut­tavia che in quasi tutti questi servizi la porta è stata «chiusa„ (di qui un'altra interpretazione della diminuzione delle «fughe») rendendone così assai improbabile l'integrazione con gli altri re­parti di medicina, così come era nelle intenzioni della riforma. Questo progressivo isolamento della psichiatria dalla medicina non può che fa­vorire il ritorno di un clima custodialistico e re­pressivo, testimoniato dalla ripresa dell'uso dell'elettroshock in non pochi servizi.

Tuttavia la necessità di un più stretto rapporto fra medicina e psichiatria non ipotizzava solo un riavvicinamento di una branca sanitaria, da sem­pre ghettizzata, al grembo materno della clini­ca, né si trattava di omologare una pratica tera­peutica anomala e confinata; si trattava invece di portare a maturazione il processo di travaglio critico che aveva investito anche la medicina sia nel suo apparato istituzionale, che culturale e ideologico.

L'ospedale generale era ed è il terreno ove il conflitto tra le tendenze ad un arroccamento isti­tuzionale che propone l'identificazione dell'atto terapeutico con l'attività clinico-diagnostica e quelle che prospettano al servizio sanitario un compito più complesso ed integrato fra preven­zione, cura e riabilitazione affidato ad una varie­tà di servizi sanitari e sociali all'interno dei quali l'ospedale generale può trovare un ruolo comple­mentare e non centrale. Se quindi questo con­flitto si è spesso risolto a sfavore delle espe­rienze di trasformazione, ciò è dovuto anche all'incapacità della psichiatria riformata a rappre­sentare un modello culturalmente, oltre che ope­rativamente, pienamente alternativo a quello cli­nico-ospedaliero.

 

I servizi territoriali

Come è stato detto prima, questi servizi sono stati istituiti per legge nel 1968, quindi, se ancora oggi oltre un quinto del territorio nazionale ne è sprovvisto, ciò non è certo da addebitare alle carenze della riforma del '78. Nonostante ciò, una seppur lenta crescita è avvenuta anche in questo settore: alla fine del '79 i servizi funzio­nanti erano oltre 500, mentre nei quattro anni successivi sono ulteriormente cresciuti del 17%.

Se è vero che anche qui oltre il 50% della loro distribuzione è ristretta fra il nord e il centro, il dato più saliente è fornito dall'eterogeneità del loro modo di funzionare: infatti solo il 5% di questi servizi opera anche durante la notte e nei giorni feriali, mentre la metà ha lo stesso orario di un ufficio postale e solo l'1% dispone di letti per brevi degenze.

Anche il personale sembra essere carente: se­condo il censimento del CENSIS gli operatori sono quasi 10.000, ma solo la metà vi lavora sta­bilmente e solo un quarto dei servizi ha al proprio interno una équipe multidisciplinare, mentre un quinto di essi funziona addirittura con una sola figura professionale (quasi sempre un medico che fa ambulatorio per qualche ora alla setti­mana).

Anche questi operatori provengono in gran parte dagli ospedali psichiatrici e questo ripro­pone un altro problema emerso in questi anni: quello delle assunzioni di nuovo personale. É vero che per molto tempo vigeva il blocco dei concorsi, ma è altrettanto vero che successiva­mente ad esso ben poche regioni e USL hanno approfittato delle deroghe, così come è succes­so, per esempio, in Emilia Romagna o in Tosca­na. Va detto tuttavia che anche quando questi concorsi sono stati banditi ben pochi hanno ri­guardato gli psicologi. Da anni sosteniamo l'im­portanza dell'interdisciplinarità come strumen­to di lavoro indispensabile per un servizio pub­blico, ma il rapporto psichiatri/psicologi è del tutto sfavorevole ai secondi ed è addirittura il più basso d'Europa.

