ADOZIONE E AFFIDAMENTO: PROBLEMI E
PROSPETTIVE
GUIDO CATTABENI
Al centro il diritto e i bisogni del bambino
Nel novembre '83, al Convegno tenutosi a Torino sul
tema «Adozione e affidamento», Mons.
Giovanni Nervo, allora vice Presidente nazionale della Caritas
italiana, nel corso di un documentato e lucido intervento sul «Volontariato per l'attuazione della legge 184», affermava, senza
esitazioni, che «la comunità civile ed ecclesiale che ad un bambino senza
famiglia non sa dare altro che un istituto, è poco civile ed è poco cristiana:
è disumana».
Possiamo allora dire che il
tema delle nostre riflessioni odierne è: a che punto siamo con la nostra
disumanità? quale evoluzione c'è stata in proposito,
negli ultimi anni in Italia? quali sono le prospettive
per il futuro?
Dopo qualche decennio di sforzi per promuovere un
generale cambiamento di mentalità per far nascere una cultura nuova intorno al
bambino che non può contare sulla sua famiglia di origine,
si è arrivati finalmente con la legge 4 maggio 1983 n. 184 a mettere sulle
gambe giuste il problema che da tempo era capovolto: è il bambino che ha
diritto alla tutela dei suoi bisogni educativi e di maturazione e questo
diritto si concretizza nel diritto a crescere nella propria famiglia o in una
famiglia accogliente e preparata quando rimanesse privo della propria famiglia
d'origine.
La situazione oggi
Nell'aprile scorso, a Castiglioncello,
si è tenuto un convegno sui diritti violati dei bambini, organizzato dal
Coordinamento genitori democratici in collaborazione con l'ANFAA e, giustamente,
si è voluto analizzare tra l'altro come venisse rispettato il diritto del
bambino a vivere in famiglia.
In quel l'occasione è stata resa nota un'indagine
condotta nei Comuni capoluogo di Regione per conoscere
l'entità del ricovero in istituto e del ricorso all'affidamento familiare per i
minori con famiglie in difficoltà. In assenza di
statistiche attendibili si tratta pur sempre di dati interessanti (i dati si riferiscono alla fine del 1985 e del 1986):
Comune |
Minori
in istituto |
in
semiconvitto |
in
affido familiare |
Ancona |
26 |
14 |
16 |
Bologna |
80 |
29 |
48 |
Bolzano
(provincia) |
327 |
32 |
494 |
Catanzaro |
201 |
23 |
|
Cagliari |
88 |
176 |
169 |
Firenze |
234 |
100 |
77 |
Genova |
777 |
57 |
7 |
L'Aquila |
7 |
|
120 |
Milano |
1.150 |
|
50
disp. dal T.M. |
Napoli |
721 (6.000
in tutta la Campania) |
4.961 |
396
tra parenti |
Palermo |
3.000 |
|
6 |
|
(dal
'73 all'85) |
|
|
Perugia
e Regione |
1.837 |
|
78
solo Perugia |
Potenza |
25 |
|
? |
Roma |
1.780
(nell'86) |
|
82+313
a parenti |
Torino |
|
? |
219+255
a parenti |
Trieste |
141 |
50 |
60 |
Venezia |
69
(nell'86) |
36
(nell'86) |
6+43
a parenti |
Val
d'Aosta |
282 |
89 |
11+30
a parenti |
Totale |
16.665 |
5.567 |
2.480 |
Non si tratta evidentemente di dati comparabili tra
loro anche per la disomogeneità delle aree da cui sono stati ricavati, tuttavia
essi servono a dare una prima immagine della situazione. Le stime più
attendibili calcolano che 70/80.000 minori sono attualmente
ricoverati in istituto, in tutto il territorio nazionale.
Sul numero degli istituti non ci sono dati aggiornati.
Nel 1977 la Caritas aveva censito 4.096
istituzioni assistenziali operanti sotto la responsabilità
della Chiesa: di questo universo 1.492 (49%) erano istituti educativo-assistenziali
con 116,754 minori di cui 30.453 in semiconvitto.
Sempre secondo le stime della Caritas,
tali cifre corrispondevano all'80% degli istituti esistenti in Italia: vale a
dire che il restante 20% erano istituti pubblici.
Per quanto riguarda le adozioni è stato rilevato che
dal 1967 al 1983 si è avuta una media annua di 3.842 adozioni tra speciali e
ordinarie. Mancano dati aggiornati sulle adozioni secondo
la legge in vigore dal 1983.
