Prospettive assistenziali, n. 81, gennaio-marzo 1988

 

 

ILLEGALE L'IMPOSIZIONE DA PARTE DEGLI ENTI ASSISTENZIALI DI CONTRIBUZIONI ECONOMICHE AI PARENTI TENUTI AGLI ALIMENTI

 

 

Numerosi sono gli enti pubblici assistenziali che impongono ai parenti tenuti agli alimenti il versamento di contributi economici, spesso mol­to gravi. Al riguardo ricordiamo il caso di due anziani «che per non far pagare delle cifre così grosse ai parenti, si sono lasciati morire, hanno smesso di mangiare e a un certo punto se ne sono andati» (1). È sintomatico che nessuno dei vari enti, ai quali la decisione di suicidio era sta­ta comunicata, si sia mosso: è stata in tal modo fornita un'altra prova della «umanità» del setto­re assistenziale

Il problema dei doveri dei familiari tenuti agli alimenti è stato affrontato da Massimo Dogliotti, giudice del Tribunale di Genova e docente alla Università della Calabria nell'articolo «I diritti dell'anziano» pubblicato sul numero 3, settem­bre 87, della prestigiosa «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile».

Riprendendo quanto già scritto per Prospettive assistenziali (2) Massimo Dogliotti afferma quan­to segue:

 

«Accanto all'anziano non in grado di provvede­re ai propri interessi, l’anziano privo di sufficien­ti mezzi di sussistenza. È vero che in tal caso lo Stato interviene con la pensione sociale, al com­pimento dei sessantacinque anni. Ma anche la pensione sociale (di importo assai limitato) non esclude lo stato di bisogno del soggetto. L'anzia­no (ed ogni soggetto) indigente ha dunque diritto agli alimenti. L'obbligo alimentare è disciplinato dal titolo XIII, libro I del codice civile, art. 433 ss. Si distingue in genere tra alimenti, che costituirebbero lo stretto necessario per mante­nere in vita il soggetto, e mantenimento, che si configura come nozione più ampia, quale com­plesso di prestazioni, che soddisfano le esigenze di vita dell'individuo, anche in relazione alla sua collocazione economico-sociale.

«Da un lato dunque obbligo di mantenimento tra i coniugi e nei confronti dei figli minori, co­me contributo ai bisogni della famiglia, in pro­porzione alle sostanze e alle capacità di lavoro professionale e casalingo di ciascuno (artt. 143 e 148 c.c.). E in caso di inadempimento dei geni­tori, saranno tenuti a concorrere al mantenimen­to della prole, in ordine di prossimità, gli ascen­denti legittimi o naturali (art. 148 c.c.). L'obbligo di mantenimento tra i coniugi permane anche dopo la separazione, ove uno di essi non abbia adeguati redditi propri (art. 156 c.c.) tranne che non sia a lui addebitabile la separazione: in tal caso avrebbe diritto soltanto ad un assegno ali­mentare. Cessa ogni obbligo con il divorzio, an­che se è prevista la possibilità di un assegno, di natura composita, ma prevalentemente alimen­tare, a favore dell'ex coniuge, finché non passi a nuove nozze. È previsto infine un obbligo dei figli di contribuire al mantenimento dei genitori, in caso di convivenza con essi (art. 315 c.c.).

«Se dunque la nozione di mantenimento è stret­tamente inerente al rapporto di coniugio e filia­zione, al contrario quella di alimenti si estende ad una più ampia fascia di parenti. All'obbligo di prestare gli alimenti sono tenuti, nell'ordine, il coniuge, i figli legittimi, naturali, adottivi o, in mancanza, i discendenti prossimi, l'adottante nei confronti del figlio adottivo, i genitori o, in man­canza, gli ascendenti prossimi, i generi e le nuo­re il suocero e la suocera, i fratelli (art. 433 c.c.). Ancora, il destinatario di una donazione è tenuto, con precedenza su ogni altro, a prestare gli ali­menti al donante (art 437).