A questo si deve aggiungere la tracotanza con la quale ancora oggi il potere medico si arroga il diritto di controllo assoluto dell'intero campo della salute mentale, come hanno inequivocabil­mente dimostrato le posizioni assunte nel corso del dibattito parlamentare sul problema degli psi­cologi e degli psicoterapeuti da parte dell'Ordi­ne dei medici e di alcuni rappresentanti degli psichiatri accademici e della Società italiana di psichiatria, schieratisi con la parte più retriva ed oscurantista dei controriformatori.

 

L'utenza

Se, pur con i limiti descritti, abbiamo qualche notizia sul numero e sulle tipologie dei servizi attivati prima e dopo la riforma, ben poco sappia­mo dell'altra faccia del problema: chi sono le persone che vi si rivolgono. Sono le stesse per­sone di vent'anni fa, hanno gli stessi bisogni o le forme della loro sofferenza si sono trasfor­mate? La domanda di servizi, di cura o di tutela è cambiata nella sua qualità e nella sua quantità? Rispondere a queste domande non è certo facile, soprattutto farlo in poco tempo, mi limiterò quin­di a qualche riflessione supportata dai dati di­sponibili.

Un primo punto riguarda il cambiamento in at­to nell'utenza che si rivolge ai servizi psichia­trici. In una gran parte del paese si può notare che l'età media dell'utenza sta diminuendo visto­samente: la classe d'età 14-24 è quasi ovunque assai più rappresentata di quella al di sopra dei 60 anni, nonostante la loro diversa distribuzione nella popolazione generale. Inoltre va segnalato un fenomeno che sembra interessare soprattut­to i servizi territoriali da più anni in attività: quello dello slittamento in alto delle classi so­ciali di provenienza di parte dell'utenza (13). Questo può significare che un servizio territoria­le quanto più è radicato nel tessuto sociale ove opera, tanto più diviene competitivo anche ri­spetto all'offerta di assistenza psichiatrica pri­vata.

Tuttavia, nonostante queste trasformazioni in corso, la maggioranza dell'utenza psichiatrica continua -ad essere identificata dalle già note ca­ratteristiche di classe: bassa tenore di vita, mi­nima scolarizzazione, difficoltà di inserimento sociale e lavorativo, Né si può ritenere che su­birà profondi cambiamenti nel breve termine, data la stabilità, se non la crescita, di questi fe­nomeni. Da un lato, infatti, il processo di scola­rizazzione appare in straordinario ritardo (a Ro­ma, ad esempio, più di 400.000 cittadini sono analfabeti o semianalfabeti); dall'altro la condi­zione di disoccupata sembra interessare sempre più i servizi psichiatrici, vista che tra i loro utenti questi sono tre volte più numerosi che nella popolazione generale. Ancora più allarman­ti sono i dati che provengono da recenti indagini in aree metropolitane inglesi. Se i divorziati, i separati ed i vedovi hanno una probabilità più che doppia di diventare utenti psichiatrici rispet­to ai coniugati, ciò vale più per le donne che per gli uomini: una donna su 5 soffre di disturbi de­pressivi tali da doversi rivolgere ad un servizio, mentre la percentuale sale al 40% se vive sola con dei figli a carico (14).

Il secondo punto riguarda l'offerta di «cura». Essa sta crescendo, in quest'ultimo periodo, sia come numero di servizi, che di operatori: fra il 1972 e il 1982 gli psichiatri sono infatti raddop­piati ed il loro numero, in rapporto alla popolazio­ne, è diventato uno dei più alti d'Europa supe­rando quello di paesi come l'Olanda, l'Inghilter­ra, la Spagna e la Francia. Ovvio quindi che se la crescita del numero di servizi pubblici è assai più lenta di quella degli psichiatri e degli psico­logi che l'università continua a sfornare senza alcuna programmazione, il risultato non può che essere quello di una crescita selvaggia ed incon­trollata di servizi privati: il numero dei centri di psicoterapia è infatti aumentato, nel periodo 82/86, del 150% (15). È logico dunque ritenere che questo assurdo incremento possa avere un pericoloso effetto di «induzione» di nuova do­manda di intervento psichiatrico e/o psicologico come risposta a problemi che ben poco hanno a che vedere con il disturba psichico.

