Prospettive assistenziali, n. 83, luglio-settembre 1988

 

 

LA DIFFICILE VIA DELLA LAICITÀ NEL SISTEMA ASSISTENZIALE FRA VOLONTARIATO E PRIVATIZZAZIONE

 

 

Le «Comunità cristiane di base» (1) si sono incontrate a Firenze - Scandicci, nei giorni 1- 3 maggio 1987 in occasione dell'VII Convegno Nazionale che ha avuto per tema: «Laicità nella società, nello Stato, nella Chiesa».

Con il convegno le «Comunità cristiane di ba­se» hanno tentato di interrogarsi e confrontarsi con quella parte di mondo cattolico aperta al nuovo, attenta al futuro dell'uomo e ai suoi biso­gni e disponibile per questo a farsi coinvolgere - ma non ad integrarsi - con tutte le forze po­litiche, sociali e culturali democratiche e progressiste.

Le «Comunità cristiane di base» si sono chie­ste cioè se è possibile vivere in autonomia sen­za essere stritolati da chi gestisce il «potere», il «sacro»; se è possibile organizzarsi autonoma­mente senza legittimazioni dall'alto per poter esistere nella storia; se il cambiamento, infine della chiesa e della società, passa per l'autono­mia delle comunità (in quanto chiese locali) e dei movimenti di liberazione emergenti, o rincor­re gioco forza sempre e comunque «palazzi e poltrone».

Il convegno si è articolato In sei commissioni di lavoro. Presentiamo i documenti della IV Commissione, per l'interesse che possono ave­re per i nostri lettori, relativi al tema: «La diffi­cile via della laicità nel sistema assistenziale fra volontariato e privatizzazione». È rilevante osservare che alla commissione hanno parteci­pato oltre 35 realtà che per provenienza possia­mo considerare rappresentative di quasi tutte le regioni italiane, isole comprese, tutte coinvolte, tra l'altro, in esperienze concrete di volontariato.

 

IV COMMISSIONE - Indicazioni conclusive

 

La volontà politica attuale nella carenza di pro­getti e nella volontà di non fare è quella di «dele­gare» al privato lo stato sociale.

Delegare non solo nelle strutture, ma anche nelle responsabilità dirette perché è meglio dare denaro pubblico ai privati piuttosto che assumersi le proprie responsabilità politiche.

Appare che il volontariato singolo ed organiz­zato si apre in due tipologie: volontariato che si impegna nella assistenza diretta ed immediata, dando una prima risposta alla emergenza, e vo­lontariato che promuove, sollecita, stimola gli enti tenuti ad intervenire per rimuovere le cause che hanno provocato lo stato di bisogno.

Come persone che operano nelle Comunità di base e che attraverso queste maturano la loro esperienza sentiamo il bisogno di farci carico, insieme con le altre organizzazioni politiche e sindacali; e in modo laico, del fatto «emargina­zione»; di essere portavoce del bisogno delle persone che non sono in grado di organizzarsi, di difendersi; di denunciare carenze, latitanze, ingiustizie e proclamare il rispetto dei loro dirit­ti nel quadro di un moderno sistema di sicurez­za sociale.

Ricostruire una mentalità laica in questo set­tore vuol dire uscire dal concetto sacro di assi­stenza inteso quasi sempre come carità e che fa parte della nostra cultura cattolica. Questo comporta che il volontariato riscopra nei singo­li campi una autentica professionalità, ciò non per scavalcare né sostituire gli enti pubblici, ma per cercare con partiti,movimenti, sindacati una collaborazione stimolante per una programma­zione più organica dei servizi, ma anche per svi­luppare nella gente comune una maggiore co­scienza del sociale.

Prendiamo atto che si sta concretizzando la creazione di cooperative anche nell'ambito delle Comunità di base. Vorremmo sottolineare che la cooperativa non è propriamente volontariato. Il volontariato può promuovere, con lo stile che gli è proprio, la creazione di cooperative e con­tinuare a lavorare in questo spirito di promozio­ne di servizi, di sensibilizzazione dell'ente pub­blico, della formazione degli operatori.

