PAOLO CREPET (*)
È trascorso quasi un ventennio da
quando la Direzione del PCI, allora in collaborazione con l'istituto Gramsci, organizzò un convegno nazionale intorno a questi
temi. Più che un ventennio, da allora è trascorsa un'epoca di cui tutti noi avvertiamo
l'enorme responsabilità, non solo per la riforma conquistata o per il
patrimonio culturale e di esperienze che mezzo mondo
ha guardato e guarda con grande interesse, ma per l'eredità dell'incancellabile
insegnamento di chi ha aperto, costruito e difeso questo lungo cammino e che
oggi non può più essere con noi.
La citazione di quel convegno diventa obbligatoria
non certo quindi per completezza bibliografica o per formalismo
storico-politico, ma perché rappresentò il prima
momento di confronto fra le esperienze del movimento democratico di
trasformazione della psichiatria istituzionale. con
quelle del movimento operaio e con quanto allora emergeva dalla discussione
all'interno del partito, che rese possibile gran parte della storia che
abbiamo trascorso, le difficoltà che ne avevano accompagnato la fase
preparatoria erano scaturite, infatti, non tanta da un ineludibile
contrasto prodotto dal confluire di culture ed ideologie a volte lontane, quanto
piuttosto dal portato radicalmente riformatore delle esperienze nate in quegli
anni, che avevano reso ineluttabile ed irreversibile ciò che Sergio Piro ha identificato come «crisi paradigmatica»
dell'intero corpo psichiatrico, ovvero del suo apparato istituzionale,
culturale e scientifico (1).
Questa crisi non era tuttavia maturata sola nella
psichiatria italiana, ma era già stata «annunciata», fin dall'immediato
dopoguerra anche se solo parzialmente e contraddittoriamente, da alcune
esperienze nordamericane, inglesi e francesi. Si potrebbe sostenere anzi che
la nostra esperienza, almeno nel suo esordio, si sia fondata sulla traduzione
e riformulazione di proposte che erano state importate da quel contesto internazionale. Questo raffronto ci permette oggi,
come vedremo oltre, di valutare ed apprezzare la
«anomalia» della nostra esperienza, fornendoci elementi utili
alla comprensione della trasformazione in corso, tanto più quanto si
interpreti questa atipicità anche come contraddizione interna
all'organizzazione stessa della psichiatria italiana. Non ha qui il tempo per
indulgere troppo su questo punto, al quale del resto abbiamo dedicata
l'intera sezione di lavoro di questo pomeriggio, tuttavia vorrei proporre una
riflessione.
Se rileggiamo oggi i contributi al dibattito del
convegno del 1969, un punta mi sembra emergere con
insistenza: l'esigenza di valutare e prevedere l'impatto sul macrocosmo
sociale di ciò che l'esperienza basagliana stava
enucleando ed enunciando partendo dal microcosmo manicomiale. In altre parole
si trattava allora di capire quanto dell'esperienza anti-istituzionale
fosse trasferibile a generalizzabile al l'organizzazione sociale, quindi alla sfera politica; quanto di ciò che allora
passava attraverso il rovesciamento della logica della «funzionalità
istituzionale», potesse indurre un'analoga messa in crisi della «funzionalità
sociale» come strumento primo del controllo sociale (2).
Ho l'impressione che parte di quel dibattito si sia, in questi anni, stemperato e svuotato senza che a
questi interrogativi sia stata data ancora risposta. Credo, infatti, che la
ricerca dell'accezione di aspecificità,
pur all'interno di un settore fortemente specialistico, non umilii
affatto quest'ultimo, né, sia sinonimo di fuga in un
consolante genericismo, ma, al contrario, tenda ad
accreditarne un significato più universale, direi etico.
Forse alla base di questa rimozione collettiva sta
anche la difficoltà di comprensione e di identificazione
del problema- Come se i margini della contraddizione, allora più netti e
vividi, si fossero progressivamente sfumati. fino al
punto che, per dirla con Franco Fortini, «la differenza fra i fuori legge dello
scorso secolo... che si infrangevano contro la società e quelli del nostro
tempo, fenomeno minoritario ma imponente, è stata anche nella capacità
eccezionale che la società ha dimostrato, di riceverlo ed assorbirlo, di incasellarlo.
Non sto parlando dei cunicoli scavati e delle generose mine introdotte per far
saltare le cosiddette "istituzioni totali", ma semmai di come una immagine sempre meno barbarica o magica a, se vogliamo,
sempre più razionale e magari solidaristica del
malato mentale, del deviante e del marginale, conviva con forme abiette di
razzismo, misoneismo, irrazionalismo, spesso negli stessi soggetti o nelle
loro immediate vicinanze» (3).
Di qui uno dei motivi principali
che hanno guidato e sostenuto la decisione di organizzare questo convegno. La necessità di rileggere, anche criticamente, la
storia recente del movimento riformatore della psichiatria nel nostro paese,
per comprenderne in pieno la portata trasformatrice, ma anche i motivi delle
omissioni, delle carenze e delle incertezze che hanno
limitato la sua traduzione operativa. Così come oggi dobbiamo avere la forza,
partendo proprio da questo bilancio, di indicare le linee di tendenza culturali
ed organizzative, teoriche e pratiche che investiranno questo settore negli
anni a venire. In altre parole avere la consapevolezza ed il coraggio di
proporre e progettare una seconda fase della riforma, dalla quale possa emergere un disegno capace di contenere, arricchendolo
e maturandolo, ciò che le esperienze acquisite hanno dimostrato in questi
anni e di integrare quei saperi e quelle conoscenze che, pur con radici e provenienze
lontane, sono stati in grado di piegarli alla funzione etica e alle esigenze
organizzative che devono contraddistinguere un servizio sanitario pubblico.
Questo convegno vuole essere quindi il luogo di incontro e di confronto fra i protagonisti di questa
grande impresa e l'occasione per un rilancio culturale e politico della
riforma e del suo patrimonio di idee e di esperienze.
Le riforme e la situazione attuale
Il terreno riformatore é un altro
elemento di continuità con il dibattito della fine degli anni '60. Un tema che lo animò e che trovò
eco anche nel convegno del '69, fu rappresentato da quello che Agostino Pirella chiamava «l'illusione legislativa». Se da
un lato, infatti, si avvertiva profondamente l'esigenza di uno svecchiamento
delle norme ottocentesche che regolavano la psichiatria
nel nostro paese, dall'altro si temeva che ciò potesse essere riassorbito e
ricondotto ad una razionalizzazione tutta interna all'assetto istituzionale,
come andavano richiedendo ampi settori dell'accademia, i rappresentanti
sindacali degli psichiatri manicomiali ed i padroni delle case di cura private
(4).
