COME HO DIFESO I MIEI DIRITTI
CATERINA
ALTERNIN
La storia
che presentiamo è realmente accaduta. Abbiamo chiesto alla signora che ne è stata la «sfortunata» protagonista di riportare i fatti
accadutile, perché si faccia giustizia di una situazione, assurda, almeno con
la denuncia.
I fatti
Sono una signora di ottantatré anni, in grado di provvedere da sola a me stessa
e che vivo quindi da sola in un piccolo alloggio del centro della città. Il
giorno 16 aprile 1987 inavvertitamente cado nella
stanza da bagno della mia abitazione, inciampando in una straccio. Ginocchioni,
con molta fatica. mi trascino fino al tavolino del
telefono e chiamo la guardia medica, che mi trasporta al pronto soccorso
dell'Ospedale Umberto 1° dell'Ordine Mauriziano,
all'incirca alle ore nove del mattino.
Vengo immediatamente sottoposta a radiografia, ma, o
perché il tecnico-radiologo è giovane e inesperto, o l'apparecchiatura non
proprio perfetta, le radiografie diventano quattro! Dalla diagnosi
risulta solo una contusione all'anca destra. Non essendoci quindi, a detta del
radiologo, necessità di intervenire, posso essere dimessa subito. Ma,
nonostante si affermi «che non ho assolutamente niente di rilevante», io mi
sento ugualmente immobilizzata, incapace di muovere
gli arti inferiori e di scendere dalla barella dove sono stata sistemata.
Inoltre mi faccio premura di ricordare la mia situazione di anziana,
che vive da sola, senza, quindi, la possibilità di essere aiutata almeno in un
primo tempo.
All'indifferenza del radiologo subentra l'interessamento
di una terza persona casualmente presente che mi suggerisce di interpellare
l'assistente sociale. Fiduciosa chiedo a lei dove andare, ma tutto quello che
fa è sottopormi un elenco che presumo comprenda una serie di case di cura
Tra queste scelgo la casa di cura Valsalice,
sita in via Cosseria 9 a
Torino, come risulta dall'ordinazione medica
sottoscritta dall'assistente sociale... del Mauriziano. Non potendo contare in
alcun suggerimento da parte dell'assistente sociale, scelgo in base alla
vicinanza, perché penso che sarebbe stato sicuramente più facile raggiungermi
per qualche mia amica premurosa.
Nessuno si è preoccupato di avvertirmi che la casa di
cura era ovviamente privata.
Trascorro intanto la notte del 16 aprile 1987 in una
camera a tre letti del pronto soccorso dell'ospedale e poi vengo
trasferita verso mezzogiorno del giorno successivo con la croce bianca; anche
questo - lo scoprirò più tardi - era a mio carico.
Qui il medico mi consiglia dapprima riposo e poi constatata
la mia immobilità assoluta, mi sottopone ad un'altra radiografia da cui questa
volta (a distanza di un solo giorno dalle altre) risultano due lesioni
riportate all'anca destra. Inizia subito la terapia: pomate, iniezioni,
fisioterapia.
Ma, si sa, l'ambiente della casa di cura privata è
un ambiente dove tutto costa. Realizzo ben presto dove
sono capitata e, superato il primo momento di immobilità,
appena recuperata una parziale autosufficienza, firmo le mie dimissioni.
Giunta nella mia abitazione non perdo tempo e mi
attivo presso la mia USL di zona per chiedere il
rimborso delle spese sostenute (oltre tre milioni e trecentomila lire per 22
giorni di degenza), cosa che peraltro mi era stata suggerita di fare dal
personale della clinica.
La signorina dell'USL, addetta alle informazioni, mi
fa però presente (con molta cortesia, devo dire) che
il rimborso nel mio caso non è previsto, in quanto la casa di cura da me scelta
non è convenzionata; precisa inoltre che gli accordi dovevano essere presi
prima del ricovero, previa autorizzazione dell'USL. Faccio naturalmente presente
che questo non mi era certo possibile; il mio è stato infatti
un ricovero d'urgenza; ma la signorina incaricata mi risponde che le assistenti
sociali dell'ospedale lo sapevano bene e avrebbero dovuto avvisarmi. A questo
punto mi ha quindi suggerito di rimettere tutta la questione
ai responsabili dell'USL, allegando tutti i documenti in mio possesso e
raccontando anche i fatti, così come mi erano capitati.
Non mi sono scoraggiata e, forte dei miei diritti,
ho proceduto come mi era stato indicato inviando lettera raccomandata a tutte
le persone responsabili: presidente e direttore sanitario dell'ospedale,
responsabile del servizio di medicina integrativa di
base dell'USL, commissario dell'USL e per conoscenza al Comitato di difesa dei
diritti degli assistiti.
Nella lettera, puntualmente corredata della documentazione necessaria (cartella clinica, referto
raggi X, fattura comprovante il pagamento della retta presso la casa di cura)
rivolgevo anche tre precise domande, che avrebbero preteso altrettante
risposte, che invece non sono giunte.
Chiedevo:
- come mai l'ospedale Mauriziano non aveva
riscontrato subito la lesione riportata all'anca;
- con quale coraggio aveva proceduto alle dimissioni
di una persona che si presentava anziana, sola, assolutamente immobilizzata e
per questo non in grado di provvedere alle proprie necessità;
- perché mi avevano di fatto
obbligata a scegliere una soluzione costosa, come la casa di cura, quando le
leggi vigenti in Italia, che le assistenti sociali sono ben tenute a conoscere,
mi davano diritto ad avere tutte le cure sanitarie gratuite.
A fronte di quanto esposto sono stata contattata nel
giro di un mese dall'USL, che mi ha riconosciuto il rimborso parziale delle
spese sostenute (un milione e seicentomila lire, meno della metà della cifra
sostenuta). Nessuno degli altri «personaggi» coinvolti in questa vicenda
assurda si è degnato di riconoscere il torto che mi è stato fatto. Anzi, va
segnalato che l'invio delle raccomandate ha disturbato parecchio l'assistente
sociale che ha anche tentato (con una visita a casa) di farmi ravvedere sul suo
operato. Ma di nuovo sono riuscita a sostenere le mie
ragioni; ho rifiutato di consegnare le lastre che lei mi chiedeva (non si sa
per quale confronto), perché non volevo certo correre il rischio che venissero perse. Erano in fondo la mia unica e sola prova!
Oggi, a distanza di oltre quattro mesi dall'accaduto
continuo la fisioterapia per recuperare il più possibile l'utilizzo delle
gambe.
Certo è che tutta questa faccenda mi ha lasciato non
poca amarezza dentro. Ho saputo difendermi, è vero, ma devo ringraziare di
avere avuto una vita attiva, un posto di lavoro che mi ha insegnato ad
affrontare persone e situazioni simili, l'interessamento e l'aiuto di persone
amiche.
Ciononostante ho rischiato di non poter più usare le
gambe, non mi sono sentita né rispettata, né tutelata come persona anziana e
alla fine ho in definitiva comunque speso una cifra
non certo di poco conto considerata la mia situazione di pensionata.
Scrivo queste cose augurandomi che non si ripetano
né per me, né per altri.
Scrivo soprattutto per incoraggiare chiunque si dovesse trovare in condizioni uguali alle mie, affinché non
si scoraggi, non getti la spugna davanti alle mille difficoltà che la
burocrazia costruisce, ma si batta invece fino in fondo, fino a quando gli
saranno riconosciuti i suoi diritti.
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