Tutti i valori sin qui sottolineati per il volon­tariato dovrebbero, secondo la nostra analisi, essere trasferiti nel campo delle cooperative che grandi e piccole pullulano fra di noi, ma che forse stanno perdendo il significato essenziale della cooperazione per diventare un nuovo mo­mento di espressione di potere, di guadagno, di sfruttamento.

Lo spirito del volontariato laico delle Comuni­tà di base non può più essere momento di realiz­zazione personale o di gratificazione di gruppo, nemmeno può derivare da un momento emozio­nale ed occasionale, ma deve diventare ogni gior­no di più una risposta corretta ai bisogni della storia ed una realizzazione sostanziale dell'amore per gli ultimi.

 

Pista di lavoro

Il volontariato può essere di due tipi: volonta­riato che si impegna in assistenza diretta e volon­tariato che promuove, sollecita, stimola gli enti tenuti ad intervenire ad adempiere ai loro compiti.

Obiettivo del volontariato non è assistere tut­ti e bene, ma agire perché sempre meno persone abbiano bisogna di essere assistite.

Il volontario non deve accontentarsi di ciò che può fare lui, né di ciò che può fare il privato; deve battersi per ottenere dal servizio pubblico ciò che è di diritto.

Il volontariato (che agisce in maniera autono­ma, ma in collaborazione con l'istituzione) è la forza che può - con effettiva partecipazione - rinnovare e migliorare l'istituzione stessa.

Il volontariato deve intervenire sulla base di progetti, non sulla emotività del momento; deve essere coerente, continuativo nel tempo e gratui­to.

Il volontariato non è solo «fare», ma anche «pensare», «inventare», creare forme sempre più a dimensione umana di intervento.

 

La condivisione non può bastare: bisogna lottare anche per il cambiamento.

Molte volte il cristiano può diventare complice, con le sue azioni «di carità», delle ingiustizie so­ciali e delle negligenze dello Stato. La «buona fe­de» non può continuare ad essere il nostro alibi, la nostra giustificazione.

Di volontari ce ne sono di tanti tipi, dal volon­tario della croce rossa a quello in chiave più mo­derna che si occupa di ecologia, ma i volontari per «eccellenza» sono ancora oggi i cattolici che si dedicano all'assistenza degli emarginati.

L'immagine che appare ai nostri occhi, quando sentiamo la parola volontario, è spesso ancora quella di una persona «cattolica», soprattutto don­na, che si accosta ad un'altra persona: malata, anziana... Con una sforzo possiamo anche vede­re dei giovani di una parrocchia che cercano di portare un po' di allegria a dei ragazzini handicap­pati o a dei bambini ricoverati in qualche istitu­to. Se ci impegniamo ancora un po' riusciamo a pensare ad una comunità per giovani disadat­tati; tossicodipendenti; ex detenuti; ad una fa­miglia affidataria o ad una famiglia adottiva...

Queste immagini disegnano il «curriculum» storico, del concetto di volontariato, ci mostrano per titoli la sua evoluzione dall'idea di volonta­riato come chi fa le opere e presta assistenza dall'esterno, a chi invece mette in gioco la sua stessa esistenza condividendo la sua vita con l'altro (bambino senza famiglia, handicappata, ragazzo disadattato...) che in quel momento ha bisogno di lui.

Oggi convivono entrambi questi modi di acco­starsi all'ultimo; entrambi poi si fondano sul fat­to che chi sta meglio, chi è stato più fortunato, non deve dimenticare chi invece non lo è.

Ed ecco che nasce e trova posto l'atto della condivisione.

Ma se cristianamente parlando c'è naturalmen­te un abisso tra queste due forme di volontaria­to, perché nella condivisione io mi gioco tutto (tranquillità, soldi, spazi personali...), che diffe­renza passa nei confronti della società laica tra chi si limita a prestare le opere e chi condivide?

