LA DIFFICILE VIA DELLA LAICITÀ NEL
SISTEMA ASSISTENZIALE FRA VOLONTARIATO E PRIVATIZZAZIONE
Le «Comunità cristiane di base» (1) si sono incontrate a Firenze - Scandicci,
nei giorni 1- 3 maggio 1987 in occasione dell'VII Convegno Nazionale che ha
avuto per tema: «Laicità nella società, nello Stato, nella Chiesa».
Con il
convegno le «Comunità cristiane di
base» hanno tentato di interrogarsi e
confrontarsi con quella parte di mondo cattolico aperta al nuovo, attenta al
futuro dell'uomo e ai suoi bisogni e disponibile per questo a farsi
coinvolgere - ma non ad integrarsi - con tutte le forze politiche, sociali e
culturali democratiche e progressiste.
Le «Comunità cristiane di base» si sono chieste cioè se è possibile vivere in autonomia senza essere
stritolati da chi gestisce il «potere», il «sacro»; se è possibile organizzarsi
autonomamente senza legittimazioni dall'alto per poter esistere nella storia;
se il cambiamento, infine della chiesa e della società, passa per l'autonomia
delle comunità (in quanto chiese locali) e dei movimenti di liberazione
emergenti, o rincorre gioco forza sempre e comunque «palazzi e poltrone».
Il convegno
si è articolato In sei commissioni di lavoro. Presentiamo i documenti della IV
Commissione, per l'interesse che possono avere per i nostri lettori, relativi
al tema: «La difficile via della
laicità nel sistema assistenziale fra volontariato e privatizzazione». È rilevante osservare che alla commissione
hanno partecipato oltre 35 realtà che per provenienza possiamo considerare
rappresentative di quasi tutte le regioni italiane, isole comprese, tutte
coinvolte, tra l'altro, in esperienze concrete di volontariato.
IV
COMMISSIONE - Indicazioni conclusive
La volontà politica attuale nella carenza di progetti
e nella volontà di non fare è quella di «delegare» al privato lo stato
sociale.
Delegare non solo nelle strutture, ma anche nelle
responsabilità dirette perché è meglio dare denaro pubblico ai privati
piuttosto che assumersi le proprie responsabilità politiche.
Appare che il volontariato singolo ed organizzato si
apre in due tipologie: volontariato che si impegna nella assistenza diretta ed
immediata, dando una prima risposta alla emergenza, e volontariato che
promuove, sollecita, stimola gli enti tenuti ad intervenire per rimuovere le
cause che hanno provocato lo stato di bisogno.
Come persone che operano nelle Comunità di base e che
attraverso queste maturano la loro esperienza sentiamo il bisogno di farci
carico, insieme con le altre organizzazioni politiche e sindacali; e in modo
laico, del fatto «emarginazione»; di essere portavoce del bisogno delle
persone che non sono in grado di organizzarsi, di difendersi; di denunciare
carenze, latitanze, ingiustizie e proclamare il rispetto dei loro diritti nel
quadro di un moderno sistema di sicurezza sociale.
Ricostruire una mentalità laica in questo settore
vuol dire uscire dal concetto sacro di assistenza inteso quasi sempre come
carità e che fa parte della nostra cultura cattolica. Questo comporta che il
volontariato riscopra nei singoli campi una autentica professionalità, ciò non
per scavalcare né sostituire gli enti pubblici, ma per cercare con partiti,movimenti,
sindacati una collaborazione stimolante per una programmazione più organica
dei servizi, ma anche per sviluppare nella gente comune una maggiore coscienza
del sociale.
Prendiamo atto che si sta concretizzando la creazione
di cooperative anche nell'ambito delle Comunità di base. Vorremmo sottolineare
che la cooperativa non è propriamente volontariato. Il volontariato può
promuovere, con lo stile che gli è proprio, la creazione di cooperative e continuare
a lavorare in questo spirito di promozione di servizi, di sensibilizzazione
dell'ente pubblico, della formazione degli operatori.
Tutti i valori sin qui sottolineati per il volontariato
dovrebbero, secondo la nostra analisi, essere trasferiti nel campo delle
cooperative che grandi e piccole pullulano fra di noi, ma che forse stanno
perdendo il significato essenziale della cooperazione per diventare un nuovo momento
di espressione di potere, di guadagno, di sfruttamento.