Non è necessario sottolineare
che, dai suddetti dati, appare che c'è ancora una lunga strada da percorrere per
arrivare a salvaguardare i diritti di tutti ì minori in difficoltà.
A chi obietta che la situazione non è poi cosi grave, rifacendosi al 1960 anno in cui i minori in
istituto erano 310.000, bisognerà ricordare che all'abbattimento del numero dei
minori ricoverati in Italia, da venticinque anni a questa parte hanno
contribuito anche fattori estranei quali l'uso di anticoncezionali, la
depenalizzazione sociale delle nascite extra-matrimoniali, l'introduzione
dell'aborto, l'estensione della scuola d'obbligo e l'introduzione del tempo
pieno, migliori condizioni economiche generalizzate, l'introduzione del
divorzio, ecc. e, non ultima, la progressiva abitudine a nuove modalità di
abbandono in famiglia con la complicità passiva di operatori sociali e
comunità in genere.
È cambiata la legge; è cambiata anche
una mentalità
Contrariamente a quello che sì immaginerebbe, le
riforme si realizzano lentamente non solo perché ci vuole tempo a modificare
strutture, servizi, strumenti e organizzazione sorpassati, adeguandoli alle
esigenze attuali delle persone, ma anche perché ci sono persone
e gruppi che fanno resistenza, si oppongono al cambiamento, non riescono ad
accettare la fatica ed il maggior impegno che ogni cambiamento comporta.
La linea conservatrice si trasforma spesso subdolamente
in linea restauratrice proprio quando il rinnovamento
viene formalizzato e comincia a tradursi in opere,
Qualche esempio significativo.
Il progetto di piano socio-assistenziale della
Regione Lombardia per il triennio '87-'89 al capitolo
IV «Gli interventi di piano», considera gli istituti educativo-assistenziali
come parte integrante dei servizi per i minori in difficoltà: sì tratta di 116
istituti, alcuni dei quali accolgono più di 100 minori, mentre la metà ne accoglie dai 30 agli 80. Si programma una «manovra di
riconversione» che prevede entro tre anni: la riconversione di 20 istituti in
comunità alloggio, di 19 parzialmente in centri dì pronta intervento;
l'adeguamento degli altri a 100/150 posti letto (!) per «assicurare tutela e
protezione a minori con particolari problematiche».
E mentre si giustifica questa programmazione
affermando che «l'istituto educativo assistenziale è ancora la risposta più
opportuna, anche se per una fase di trattamento assolutamente temporanea, ai
bisogni di minori necessitanti di particolare protezione, i quali non siano
immediatamente inseribili In altri servizi quali la comunità alloggio e
l'affido familiare», si prende atto, poche righe
sopra, che la permanenza media dei minori in istituto è di circa 4 anni e che
si tratta per la maggior parte di bambini tra i 6 e i 13 anni.
Contemporaneamente si osserva che non sono altrettanto concreti e precisi i programmi per lo sviluppo delle risorse extrafamiliari.
Ma già precedentemente la
Senatrice Colombo Svevo sul n. 2/1985 di «Bambino incompiuto» proponeva il ricovero in istituto «come momento
di passaggio per un bisogno particolarmente acuto di un ragazzo o per una
soluzione esterna che deve maturare rapidamente».
Nell'85 Piero Pajardi,
Presidente della Corte d'appello di Milano, in un suo libro, affermava che alle
punte estreme di difficoltà di una famiglia «si può sopperire con soste
temporanee in quegli adeguati e benedetti istituti dove la famiglia di origine "sente" i figli come ancora propri e
non ne perde l'affetto così come continua a darlo».
In due articoli comparsi sul quotidiano cattolico
«Avvenire» (27.7.85 e 25.9.85) egli rincarava la dose, rispolverando un vecchio
concetto scientificamente insensato e cioè quello
dell'istituto come ambiente psicologicamente neutro e perciò più adatto a
soggiorni temporanei di minori in difficoltà.
Lamberto Sacchetti, Presidente del Tribunale per i
minorenni dell'Emilia-Romagna, sostiene
che l'adozione attuale è «una scelta politico-giuridica... la cui traumaticità morale non cessa di drammatizzarne ogni
applicazione concreta». Ne sostiene pertanto la opportunità
solo per i minori non riconosciuti e orfani escludendo tutti gli altri casi
oggi previsti di abbandono morale e materiale definitivo da parte dei
genitori.