A conferma di ciò può essere interpretato l'aumento dell'acquisto di psicofarmaci che è stato, negli ultimi cinque anni; del 27% (16); ma l'analisi del dettaglio ci può aiutare a com­prendere meglio il fenomeno: si vede; ad esem­pio, che ha riguardato soprattutto la categoria degli ansiolitici ed è stato quasi totalmente a carico del settore della medicina di base e delle farmacie e non a quello ospedaliero. Se a que­sto dato aggiungiamo che i massimi fruitori sono gli anziani e le donne, troviamo una indiretta con­ferma dell'ipotesi che il fenomeno di crescita sia trainato da un settore di popolazione che tende sempre più a ricercare soluzioni ai propri pro­blemi sociali e/o relazionali (disoccupazione, sot­to-occupazione, isolamento, mancanza di stimoli ed obiettivi, ecc.) attraverso l'opera, più facile e rassicurante, del silenziamento dei sintomi in­dotti dagli psicofarmaci.

Tuttavia l'aumento del consumo di questi è un indice troppo parziale e fragile per pretendere di essere una risposta esaustiva a supporto del­l'ipotesi di un incremento dell'incidenza di di­sturbi psichici nella nostra popolazione. Del re­sto è complicato perfino accordarsi sull'indivi­duazione di indici capaci di segnalare una ten­denza di questo genere. Uno fra questi, anch'es­so però discusso, è rappresentato dal tasso di suicidi e tentati suicidi.

Si tratta di un fenomeno allarmante: in Euro­pa si è registrata una crescita, tra il 1972 e l'84, del 42% fra gli uomini e del 36% fra le donne. In Italia quest'aumento, che è arrivato ad una frequenza di uno ogni due ore, si è dimostrato significativamente correlabile alla disoccupazio­ne, soprattutto nella popolazione in cerca di nuo­va occupazione (ad es. i cassaintegrati) (17). Po­tremmo quindi sostenere che il «trend» di cre­scita del fenomeno si accompagna ed evidenzia un malessere diffuso che, anche se non sempre è percepibile dalla rete dell'assistenza sanitaria e psichiatrica in particolare, può aiutare a svela­re fenomeni sociali altrimenti misconosciuti. A questo proposito, un indicatore ancora più sen­sibile è quello dei tentati suicidi: esso riguarda la popolazione più giovane, soprattutto fra le donne. Una recente ricerca compiuta in Olanda ha infatti messo in evidenza che il 70% di que­ste avevano subito violenza sessuale nella loro infanzia, dato questo che sarebbe emerso con notevole difficoltà da indagini psichiatriche o so­ciologiche (18).

Se quindi è difficile sostenere che la popola­zione che soffre di disturbi psichici sia in au­mento senza cadere in semplificazioni vistose, si­curamente però sappiamo che il servizio psichia­trico territoriale non può essere l'unico osserva­torio possibile e questo per almeno due motivi.

Innanzitutto perché esso tende, soprattutto nelle aree metropolitane, ad organizzare la pro­pria risposta di cura attraverso una selezione dell'utenza che rispecchia più le opzioni cultu­rali e professionali degli operatori, che non le richieste dell'utenza. L'esempio della trasforma­zione di questa rispetto alle classi d'età e a quelle sociali può esserne una conferma: una utenza più giovane, più ricca e magari con di­sturbi psichici meno gravi può più agevolmente esaudire il desiderio collettivo di chi cerca con­ferme al proprio bagaglio tecnico, più che met­tersi a disposizione qui ed ora di chi ha bisogno di lui.

Inoltre perché il servizio psichiatrico è un os­servatorio limitato in quanto, come hanno dimo­strato Goldberg e Huxley, solo il 10% della po­polazione che soffre di disturbi psichici arriva all'osservazione dello specialista (19).

