Prospettive assistenziali, n. 81, gennaio-marzo 1988

 

 

Libri

 

 

LUCIANO TAVAZZA (a cura di), Promozione e formazione del volontariato - Volumi I e II, Edizioni Dehoniane, Bologna, 1987, pp. 420 - 564, L. 32.000 + L. 38.000.

 

I due volumi raccolgono gli atti del convegno «Promozione e formazione del volontariato per cambiare società s istituzioni», svoltosi a Lucca dal 9 all'11 maggio 1986.

Il primo volume si articola in quattro parti:

1. - problemi ed esperienze con relazioni su temi specifici della promozione e della formazio­ne. Di particolare rilievo le relazioni di Mons. G. Nervo, «La promozione del volontariato oggi», e di A. Polmonari, «I processi formativi per la qualificazione dei volontari e contribuire a una nuova cultura nelle istituzioni»;

2. - iniziative parlamentari con i testi delle proposte di legge n. 575 del 13 marzo 1984 pre­sentate al Senato dal Sen. Lipari, n. 2299 (Came­ra, 22 novembre 1984, On. Pasqualin), n. 2970 (Camera, 19 giugno 1985, On. Bassanini), n. 3219 (Camera, 10 ottobre 1985, On. Colombini), n. 1785 (Senato, 18 aprile 1986, Sen. Gualtieri). Contiene inoltre il testo dei Comitato ristretto del Senato in merito al disegno di legge concer­nente le cooperative di solidarietà sociale;

3. - una tavola rotonda con esempi concreti di come opera il volontariato in Europa;

4. - un'altra tavola rotonda per descrivere esperienze di collaborazione fra volontariato e pubbliche amministrazioni ai diversi livelli del­le società.

Il secondo volume riporta le comunicazioni pre­sentate ai 20 seminari e «gruppi tematici», del convegno sopra citato. Vengono affrontate sia le tematiche generali (condizioni e garanzie per lo sviluppo del volontariato nello Stato delle auto­nomie, aspetti giuridici e problemi fiscali, incen­tivi alla promozione del volontariato, formazione degli operatori), sia settori specifici di intervento del volontariato (ospedale e territorio, pronto soccorso, tossicodipendenti, carcerati, minori, anziani, handicap, dimessi dagli ospedali psichia­trici, protezione civile, beni culturali, beni am­bientali, animazione sociale, volontariato interna­zionale, comunicazione sociale, cooperative di solidarietà, servizio civile).

Dalla lettura degli atti emerge che Il volonta­riato sta vivendo un momento decisivo per il suo futuro. Rischia infatti di diventare un elemento di stabilizzazione di una società che emargina i più deboli. Al riguardo Mons. G. Nervo (cfr. il suo commento a «Storia di Nicola») ha affermato che a Lucca «il tema del cambiamento, che era l'an­golatura specifica del convegno, non è stato col­to quasi per nulla nel lavoro delle Commissioni; ed é stato soffocato, senza reazioni, dai molti in­terventi riservati in assemblea ai rappresentanti degli enti locali».

 

 

RENATO RONDINI - Handicap e comunità cri­stiana, Edizioni Elle Di Ci, Leuman (TO), 1986, pp. 160, L. 6.500.

MARIA PIA BONANATE, Perché il dolore nel mondo?, Edizioni Paoline, Roma, 1985, pp. 183, L. 10.000.

 

I due libri affrontano il tema dell'handicap nell'ambito della comunità cristiana, in rapporto ad un discorso di fede. Ci si interroga, soprattutto nel primo, sull'impegno e il ruolo che il creden­te deve sviluppare nei confronti del fratello svantaggiato.

