PER UNA IDONEA E
URGENTE ATTUAZIONE DELLA RIFORMA PSICHIATRICA: DOCUMENTO DEL COORDINAMENTO
DELLE ASSOCIAZIONI DI FAMILIARI
Come abbiamo denunciato nell'editoriale del n. 77 di Prospettive assistenziali, alla fine della scorsa legislatura era stata avanzata dall'On.le Curci,
relatore della proposta di legge «Modifiche e integrazioni alla legge 23
dicembre 1978 n. 833 e nuove norme in materia psichiatrica» la richiesta di
riattivare gli ex manicomi per inserirvi soggetti
colpiti da disturbi mentali, parzialmente autosufficienti o non autosufficienti.
Contro questa iniziativa di emarginazione, anzi di segregazione, è
intervenuto il Coordinamento nazionale delle associazioni di famiglie e di cittadini
per la riforma psichiatrica (Roma, Via Gatti 6), che ha redatto il documento
che pubblichiamo integralmente.
Riportiamo
inoltre, in questo numero, le relazioni tenute da P. Crepet
e da G. De Plato al convegno
nazionale del PCI del 3, 4 e 5 aprile 1987 e la Carta della salute mentale
approvata al termine dei lavori del convegno di cui sopra.
TESTO
DEL DOCUMENTO
Il Coordinamento nazionale delle Associazioni di
familiari e di cittadini per la riforma psichiatrica, recentemente istituito
(Forlì, settembre 1986), presa visione del testo elaborato dal Comitato
ristretto della Commissione sanità (Camera dei deputati), ritiene che si
tratti dell'ennesimo tentativo di sopprimere i contenuti positivi
della legge 180 mentre il governo continua a non affrontare quelli che sono i
veri problemi: finanziamenti per l'istituzione dei nuovi servizi, programmi
di ricerca e di formazione del personale, misure che
obblighino gli Enti locali e le Regioni inerti ad attivarsi.
Le associazioni che aderiscono al Coordinamento
intendono ricordare al Parlamento:
1) che esiste una Costituzione in cui è affermato il
diritto alla salute per tutti i cittadini, la tutela delle libertà personali, l'impegno della Repubblica a rimuovere gli ostacoli ad
un'effettiva uguaglianza:
2) che esiste un'indagine sullo stato di attuazione della riforma psichiatrica consegnata dal Censis al Ministero nel gennaio 1986 e finora ancora non
diffusa né discussa.
Ci domandiamo con quale logica
lavori una commissione parlamentare che non si è fatta il dovere di
discutere dei soli dati esistenti sulla realtà prima di prendere decisioni che
modificano la legge esistente. E quale rispetto i cittadini possono avere dei
principi costituzionali quando li vedono ignorati o
mistificati proprio da chi dovrebbe tutelarli.
Il Coordinamento nazionale firmatario del presente
documento, intende chiarire che le misure di attuazione
della riforma psichiatrica non possono derogare dai seguenti principi:
1) rifiuto di qualsiasi misura che, anche «in casi
eccezionali», legittimi l'utilizzo della polizia per
prelevare un malato che non ha fatto male a nessuno e che non vuole recarsi al
servizio psichiatrico.
Ci domandiamo con quale civiltà si possa
pensare di soccorrere un malato, in un momento particolarmente delicato della
sua sofferenza, inviandogli la polizia. È nostra fermissima opinione che un
malato in crisi debba essere avvicinato da personale
altamente qualificato: medici, psicologi, infermieri. Costoro debbono essere messi in condizioni di andare verso il
malato, con servizi decentrati, automezzi, personale sufficiente. Attività di
riqualificazione del personale e di ricerca devono inoltre essere previste per
motivare gli operatori ad andare a domicilio, insegnare loro come si fa e quali
sono i vantaggi.
Vogliamo precisare che riteniamo si debba studiare
ogni possibile accorgimento perché il personale che
vede il malato in crisi sia proprio quello che lo conosce e lo cura
abitualmente, o che lo curerà in seguito, convinti come siamo che questa
circostanza possa già, da sola, contribuire a semplificare e sdrammatizzare il
difficile momento. La crisi psichiatrica, non ci stancheremo mai di
ripeterlo, è un evento-culmine che, se malamente
affrontato, può compromettere per sempre una sofferenza psichiatrica emergente
o aggravare in modo tragico un'antica malattia. Se invece è affrontato
immediatamente in maniera giusta, dando al malato la sensazione di avere intorno un mondo confortevole che desidera aiutarlo a
superare il suo dolore, il momento di crisi si può spegnere in breve tempo
senza danni e perfino, come in qualche caso è accaduto, essere benefico.