Il problema si sposta quindi al di fuori dello specifico psichiatrico; anzi, a mio parere, si pone nell'esigenza di tutelare una parte di ciò che può emergere come nuova forma di disagio psichico proprio dalla sua invadenza. Ciò implica, tra l'al­tro, la rivalutazione del rapporto con la medicina di base nel senso di un aggiornamento delle co­noscenze e della preparazione del medico di fa­miglia, al quale si rivolge più del 50% della po­polazione con disturbi psichici, e di una maggio­re integrazione degli interventi a livello del di­stretto socio-sanitario.

 

Quali servizi, per quale cura?

Dalla breve analisi dei dati citati fino ad ora emerge un quadro della situazione che propone alcuni punti di riflessione:

1 - Il manicomio è ancora presente e non solo come realtà fantasmatica: di manicomio si può ancora morire. Molti cancelli sono stati chiusi, ma altri no: alcune leggi regionali permettono ancora di fatto i ricoveri paradossalmente quali­ficati come «sociali» o «riabilitativi». Ma ancor più presente e viva è la sua cultura, la sua ideo­logia. Penso a quanta manicomialità si respira in tanti servizi di diagnosi e cura, tra quei pa­zienti assiepati fin nelle corsie, dietro a porte pe­rennemente chiuse, annichiliti dai farmaci. Sa­rebbe tuttavia sbagliato pensare che sia necessa­riamente una cultura istituzionale: essa può in­vadere anche il nuovo lavoro territoriale, essere riassunta nel gesto violento ed arbitrario di un rapporto negato o in quello di un'indisponibilità ribadita.

2 - I servizi di diagnosi e cura, tranne alcune eccezioni, sono tuttavia una delle poche cose previste dalla riforma che sono state comunque messe in atto. È anch'essa, come abbiamo visto. una realtà contraddittoria: l'esperienza america­na ci dimostra che è proprio questo il settore che ha fatto naufragare il processo riformatore kennediano. Quando questi servizi non sono stati li­mitati e confinati ad un utile supporto per il la­voro territoriale, si sono infatti trasformati in un potente veicolo di supporto ideologico alle ten­denze neo-biologistiche più caricaturali.

3 - I servizi territoriali stanno quantitativamen­te crescendo. anche se con grande ritardo e lentezza. Tuttavia, quando questi non sono orga­nizzati all'interno dell'articolazione dipartimenta­le, ovvero quando non sono coordinati ed arric­chiti con le strutture intermedie, rischiano di ri­durre il proprio ruolo a quello di ambulatori mu­tualistici.

4 - Le strutture intermedie sono il vero tallone d'Achille dell'intero processo riformatore. In molte USL non ne esiste nemmeno una; quasi sempre sono viste dall'amministratore come «op­tionals» da rimandare ai tempi delle vacche gras­se. Al contrario hanno dimostrato di essere uno strumento indispensabile sia per una corretta po­litica di deistituzionaiizzazione. che per la pre­venzione di nuova lungo-assistenza.

La nostra proposta politica si è da sempre ispirata, come è noto, al rafforzamento delle in­dicazioni cui ora ho accennato. Nessun progres­so potrà esserci nella trasformazione della psi­chiatria se il suo zoccolo istituzionale non sarà definitivamente abbattuto, né nulla di definitiva­mente progressivo sarà realmente acquisito fino a che l'ultimo cittadino sarà ancora ricoverato in un manicomio. Lo sforzo che ancora rimane da compiere é quindi grandiosa: la riconversione del loro patrimonio ad un uso non psichiatrico non può infatti avvenire senza che ciascuna USL non si attrezzi delle strutture necessarie perché non si ricrei la necessità di «asilo».

Un'ulteriore condizione mi sembra sia tuttavia necessaria alla trasformazione: l'introduzione di metodologie valutative di ciò che si sta creando ed implementando. Se pensiamo che la nostra proposta politica sarà credibile solo se riuscirà ad essere convincente più ancora che vincente, ciò implica che non si tratta di favorire il preva­lere di una scuola di pensiero su un'altra, ma della nostra capacità di contribuire a conferire un senso etico a ciò che per secoli ha vissuto di soprusi e discriminazioni e quindi di assu­mere fino in fondo il punto di vista di chi deve usufruire di questo servizio.