La sofferenza della malattia fisica e/o psico­logica è vissuta qui in modo problematico, con grossi tentativi di recupero positivo della sua presenza nel mondo. Ma, se nel primo testo la sofferenza viene posta almeno come condizione da superare (e si richiama quindi la responsabi­lità del credente affinché si impegni per questo scopo nella società), nel secondo testo, ne) capi­tolo dedicato all'handicap, si arriva invece a pro­porla come messaggio da accogliere, quasi da ricercare, per realizzare veramente come creden­ti l'incontro vero con il Cristo sofferente della croce. Si giunge persino a parlare della neces­sità di una teologia della sofferenza...

Lasciano poi molto interdetti le posizioni espresse nel primo libro circa gli obiettivi da porsi per ripartire dagli ultimi. Se da un lato si nota un positivo richiamo al credente perché si attivi anche socialmente, si avvicini ad altri che lottano per gli stessi scopi, denunci i responsa­bili e gli inadempienti, dall'altra si ripropone lo specifico cristiano con interventi sociali avviati solo nell'ambito della chiesa, con operatori che siano innanzitutto preparati come cristiani, con risposte costruite con la solidarietà e con i fondi dei privati (scuole, laboratori protetti, coopera­tive, ...) che sostituiscono l'inserimento scolasti­co e la mancanza di lavoro per gli handicappati.

Ugualmente si resta perplessi quando, da un lato, si legge finalmente una denuncia chiara nei confronti degli effetti disastrosi che provoca qua­lunque tipo di segregazione dell'handicappato (istituto, centro speciale) e si propone il volonta­riato in aiuto alle famiglie e non solo agli istituti, mentre, dall'altro, si resta altrettanto interdetti quando nelle pagine seguenti si ritrova nuova­mente l’istituto come una soluzione tutto sommato non poi così disastrosa per le persone svan­taggiate che non possono stare in famiglia. Nes­sun accenno alle comunità alloggio che, a nostro avviso, costituiscono l'intervento idoneo nei casi in cui non sia possibile garantire la permanenza nella propria famiglia o in quella adottiva o affi­dataria.

Una riflessione a questo punto va fatta: poiché nei due libri si cerca di conciliare la denuncia dell'istituto con la sua salvaguardia, sorge il dub­bio ci-le in fondo vi sia più la preoccupazione di salvare le strutture piuttosto che di difendere gli interessi delle persone. Bisogna avere il coraggio di essere profeti, si dice nel libro. Ebbene, ciò vuol dire che è forse giunto il momento di abbandonare per sempre la difesa dell'istituto e preoccuparsi di più dei diritti delle persone.

 

 

BRONISLAW GEREMEK, La pietà e la forca - Sto­ria della miseria e della carità in Europa, Edizio­ni Laterza, Bari, 1986, pp. 271, L. 33.000

ALBERTO MONTICONE (a cura di), La storia dei poveri - Pauperismo e assistenza nell'età mo­derna, Edizioni Studium, Roma, 1985, pp. 300, senza indicazione di prezzo.

 

Nel trapasso dal Medioevo all'età moderna, la povertà cessa di essere considerata come il male necessario che consente alla carità di dispiegarsi: essa viene sempre più considerata in relazione ai problemi del lavoro.

La miseria incomincia ad essere valutata come una «devianza»: inizia la fase, tuttora in corso, della repressione. Di conseguenza i poveri ven­gono avviati a lavori coatti, oppure rinchiusi in istituti, oppure vengono espulsi.

Nei paesi industrializzati, secondo le statisti­che, i poveri raggiungevano anche il 10-20% del­la popolazione.

Il pauperismo era, dunque, un fenomeno rile­vante anche sul piano numerico. Notevoli anche i riflessi sulla società.