Per non svuotare nel suo significato profonda il concetto di condivisione e trasformarlo invece in uno slogan come altri (solidarietà, fraternità, comunione...) è bene interrogarsi un po' più a fondo sulle nostre scelte di cristiani che hanno deciso di impegnarsi nel campo del volontariato. Troppe volte in passato, ma anche nel presente, noi siamo stati complici di mancanze e inadem­pienze degli organi di governo, «tamponando» con le nostre buone azioni i loro vuoti di inter­vento.

La condivisione ha un altissimo valore umano e civile, oltre che cristiano; ma è un'azione mol­to legata al personale e limitata (per essere vera) a pochi. Non può pertanto essere considerata come la «panacea ideale» per ogni male con cui veniamo a trovarci coinvolti, come strumento capace di rimuovere anche le cause oltre che il bisogno di assistenza.

 

Rischio delle supplenze

Il concetto di condivisione lo troviamo spesso, oggi, legato a situazioni molto diversificate tra loro. Vediamone alcune.

- Ci sono alcuni ragazzini handicappati, ma lievi; finita la scuola dell'obbligo la famiglia non sa bene dove indirizzarli. Non sono gravi e quin­di non sono accettati nei centri specializzati per la assistenza e l'unica soluzione sembra quella di restare a casa.

I volontari della zona o della parrocchia deci­dono quell'anno di operare a favore degli handi­cappati. Pensano che di lavoro, per questi ragaz­zini, non se ne parlerà mai e decidono allora di condividere la loro stessa condizione. Come? Attivano (coi fondi della parrocchia, con qualche sussidio del Comune) una cooperativa, che na­turalmente non ha la pretesa di garantire a que­sti soggetti uno stipendio reale. Lo scopo è: in­serimento al lavoro o pura assistenza? E se è pura assistenza, non abbiamo violato dei diritti previsti dalla stessa Costituzione, quale il diritto al lavoro per tutti, handicappati compresi?

- C'è un anziano non più autosufficiente. L'ospedale non può dimetterlo. Le leggi parlano chiaro, anche se pochi le conoscono e meno an­cora le rispettano. Ma gli infermieri del reparto, l'assistente sociale, il primario continuano a ri­petere che i letti non ci sono e quei pochi dispo­nibili vanno naturalmente per i casi acuti. I ma­lati cronici non hanno diritto alle cure sanitarie, sembra. La famiglia si sente in colpa, accetta le dimissioni, ma non ce la fa a reggere la situazio­ne che, oltre che pesante, ha bisogno anche di personale esperto. I volontari si fanno in quattro per farlo ricoverare in un istituto per anziani, do­ve loro possono garantire alla famiglia di seguir­lo. Ma era questo il trattamento cui aveva dirit­to il malato?

- I giovani del quartiere più disperato della città sono spesso a zonzo per le strade e più fa­cilmente raggiungibili dalla droga.

Perché non occuparli? Ecco che i volontari in­ventano un «laboratorio» di quartiere per loro. E poi?

- La scuola media del quartiere ha una deci­na di ragazzini che disturbano. Sono i figli di «quelli delle case popolari», i futuri delinquenti, quelli che si invita a non frequentare... I volonta­ri vogliono fare qualcosa per questi «ultimi», vo­gliono condividere con loro, ad esempio, ciò che sanno ed organizzano un dopo-scuola, ma è que­sto un servizio reso ai ragazzi o alla scuola?

E gli esempi potrebbero continuare. Ma come cristiani che si dicono di «sinistra» e che cer­cano (forse con una punta di presunzione) di coniugare fede e politica proprio nel quotidiano, può bastarci una lettura così veloce delle situa­zioni, pochi attimi per prendere le decisioni e sentirci soddisfatti?

Proviamo a rivedere gli stessi esempi, non so­lo con l'urgenza del fare qualcosa presto e su­bito (questa purtroppo è una delle tante pecche cattoliche che ci portiamo dietro), perché è bene ricordare che «fare per il fare» non può portare che danni e i danni, anche se fatti in buona fede, sono e restano tali.

