CRONICI:
COMPARTO SANITARIO O ASSISTENZIALE?
FABRIZIO FABRIS -
ERMANNO FERRARIO (1)
Più che di
perdita di salute nell'anziano è opportuno parlare di perdita
dell'autosufficienza, esprimendo questo termine anche sotto l'aspetto più
strettamente sanitario, un concetto più comprensivo ed assai più rispondente
alla realtà del soggetto invecchiato. La perdita del coniuge o l'insufficienza di mezzi
economici può rivestire ad esempio maggior effetto patogeno della malattia
medesima. Non sono quindi possibili, ma anzi dannose, separazioni rigide tra i
vari settori di intervento. La filosofia che deve
guidare la politica sanitaria per l'anziano è invece
quella di non privilegiare il sanitario come regola generale, ma di dare tutto
il sanitario di cui l'individuo ha bisogno in caso di necessità.
La concezione dell'ospedale come
deputato esclusivamente al trattamento delle affezioni acute non è più
rispondente alla attuale realtà ed al tipo di
patologia prevalente di carattere degenerativo. Ben poche sono oggi le malattie
che si possono definire rigorosamente acute; abbiamo frequentemente degli
eventi acuti nel corso di malattie croniche:
dall'ictus, all'infarto, alla riacutizzazione della bronchite, alla frattura nell'osteoporotico, all'evento anemizzante
nel neoplastico. È la nuova realtà della patologia prevalentemente
degenerativa, diversa rispetto a quella precedente prevalentemente infiammatoria.
Deve modificarsi di conseguenza anche il «privilegio dell'acuto» che
caratterizza la mentalità medica, soprattutto, ma anche la mentalità generale.
Alcuni concetti devono essere rivisitati. Ad esempio l'idea di guarigione da
una malattia va riconsiderata: dall'appendicite si guarisce completamente
quando l'intervento è condotto a regola d'arte e quando le condizioni
generali consentono una adeguata risposta dell'organismo; da altri tipi di
intervento la guarigione avviene con
una sia pur piccola diminuzione dell'«inabilità»; dalla maggioranza delle
malattie degenerative si guarisce da una fase, si supera un episodio, si
compensa una situazione alterata, la si rende compatibile con un determinato
livello di richiesta.
Altro concetto da rivisitare è
quello relativo alla malattia curabile: malattia
curabile non vuol dire guaribile; la cura va vista estensivamente, come
riferibile a qualsiasi condizione anche la peggiore che si possa immaginare. In
questo senso diventa cura l'intervento assolutamente
palliativo: prestare attenzione ad un uomo che tra mezz'ora è destinato a
morire, togliergli un po' di dolore, alleviargli il disagio di una posizione
scomoda.
Da queste premesse nasce
l'esigenza per la medicina di prestare la massima attenzione al malato cronico
e quando possibile alla prevenzione della cronicità
stessa. Le aspettative del «cronico» per l'immediato
futuro sono legate, da un lato, al progresso della tecnologia, quindi alle
possibilità di protesi, di trapianti e di tante altre nuove e sofisticate
metodologie di intervento, dall'altro, e ancor più, allo sviluppo di una medicina
più mirata alla valutazione della complessa e irrepetibile situazione esistenziale
dell'individuo.
L'intervento
sanitario, dunque, quando corretto e tempestivo non genera cronicità, ma la
contrasta.
Appare pretestuosa la contrapposizione tra il compartimento assistenziale
e quello sanitario: il secondo viene accusato dal primo di occuparsi poco e
male del cronico. Quando ciò avviene, e non infrequentemente purtroppo, è perché si fa una cattiva medicina; il rimedio non è certamente
quello di attribuire le competenze di cura del cronico al compartimento
assistenziale, ma di rinnovare e migliorare la qualità dell'intervento
sanitario. Questa operazione culturale passa attraverso una formazione del
personale medico e non medico adeguata alla nuova realtà, facilitando anche gli
scambi professionali tra l'ospedale e le attuali strutture per cronici.
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