In un libretto dello psicologo Stefano Cirillo
(«Famiglie in crisi e affido familiare - Guida per gli operatori» - La Nuova
Italia Scientifica 1986) a pag. 90 si afferma che «se i genitori del bambino...
rifiutano ostinatamente l'affido e si sentono tutelati esclusivamente da una
soluzione istituzionale è inutile accanirsi e colpevolizzarli; ... non potremo
attenderci un'agevole adesione delle famiglie in difficoltà a valori diversi,
per ora portati avanti sola da una minoranza, finché questo panorama culturale
non sarà modificato (e mutamenti di questa portata non possono essere che
lentissimi)». Che è come dire: prima i diritti e i bisogni della famiglia
d'origine e poi, quando saranno maturati i tempi,
quelli del bambino. (il padre-padrone
si annida ostinatamente ancora nel nostro inconscio!).
Un altro alfiere del ritorno agli istituti é il Prof. G. Bollea, illustre neuropsichiatra infantile italiano, che al XII Congresso
nazionale della società italiana di Neuropsichiatria
infantile tenutosi a Cefalù nell'ottobre 1986 e nel
Convegno già citato di Castiglioncello nell'aprile
'87 ha affermato che:
- l'adozione è, tra le forme assistenziali,
la più difficile da realizzare;
- il bambino adottato deve poter
mantenere rapporti con la sua famiglia d'origine e, volendo, anche il
suo cognome;
- l'adozione non gode delle
sue simpatie perché la considera «furto» di un figlio alla sua famiglia
d'origine;
- bisogna potenziare varie strutture che «possono e debbono essere alternative all'affido familiare» quali:
collegi moderni per normodotati, collegi speciali
per minori con problemi psicologici, focolari per adolescenti, ecc. gestiti
con personale e sistemi medico-psicopedagogici
specializzati.
Accanto a queste prese di posizione clamorose, non
si può dimenticare il continuo stillicidio attraverso i mass-media di
suggestioni emotive contrastanti che vanno a incidere
sul modo di pensare dell'uomo della strada: giudici che strappano bambini
piangenti alle loro madri per darli in adozione ad altri: coniugi disponibili
ad adottare bambini abbandonati che vengono frustrati nelle loro aspirazioni
generose; bambini contesi per anni, in tribunali vari, tra due famiglie che
spergiurano di amarli ciascuna più dell'altra.
Di ciò che hanno bisogno i
bambini dalla loro nascita in avanti per diventare adulti maturi, liberi e
responsabili si parla sempre meno; se sia giusto toglierli alla loro famiglia
per metterli in un'altra si parla sempre più; l'istituto, come soluzione
magica che permette di sfuggire alle decisioni, torna a balenare nella tempesta
come àncora di salvataggio per gli adulti
direttamente coinvolti o spettatori. Il diritto del bambino
rischia di essere ridimensionato alla luce del dìiritto
al quieto vivere degli adulti.
Una tensione da rinnovare
continuamente: i bisogni educativi dei bambini devono essere al centro
dell'impegno della comunità sociale
Mi piace riportare una sintesi sui bisogni educativi
di bambini e ragazzi con le parole che il Cardinale Arcivescovo di Milano,
Carlo Maria Martini, usa, nella lettera alla sua Diocesi,
sull'educazione: «I
bisogni-diritti fondamentali, bisogni che causano sempre sofferenze se non vengano
appagati, sono quelli fisiologici e psicologici. Si tratta di bisogni presenti
in ogni tipo di cultura e in ogni livello di civiltà.
Non variano con l'età, il sesso, la classe sociale, la razza, la condizione
economica. Se restringiamo l'obiettivo sui bisogni-diritti psicologici, decisamente umani, che hanno riferimento alla natura della
persona, vediamo che alla base di tutto sta il bisogno di una figura paterna
e materna, il bisogno di sentirsi presi sul serio, il bisogno di affetto.