2) Pensiamo che l'unica maniera di dare veramente aiuto
ad un malato di mente sia quello di seguirlo ed
assisterlo quanto più è possibile nel suo habitat normale oppure, ove questo
non sia possibile, ospitarlo in strutture di ricovero di capienza molto
limitata: i 15 letti della legge 180 ci sembrano il massimo accettabile. Noi
siamo convinti che strutture di grossa taglia non siano adatte alla cura del
disturbo psichico a nessun livello poiché questo tipo
di malato ha bisogno di una attenzione personalizzata e diversificata data
l'incredibile varietà di forme e di espressionî che il disturbo presenta.
Siamo convinti che nuoccia al malato il confronto continuo con molte persone
sofferenti come lui o più di lui e incapaci quindi di adattarsi alle sue
necessità. Tante crisi insieme non possono che
aumentare i livelli di angoscia dei pazienti e l'intolleranza del personale.
Questo succede già nelle strutture di 15 posti letto:
cosa succederà mai se si fa saltare questo vincolo? É evidente che le pratiche
di custodia, di coercizione fisica, di pesantissimo uso di psicofarmaci, che
oggi sono diffuse nei Servizi psichiatrici di diagnosi e cura più carenti ed affollati, saranno incoraggiate e moltiplicate,
con esiti non certo terapeutici ed anzi con l'effetto di accrescere nel malato
la paura ed il rifiuto del trattamento.
3) Pensiamo che si debba assumere in modo rigoroso
il principio della continuità terapeutica, sul quale da tempo tutte le parti in
giaco - medici di ogni tendenza, familiari, pazienti
- sembrano essere d'accordo. Ci domandiamo come nella stessa
testo si possa affermare questo principio e parlare poi di «bacini di
utenza multizonali» o addirittura «interregionali» (nel caso dell'Università).
Questi due concetti a nostro avviso fanno a pugni tra loro e non si può
considerare coerente un progetto che intenda farli convivere.
Chiediamo che le cliniche universitarie di psichiatria
siano stimolate piuttosto a divenire titolari di un intero dipartimento di
salute mentale o ad utilizzare i servizi dipartimentali come strutture per la
formazione, allo scopo di creare davvero una classe medica capace di assolvere
i nuovi compiti.
4) Ribadiamo che va
rispettato in modo letterale quanto la legge 180 dispone per il superamento
degli ospedali psichiatrici pubblici e privati. Crediamo cioè
che debba restare il divieto assoluto di accogliere malati nuovi e che debba
essere affrontata immediatamente la condizione delle persone che ancora vivono
in ospedale psichiatrîco, spesso in totale degrado, cittadini bisognosi di
tutela definiti con l'indecoroso appellativo di «residuo manicomiale». Occorre
pianificare e realizzare programmi individualizzati di riabilitazione, che
blocchino quelle pratiche, che hanno preso piede in questi anni, di interdizione di tutti coloro che sono non
«autosufficienti» e non si sa se per malattia o per abbandono.