I poveri costituivano, allora come oggi, un pe­ricolo per le classi sociali dominanti: diventano quindi un problema prioritariamente di ordine pubblico: «Mendicanti, accattoni, vagabondi fu­rono guardati con sospetto dai governi e ritenuti in genere individui privi di freni morali e pertan­to pericolosi quali possibili delinquenti», i men­dichi «infestavano, anzi infettavano le città», la «feccia dei mendichi», «saranno ristretti in essa Opera tutti i mendichi, storpi disturbatori per lo più nelle chiese, nelle contrade e nelle case», «nell'ospizio generale si devono ordinariamente ricevere... le zitelle che stanno in pericolo di per­dere l'onore», «per mezzo di queste fondazioni lo Stato si vede sgravato e libero di un numero infinito di vagabondi e scellerati, cagione di mille disordini e atti a commettere qualsivoglia sorte di furfanteria».

Le misure repressive sono durissime e non ri­sparmiano nemmeno i bambini: «Le autorità pub­bliche finiscono con il preoccuparsi sempre più dei pericoli della miseria invece che della mise­ria stessa».

La lettura dei due libri non solo ci fa conoscere una situazione sociale ricca di insegnamenti, ma ci aiuta anche a capire i motivi per cui il Mini­stero dell'interno, che ancora oggi esercita le competenze assistenziali di livello nazionale, ab­bia dichiarato nel 1969 che «l'assistenza pubbli­ca a bisognosi (...) racchiude in sé un rilevante interesse generale, in quanto i servizi e le atti­vità assistenziali concorrono a difendere il tes­suto sociale da elementi passivi e parassitari».

 

 

D.W. WINNICOTT, Il bambino deprivato - Le ori­gini della tendenza antisociale, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1986, pp. 359, L. 37.000.

 

Il libro, pubblicato postumo, raccoglie gli scrit­ti più importanti di Winnicott, in merito agli ef­fetti negativi causati sullo sviluppo della perso­nalità del bambino in seguito a deprivazione af­fettiva.

Tutto il pensiero di Winnicott ruota intorno a pochi concetti chiave, che possono sinteticamen­te tradursi nella necessità che il bambino possa disporre, sin dai primi istanti di vita, di una figu­ra materna sufficientemente idonea, capace di creare per lui un ambiente in grado di tenere; so­stenere e, soprattutto, contenere i bisogni che egli via via andrà esprimendo.

La separazione brusca, l'allontanamento (an­che solo per un breve ricovero in ospedale) pos­sono portare ad una rottura della continuità pre­stata dall'ambiente; il bambino può incorrere co­sì a fenomeni di privazione o deprivazione. Se la deprivazione capita in un momento difficile della vita del bambino, può produrre effetti duraturi e così profondi, al punto che Winnicott arriva a sostenere che all'origine della tendenza antiso­ciale c'è sicuramente la deprivazione.

Il secondo principio che viene sostenuto dall'Autore è che si deve fare tutto il possibile af­finché nessun bambino sia sottratto alla sua fa­miglia, naturalmente quando tra il bambino e i suoi genitori sussiste un buon rapporto.

Tuttavia, succede che il bambino non trovi nel­la sua famiglia le cure e l'affetto che gli sono in­dispensabili per crescere bene; allora Winnicott individua, anche qui con una certa lungimiranza, la famiglia affidataria o la piccola comunità come le risposte più consone a permettere il manteni­mento di quella «continuità» di cui si accennava prima, sia fisica che psichica. Forse per il fatto che Winnicott si è occupato di adolescenti, il problema dell'adozione non viene affrontato.

In sostanza risulta prioritario che «ogni fami­glia normale possa disporre in misura sufficien­te di alloggio, cibo, vestiario, scuole, opportunità di svago e culturali», «se il bambino va allonta­nato si cerchi una famiglia affidataria e, se que­sta non è reperibile, si preferisca in ogni caso la comunità all'istituto».

Ci sembra insomma che tutto il volume sia un richiamo continuo all'affermazione del diritto del minore ad avere una famiglia che si occupi di lui in maniera sufficientemente valida. Non poteva mancare uno stimolo, a volte benevolmente pro­vocatorio, per quanti (magistrati, psicologi, as­sistenti sociali, educatori) operano nel campo dell'infanzia deprivata.