Un fenomeno che non sempre é stato valutato sufficientemente. Gli anni precedenti alla riforma avevano visto il movimento degli psichiatrizzati come protagonista delle battaglie all'interno e all'esterno dei manicomi, a volte come contro­parte della classe medica e degli amministratori, altre come compagni di strada di chi criticamen­te, pur partendo da una posizione di potere ben diversa, lottava per una radicale trasformazione dell'ordine asilare. Ebbene, successivamente alla riforma, questo movimento ha perduto voce, co­me se la chiusura dei manicomi, saldando un ri­sarcimento storico, avesse esaurito ed esaudito ogni loro diritto. Contemporaneamente, invece, si è andato organizzando un altro movimento, che prima aveva vissuto solo brevi e limitate stagio­ni: quello dei familiari, una parte dei quali, al­meno da come questo fenomeno è stato de­scritto dai mass-media, si è schierata su posizio­ni, pur con sfumature e argomentazioni diverse, assai critiche della riforma, un'altra invece deci­samente a favore.

Tutto ciò può sembrare contraddittorio: nei paesi dove la psichiatria istituzionale è più forte e potente, come nel nord d'Europa, le associazio­ni degli psichiatrizzati sono più organizzate; men­tre da noi, dove parte di quelle rivendicazioni sono diventate norma di Stato, sono più presenti quelle di chi vorrebbe tornare indietro. In real­tà credo che si tratti di un fenomeno comprensi­bile e del tutto omologabile alla storia stessa delle trasformazioni che hanno attraversato que­sto campo. Voglio dire che la critica alla psichia­tria è quasi sempre stata un processo di sman­tellamento dall'interno, piuttosto che di proposi­zione. Ciò deriva dall'incertezza del suo stesso statuto scientifico, dalla vacuità delle sue risorse tecniche, diventa quindi difficile indicare una rotta progressiva, una direzione di marcia sicura senza correre il rischio di riproporre nuove fal­se certezze.

Tuttavia ciò può anche costituire un nuovo alibi per non crescere, per non volere consolidare ciò che é stato sperimentato con successo. Di qui un nodo centrale dell'intera questione: o il proces­so di trasformazione conquisterà nuovi e defini­tivi spazi o correrà il rischio di una sostanziale razionalizzazione. Si pone, in altre parole, il pro­blema di valutare e far conoscere ciò che sì è fatto e che si può fare e quali debbano essere le condizioni indispensabili in termini di risorse or­ganizzative e di sostegno finanziario.

Esistono decine di tipologie di servizi psichia­trici; questi funzionano secondo modalità ed or­ganizzazione talmente diverse fra loro che è im­pensabile che possano produrre effetti analoghi sulla popolazione che assistono. Un servizio che funziona 24 ore al giorno e si prende carico di tutte le persone che vi si rivolgono, è forse la stessa cosa di un ambulatorio dove si accede solo per appuntamento stabilito da un'équipe di accoglimento? Credo che nessuno lo pensi, ep­pure in ambedue i casi si tratta di un servizio territoriale pubblico. È giusto a tollerabile che un cittadino, solo perché abita a Roma o a Trapani invece che a Trieste o a Perugia, abbia in sorte un trattamento talmente diverso e che quindi possa stare meglio o peggio solo a seconda del­la sua residenza?

Una caratteristica sembra infatti accomunare la psichiatria asilare a quella riformata: l'indispo­nibilità, o la resistenza, a sottoporre ciò che si fa - prevenzione, assistenza, cura, riabilita­zione - ad una valutazione dell'efficacia e ad una verifica dei risultati ipotizzati rispetto a quel­li attenuti. Non voglio qui certo sottovalutare od ignorare le difficoltà teoriche e metodologiche che questo processo comporta. Ma se ancor aggi viene proposta la riapertura dei manicomi, è an­che perché la salute mentale rischia di conti­nuare ad essere una «terra di nessuno», dove tutto sembra possibile, dove la più brutale delle contenzioni convive con la più raffinata delle psi­coterapie o dove una scassa elettrica è assunta a cura quanto il più coinvolgente e complesso progetto terapeutico.