In conseguenza pensiamo che un Dipartimento di
salute mentale ancorato ad una concezione rigorosa della continuità terapeutica
e finalizzato a contenere il prodursi di evoluzioni
croniche del disturbo psichico, debba disporre di:
a) centri di salute mentale aperti 24 ore e 7 giorni alla settimana con servizio di pronto soccorso diurno e
spazio di accoglienza per primi ricoveri;
b) servizi di diagnosi e cura con
al massimo 15 letti, che possano ridursi man mano che aumenta la
capacità dei centri di far fronte alle crisi e alle emergenze. Siamo
rigorosamente contrari alla concentrazione di più servizi psichiatrici di
diagnosi e cura nello stesso ospedale, cosa che già accade configurando così
reparti ospedalieri anche di 40 letti. Così come rifiutiamo il fatto che il
servizio psichiatrico di diagnosi e cura finisca con
l'essere la sola struttura psichiatrica disponibile in un territorio;
c) strutture territoriali di permanenza diurna:
centri sociali, laboratori, scuole protette di avviamento
professionale. Strutture aperte al territorio, cioè
«miste» che accolgano utenti, specialmente giovani, «normali» e «malati». Ci
sembrerebbe utilissimo che i «normali», o almeno le persone senza problemi
psichiatrici, possano essere in numero superiore ai malati;
d) strutture di ospitalità,
sempre territoriali: comunità terapeutiche, case-famiglia, pensioni: il tutta
di piccole dimensioni, seguite da operatori appositi;
e) il dipartimento inoltre deve organizzare la
raccolta ed il coordinamento delle organizzazioni di volontariato o di
«privato-sociale» allo scopo di creare ogni possibile forma di socializzazione
e riabilitazione, di sensibilizzazione del territorio, di ricerca di posti di
lavoro, di aiuto nella ricerca di sistemazioni
autonome, nell'ottenimento di pensione d'invalidità o corresponsione di
adeguato sussidio, nella creazione di cooperative di lavoro impegnate ad
accogliere i malati che vogliono recuperare figura e utilità sociale.
Noi siamo consapevoli che il miglior modo di aiutare
il malato psichico a recuperare la sua validità sociale sia quello di curarlo
e assisterlo senza allontanarlo dal suo contesto
normale e dalla sua famiglia, ma abbiamo anche constatato che in molti casi il
reinserimento affrettato o non ben ponderato del malato in famiglia ha dato
luogo a un risorgere della malattia e a una nuova crisi e qualche volta a
eventi drammatici. Chiediamo dunque che i medici siano
esplicitamente esortati ad ascoltare con serenità e a vagliare attentamente le
ragioni delle famiglie che non sono favorevoli al ritorno del malato in casa.
Chiediamo anche che sia altrettanto attentamente verificata la reale
consistenza di ciò che viene indicato come «famiglia»
in quanto nella maggior parte dei casi la famiglia è rappresentata da una
persona sola e spesso lei stessa in difficoltà.
Chiediamo d'altro canto che anche le ragioni del
malato siano prese in seria considerazione dal servizio, che deve essere dotato
delle risorse e della cultura necessarie per attuare
la delicata, difficile mediazione tra il malato ed il suo contesto di vita.
Troppe volte abbiamo visto servizi psichiatrici trincerarsi dietro una malintesa
«libertà» del malato per coprire la propria fuga dalle responsabilità; troppe
volte l'impossibilità o il rifiuto della famiglia a gestire da sola il malato
è stata ed è usato a giustificazione di forme di
internamento.
In conclusione, riteniamo che le forze politiche a
livello nazionale debbano impegnarsi per:
1) programmare dei seri piani di spesa che consentano
di realizzare i servizi territoriali necessari: non solo quanto denaro è
necessario ma anche la fonte di questo denaro;
2) prevedere precise e dure sanzioni contro quegli
amministratori che non compiano il dovere di realizzare i servizi previsti
dalle leggi psichiatriche regionali. Pensiamo anche si debba istituire un organo
di controllo che accolga e vagli le lagnanze dell'utenza;
3) obbligare le Regioni a realizzare piani di ricerca
sulle problematiche della sofferenza psichica e sul funzionamento dei servizi
e corsi di riqualificazione per il personale, avendo direttamente
constatato in occasioni veramente troppo numerose che il personale è
drammaticamente inadeguata al ruolo che deve svolgere;
4) affrontare finalmente il drammatico problema dei
manicomi giudiziari e della normativa che ancora oggi consente forme di
condanna senza processo, per persone anche solo
sospettate di reati, o autori di reati spesso lievissimi. Cogliamo questa occasione per denunciare l'uso terroristico che viene
fatto del manicomio giudiziario nei confronti di quei malati che non sopportano
la rigidità del manicomio o del servizio psichiatrico di diagnosi e cura, e che
vengono minacciati di invio in manicomio giudiziario ad ogni protesta o rifiuto
di una disciplina istituzionale tanto rigida quanto inutile. Un intervento legislativo
serio e profondo è in questo campo assolutamente urgente.
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