Lo spirito del volontariato laico delle Comunità di
base non può più essere momento di realizzazione personale o di gratificazione
di gruppo, nemmeno può derivare da un momento emozionale ed occasionale, ma
deve diventare ogni giorno di più una risposta corretta ai bisogni della
storia ed una realizzazione sostanziale dell'amore per gli ultimi.
Pista di lavoro
Il volontariato può essere di due tipi: volontariato
che si impegna in assistenza diretta e volontariato che promuove, sollecita,
stimola gli enti tenuti ad intervenire ad adempiere ai loro compiti.
Obiettivo del volontariato non è assistere tutti e
bene, ma agire perché sempre meno persone abbiano bisogna di essere assistite.
Il volontario non deve accontentarsi di ciò che può
fare lui, né di ciò che può fare il privato; deve battersi per ottenere dal
servizio pubblico ciò che è di diritto.
Il volontariato (che agisce in maniera autonoma, ma
in collaborazione con l'istituzione) è la forza che può - con effettiva
partecipazione - rinnovare e migliorare l'istituzione stessa.
Il volontariato deve intervenire sulla base di
progetti, non sulla emotività del momento; deve essere coerente, continuativo
nel tempo e gratuito.
Il volontariato non è solo «fare», ma anche
«pensare», «inventare», creare forme sempre più a dimensione umana di
intervento.
La condivisione non può bastare:
bisogna lottare anche per il cambiamento.
Molte volte il cristiano può diventare complice, con
le sue azioni «di carità», delle ingiustizie sociali e delle negligenze dello
Stato. La «buona fede» non può continuare ad essere il nostro alibi, la nostra
giustificazione.
Di volontari ce ne sono di tanti tipi, dal volontario
della croce rossa a quello in chiave più moderna che si occupa di ecologia, ma
i volontari per «eccellenza» sono ancora oggi i cattolici che si dedicano
all'assistenza degli emarginati.
L'immagine che appare ai nostri occhi, quando
sentiamo la parola volontario, è spesso ancora quella di una persona
«cattolica», soprattutto donna, che si accosta ad un'altra persona: malata, anziana...
Con una sforzo possiamo anche vedere dei giovani di una parrocchia che cercano
di portare un po' di allegria a dei ragazzini handicappati o a dei bambini
ricoverati in qualche istituto. Se ci impegniamo ancora un po' riusciamo a
pensare ad una comunità per giovani disadattati; tossicodipendenti; ex
detenuti; ad una famiglia affidataria o ad una famiglia adottiva...
Queste immagini disegnano il «curriculum» storico,
del concetto di volontariato, ci mostrano per titoli la sua evoluzione
dall'idea di volontariato come chi fa le opere e presta assistenza
dall'esterno, a chi invece mette in gioco la sua stessa esistenza condividendo
la sua vita con l'altro (bambino senza famiglia, handicappata, ragazzo
disadattato...) che in quel momento ha bisogno di lui.
Oggi convivono entrambi questi modi di accostarsi
all'ultimo; entrambi poi si fondano sul fatto che chi sta meglio, chi è stato
più fortunato, non deve dimenticare chi invece non lo è.
Ed ecco che nasce e trova posto l'atto della
condivisione.
Ma se cristianamente parlando c'è naturalmente un
abisso tra queste due forme di volontariato, perché nella condivisione io mi
gioco tutto (tranquillità, soldi, spazi personali...), che differenza passa
nei confronti della società laica tra chi si limita a prestare le opere e chi
condivide?
Per non svuotare nel suo significato profonda il
concetto di condivisione e trasformarlo invece in uno slogan come altri (solidarietà,
fraternità, comunione...) è bene interrogarsi un po' più a fondo sulle nostre
scelte di cristiani che hanno deciso di impegnarsi nel campo del volontariato.
Troppe volte in passato, ma anche nel presente, noi siamo stati complici di
mancanze e inadempienze degli organi di governo, «tamponando» con le nostre
buone azioni i loro vuoti di intervento.
La condivisione ha un altissimo valore umano e
civile, oltre che cristiano; ma è un'azione molto legata al personale e
limitata (per essere vera) a pochi. Non può pertanto essere considerata come la
«panacea ideale» per ogni male con cui veniamo a trovarci coinvolti, come
strumento capace di rimuovere anche le cause oltre che il bisogno di
assistenza.
Rischio delle supplenze
Il concetto di condivisione lo troviamo spesso, oggi,
legato a situazioni molto diversificate tra loro. Vediamone alcune.