Il dibattito intorno all'opportunità di un «new deal»
per la psichiatria italiana durava, infatti, già da quasi un ventennio, da
quando cioè, nel 1952, l'on.
Ceravolo aveva presentato in Parlamento la prima
proposta di riforma; ma neppure l'approvazione della legge-stralcio del '68 contribuì
alla soluzione di questa contraddizione. Essa, infatti, pur costituendo un
passo avanti, riconosciuto da tutti, sia dal punto di vista dei regolamenti
interni degli ospedali psichiatrici ammettendo il ricovero volontario, sia per
aver avviato l'era dell'assistenza extra-murale attraverso l'istituzione dei
servizi territoriali, non coglieva un'esigenza già maturata nel settore più
avanzato del dibattito psichiatrico: quella del superamento di una normativa
speciale per la psichiatria, ovvero l'abolizione
della legge del 1904, che la riforma Mariotti
fasciava invece inalterata.
Rivisto oggi, tale dibattito mantiene una buona parte
di interesse e d'attualità. Innanzitutto
va ricordato che la legislazione speciale è tuttora in vigore nella stragrande
maggioranza dei paesi occidentali e rappresenta uno dei punti «caldi» delle
lotte che le associazioni degli psichiatrizzati
stanno compiendo nei confronti delle autorità statali, soprattutto nei paesi
nordeuropei e nordamericani. In secondo luogo perché anche da noi, nonostante
che la legge 180 sia stata inserita nella riforma sanitaria, molte regioni hanno successivamente adottato leggi «speciali» snaturando la
scelta compiuta nel 1978.
Anche per quanto riguarda «l'illusione legislativa»
dovremmo riprendere ed aggiornare alcuni punti della discussione di allora.
Dopo la riforma del '78, sembra infatti essersi
innescata una corsa di emulazione fra assessorati, consigli regionali o
comunali, comitati di gestione, gruppi di esperti, partiti e rappresentanti
sindacali: tutti sembrano essersi trasformati in ostinati legulei con il
risultato di creare una pletora di provvedimenti e regolamenti minuziosissimi,
ma che sono rimasti quasi ovunque inapplicati. Anzi
si ha l'impressione che viga una forma di compenso riparativo secondo la quale tanto meno si è governato ed
amministrato, tanto più le leggi o i regolamenti sono meticolosi fino quasi all'ossessione.
In fin dei conti è una
storia che tende a ripetersi: da sempre le leggi in psichiatria si approvano
senza che quelle che le hanno precedute siano state applicate. È successo con
(a legge del 1904 e con il regio decreto del '19, si è ripetuto con quella del
'68 ed ora sta accadendo la stessa cosa con la 833 e le leggi regionali. Tuttavia,
che la verifica della bontà dell'assistenza psichiatrica non si basi solo su
quella dei suoi regolamenti, è realtà comune a contesti
sociali e politici anche lontani dal nostro; per tutti i commenti possibili
potrebbe bastare quello di un ex-paziente psichiatrico, ora consigliere comunale
a Toronto: «quando ti trovi rannicchiato in un copertone di una discarica alle
3 della mattina con 30 cents in tasca, non credo che
ti interessi molto di quello che dice la legge psichiatrica dei tuoi diritti».
Sgravata da ogni investimento taumaturgico, la
riforma del '78 resta comunque come il caposaldo
irrinunciabile per qualsiasi sforzo di trasformazione dell'assistenza
psichiatrica nel nostro paese. Ad essa mi riferirò
quindi per tentare un bilancio dei nove anni della sua applicazione e per
individuare, partendo da questo, prossimi sviluppi e priorità da affrontare.
Per esigenze di sintesi, suddividerò la descrizione
della situazione attuale in alcune aree problematiche.
Manicomi e dintorni
Sappiamo che la situazione ereditata dalla legge del
1904 era, ancora alla fine degli anni '70, drammaticamente eterogenea: un terzo
del territorio nazionale non aveva servizi psichiatrici di alcun
tipo, nemmeno manicomi, mentre oltre il 20% era assistito solo da quelli
privati (5).
Nonostante queste enormi carenze,
la popolazione ricoverata negli ospedali psichiatrici pubblici ha subito,
come noto, un calo considerevole già a partire dalla metà degli anni '60. Se
prendiamo infatti il periodo di tempo compreso fra
gli otto anni precedenti la riforma del '78 e quelli ad essa successivi,
possiamo notare che il calo percentuale è, in entrambi i casi, assai cospicuo:
fra il 1971 e il 1978 è stato del 33%, contro il 44% del periodo 1979-86. Va
detto inoltre che la diminuzione, in alcune regioni, negli ultimi anni è stata
addirittura maggiore, come nel Lazio dove le presenze sono calate del 56%.
Tuttavia questo dato non coincide necessariamente
con il tasso di deospedalizzazione e tanto mano con quello di deistituzionalizzazione.
Nel primo caso infatti ad esso va sottratta la percentuale
relativa alla mortalità intra-istituzionale che,
essendo valutabile intorno al 3% annuo (6), ridimensiona l'entità del calo a
circa il 7% nel primo periodo ed al 10% nel secondo.
Nel secondo caso, data la carenza
di dati, è pressoché impossibile sia emettere un giudizio definitivo sul
destino dei dimessi dagli ospedali psichiatrici, sia affermare che esso non sia
coinciso con l'internamento di una parte di questi in altri istituti di
ricovero. Le poche ricerche disponibili ci offrono infatti
un quadro assai contraddittorio. Nell'area veneziana, il 34% dei dimessi si
trovavano, a due anni di distanza, ricoverati in case di riposo e solo il 13%
ha un'occupazione remunerativa (7), mentre il tasso di
mortalità è risultato essere tre volte superiore a quello intra-istituzionale,
dato sostanzialmente identico a quello rilevato da un'analoga indagine in corso
nel Lazio (8). Nel Piemonte la situazione sembra essere decisamente
migliore visto che l'83% dei dimessi risiede ora in comunità terapeutiche o in
case famiglia (9).
L'impressione che se ne può ricavare è che, accanto a
situazioni esemplari come Trieste, Pordenone, Arezzo, Torino e poche altre,
convivano nel paese realtà di internamento ancora
massiccio come è il caso emblematico della casa di riposo «Cardinal Maffi» a Cecina o quello di alcune realtà del meridione, come la Provincia di
Catania.