«I ragazzi hanno bisogno di figure paterne e
materne... Abbiamo bisogno di persone prima che di
cose. Non di persone qualsiasi, ma di persone che sentiamo "vive per
noi", che abbiano un forte sentimento della nostra esistenza e avvertano
come indispensabile la loro esistenza per noi... Quando un
vostro figlio perderà la convinzione che voi, così essenziali per lui,
vi preoccupate della sua esistenza, comincerà a fuggire dalla realtà
quotidiana, non si sentirà più appagato negli altri suoi bisogni pure
essenziali, diventerà un disadattato, talora addirittura desidererà di
morire... Senza l'affetto dei genitori (o di persona sostitutiva) i figli
cercheranno disperatamente di appagare questo bisogno in maniere false, in
modi per nulla realistici. Da qui nascerà l'ansia, l'angoscia, la nausea... I
nostri ragazzi hanno bisogna di sentire che sono un valore per se stessi e per gli altri... I figli hanno bisogno di amare e di
essere amati... I figli non possono essere soddisfatti soltanto dall'amore che
si dà loro; hanno assolutamente bisogno anche di amare. Se
non potranno soddisfare questo duplice bisogno d'amore, non saranno contenti,
diventeranno tristi, reagiranno persino con maniere forti, con la fuga, la
ribellione, la depressione, l'angoscia, la violenza, il furto. E soffriranno molto. Se l'educazione è cosa del cuore occorrerà dilatare il cuore nostro e dei nostri
ragazzi, perché si stabilisca un vero flusso educativo ... ».
Una tensione da rinnovare
continuamente: la risposta adeguata ai bisogni educativi è la famiglia
La famiglia d'origine innanzitutto
Nel già citato intervento di Mons.
Nervo a Torino, era sottolineato che il diritto del minore a
essere educato nell'ambito della propria famiglia è prioritario perché ha, in
potenza, la massima efficacia formativa. La contropartita è il dovere della sua
famiglia di educarlo nel proprio ambito. E immediatamente viene
coinvolta la responsabilità della comunità di cui la famiglia fa parte.
La responsabilità cioè di
riconoscere questo ruolo della famiglia, di valorizzarlo, sostenerlo, tutelarlo
con l'azione formativa della scuola, dei mass-media, con la legislazione, con
l'assetto economico. E qui c'è ancora moltissimo da fare: la famiglia è
quotidianamente demolita imponendole una organizzazione
assurda del lavoro e della vita, lasciandola sola nel momento di difficoltà,
spingendola alla chiusura attraverso una cultura egoistica ed edonistica,
disorientandola con falsi modelli presentati quotidianamente dai mass-media. Le
leggi e le scelte politiche che riguardano la casa, gli sfratti, la scuola, la
sanità, l'assistenza sociale, ecc. devono seguire una logica di sostegno e di
rafforzamento della famiglia. Anche la riforma
socio-assistenziale e sanitaria deve essere portata avanti verso gli obbiettivi
che si poneva: un'organizzazione dei servizi decentrata, unitaria, capace
quindi di interventi globali e risolutivi a favore
della famiglia e della persona. Ciò non è possibile quando
le competenze delle varie prestazioni e servizi sono frammentate in Enti
differenti, che non comunicano o entrano in conflitto fra loro.
Famiglia adottiva quando il minore sia
in stato di abbandono
Due problemi mi sembra di dover ricordare in
proposito: quello che concerne la difficoltà di definire lo stato di abbandono e quello che riguarda il diritto all'adozione.
Le gravi, annose e persistenti carenze
degli interventi a sostegno della famiglia d'origine sono motivo di esitazioni
e perplessità quando si è chiamati a dichiarare lo stato di abbandono. Ciò che
è da prendere in attenta e responsabile considerazione, nella pratica, è
tuttavia se sia concretamente possibile predisporre interventi
risolutivi nei confronti dei genitori diventati cronicamente incapaci
di provvedere ai bisogni materiali e morali dei figli. In caso negativo non è
corretto far pagare ai bambini i nostri sensi di colpa
per non aver provveduto a prevenire il deteriorarsi definitivo della situazione
familiare. Senza nasconderci inoltre che in certi casi,
dietro scrupoli o timori variamente razionalizzati, si nasconde ancora una
cultura dell'intangibilità dei legami di sangue.
Sul fronte opposto sta il problema del diritto
all'adozione. L'adozione deve rimanere un diritto del bambino in stato di abbandono. Non vi è nessun diritto delle coppie a
ricevere dallo Stato quel bambino che non sono in
grado di procreare. Il bisogno del bambino di avere una famiglia deve stare al centro, non il bisogno delle coppie di
possedere un bambino.
La preoccupazione maggiore riguarda attualmente
l'adozione internazionale, cui ricorrono sempre più le
coppie che non riescono ad «ottenere» un bambino italiano.
Esse, che sono per questo bisogno di possesso le meno
idonee a educare un bambino, si avventurano proprio
verso una adozione più difficile di altre e la difesa predisposta dalle
istituzioni verso questo errore è oggi molto fragile.