Tutto ciò è oggi superato dai fatti: una grande quantità di esperienze, non solo italiane, indica­no che la scelta compiuta nel nostra paese è sa­stanzialmente positiva. Cominciamo a sapere quali servizi funzionano meglio di altri; così co­me sappiamo che il superamento del manicomio trova la sua legittimazione anche sul piano scien­tifico come garanzia per fa prevenzione seconda­ria di forme cliniche che altrimenti tenderebbero alla cronicizzazione. Così come abbiamo accu­mulata notevolissime esperienze che ci inse­gnano che una corretta attività di integrazione scolastica può prevenire nel bambino l'innestar­si di disturbi psichici ancora più gravi dell'handi­cap di partenza a come gestire tempestivamente una «crisi» senza attendere che essa esploda nella sua forma più acuta, e così via... La caren­za, quindi, non è tanto nelle nostre conoscenze, quanto nella nostra capacità di trovare le moda­lità giuste per comunicare e diffondere con più efficacia il nuovo sapere che stiamo accumulan­do e di datarsi di strumenti e di metodologie ade­guate alla validazione di ciò che quotidianamente si sperimenta e conosce.

La valutazione della qualità dell'intervento e dei suoi effetti potrebbe quindi delinearsi come un'area strategicamente comune ai diversi inte­ressi in gioco:

a) dell'utenza, che potrebbe considerarla come un nuovo strumento per ottenere ciò di cui ha diritto nella sua forma migliore. Ciò comporte­rebbe, a mio parere, una maturazione di portata storica nel rapporto fra servizio sanitario e suoi utilizzatori: si passerebbe da ciò che ha lunga­mente caratterizzato le esperienze associative dell'utenza, e cioè un atteggiamento «difensivi­stico» e rivendicativo del diritto al risarcimento di un danno subito, a quello di protagonisti ed interlocutori dell'organizzazione stessa della sa­nità pubblica. Le recenti esperienze sulla presen­za obbligatoria e paritetica di utenti ed operatori nelle commissioni tecniche di valutazione dei protocolli terapeutici in alcuni ospedali generali americani indicano un grande futura per questa proposta;

b) degli amministratori, che potrebbero final­mente essere guidati con più chiarezza nell'as­sunzione delle decisioni organizzative attraverso una più attenta analisi dei costi e dei benefici;

c) degli operatori, che potrebbero più facil­mente abbandonare quel rigido difensivismo dell'appartenenza al filone culturale della loro forma­zione, che ha, a volte, viziato l'efficacia stessa delle loro prestazioni terapeutiche.

Perché tuttavia, tutto ciò possa maturarsi e concretizzarsi in un futuro non lontano, occorre che almeno due tendenze, oggi in atto, si inver­tano:

A - La politica della ricerca che in questi ulti­mi anni ha subito una vistosa involuzione. I pro­getti finalizzati del CNR avevano individuato nel servizio territoriale il luogo ove impiegare risor­se finanziarie ed umane per non separare il mo­mento assistenziale e terapeutico da quello del­la valutazione e della ricerca; ora questa tenden­za sembra invertirsi tornando ad identificare la Università come unica interlocutore fruitore di investimenti economici. Ciò ha comportato che le scelte delle priorità si spostassero verso temi lontani da quelli di interesse di un servizio pub­blico. Del resta anche le regioni non hanno adat­tato linee di erogazione di questi fondi molto diverse da quelle privilegiate dal CNR. Va anche rilevato che una delle difficoltà maggiori ad in­vertire questa tendenza sta nella totale inade­guatezza e disinteresse di molte delle strutture del Servizio sanitario nazionale a recepire e a condividere questa esigenza.