Non sempre siamo riusciti ad opporci a questo degrado,
né, a volte, nemmeno a denunciarlo. Così come dobbiamo oggi rimarcare, con
altrettanta schiettezza, il grave calo di tensione nell'opera di critica a
quelle realtà di nuova reclusione ed internamento che non riguardano
solo chi è stato dimesso da un manicomio, ma anche gli anziani, gli
handicappati o i bambini. A Roma, ad esempio, più di 1500 bambini sono ancora
ricoverati, a vario titolo, nei brefotrofi; ma quanti altri va
ne sona ancora nel paese ed in quali condizioni? Quanti vecchi vivono in ospizi
indecenti? Quale sorte incontra chi ha un handicap invalidante?
Questa non è certo una parte d'Italia che sta cambiando, ma quale forza
politica, se non la nostra, dovrebbe gridare a questo scandalo indegno di un
paese civile e democratico?
Un'ultima considerazione vorrei
aggiungere a questo punto. Nonostante il calo di cui
abbiamo detto, poco meno di 50.000 cittadini sono ancora ricoverati nei
manicomi pubblici e privati. La televisione ed alcuni quotidiani si sono
recentemente interessati di casi assurti alla cronaca
nazionale: il manicomio di Cagliari dove un paziente è morto mangiato dai
topi, quello di Reggio Calabria dove chi vi è internato non ha nemmeno le
scarpe, quello di Roma dove le pensioni dei quasi 700 ricoverati sono state più
volte saccheggiate o quello di Imola dove un magistrato vuole interdire tutti
gli internati. Questo elenco potrebbe diventare lunghissimo se volessi ricordare
tutti i soprusi, le morti colpose, le rapine che da sempre vengono
perpetuate ai danni di chi è ricoverato in un ospedale psichiatrico. D'altra parte non possiamo affermare che la situazione,
negli anni successivi alla riforma, sia migliorata: paradossalmente molti
amministratori hanno interpretato la legge come una sorta di «mandato di estinzione»
dei ricoverati. Realtà come quella del manicomio di Pesaro, dove 200 persone
sono ricoverate in un ex-convento, fatiscente e maleodorante, senza nemmeno i
termosifoni per riscaldarsi, sarebbero altrimenti difficilmente spiegabili.
Di chi, dunque, la responsabilità di questo spaventoso
degrado, solo del pentapartito od è anche in parte nostra, visto che il nostro
partito governa o comunque è presente nei comitati di
gestione delle USL e nei consigli regionali?
Ogni anno si spendono circa 1.200 miliardi per
mantenere i manicomi pubblici e 1.800 per quelli
privati, mentre una struttura intermedia costa un terzo e consente
un'assistenza impensabile nei corridoi desolati dei cento manicomi italiani. É
dunque solo un problema di scarse risorse finanziarie o piuttosto anche di
volontà di governo della riforma?
Prendiamo per ultimo l'esempio della mobilità:
quante persone lavorano ancora nei manicomi? A
sentire il parere dei direttori sembrerebbe che non vi sia più nessuno, ma
quasi ovunque, al contrario, ve ne sono ancora di più di quelli previsti dalla
legge ospedaliera del '68 che indicava un rapporto ottimale
di un infermiere ogni tre ricoverati: negli ospedali della Sardegna gli
infermieri sono quasi il doppio dei pazienti. Che ruolo hanno
giocato i sindacati nel rendere possibile questa situazione? Quanto spesso
ragioni di comodità o di convenienza rispetto al lavoro territoriale o, peggio
ancora, di necessità di copertura di realtà di doppio lavoro
hanno sovrastato l'obbligo di concedere un futuro dignitoso a chi ancora è
internato?
Credo che nella terza sezione di lavoro del convegno troveremo lo spazio per affrontare anche
questo, che é un punto chiave per la credibilità della nostra proposta
politica.
I servizi psichiatrici negli ospedali generali
Sebbene siano stati formalmente
previsti per legge solo dalla riforma del '78, il rapporto fra psichiatria ed
ospedali generali data anch'esso da molti anni. Nato come alternativa
all'espansione degli ospedali psichiatrici olandesi nell'esperienza di Querido ad Amsterdam nel 1936 (10), dopo la fine della
guerra, si è sviluppato soprattutto in Gran Bretagna ed in Scandinavia.
Da noi se ne parlava già all'inizio degli anni '60, tanto che Basaglia ne aveva previsto l'uso
nella sua relazione alla «Commissione di studio per l'aggiornamento delle
vigenti norme sulle costruzioni ospedaliere» che avrebbe in seguìto formulato il testo della legge del 1968.
Nonostante la nostra esperienza non sia quindi così recente,
il numero di posti-letto rimane uno dei più bassi d'Europa, superati in
negativo solo dalla Grecia e dall'Irlanda, e copre solo il 6% dell'intero
patrimonio ospedaliero psichiatrico, così come avviene solo in Gran Bretagna
ed in Grecia (11).
Un'indagine condotta dal CENSIS per conto del
Ministero della sanità che ha avuto solo recentemente il nulla osta per essere
pubblicata, ha censito 236 servizi di diagnosi e cura (12), indicando una
crescita, nel periodo 1980-84, del 23,3%. Tuttavia la distribuzione di questi
servizi è avvenuta in modo estremamente eterogeneo:
oltre la metà è infatti dislocata nel nord e l'85% di questi reparti opera in
luoghi non idonei per spazio o per collocamento: il caso più clamoroso è quello
della situazione romana con soli 45 posti letto per una popolazione di 4
milioni di cittadini. Da quasi nove anni, infatti, la regione Lazio non ha aperto un solo servizio in più rispetto a quelli decisi
all'indomani della riforma, anche se questi sono stati ampiamente previsti
dalla legge regionale sulla psichiatria del 1984 e dal successivo piano
particolareggiato; ma è forse un caso che questo accada nella città che da sola
assorbe oltre il 50% dei posti-letto delle case di cura private?
Le difficoltà, che ne hanno vincolato la crescita e
la distribuzione, questa volta non sembrano siano collegabili al problema dei
costi o della mancanza di personale, visto che questi
servizi costano molto meno dei manicomi e che vi lavorano in media due
operatori per ogni ricoverato; ciò che non ha funzionato sembra piuttosto da doversi
ricercare nello scollegamento fra questi servizi e quelli territoriali (solo un
terzo di questi ha rapporti con il servizio territoriale competente per quel
determinato paziente), tanto da farli diventare i luoghi più adatti per una
riedizione di una psichiatria medicalizzata, ove il
ricovero diviene l'unica forma di trattamento ed il farmaco il solo strumento.