«Il codice civile detta, com'è noto, una disci­plina minuta e particolareggiata della materia: gli alimenti sono chiesti da chi versa in stato di bisogno e non è in grado di provvedere al pro­prio mantenimento, e sono assegnati in propor­zione al bisogno appunto di chi li domanda e alle condizioni economiche di chi li deve sommini­strare (art. 438 c.c.). Mutando le condizioni eco­nomiche di chi li somministra o di chi riceve gli alimenti, l'autorità giudiziaria può provvedere per la cessazione, riduzione, aumento, secondo le cir­costanze (art. 440 c.c.). Ancora, l'obbligo alimen­tare può essere adempiuto, a scelta del soggetto tenuto, mediante un assegno periodico ovvero ac­cogliendo e mantenendo nella propria casa colui che ne ha diritto (art. 443 c.c.). Ma può la stessa autorità giudiziaria determinare il modo di sommi­nistrazione, e quindi, secondo alcune interpreta­zioni, eventualmente disporre perché il soggetto obbligato, anche contro la sua volontà, accol­ga in casa il congiunto che ne ha diritto.

«In realtà l'obbligo alimentare, e soprattutto la previsione di una così ampia fascia di parenti tenuti, appare indubbia espressione di una socie­tà assai diversa dall'attuale, nella quale era dif­fuso il modello di famiglia patriarcale, caratte­rizzata da una solidarietà allargata, mentre l'as­sistenza pubblica era sostanzialmente inesisten­te. Assai differente il quadro delineato dalla car­ta costituzionale (e che meglio rispecchia l’odierno contesto sociale): è vero che si richiede correttamente a tutti i cittadini (e quindi sicura­mente anche ai familiari) l'adempimento degli obblighi di solidarietà (art. 2 cost.), tuttavia le funzioni assistenziali sona assunte direttamente dallo Stato: servizi sociali (sanità, scuola, ecc.) per tutti i cittadini, sistema previdenziale per i lavoratori, assistenza per gli inabili al lavoro sprovvisti dei mezzi di sussistenza (art. 38 cost.). È noto altresì che a seguito del d.p.r. n. 616 del 1977 tutte le funzioni assistenziali, precedente­mente disperse tra i più diversi enti ed organi, sono state per gran parte attribuite ai Comuni, che naturalmente, in attesa di una legge-quadro sull'assistenza, debbono fornire le loro presta­zioni secondo le indicazioni e nei limiti della legislazione fino ad oggi vigente.

«Si è detto talora che la disciplina alimentare si porrebbe in contrasto con un avanzato siste­ma di sicurezza sociale: in realtà sembra potersi affermare che non sussiste contrasto, in quan­to obbligazione alimentare e prestazione assi­stenziale, rispondano a logiche e si muovono in prospettive tra loro totalmente differenti, l'una privatistica, l'altra pubblicistica, senza possibili­tà alcuna di collegamento o - ancor peggio - di contaminazione. Non si potrebbe dunque soste­nere che l'assistenza pubblica si indirizzi ai «po­veri» solo in via sussidiaria, quando non esista­no parenti tenuti agli alimenti. E ciò, come si di­ceva, perché l'assistenza è funzione fondamen­tale dello Stato moderno, e i suoi compiti non possono essere delegati o meglio scaricati esclu­sivamente sulla famiglia. Tale esigenza trova un preciso riscontra di carattere processuale: non è data possibilità all'ente erogatore di assisten­za di chiamare in giudizio i parenti tenuti agli ali­menti per sentirli condannare all'adempimento della prestazione nei confronti del congiunto po­vero. Si tratta di un rapporto privato tra il sog­getto che ha diritto e il parente obbligato, senza possibilità alcuna di interferenza da parte dello ente pubblico. Spetterà solo a chi è privo di mez­zi di sostentamento, ancorché destinatario di pre­stazioni pubbliche, decidere discrezionalmente se agire o meno nei confronti degli obbligati, per alimenti. Ogni sostituzione processuale sareb­be inammissibile.