In particolare Winnicott vuole dimostrare, pro­prio ai magistrati dei tribunali per i minorenni che più di altri hanno a che fare con i bambini antisociali, l'esistenza di un legame tra delin­quenza e deprivazione di una vita familiare.

Egli mira a spostare l'azione di chi opera in questo particolare settore dell'infanzia depriva­ta dall'area degli interventi riparatori-punitivi (riformatori, carceri, istituti di rieducazione) a quella più propria, secondo la sua ipotesi, co­stituita da interventi preventivi e rieducativi (af­fidamento familiare, comunità alloggio).

Non a caso la sua esperienza di psicoterapeu­ta e la conoscenza di numerosi casi concreti di adolescenti deprivati e dalla loro tormentata in­fanzia, lo portano a sostenere in più parti del li­bro che è necessario agire in maniera tempesti­va, «perché ai bambini deprivati della vita fami­liare occorre dare qualcosa di personale e sta­bile quando sono ancora abbastanza piccoli da essere in grado di farne uso in qualche misura; in caso contrario ci obbligheranno in un tempo successivo offrire loro stabilità sotto forma di un istituto di rieducazione o, come estrema solu­zione, delle quattro pareti della cella di una pri­gione».

MARIA GRAZIA BREDA

 

 

JURGEN MOLTMANN, Diaconia. Il servizio cri­stiano nella prospettiva del Regno di Dio, Editri­ce Claudiana, Torino, 1986, pp. 123, L. 8.900.

 

Questo è un libro che ha l'obiettivo di far ri­flettere il cristiano che vuole impegnarsi nei con­fronti del fratello handicappato. C'è una precisa denuncia di quei diaconi che delegano all'istitu­zione Chiesa responsabilità e decisioni; c'è una lodevole denuncia anche dell'ipocrisia di tante scelte di volontariato effettuate nel tentativo ul­timo di risolvere i propri problemi e non certo quelli degli altri.

Si è però ancora lontani da un messaggio in­novatore, che dia la spinta necessaria per usci­re dalla limitatezza e dalla provvisorietà di qua­si tutti gli interventi realizzati dal diacono. La diaconia (o meglio, il volontariato) non può in­fatti essere lasciato solo alla buona volontà del singolo. Tanto meno possono limitarsi ad avere come spazio e confine la comunità ecclesiale. Il diacono-volontario dovrebbe sentirsi prima di tutto un cittadino, sapere che lo Stato deve tute­lare i più deboli e considerare quindi i suoi «as­sistiti» innanzitutto come persone aventi diritti. Dovrebbe allora accettare che la costruzione del «Regno» oggi passa anche per altre strade, ad esempio impegnandosi con chi si batte per la promozione dei diritti di tutte quelle persone che da sole non potranno mai farsi ragione: han­dicappati psichici, anziani non autosufficienti, mi­nori.

Certamente questo è un salto di qualità che richiede l'apertura del cristiano al sociale, alla lotta e alla battaglia politica per il miglioramen­to delle istituzioni. Ma si può, altrimenti, con­tinuare a coltivare bene, sempre e solo il proprio orticello? Si può limitare il proprio intervento esclusivamente alla comunità di appartenenza?

Un'altra osservazione merita il tema dell'isti­tuto. Anche qui bisogna operare una scelta. Co­me si può, infatti, illustrare e denunciare i limiti dell'istituto (come viene fatto in più parti del li­bro) e, poi, alla fine accettarlo comunque sebbe­ne lo si ponga come «ultima spiaggia»?

Un dubbio a questo punto è più che lecito: probabilmente si continua a non modificare nulla semplicemente perché ci si preoccupa di salvare di più la struttura che i diritti delle persone ri­coverate. Ci possono essere altre spiegazioni?

Lasciamo questa riflessione e questo interro­gativo a tutti coloro che - credenti o non - in­tendono seriamente percorrere in questo campo la strada della giustizia, privilegiando le persone e non le cose.

 

 

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