I dati sul personale confermano questa
interpretazione: gli operatori sono quasi esclusivamente medici ed infermieri,
il 77% dei quali proviene dagli ospedali psichiatrici.
Un dato rassicurante ci viene invece dall'analisi
dei ricoveri. La durata media sembra essersi attestata intorno ai 12 giorni, ovvero sensibilmente più alta di quella verificatasi nel
periodo immediatamente successivo alla riforma, che era di poco superiore agli
otto giorni. Questo potrebbe significare che, da un
lato è diminuito il fenomeno dell'allontanamento immediatamente dopo il ricovero,
dall'altro che si tende a ricoverare solo persone che abbiano effettivamente
necessità di intervento.
Ciò dovrebbe far riflettere chiunque voglia apportare modifiche alla legge in questo punto, come
fa la proposta governativa. Va detto tuttavia che in quasi tutti questi
servizi la porta è stata «chiusa„ (di qui un'altra interpretazione della
diminuzione delle «fughe») rendendone così assai improbabile l'integrazione con
gli altri reparti di medicina, così come era nelle
intenzioni della riforma. Questo progressivo isolamento della psichiatria dalla
medicina non può che favorire il ritorno di un clima custodialistico
e repressivo, testimoniato dalla ripresa dell'uso dell'elettroshock in non
pochi servizi.
Tuttavia la necessità di un più stretto rapporto fra
medicina e psichiatria non ipotizzava solo un
riavvicinamento di una branca sanitaria, da sempre ghettizzata, al grembo
materno della clinica, né si trattava di omologare una pratica terapeutica
anomala e confinata; si trattava invece di portare a maturazione il processo di
travaglio critico che aveva investito anche la medicina sia nel suo apparato
istituzionale, che culturale e ideologico.
L'ospedale generale era ed è il terreno ove il
conflitto tra le tendenze ad un arroccamento istituzionale che propone
l'identificazione dell'atto terapeutico con l'attività clinico-diagnostica
e quelle che prospettano al servizio sanitario un compito più complesso ed
integrato fra prevenzione, cura e riabilitazione affidato
ad una varietà di servizi sanitari e sociali all'interno dei quali l'ospedale
generale può trovare un ruolo complementare e non centrale. Se quindi questo
conflitto si è spesso risolto a sfavore delle esperienze di trasformazione,
ciò è dovuto anche all'incapacità della psichiatria
riformata a rappresentare un modello culturalmente, oltre che operativamente,
pienamente alternativo a quello clinico-ospedaliero.
I servizi territoriali
Come è stato detto prima, questi servizi sono stati
istituiti per legge nel 1968, quindi, se ancora oggi oltre un quinto del
territorio nazionale ne è sprovvisto, ciò non è certo da addebitare alle
carenze della riforma del '78. Nonostante ciò, una
seppur lenta crescita è avvenuta anche in questo settore: alla fine del '79 i
servizi funzionanti erano oltre 500, mentre nei quattro anni successivi sono
ulteriormente cresciuti del 17%.
Se è vero che anche qui oltre il 50% della loro
distribuzione è ristretta fra il nord e il centro, il dato più
saliente è fornito dall'eterogeneità del loro modo di funzionare:
infatti solo il 5% di questi servizi opera anche durante la notte e nei giorni
feriali, mentre la metà ha lo stesso orario di un ufficio postale e solo l'1%
dispone di letti per brevi degenze.
Anche il personale sembra essere carente: secondo il
censimento del CENSIS gli operatori sono quasi 10.000,
ma solo la metà vi lavora stabilmente e solo un quarto dei servizi ha al
proprio interno una équipe multidisciplinare, mentre
un quinto di essi funziona addirittura con una sola figura professionale (quasi
sempre un medico che fa ambulatorio per qualche ora alla settimana).
Anche questi operatori provengono in gran parte dagli
ospedali psichiatrici e questo ripropone un altro problema emerso in questi
anni: quello delle assunzioni di nuovo personale. É vero che per molto tempo
vigeva il blocco dei concorsi, ma è altrettanto vero che successivamente ad esso ben poche regioni e USL hanno approfittato delle
deroghe, così come è successo, per esempio, in Emilia Romagna o in Toscana.
Va detto tuttavia che anche quando questi concorsi sono stati banditi ben pochi
hanno riguardato gli psicologi. Da anni sosteniamo l'importanza dell'interdisciplinarità come strumento di lavoro
indispensabile per un servizio pubblico, ma il
rapporto psichiatri/psicologi è del tutto sfavorevole ai secondi ed è
addirittura il più basso d'Europa.
A questo si deve aggiungere la tracotanza con la
quale ancora oggi il potere medico si arroga il diritto di controllo assoluto
dell'intero campo della salute mentale, come hanno inequivocabilmente
dimostrato le posizioni assunte nel corso del dibattito parlamentare sul
problema degli psicologi e degli psicoterapeuti da parte dell'Ordine dei medici e di alcuni rappresentanti degli psichiatri
accademici e della Società italiana di psichiatria, schieratisi con la parte
più retriva ed oscurantista dei controriformatori.
L'utenza
Se, pur con i limiti descritti, abbiamo qualche
notizia sul numero e sulle tipologie dei servizi attivati prima e dopo la
riforma, ben poco sappiamo dell'altra faccia del problema: chi sono le persone che vi si rivolgono. Sono le stesse persone
di vent'anni fa, hanno gli stessi bisogni o le forme
della loro sofferenza si sono trasformate? La domanda di servizi, di cura o di
tutela è cambiata nella sua qualità e nella sua
quantità? Rispondere a queste domande non è certo facile, soprattutto farlo in
poco tempo, mi limiterò quindi a qualche riflessione
supportata dai dati disponibili.
Un primo punto riguarda il cambiamento in atto nell'utenza che si rivolge ai servizi psichiatrici.
In una gran parte del paese si può notare che l'età media dell'utenza sta
diminuendo vistosamente: la classe d'età 14-24 è quasi ovunque assai più
rappresentata di quella al di sopra dei 60 anni,
nonostante la loro diversa distribuzione nella popolazione generale. Inoltre va
segnalato un fenomeno che sembra interessare soprattutto i servizi
territoriali da più anni in attività: quello dello slittamento in alto delle
classi sociali di provenienza di parte dell'utenza
(13). Questo può significare che un servizio territoriale quanto più è
radicato nel tessuto sociale ove opera, tanto più
diviene competitivo anche rispetto all'offerta di assistenza psichiatrica privata.