Negli altri casi: famiglia affidataria o istituto?
A questo proposito è necessario aver chiari i termini
del problema per non lasciarsi fuorviare da discorsi dilettanteschi,
strumentali o demagogici.
La nostra legislazione indica come risposta più
adeguata per quei minori il cui nucleo familiare non sia
in grado temporaneamente di provvedere al suo allevamento, educazione e
istruzione l'affido ad un'altra famiglia o a una persona singola o a una
comunità di tipo familiare.
Ciò che viene indicato come
risposta adeguata non è tanto un modulo formale (= una famiglia), bensì una
risposta qualitativamente significativa reperibile in diverse realtà: essere
ospitati, accolti da qualcuno che ti ritiene tanto importante da farti spazio
nella sua vita, da condividere con te il suo stare al mondo, da preoccuparsi
per te, per i tuoi problemi, per il tuo futuro.
Ho già detto, citando il Card. Martini, quali sono i bisogni di tutti i bambini e ragazzi. Che il
provvedervi coinvolgendosi profondamente con la storia e la realtà di un
bambino che ha dei legami ancora vivi con la famiglia d'origine, sia una cosa
difficile per noi italiani di oggi, non può consentirci
tuttavia di fare, per un certo numero di bambini, un discorso mistificato sui
loro bisogni.
Negli istituti, seppure ristrutturati, modernizzati,
ridipinti e inseriti nel sociale, i bambini e i ragazzi non possono trovare una
risposta qualitativamente analoga a quella che possono
trovare nella relazione con le persone che vivono insieme. Il messaggio di
«valore» che il bambino riceve è assai elevato nell'affido: lo
si accoglie nella propria casa, nella propria vita, nel centro dei
propri pensieri. In istituto le persone non accolgono nella
propria casa, ma in una casa che non è né propria né del bambino (è di
nessuno!); gli si dedicano solo una parte della propria vita; del proprio
cuore; tra loro non hanno relazioni affettive importanti, come avviene invece
per persone che vivono insieme.
Si sente dire sempre più spesso che gli istituti
sono una importante risorsa per i casi di emergenza
(centri di pronto intervento), che un soggiorno per un periodo ridotto di
tempo non è così dannoso per il futuro dei bambini, che in questo modo si ha
il tempo di reperire soluzioni più adeguate, ma non immediatamente disponibili.
Sono intenzioni lodevoli, magari anche permeate di
buona fede, ma non possiamo illuderci. L'esperienza, anche degli ultimi anni,
ci dice che il ricovero in istituto:
- affievolisce i rapporti bambino-genitori, tanto
più quanto più grande è la distanza tra la sede dell'istituto e il domicilio
della famiglia;
- induce gli operatori
socio-assistenziali che dovrebbero lavorare a reperire soluzioni più
adeguate in tempi brevi, a rallentare l'impegno, anche perché pressati da
nuove emergenze;
- deresponsabilizza
parentela e vicinato nei confronti della famiglia in difficoltà.
Di fatto, il temporaneo e breve soggiorno in
istituto, si trasforma, come dicevo già prima, in anni di permanenza in una
struttura pedagogicamente negativa. E non è questione di «qualità» delle
persone che vi lavorano (educatori, educatrici, insegnanti,
personale dei servizi, di cucina, di guardaroba, ecc.): è questione di
«struttura» pedagogicamente inefficace, nonostante la disponibilità e la
dedizione di molte persone che vi si impegnano.
L'amore non basta
Difendere il diritta del
bambino a crescere in un ambiente di persone che lo amano si è prestato in
passato, e ancora oggi, a qualche equivoco, che va chiarito se non si vuole
correre il rischio di danneggiare i bambini in misura superiore a quanto può
succedere loro con un ricovero in istituto.
Può sembrare una banalità ricordare che dietro il
termine amore si nascondono significati affettivi
molto diversi, tanto che necessita aggiungere al sostantivo qualche aggettivo
come narcisistico, oblativo, erotico e così via.
Eppure è esperienza frequente sentire dire che i bambini in difficoltà hanno carenze affettive e
necessitano quindi dì un ambiente che dia loro affetto, allo stesso modo che un
bambino denutrito necessita di cibo per risolvere i suoi problemi fisici.
Offrire un sentimento di benevolenza e aspettarsi
che questo guarisca le ferite di chi incontriamo è alla base dei gravi errori
che si possono compiere accogliendo i bambini in adozione o in affido.