«Esclusa dunque ogni possibilità di azione da parte dell'ente erogatore, che non è legittimato a rivalersi sui parenti tenuti, esso potrebbe even­tualmente indirizzare il «povero» al gratuito pa­trocinio (ma sempre che questi intenda promuo­vere il giudizio alimentare); più ampio spazio di manovra vi sarà soltanto nel caso che il povero non appaia in grado di provvedere ai propri inte­ressi: l'ente potrà inviare un rapporto alla procu­ra della Repubblica, che, ove lo ritenga opportu­no, promuoverà una causa di interdizione. In tal caso spetterà comunque al tutore la scelta di­screzionale sulla richiesta degli alimenti. È pur vero infine che i parenti tenuti, se inadempienti alla relativa prestazione, potrebbero incorrere in responsabilità penale per violazione degli ob­blighi di assistenza familiare (art. 570 c.p.), ma ancora una volta solo su querela del diretto in­teressato.

«È appena il caso di osservare che i tentativi di giustificare un potere di sostituzione proces­suale dell'ente erogatore, di fronte alla chiara dizione della legge, sono destinati al fallimento. Così il riferimento all'art. 7 della legge del 1890, n. 6872, per cui spetta alla congregazione di ca­rità (poi Eca, oggi Comune) la cura degli interes­si dei poveri e la loro rappresentanza legale di­nanzi all'autorità amministrativa e a quella giu­diziaria. La norma è stata da sempre interpreta­ta (e non poteva essere che così) come previsio­ne di salvaguardia e protezione verso i «poveri» visti come classe, collettività (ad es. procuran­do che la volontà dei testatori o donanti gene­ricamente a favore dei poveri fosse pienamen­te attuata) e non nei confronti del singolo indi­viduo. Né miglior fortuna potrebbe avere l'uso di uno strumento privatistico, come l'azione per ingiustificato arricchimento proposto dall'ente erogatore di assistenza, cui in genere ci si ri­ferisce come extrema ratio... quando non si han­no altre risorse cui richiamarsi. In ogni caso il riferimento è del tutto errato. Non si potrebbe parlare di ingiustificato arricchimento per il pa­rente tenuto agli alimenti finché questi non sia­no richiesti appunto dal soggetto che ne ha di­ritto.

«Dunque, per concludere, nessuna possibilità di sostituzione o rivalsa da parte dell'ente ero­gatore. Non si vuole evidentemente, con queste affermazioni, incoraggiare la famiglia ad infran­gere gli obblighi verso un suo componente che sono senza dubbio morali prima ancora che giu­ridici, si vuole invece ancora una volta ribadire che obbligo alimentare e prestazione assisten­ziale rispondono a logiche diverse e non vanno confusi (anche sé confusioni e commistioni fan­no molto comodo a chi - e sono oggi in molti - predica la fine dei sistemi di sicurezza sociale). «Si sono dati due esempi molto significativi. Altri se ne potrebbero dare, ma non è questa la sede per farlo. Importante è che la dottrina (so­prattutto quella civilistica), colmando un note­vole ritardo culturale e recuperando il tempo perduto, si apra alla problematica dell'anziano individuandone diritti e forme di protezione, pur nell'ambito della normativa vigente, e delinean­done di nuove, in prospettiva di riforma (sempre peraltro senza cadere nella tentazione di ipotiz­zare una normativa ad hoc, esclusiva per l'an­ziano, che potrebbe costituire fonte di una nuo­va emarginazione).

«Alcuni anni fa, proponendosi una definizio­ne particolarmente puntuale, si era affermato che non si dovrebbe più parlare di “diritto dei minori”, ma di “diritto dei diritti dei minori”. Perché dunque non parlare oggi più ampiamente che in passato (e con i necessari approfondimen­ti) del “diritto dei diritti dell'anziano”?».

 

 

 

(1) Cfr. Regione Emilia Romagna, Le residenze protette per anziani - Atti del convegno di Modena del 28, 29 e 30 ottobre 1982. L'USSL Alta Val d’Elsa obbliga coloro che ri­chiedono un intervento assistenziale a sottoscrivere una dichiarazione in cui devono essere addirittura indicati i redditi dei parenti, anche non conviventi!

(2) Cfr. Massimo Dogliotti, «Obbligo alimentare e pre­stazione assistenziale», in Prospettive assistenziali, n. 72, ottobre-dicembre 1985.

 

 

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