Tuttavia, nonostante queste trasformazioni in corso,
la maggioranza dell'utenza psichiatrica continua -ad essere identificata dalle
già note caratteristiche di classe: bassa tenore di vita, minima
scolarizzazione, difficoltà di inserimento sociale e
lavorativo, Né si può ritenere che subirà profondi cambiamenti nel breve
termine, data la stabilità, se non la crescita, di questi fenomeni. Da un
lato, infatti, il processo di scolarizazzione
appare in straordinario ritardo (a Roma, ad esempio,
più di 400.000 cittadini sono analfabeti o semianalfabeti); dall'altro la condizione
di disoccupata sembra interessare sempre più i servizi psichiatrici, vista che
tra i loro utenti questi sono tre volte più numerosi che nella popolazione
generale. Ancora più allarmanti sono i dati che provengono da recenti indagini
in aree metropolitane inglesi. Se i divorziati, i separati ed
i vedovi hanno una probabilità più che doppia di diventare utenti psichiatrici
rispetto ai coniugati, ciò vale più per le donne che per gli uomini: una donna
su 5 soffre di disturbi depressivi tali da doversi rivolgere ad un servizio,
mentre la percentuale sale al 40% se vive sola con dei figli a carico (14).
Il secondo punto riguarda l'offerta di «cura». Essa
sta crescendo, in quest'ultimo periodo, sia come
numero di servizi, che di operatori: fra il 1972 e il
1982 gli psichiatri sono infatti raddoppiati ed il loro numero, in rapporto
alla popolazione, è diventato uno dei più alti d'Europa superando quello di
paesi come l'Olanda, l'Inghilterra, la Spagna e la
Francia. Ovvio quindi che se la crescita del numero di servizi pubblici è assai
più lenta di quella degli psichiatri e degli psicologi che l'università
continua a sfornare senza alcuna programmazione, il risultato non può che
essere quello di una crescita selvaggia ed incontrollata di servizi privati:
il numero dei centri di psicoterapia è infatti
aumentato, nel periodo 82/86, del 150% (15). È logico dunque ritenere che questo assurdo incremento possa avere un pericoloso effetto
di «induzione» di nuova domanda di intervento psichiatrico e/o psicologico
come risposta a problemi che ben poco hanno a che vedere con il disturba
psichico.
A conferma di ciò può essere interpretato l'aumento
dell'acquisto di psicofarmaci che è stato, negli
ultimi cinque anni; del 27% (16); ma l'analisi del dettaglio ci può aiutare a
comprendere meglio il fenomeno: si vede; ad esempio, che ha riguardato
soprattutto la categoria degli ansiolitici ed è stato quasi totalmente a carico
del settore della medicina di base e delle farmacie e non a quello ospedaliero.
Se a questo dato aggiungiamo che i massimi fruitori
sono gli anziani e le donne, troviamo una indiretta conferma dell'ipotesi che
il fenomeno di crescita sia trainato da un settore di popolazione che tende
sempre più a ricercare soluzioni ai propri problemi sociali e/o relazionali
(disoccupazione, sotto-occupazione, isolamento, mancanza di stimoli ed
obiettivi, ecc.) attraverso l'opera, più facile e rassicurante, del silenziamento dei sintomi indotti dagli psicofarmaci.
Tuttavia l'aumento del consumo di questi è un indice
troppo parziale e fragile per pretendere di essere una risposta esaustiva a
supporto dell'ipotesi di un incremento
dell'incidenza di disturbi psichici nella nostra
popolazione. Del resto è complicato perfino accordarsi sull'individuazione di indici capaci di segnalare una tendenza di questo
genere. Uno fra questi, anch'esso però discusso, è
rappresentato dal tasso di suicidi e tentati suicidi.
Si tratta di un fenomeno allarmante:
in Europa si è registrata una crescita, tra il 1972
e l'84, del 42% fra gli uomini e del 36% fra le donne. In Italia quest'aumento, che è arrivato ad una frequenza di uno ogni due ore, si è dimostrato significativamente correlabile
alla disoccupazione, soprattutto nella popolazione in cerca di nuova
occupazione (ad es. i cassaintegrati) (17). Potremmo quindi sostenere che il
«trend» di crescita del fenomeno si accompagna ed evidenzia un malessere
diffuso che, anche se non sempre è percepibile dalla rete dell'assistenza
sanitaria e psichiatrica in particolare, può aiutare a svelare
fenomeni sociali altrimenti misconosciuti. A questo proposito, un indicatore
ancora più sensibile è quello dei tentati suicidi:
esso riguarda la popolazione più giovane, soprattutto fra le donne. Una recente
ricerca compiuta in Olanda ha infatti messo in
evidenza che il 70% di queste avevano subito violenza sessuale nella loro
infanzia, dato questo che sarebbe emerso con notevole difficoltà da indagini
psichiatriche o sociologiche (18).
Se quindi è difficile sostenere che la popolazione
che soffre di disturbi psichici sia in aumento senza cadere in semplificazioni
vistose, sicuramente però sappiamo che il servizio
psichiatrico territoriale non può essere l'unico osservatorio possibile e
questo per almeno due motivi.
Innanzitutto perché esso tende, soprattutto nelle aree
metropolitane, ad organizzare la propria risposta di cura attraverso una
selezione dell'utenza che rispecchia più le opzioni culturali e professionali
degli operatori, che non le richieste dell'utenza. L'esempio della trasformazione
di questa rispetto alle classi d'età e a quelle sociali può esserne una
conferma: una utenza più giovane, più ricca e magari
con disturbi psichici meno gravi può più agevolmente esaudire il desiderio
collettivo di chi cerca conferme al proprio bagaglio tecnico, più che mettersi
a disposizione qui ed ora di chi ha bisogno di lui.
Inoltre perché il servizio psichiatrico è un osservatorio
limitato in quanto, come hanno dimostrato Goldberg e
Huxley, solo il 10% della popolazione
che soffre di disturbi psichici arriva all'osservazione dello specialista (19).