Ma prima facciamo una premessa.

Quasi sempre siamo portati a non pensare a chi è tenuto ad intervenire per legge e per di­ritto di chi ha bisogno. Se è doveroso interveni­re per riparare le ingiustizie, e però altrettanto doveroso intervenire con competenza. Spesso ci lasciamo anche prendere dal gusto di una cer­ta onnipotenza che ci fa presumere di sapere sempre cosa è meglio fare, senza preoccuparci di informarci sull'esistente e raramente andan­do oltre il caso specifico per risalire alle cause più lontane che lo hanno determinato. Come se il medico si limitasse a mettere un cerotto su un taglio profondo e non si curasse di capire la sua entità, se ci possono essere conseguenze... e così via.

Altro errore è di delegare con molta facilità all'assistenza volontaria e, nel migliore dei casi, a quella dello Stato la risposta a qualunque bisogno­

Ebbene, acquisire una mentalità laica anche in questo settore vuol forse dire uscire dal con­cetto sacro di assistenza che abbiamo maturato dentro come salvacondotto universale. Assistere non basta e, sovente, è anche contro l'interesse stesso di chi vogliamo assistere.

Riprendiamo gli esempi di prima in chiave più laica.

- I ragazzini handicappati fisici, psichici e sen­soriali hanno diritto innanzitutto di frequentare le scuole non solo dell'obbligo, ma anche supe­riori. Naturalmente hanno anche diritto al lavoro. Compito del volontario è ad esempio impegnarsi presso l'assessorato al lavoro e alla formazione professionale perché questi diritti siano garan­titi e battersi (coi sindacati, con le associazioni, coi partiti...) perché sia anche garantito il posto di lavoro, come le leggi prevedono.

- L'anziano non autosufficiente viene dimesso dall'ospedale, ma ha ancora bisogno di cure. Compito del volontario è: verificare se la fami­glia può, se aiutata (con personale e con soste­gno economico), ospitare l'anziano in casa; se ciò non è possibile, il volontario non può accettare che l'anziano finisca in un istituto di riposo, dove, pur con rette altissime, non ha la garanzia di es­sere curato. Solo l'ospedale, infatti, dà diritto per legge ad avere le cure sanitarie gratuite a cui l'anziano, tra l'altro, ha diritto e per le quali ha pagato con tanti anni di lavoro.

Visto poi che nessuno di noi ama passare fa propria esistenza in ospedale, ci si dovrà impe­gnare per pretendere, dai propri enti locali, che siano realizzate costruzioni più umane, ma con la garanzia di interventi sanitari. Quando pensia­mo agli istituti di ricovero non dimentichiamo le denunce e gli scandali: purtroppo non sono fatti episodici!

- Costruire un laboratorio di quartiere è com­plicato. Costa anche stare a fianco di questi gio­vani sbandati che hanno poca voglia di lavorare. Ma c'è poi uno sbocco lavorativo reale, impara­no a fare qualche lavoro o è solo un parcheggio? Un alibi per la cittadinanza, per gli assessori competenti, per il volontario che sente di fare qualcosa?

- La scuola scarica chi disturba. Perché il vo­lontario non si impegna per cambiare la scuola? Perché inventa dopo-scuola che emarginano ulte­riormente questi ragazzini e non preme invece sugli organi competenti: provveditorato, colle­gio docenti, consigli di istituto, assessorato all'istruzione, assessorato alla gioventù, allo sport, al tempo libero... affinché intervengano con pro­getti seri?

So che hanno l'aria di essere un po' delle pro­vocazioni, ma forse stiamo rischiando anche noi di sacralizzare certi tipi di intervento, rischiando cioè di non discutere più di ciò che si fa e di co­me si fa; il sacrificio personale, il costo in ter­mini di tempo e di rinunce sembrano giustificare da soli le nostre azioni.