B - il rapporto fra cliniche universitarie e ser­vizi psichiatrici è stato più spesso caratterizzato dalle mire espansionistiche dell'accademia e dalle controreazioni autarchiche dei servizi pub­blici, che dall'esigenza di un confronto sia sulle attività di ricerca, che sulle esigenze di forma­zione e di pratiche terapeutiche. La possibilità che questa anacronistica dicotomia lasci lo spa­zio ad una corretta integrazione è dimostrata da alcune esperienze nazionali; questa tendenza, se generalizzata all'intero territorio nazionale, potrà anche costituire un importante precedente in vista della prossima apertura delle nuove scuo­le di specializzazione in psicoterapia, che altri­menti riproporrebbero il problema in termini an­cora più accentuati.

 

Conclusioni: dalla psichiatria alla salute mentale?

Da ciò che ho tentato di illustrare finora, ri­sulta chiaro, almeno lo spero, che la posizione del nostro partito riguardo al dibattito sulla riforma, sia all'interno del Parlamento che al suo esterno, non possa che essere coerente con quelle assunte fino ad ora. La relazione di Bene­velli e della Gelli chiarirà assai meglio questa punto, ma ciò che vorrei ora sottolineare, anche alla luce di quanto detto sopra, è che la riforma può essere solo il primo passo versa un più definitivo affrancamento dell'apparato psichiatri­co dalle catene secolari che ne hanno finora vin­colato il progresso scientifico; quindi ogni cam­biamento del dettato normativo comporterebbe un ritardo ed un rinvio insopportabile per chi, anche fuori dal paese, sta lavorando perché que­sta trasformazione sia portata avanti. La nostra richiesta di inserire l'intera questione in un ap­posito progetto obiettivo congruamente finanzia­to, è, a mio parere, la proposta più concreta e coerente.

Dovendo quindi riassumere le priorità conte­nute nella nostra proposta politica per il rilancio delle iniziative per una seconda fase della ri­forma, preporrei alla discussione qualche punto a mio parere qualificante:

1) l'approvazione di piani regionali triennali per la completa e definitiva riconversione dei mani­comi e la loro destinazione ad uso non psichia­trico;

2) l'approvazione e il finanziamento di un pro­getto obiettivo che preveda la razionalizzazione e l'equilibrio delle risorse di servizi e personale in tutte le USL attraverso l'attivazione di un dipar­timento di salute mentale funzionante 24 ore su 24 tutti i giorni dell'anno, secondo modalità e tipologie organizzative che ogni USL deve avere l'obbligo di individuare;

3) la richiesta che cessi la discriminazione nei confronti di figure professionali non mediche riguardo ruolo, responsabilità professionale e coordinamento dipartimentale:

4) la richiesta di introdurre nel contratto di lavoro a tempo piena per tutte le figure profes­sionali più ampie e precise garanzie per il diritto all'aggiornamento e al diritto/dovere di esercita­re attività di ricerca all'interno dei compiti e dell'orario retribuito;

5) la richiesta che una maggior importanza (in termini di punteggio assegnato) venga conferita ai titoli scientifici del curriculum in sede di con­corso pubblico del SSN;

6) la richiesta che una parte dei fondi sia del CNR che di quelli regionali per la ricerca scientifica siano vincolati alla ricerca finalizzata nei servizi psichiatrici;

7) la richiesta che, a livello regionale, si for­mino commissioni paritetiche di tecnici e rappre­sentanti dell'utenza (e non solo dei loro familia­ri), in stretto collegamento con l'amministrazio­ne locale e la magistratura, con un ruolo non consultivo, ma di controllo e verifica della qua­lità dell'assistenza erogata dai servizi pubblici e privati.

Questi punti non pretendono di essere esau­stivi dell'intera problematica, ma essere solo un contributo al dibattito per formulare una bozza della carta di raccomandazioni che sarà discussa domenica mattina.