Il problema si sposta quindi al di fuori dello
specifico psichiatrico; anzi, a mio parere, si pone nell'esigenza di tutelare
una parte di ciò che può emergere come nuova forma di disagio psichico proprio
dalla sua invadenza. Ciò implica, tra l'altro, la rivalutazione del rapporto
con la medicina di base nel senso di un aggiornamento delle conoscenze e della
preparazione del medico di famiglia, al quale si
rivolge più del 50% della popolazione con disturbi psichici, e di una maggiore
integrazione degli interventi a livello del distretto socio-sanitario.
Quali servizi, per quale
cura?
Dalla breve analisi dei dati citati fino ad ora
emerge un quadro della situazione che propone alcuni punti di riflessione:
1 - Il manicomio è ancora presente e non solo come
realtà fantasmatica: di manicomio si può ancora
morire. Molti cancelli sono stati chiusi, ma altri no: alcune leggi regionali
permettono ancora di fatto i ricoveri paradossalmente
qualificati come «sociali» o «riabilitativi». Ma ancor più presente e viva è
la sua cultura, la sua ideologia. Penso a quanta manicomialità si respira in tanti servizi di diagnosi e
cura, tra quei pazienti assiepati fin nelle corsie, dietro a porte perennemente
chiuse, annichiliti dai farmaci. Sarebbe tuttavia sbagliato pensare che sia
necessariamente una cultura istituzionale: essa può invadere anche il nuovo
lavoro territoriale, essere riassunta nel gesto violento ed arbitrario di un
rapporto negato o in quello di un'indisponibilità ribadita.
2 - I servizi di diagnosi e cura, tranne alcune
eccezioni, sono tuttavia una delle poche cose previste dalla riforma che sono
state comunque messe in atto. È anch'essa, come
abbiamo visto. una realtà contraddittoria:
l'esperienza americana ci dimostra che è proprio questo il settore che ha
fatto naufragare il processo riformatore kennediano.
Quando questi servizi non sono stati limitati e confinati ad un utile supporto
per il lavoro territoriale, si sono infatti
trasformati in un potente veicolo di supporto ideologico alle tendenze neo-biologistiche più caricaturali.
3 - I servizi territoriali stanno quantitativamente crescendo. anche se con grande
ritardo e lentezza. Tuttavia, quando questi non sono organizzati all'interno
dell'articolazione dipartimentale, ovvero quando non
sono coordinati ed arricchiti con le strutture intermedie, rischiano di ridurre
il proprio ruolo a quello di ambulatori mutualistici.
4 - Le strutture intermedie sono il vero tallone
d'Achille dell'intero processo riformatore. In molte USL non ne
esiste nemmeno una; quasi sempre sono viste dall'amministratore come «optionals» da rimandare ai tempi delle vacche grasse. Al
contrario hanno dimostrato di essere uno strumento indispensabile sia per una
corretta politica di deistituzionaiizzazione.
che per la prevenzione di nuova lungo-assistenza.
La nostra proposta politica si è da sempre ispirata, come è noto, al rafforzamento delle indicazioni cui ora ho
accennato. Nessun progresso potrà esserci nella trasformazione della psichiatria
se il suo zoccolo istituzionale non sarà definitivamente abbattuto, né nulla di
definitivamente progressivo sarà realmente acquisito fino a che l'ultimo
cittadino sarà ancora ricoverato in un manicomio. Lo sforzo che ancora rimane da compiere é quindi grandiosa: la riconversione del loro
patrimonio ad un uso non psichiatrico non può infatti avvenire senza che
ciascuna USL non si attrezzi delle strutture necessarie perché non si ricrei la
necessità di «asilo».
Un'ulteriore condizione mi
sembra sia tuttavia necessaria alla trasformazione: l'introduzione di
metodologie valutative di ciò che si sta creando ed implementando. Se pensiamo
che la nostra proposta politica sarà credibile solo se riuscirà ad essere
convincente più ancora che vincente, ciò implica che non si tratta di favorire
il prevalere di una scuola di pensiero su un'altra, ma della nostra capacità
di contribuire a conferire un senso etico a ciò che per secoli ha vissuto di
soprusi e discriminazioni e quindi di assumere fino
in fondo il punto di vista di chi deve usufruire di questo servizio.
Un fenomeno che non sempre é stato valutato
sufficientemente. Gli anni precedenti alla riforma avevano visto il movimento
degli psichiatrizzati come protagonista delle
battaglie all'interno e all'esterno dei manicomi, a volte come controparte
della classe medica e degli amministratori, altre come compagni di strada di
chi criticamente, pur partendo da una posizione di potere ben diversa, lottava
per una radicale trasformazione dell'ordine asilare.
Ebbene, successivamente alla riforma, questo movimento
ha perduto voce, come se la chiusura dei manicomi, saldando un risarcimento
storico, avesse esaurito ed esaudito ogni loro diritto. Contemporaneamente,
invece, si è andato organizzando un altro movimento, che prima aveva vissuto
solo brevi e limitate stagioni: quello dei familiari, una parte dei quali, almeno
da come questo fenomeno è stato descritto dai mass-media, si è schierata su
posizioni, pur con sfumature e argomentazioni diverse, assai critiche della
riforma, un'altra invece decisamente a favore.
Tutto ciò può sembrare contraddittorio: nei paesi
dove la psichiatria istituzionale è più forte e potente, come nel nord
d'Europa, le associazioni degli psichiatrizzati sono
più organizzate; mentre da noi, dove parte di quelle rivendicazioni sono
diventate norma di Stato, sono più presenti quelle di chi vorrebbe
tornare indietro. In realtà credo che si tratti di un fenomeno comprensibile
e del tutto omologabile alla storia stessa delle trasformazioni che hanno
attraversato questo campo. Voglio dire che la critica
alla psichiatria è quasi sempre stata un processo di smantellamento
dall'interno, piuttosto che di proposizione. Ciò deriva dall'incertezza del
suo stesso statuto scientifico, dalla vacuità delle sue risorse tecniche,
diventa quindi difficile indicare una rotta progressiva, una direzione di
marcia sicura senza correre il rischio di riproporre
nuove false certezze.
Tuttavia ciò può anche costituire
un nuovo alibi per non crescere, per non volere consolidare ciò che é stato
sperimentato con successo. Di qui
un nodo centrale dell'intera questione: o il processo di trasformazione
conquisterà nuovi e definitivi spazi o correrà il rischio di una sostanziale razionalizzazione. Si pone, in altre parole, il problema di
valutare e far conoscere ciò che sì è fatto e che si può fare e quali debbano
essere le condizioni indispensabili in termini di risorse organizzative e di
sostegno finanziario.