- Ci sono alcuni ragazzini handicappati, ma lievi;
finita la scuola dell'obbligo la famiglia non sa bene dove indirizzarli. Non
sono gravi e quindi non sono accettati nei centri specializzati per la
assistenza e l'unica soluzione sembra quella di restare a casa.
I volontari della zona o della parrocchia decidono
quell'anno di operare a favore degli handicappati. Pensano che di lavoro, per
questi ragazzini, non se ne parlerà mai e decidono allora di condividere la
loro stessa condizione. Come? Attivano (coi fondi della parrocchia, con qualche
sussidio del Comune) una cooperativa, che naturalmente non ha la pretesa di
garantire a questi soggetti uno stipendio reale. Lo scopo è: inserimento al
lavoro o pura assistenza? E se è pura assistenza, non abbiamo violato dei
diritti previsti dalla stessa Costituzione, quale il diritto al lavoro per
tutti, handicappati compresi?
- C'è un anziano non più autosufficiente. L'ospedale
non può dimetterlo. Le leggi parlano chiaro, anche se pochi le conoscono e meno
ancora le rispettano. Ma gli infermieri del reparto, l'assistente sociale, il
primario continuano a ripetere che i letti non ci sono e quei pochi disponibili
vanno naturalmente per i casi acuti. I malati cronici non hanno diritto alle
cure sanitarie, sembra. La famiglia si sente in colpa, accetta le dimissioni,
ma non ce la fa a reggere la situazione che, oltre che pesante, ha bisogno
anche di personale esperto. I volontari si fanno in quattro per farlo
ricoverare in un istituto per anziani, dove loro possono garantire alla
famiglia di seguirlo. Ma era questo il trattamento cui aveva diritto il
malato?
- I giovani del quartiere più disperato della città
sono spesso a zonzo per le strade e più facilmente raggiungibili dalla droga.
Perché non occuparli? Ecco che i volontari inventano
un «laboratorio» di quartiere per loro. E poi?
- La scuola media del quartiere ha una decina di
ragazzini che disturbano. Sono i figli di «quelli delle case popolari», i
futuri delinquenti, quelli che si invita a non frequentare... I volontari
vogliono fare qualcosa per questi «ultimi», vogliono condividere con loro, ad
esempio, ciò che sanno ed organizzano un dopo-scuola, ma è questo un servizio
reso ai ragazzi o alla scuola?
E gli esempi potrebbero continuare. Ma come cristiani
che si dicono di «sinistra» e che cercano (forse con una punta di presunzione)
di coniugare fede e politica proprio nel quotidiano, può bastarci una lettura
così veloce delle situazioni, pochi attimi per prendere le decisioni e
sentirci soddisfatti?
Proviamo a rivedere gli stessi esempi, non solo con
l'urgenza del fare qualcosa presto e subito (questa purtroppo è una delle
tante pecche cattoliche che ci portiamo dietro), perché è bene ricordare che
«fare per il fare» non può portare che danni e i danni, anche se fatti in buona
fede, sono e restano tali.
Ma prima facciamo una premessa.
Quasi sempre siamo portati a non pensare a chi è
tenuto ad intervenire per legge e per diritto di chi ha bisogno. Se è doveroso
intervenire per riparare le ingiustizie, e però altrettanto doveroso
intervenire con competenza. Spesso ci lasciamo anche prendere dal gusto di una
certa onnipotenza che ci fa presumere di sapere sempre cosa è meglio fare,
senza preoccuparci di informarci sull'esistente e raramente andando oltre il
caso specifico per risalire alle cause più lontane che lo hanno determinato.
Come se il medico si limitasse a mettere un cerotto su un taglio profondo e non
si curasse di capire la sua entità, se ci possono essere conseguenze... e così
via.
Altro errore è di delegare con molta facilità
all'assistenza volontaria e, nel migliore dei casi, a quella dello Stato la
risposta a qualunque bisogno
Ebbene, acquisire una mentalità laica anche in questo
settore vuol forse dire uscire dal concetto sacro di assistenza che abbiamo
maturato dentro come salvacondotto universale. Assistere non basta e, sovente,
è anche contro l'interesse stesso di chi vogliamo assistere.
Riprendiamo gli esempi di prima in chiave più laica.