Non si ama una persona se non la si
conosce, se non si ha una idea precisa delle sue necessità fondamentali, se
non si impara a trovare le risposte adatte a soddisfare il bisogno specifico
della persona con cui in quei momento sono in relazione.
Diceva molto bene Fromm che
l'amore è un'arte che si impara, e si impara solo con
impegno, costanza, disponibilità a cambiare, in una sola parola con fatica.
Amore è anche rispetto dell'originalità dell'altro,
della sua autonomia e libertà; è avere fiducia e saper attendere i frutti buoni
che ognuno sa dare a tempo opportuno.
Educare un figlio adottivo, educare insieme ad altri un figlio in affido esige dunque una preparazione
di base non solo genericamente pedagogica, ma anche ai problemi specifici che
si possano incontrate lungo queste strade.
E non si tratta di imparare
ricette, ma di formarsi anche una mentalità, un'attitudine di fonda, adeguata
alla particolarità di ogni situazione.
Genitori adottivi e affidatari
devono sapere per esempio cosa significa rispettare la storia di ogni bambino che accolgano, il gioco psicologico dei
suoi comportamenti nei primi tempi della vita in famiglia; come parlargli
della famiglia di origine; come affrontare le problematiche adolescenziali;
come evitare le trappole del proprio romanzo familiare inconscio.
I genitori adottivi devono avere le idee chiare sui
problemi dell'ereditarietà; su come e quando informare il bambino sulla sua
origine e il suo stato giuridico.
I genitori affidatari
devono imparare a relazionarsi in modo adeguato con la famiglia (o il residuo
di famiglia) d'origine, con gli operatori sociali cui compete il caso, devono sapere collaborare correttamente all'eventuale
ritorno del bambino alla sua famiglia d'origine.
È da tenere presente che una formazione delle persone
all'adozione e all'affido deve essere fatta prima che esse decidano
e dichiarino la loro disponibilità al Tribunale per i minorenni e ai servizi
sociali di zona, non solo per evitare delusioni. errori
di valutazione, incomprensioni con chi è chiamato a selezionare le persone
adatte, ma anche per poter valutare con un minimo di capacità critica ciò che
verrà lungo il percorso che intraprenderanno all'interno delle istituzioni preposte
all'adozione e all'affido.
Ritengo importante ricordare che una delle
metodologie più efficaci per la formazione di base a questi problemi è quella
che si realizza attraverso la conoscenza diretta
dell'esperienza di chi si è trovato o si trova a vivere concretamente
l'avventura dell'adozione e dell'affido.
Laddove è possibile ci si può appoggiare anche
all'Associazione nazionale famiglie adottive e affidatarie
che è in grado di fornire supporto, collaborazione, informazioni per le
iniziative di sensi bí6izzazione e di formazione che si volessero realizzare.
Si avrà così anche modo di constatare con mano che
adozione e affido sono esperienze non facili, ma sicuramente possibili anche
ai comuni mortali e che, quando le cose sono state impostate con serietà,
senso di responsabilità, capacità di vedere e correggere gli eventuali errori,
l'esito per i bambini e i ragazzi è quasi sempre
positivo.
Ovviamente, sull'esito finale per gli adottati e gli
affidati influisce non solo la vicenda dell'adozione
e dell'affido, ma anche tutto ciò che è avvenuto prima del loro inizio.
Ad esempio istituzionalizzazioni precoci e prolungate
hanno spesso influenze così gravemente nefaste sulla
strutturazione della personalità che l'esperienza dell'adozione e dell'affido
non basta a portarvi riparo in modo completo e definitivo.
È uno dei motivi per cui ci
si sta battendo perché si arrivi al più presto ad abolire totalmente l'istituzionalizzazione
dei bambini nei primi sei anni di vita.
Quando qualche cosiddetto esperto vi dirà che ha condotto delle ricerche molto sofisticate sui
problemi psicologici dì chi è cresciuto in adozione o in affido e che ha
riscontrato qualche risultato «difettoso» chiedetegli come è vissuto il
bambino o il ragazzo prima di essere accolto nella famiglia adottiva e affidataria. Nel caso lo sapesse (non succede sempre),
chiedetegli se i difetti riscontrati non dipendano per caso più dalle vicende di abbandono, disinteresse, maltrattamenti vissute prima
che non dall'esperienza in una famiglia adottiva o affidataria.
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