Un po' di autoanalisi forse fa bene.

 

Volontariato promozionale

Se riflettiamo un po' vediamo che con i nostri interventi personali possiamo raggiungere un nu­mero limitato di persone. E gli altri «centomila»... dove li mettiamo? Nelle mani di Dio, va bene, ma non basta. Gli «assistiti» sono persone che non sono in grado di difendersi, per questo c'è l'ur­genza che molti di più si preoccupino di dar loro una voce. Come? Proviamo a parlare anche di volontariato promozionale, emerito sconosciuto. Se ne parla poco perché è scomodo per tutti: per i gruppi di potere, per i partiti, per i sindacati, per le associazioni che lavorano solo con lo scopo di difendere e conquistare privilegi per i loro iscritti, perché non guarda in faccia nessuno.

È scomodo anche per noi perché non si vede, non si tocca con mano. È fatto di riunioni, di in­contri con persone di potere, di letture noiose di leggi, circolari e delibere. Di comunicati stampa e articoli su giornali...

È scomodo perché ci fa sentire spesso soli, impotenti, incapaci e non compresi: dai familiari a cui rubiamo tempo, dagli amici, che pensano che perdiamo invece il nostro tempo, dai risul­tati che non sono così immediati come le grati­ficazioni che si hanno nel volontariato diretto, cui non mancano certo le amarezze, ma anche le gioie.

Vogliamo però approfittare del convegno di Firenze per rivisitare qual è l'azione profetica, il suo senso e il suo posto nella nostra società? E forse troveremo un posto anche per questo volontariato.

Proviamo a camminare con coraggio e speran­za anche in una nuova direzione. L'esperienza del volontariato promozionale dimostra che, pur fra alti e bassi, è possibile ottenere risultati concreti, è possibile cioè far avanzare la preven­zione del bisogno s nello stesso tempo migliora­re le condizioni di vita delle persone che devono essere assistite.

Certo è che il ruolo svolto dai movimenti di base (volontariato promozionale, appunto) nella lotta contro le istituzioni di ricovero e per la cre­azione di servizi alternativi non è ben vista, pro­prio perché con la sua azione mina alla radice il sistema assistenziale e la sua rete di clientela oltre che di mantenimento dello status quo. Ma può un progetto essere valido se non comprende anche iniziative contro le cause che hanno pro­vocato emarginazione e disadattamento? Si può fare volontariato e non politica?

Concludo con un'affermazione che mi ha fatto molto pensare, perché giunge da Mons. Nervo (ex vice-presidente della Caritas Italia) al conve­gno nazionale sul volontariato tenutosi a Lucca il 9-10-11 Maggio 1986: «Anche la scelta di lascia­re le cose come sono, di non impegnarsi a cam­biarle è una scelta politica».

 

 

(1) Le «Comunità cristiane di base» sono nate all'incirca nel 1970, sullo spirito del Concilio ecumenico Vaticano II, che aveva affermato che la Chiesa non è una società, una organizzazione diretta dall'alto (papa, vescovi, preti), ma una fraternità, una comunità di fede che insieme cerca, prega, legge la Parola di Dio per compiere la sua volontà.

Da qui una parte di cristiani si organizzò in piccole comunità, sparse in quasi tutta l'Italia, e capì che era tempo di farsi avanti per assumersi nuove responsabilità, non solo nella Chiesa, ma anche nella storia e quindi nel­la società: non più deleghe, ma impegno in prima perso­na per un mondo più giusto, in mezzo agli altri e con gli altri.

Oggi le Comunità cristiane di base continuano la loro ricerca di fede, al di là dei dogmi e degli schemi imposti dalla Chiesa ufficiale, in dialogo o in conflitto con essa. Cercano inoltre di battersi (nei movimenti, nei sindacati, nei partiti, ...) per coloro che nella società sono emargi­nati od esclusi, proprio perché credono che la fede non può essere vissuta pienamente se non ci si impegna con­cretamente per lottare contro le ingiustizie.

 

 

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