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CONTINUANO AD AUTOESALTARSI GLI
ISTITUTI DI ASSISTENZA ALL'INFANZIA
Riportiamo integralmente la lettera inviata il 20 gennaio
1988 dalla Sezione di Firenze della ANFAA all'Arcivescovo, al Giudice tutelare,
all'Assessore comunale alla sicurezza sociale, alla Commissione diocesana
della Famiglia della Curia vescovile, alla Caritas diocesana e alla Superiora
dell'orfanotrofio femminile antoniano del Padre Annibale di Francia «Villa II
Pozzino», (Castello di Firenze), lettera rimasta finora senza alcuna risposta.
Come tutti
sanno, ogni bambino per poter crescere ha bisogno di un ambiente ricco di
stimoli affettivi. La famiglia (sia essa biologica, affidataria o adottiva) è
senz'altro la struttura sociale in grado di fornire le condizioni migliori al
riguardo. Al contrario il ricovero in istituto provoca seri traumi al minore,
spesso irreversibili e tanto più gravi quanto più precoce e più lunga è la sua
istituzionalizzazione.
Non è di
questo parere la piccola Silvia, alunna della scuola «Padre Annibale di
Francia», gestita dalle suore del Divino Zelo dell'Orfanotrofio Femminile
Antoniano di Castello (Firenze)
Secondo quanto
scrive la bambina - che ha chiesto ed attenuto di provare a vivere un giorno da
«interna» nell'istituto - l'esperienza del collegio è bellissima («...si
giocava, si guardava la televisione, si mangiavano dolci e c'erano anche molte
cose con cui giocare... Una sera divertente ed indimenticabile... La mattina
successiva provai un po' di tristezza a lasciare il reparto interno... Anche
se a casa mia mi trovo benissimo, mi piacerebbe essere interna, cioè vivere
insieme a più bambini, in una grande famiglia...»).
Anche
ammettendo l'efficienza dell'Orfanotrofio da un punto di vista logistico, ci
sembra estremamente preoccupante la logica che sottostà allo scritto:
accreditare la convinzione che vivere in istituto sia meglio, o uguale, che
vivere in famiglia.
Tutto questo,
secondo noi, è falso e mistificatorio perché induce chi legge a minimizzare le
sofferenze dei bambini soli.
Trentadue anni
fa, Don Lorenzo Milani scrivendo ad una giovane sposa nel giorno delle nozze
affermava: «... Il tuo Serafino è figlio d'un povero operaio. Anzi un po' meno
che figliolo d'un operaio. È figliolo della vedova d'un povero operaio. Anzi un
po' meno che figliolo d'una vedova. È uno di quegli infelici cresciuti
nell'inferno dei figlioli delle vedove dei poveri operai: il collegio. Un santo
collegio fondato da un santo, ma non per questo meno un inferno di sofferenza».
Si sollecita
una presa di posizione sul problema.
LETTERA SULL'OSPEDALIZZAZIONE A
DOMICILIO
Riportiamo integralmente la lettera pubblicata su «La
Stampa» del 24 aprile 1988 (1).
«Sono la
figlia di una persona che, negli ultimi mesi della sua vita, è stata assistita
a domicilio da una équipe dell'ospedale di giorno delle Molinette. Il 25 marzo
scorso mia madre è morta e, passati i primi giorni di spaesamento e di rifiuto
della realtà, mi accingo ora ad assolvere alcuni atti doverosi. Il primo è di
ringraziare chi ha organizzato un servizio di civismo esemplare.
«Mia madre,
che aveva 83 anni, aveva fatto il medico tisiologo per oltre 35 anni e a Sofia
- la Bulgaria era il suo paese natale - aveva diretto fino al 1958 il
dispensario centrale contro la tubercolosi. Negli ultimi anni non era più
autonoma, ma io non sopportavo il pensiero di farle finire la sua vita nello
squallore di una casa per anziani o nell'anonimato di un letto d'ospedale.
«Grazie al
personale dell'Ospedale ciò è stato possibile: fino all'ultimo barlume di
coscienza le hanno tenuto compagnia le forme, gli odori ed i rumori della sua
casa, le nostre voci, l'abbaiare del suo cane. È stata - insomma - viva fino
alla fine».
(1) La lettera si riferisce al servizio descritto nel libro
di F. Fabris e L. Pernigotti, Ospedalizzazione
a domicilio. Curare a casa malati acuti e cronici: come e perché, Rosenberg
& Sellier, Torino, 1987, pp. 191, L. 19.000.
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