Esistono decine di tipologie di servizi psichiatrici;
questi funzionano secondo modalità ed organizzazione talmente diverse fra loro
che è impensabile che possano produrre effetti
analoghi sulla popolazione che assistono. Un servizio che funziona 24 ore al giorno e si prende carico di tutte le persone che vi si
rivolgono, è forse la stessa cosa di un ambulatorio dove si accede solo per
appuntamento stabilito da un'équipe di accoglimento? Credo che nessuno lo
pensi, eppure in ambedue i casi si tratta di un
servizio territoriale pubblico. È giusto a tollerabile che un cittadino, solo
perché abita a Roma o a Trapani invece che a Trieste o a Perugia,
abbia in sorte un trattamento talmente diverso e che quindi possa stare meglio
o peggio solo a seconda della sua residenza?
Una caratteristica sembra infatti
accomunare la psichiatria asilare a quella riformata:
l'indisponibilità, o la resistenza, a sottoporre ciò che si fa - prevenzione,
assistenza, cura, riabilitazione - ad una valutazione dell'efficacia e ad una
verifica dei risultati ipotizzati rispetto a quelli attenuti. Non voglio qui
certo sottovalutare od ignorare le difficoltà teoriche e metodologiche che
questo processo comporta. Ma se ancor aggi viene
proposta la riapertura dei manicomi, è anche perché la salute mentale rischia
di continuare ad essere una «terra di nessuno», dove tutto sembra possibile,
dove la più brutale delle contenzioni convive con la più raffinata delle psicoterapie
o dove una scassa elettrica è assunta a cura quanto il più coinvolgente e
complesso progetto terapeutico.
Tutto ciò è oggi superato dai fatti: una grande quantità di esperienze, non solo italiane, indicano
che la scelta compiuta nel nostra paese è sastanzialmente positiva. Cominciamo
a sapere quali servizi funzionano meglio di altri; così come
sappiamo che il superamento del manicomio trova la sua legittimazione anche sul
piano scientifico come garanzia per fa prevenzione secondaria di forme
cliniche che altrimenti tenderebbero alla cronicizzazione. Così come abbiamo
accumulata notevolissime esperienze che ci insegnano
che una corretta attività di integrazione scolastica può prevenire nel bambino
l'innestarsi di disturbi psichici ancora più gravi dell'handicap di partenza
a come gestire tempestivamente una «crisi» senza attendere che essa esploda
nella sua forma più acuta, e così via... La carenza, quindi, non è tanto nelle
nostre conoscenze, quanto nella nostra capacità di trovare le modalità giuste
per comunicare e diffondere con più efficacia il nuovo sapere che stiamo
accumulando e di datarsi di strumenti e di metodologie adeguate alla validazione di ciò che quotidianamente si sperimenta e
conosce.
La valutazione della qualità dell'intervento e dei
suoi effetti potrebbe quindi delinearsi come un'area
strategicamente comune ai diversi interessi in gioco:
a) dell'utenza, che potrebbe considerarla come un
nuovo strumento per ottenere ciò di cui ha diritto nella sua forma migliore.
Ciò comporterebbe, a mio parere, una maturazione di portata storica nel rapporto
fra servizio sanitario e suoi utilizzatori: si passerebbe da ciò che ha lungamente caratterizzato le esperienze associative
dell'utenza, e cioè un atteggiamento «difensivistico» e rivendicativo del
diritto al risarcimento di un danno subito, a quello di protagonisti ed
interlocutori dell'organizzazione stessa della sanità pubblica. Le recenti
esperienze sulla presenza obbligatoria e paritetica di utenti
ed operatori nelle commissioni tecniche di valutazione dei protocolli
terapeutici in alcuni ospedali generali americani indicano un grande futura per
questa proposta;
b) degli amministratori, che potrebbero finalmente essere guidati con più chiarezza nell'assunzione
delle decisioni organizzative attraverso una più attenta analisi dei costi e dei
benefici;
c) degli operatori, che potrebbero più facilmente
abbandonare quel rigido difensivismo
dell'appartenenza al filone culturale della loro formazione, che ha, a volte,
viziato l'efficacia stessa delle loro prestazioni terapeutiche.
Perché tuttavia, tutto ciò possa maturarsi e
concretizzarsi in un futuro non lontano, occorre che almeno due tendenze, oggi
in atto, si invertano:
A - La politica della ricerca che in questi ultimi anni ha subito una vistosa involuzione. I progetti
finalizzati del CNR avevano individuato nel servizio territoriale il luogo ove
impiegare risorse finanziarie ed umane per non separare il momento assistenziale e terapeutico da quello della valutazione e
della ricerca; ora questa tendenza sembra invertirsi tornando ad identificare
la Università come unica interlocutore fruitore di investimenti economici. Ciò
ha comportato che le scelte delle priorità si spostassero verso temi lontani da
quelli di interesse di un servizio pubblico. Del resta anche le regioni non hanno adattato linee di
erogazione di questi fondi molto diverse da quelle privilegiate dal CNR. Va
anche rilevato che una delle difficoltà maggiori ad invertire
questa tendenza sta nella totale inadeguatezza e disinteresse di molte delle
strutture del Servizio sanitario nazionale a recepire e a condividere questa
esigenza.
B - il rapporto fra cliniche universitarie e servizi
psichiatrici è stato più spesso caratterizzato dalle mire espansionistiche
dell'accademia e dalle controreazioni autarchiche dei
servizi pubblici, che dall'esigenza di un confronto sia
sulle attività di ricerca, che sulle esigenze di formazione e di pratiche
terapeutiche. La possibilità che questa anacronistica
dicotomia lasci lo spazio ad una corretta integrazione è dimostrata da alcune
esperienze nazionali; questa tendenza, se generalizzata all'intero territorio
nazionale, potrà anche costituire un importante precedente in vista della
prossima apertura delle nuove scuole di specializzazione in psicoterapia, che
altrimenti riproporrebbero il problema in termini ancora più accentuati.
Conclusioni: dalla psichiatria alla
salute mentale?
Da ciò che ho tentato di illustrare finora, risulta
chiaro, almeno lo spero, che la posizione del nostro partito riguardo al
dibattito sulla riforma, sia all'interno del Parlamento che
al suo esterno, non possa che essere coerente con quelle assunte fino ad ora.