Avvicinandomi quindi a concludere questa rela­zione, varrei tornare a riferirmi al titolo generale di questa iniziativa. Dire «dalla psichiatria alla salute mentale» significa presumere che si stia verificando un ridimensionamento di almeno una parte dell'apparato istituzionale psichiatrico; ma significa anche prevedere una maturazione della assunzione politica delle implicazioni sociali ed economiche dell'intero settore della salute men­tale nella nostra società.

Se affidassimo questa previsione alla lettura dei messaggi con i quali giornali e televisione stanno bombardando l'opinione pubblica, si do­vrebbe concludere che si tratta di una presunzio­ne scriteriata. Mai come in questo momento sem­bra essere incalzante ed ossessiva la ricerca di riparo dalle difficoltà individuali, attraverso la seduzione delle semplificazioni dei conflitti quo­tidiani in malformazioni cromosomiche o neuro­cellulari. Mai come in questo periodo le multina­zionali farmaceutiche stanno investendo capitali ingenti in congressi, ricerche, centri studi per portare evidenze empiriche e riconoscimenti a tesi che tendono a ridurre un progetto terapeu­tico ad una batteria di tests biologici o alla sem­plice somministrazione farmacologica e forse, in futuro, alla manipolazione genetica. Mai come in questo periodo così poca attenzione é stata de­dicata da parte dei mass-media agli effetti tossici di questi stessi farmaci, alla loro debole e con­traddittoria risposta terapeutica, all'irreversibili­tà dei loro effetti collaterali o alle più recenti ipotesi iatrogene come, ad esempio, quella di­fesa dallo psicofarmacologo inglese Malcolm Peat, dell'alta correlazione fra alti e prolungati dosaggi di psicofarmaci maggiori ed insorgenza di una forma di «psicosi tardiva».

Quel titolo è quindi solo una romantica illu­sione? Non lo credo affatto. Ho l'impressione che tutto ciò sia piuttosto un disperato tentativo di eclissare un'evidenza ormai inconfutabile. Con­statare qui la crisi del modello di sviluppo occi­dentale potrebbe essere banale e ripetitivo, qua­si quanto quella del degrado ambientale delle nostre città, se non ci aiutasse a cogliere un pa­radosso comune alla nostra esperienza quotidia­na. Discutere della fine delle mucche norvegesi dopo Chernobyl o delle migliaia di bambini morti

a Città del Messico per inquinamento atmosfe­rico è sicuramente più tollerabile che parlare di un degrado che conosciamo assai meglio: quello che mina le relazioni, la produzione intellettuale, la felicità di molti di noi. Come se l'esperienza del calo di solidarietà, di tensione collettiva, di simpatia (nel suo senso etimologico) sia, ad un tempo, vissuta collettivamente e rimossa indivi­dualmente, come una consapevolezza indesidera­ta, come una verità incomprimibile e destabiliz­zante. Le migliaia di atti di violenza che i bambini subiscono ogni anno sono solo la parte più me­schina del «costo sociale» pagato per il man­tenimento dell'omeostasi della nostra stessa con­vivenza.

Salute mentale implica quindi normalità e non più solo patologia presunta. Ma sarà ancora la psichiatria a volersene far carico codificando gli atti della nostra esistenza quotidiana per ricavar­ne nuova legittimazione sociale? Sarà invece ca­pace di imporsi i limiti delle sue stesse cono­scenze teoriche e delle sue capacità operative o cederà alla seduzione di sfuggire a questo giu­dizio invadendo terreni ad essa finora estranei?

Nuove domande dunque che lasciano ed in­nescano nuove inquietudini, né potrebbe essere che così. Forse il senso di questo convegno va ricercato proprio qui, nella voglia di tornare ad incontrarsi, a parlarne, ad interrogarci su dove ci ha condotto quell'impresa, cominciata vent'anni fa, e dove ci porterà fuori e lontano dalle sbarre dei manicomi, dentro le mille finestre illuminate delle nostre vite.

 

 

 

(*) Relazione tenuta al Convegno nazionale del PCI «Dalla psichiatria alla salute mentale», svoltosi a Roma dal 3 al 5 aprile 1987.

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