La relazione di Benevelli e della Gelli chiarirà assai meglio questa punto,
ma ciò che vorrei ora sottolineare, anche alla luce di quanto detto sopra, è
che la riforma può essere solo il primo passo versa un più definitivo
affrancamento dell'apparato psichiatrico dalle catene secolari che ne hanno
finora vincolato il progresso scientifico; quindi ogni cambiamento del
dettato normativo comporterebbe un ritardo ed un rinvio insopportabile per chi,
anche fuori dal paese, sta lavorando perché questa trasformazione sia portata
avanti. La nostra richiesta di inserire l'intera questione in un apposito
progetto obiettivo congruamente finanziato, è, a mio
parere, la proposta più concreta e coerente.
Dovendo quindi riassumere le priorità contenute
nella nostra proposta politica per il rilancio delle iniziative per una seconda
fase della riforma, preporrei alla discussione qualche punto
a mio parere qualificante:
1) l'approvazione di piani regionali triennali per la
completa e definitiva riconversione dei manicomi e la
loro destinazione ad uso non psichiatrico;
2) l'approvazione e il finanziamento di un progetto
obiettivo che preveda la razionalizzazione e
l'equilibrio delle risorse di servizi e personale in tutte le USL attraverso
l'attivazione di un dipartimento di salute mentale funzionante 24 ore su 24
tutti i giorni dell'anno, secondo modalità e tipologie organizzative che ogni
USL deve avere l'obbligo di individuare;
3) la richiesta che cessi la discriminazione nei
confronti di figure professionali non mediche riguardo ruolo, responsabilità professionale e coordinamento dipartimentale:
4) la richiesta di introdurre nel contratto di lavoro
a tempo piena per tutte le figure professionali più ampie e precise garanzie
per il diritto all'aggiornamento e al diritto/dovere di
esercitare attività di ricerca all'interno dei compiti e dell'orario
retribuito;
5) la richiesta che una maggior importanza (in
termini di punteggio assegnato) venga conferita ai
titoli scientifici del curriculum in sede di concorso pubblico del SSN;
6) la richiesta che una parte dei fondi sia del CNR che di quelli regionali per la ricerca scientifica siano
vincolati alla ricerca finalizzata nei servizi psichiatrici;
7) la richiesta che, a livello regionale, si formino commissioni paritetiche di tecnici e rappresentanti
dell'utenza (e non solo dei loro familiari), in stretto collegamento con
l'amministrazione locale e la magistratura, con un ruolo non consultivo, ma di
controllo e verifica della qualità dell'assistenza erogata dai servizi
pubblici e privati.
Questi punti non pretendono di essere
esaustivi dell'intera problematica, ma essere solo un contributo al dibattito
per formulare una bozza della carta di raccomandazioni che sarà discussa
domenica mattina.
Avvicinandomi quindi a concludere
questa relazione, varrei tornare a riferirmi al titolo generale di questa
iniziativa. Dire «dalla psichiatria alla salute mentale» significa presumere
che si stia verificando un ridimensionamento di almeno una parte dell'apparato
istituzionale psichiatrico; ma significa anche prevedere una maturazione della assunzione politica delle implicazioni sociali ed
economiche dell'intero settore della salute mentale nella nostra società.
Se affidassimo questa
previsione alla lettura dei messaggi con i quali giornali e televisione stanno
bombardando l'opinione pubblica, si dovrebbe concludere che si tratta di una
presunzione scriteriata. Mai come in questo momento sembra
essere incalzante ed ossessiva la ricerca di riparo dalle difficoltà
individuali, attraverso la seduzione delle semplificazioni dei conflitti quotidiani
in malformazioni cromosomiche o neurocellulari. Mai come in questo periodo
le multinazionali farmaceutiche stanno investendo capitali ingenti in
congressi, ricerche, centri studi per portare evidenze
empiriche e riconoscimenti a tesi che tendono a ridurre un progetto terapeutico
ad una batteria di tests biologici o alla semplice
somministrazione farmacologica e forse, in futuro,
alla manipolazione genetica. Mai come in questo periodo così
poca attenzione é stata dedicata da parte dei mass-media agli effetti tossici
di questi stessi farmaci, alla loro debole e contraddittoria risposta
terapeutica, all'irreversibilità dei loro effetti collaterali o alle più
recenti ipotesi iatrogene come, ad esempio, quella difesa dallo psicofarmacologo inglese Malcolm Peat, dell'alta correlazione fra alti e prolungati dosaggi
di psicofarmaci maggiori ed insorgenza di una forma di «psicosi tardiva».
Quel titolo è quindi solo una romantica illusione? Non lo credo affatto. Ho l'impressione che tutto ciò sia piuttosto un disperato tentativo di eclissare
un'evidenza ormai inconfutabile. Constatare qui la crisi del modello di
sviluppo occidentale potrebbe essere banale e ripetitivo, quasi quanto quella del degrado ambientale delle nostre città,
se non ci aiutasse a cogliere un paradosso comune alla nostra esperienza
quotidiana. Discutere della fine delle mucche norvegesi dopo Chernobyl o delle migliaia di bambini morti
a Città
del Messico per inquinamento atmosferico è sicuramente più tollerabile che
parlare di un degrado che conosciamo assai meglio: quello che mina le
relazioni, la produzione intellettuale, la felicità di molti di noi. Come se l'esperienza del calo di solidarietà, di tensione
collettiva, di simpatia (nel suo senso etimologico) sia, ad un tempo, vissuta
collettivamente e rimossa individualmente, come una consapevolezza indesiderata,
come una verità incomprimibile e destabilizzante. Le migliaia di atti di violenza che i bambini subiscono ogni anno sono
solo la parte più meschina del «costo sociale» pagato per il mantenimento
dell'omeostasi della nostra stessa convivenza.
Salute mentale implica quindi normalità
e non più solo patologia presunta. Ma sarà ancora la psichiatria a
volersene far carico codificando gli atti della nostra esistenza quotidiana per
ricavarne nuova legittimazione sociale? Sarà invece
capace di imporsi i limiti delle sue stesse conoscenze
teoriche e delle sue capacità operative o cederà alla seduzione di sfuggire a
questo giudizio invadendo terreni ad essa finora estranei?
Nuove domande dunque che lasciano ed innescano nuove
inquietudini, né potrebbe essere che così. Forse il senso di questo convegno va
ricercato proprio qui, nella voglia di tornare ad incontrarsi, a parlarne, ad
interrogarci su dove ci ha condotto quell'impresa,
cominciata vent'anni fa, e dove ci porterà fuori e
lontano dalle sbarre dei manicomi, dentro le mille finestre illuminate delle
nostre vite.
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nazionale del PCI «Dalla psichiatria alla salute mentale», svoltosi a Roma dal
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