- I ragazzini handicappati fisici, psichici e sensoriali
hanno diritto innanzitutto di frequentare le scuole non solo dell'obbligo, ma
anche superiori. Naturalmente hanno anche diritto al lavoro. Compito del
volontario è ad esempio impegnarsi presso l'assessorato al lavoro e alla
formazione professionale perché questi diritti siano garantiti e battersi (coi
sindacati, con le associazioni, coi partiti...) perché sia anche garantito il
posto di lavoro, come le leggi prevedono.
- L'anziano non autosufficiente viene dimesso
dall'ospedale, ma ha ancora bisogno di cure. Compito del volontario è:
verificare se la famiglia può, se aiutata (con personale e con sostegno
economico), ospitare l'anziano in casa; se ciò non è possibile, il volontario
non può accettare che l'anziano finisca in un istituto di riposo, dove, pur con
rette altissime, non ha la garanzia di essere curato. Solo l'ospedale,
infatti, dà diritto per legge ad avere le cure sanitarie gratuite a cui
l'anziano, tra l'altro, ha diritto e per le quali ha pagato con tanti anni di
lavoro.
Visto poi che nessuno di noi ama passare fa propria
esistenza in ospedale, ci si dovrà impegnare per pretendere, dai propri enti
locali, che siano realizzate costruzioni più umane, ma con la garanzia di
interventi sanitari. Quando pensiamo agli istituti di ricovero non
dimentichiamo le denunce e gli scandali: purtroppo non sono fatti episodici!
- Costruire un laboratorio di quartiere è complicato.
Costa anche stare a fianco di questi giovani sbandati che hanno poca voglia di
lavorare. Ma c'è poi uno sbocco lavorativo reale, imparano a fare qualche
lavoro o è solo un parcheggio? Un alibi per la cittadinanza, per gli assessori
competenti, per il volontario che sente di fare qualcosa?
- La scuola scarica chi disturba. Perché il volontario
non si impegna per cambiare la scuola? Perché inventa dopo-scuola che
emarginano ulteriormente questi ragazzini e non preme invece sugli organi
competenti: provveditorato, collegio docenti, consigli di istituto,
assessorato all'istruzione, assessorato alla gioventù, allo sport, al tempo
libero... affinché intervengano con progetti seri?
So che hanno l'aria di essere un po' delle provocazioni,
ma forse stiamo rischiando anche noi di sacralizzare certi tipi di intervento,
rischiando cioè di non discutere più di ciò che si fa e di come si fa; il
sacrificio personale, il costo in termini di tempo e di rinunce sembrano
giustificare da soli le nostre azioni.
Un po' di autoanalisi forse fa bene.
Volontariato promozionale
Se riflettiamo un po' vediamo che con i nostri
interventi personali possiamo raggiungere un numero limitato di persone. E gli
altri «centomila»... dove li mettiamo? Nelle mani di Dio, va bene, ma non
basta. Gli «assistiti» sono persone che non sono in grado di difendersi, per
questo c'è l'urgenza che molti di più si preoccupino di dar loro una voce.
Come? Proviamo a parlare anche di volontariato promozionale, emerito
sconosciuto. Se ne parla poco perché è scomodo per tutti: per i gruppi di
potere, per i partiti, per i sindacati, per le associazioni che lavorano solo
con lo scopo di difendere e conquistare privilegi per i loro iscritti, perché
non guarda in faccia nessuno.
È scomodo anche per noi perché non si vede, non si
tocca con mano. È fatto di riunioni, di incontri con persone di potere, di
letture noiose di leggi, circolari e delibere. Di comunicati stampa e articoli
su giornali...
È scomodo perché ci fa sentire spesso soli,
impotenti, incapaci e non compresi: dai familiari a cui rubiamo tempo, dagli
amici, che pensano che perdiamo invece il nostro tempo, dai risultati che non
sono così immediati come le gratificazioni che si hanno nel volontariato
diretto, cui non mancano certo le amarezze, ma anche le gioie.
Vogliamo però approfittare del convegno di Firenze
per rivisitare qual è l'azione profetica, il suo senso e il suo posto nella
nostra società? E forse troveremo un posto anche per questo volontariato.
Proviamo a camminare con coraggio e speranza anche
in una nuova direzione. L'esperienza del volontariato promozionale dimostra
che, pur fra alti e bassi, è possibile ottenere risultati concreti, è possibile
cioè far avanzare la prevenzione del bisogno s nello stesso tempo migliorare
le condizioni di vita delle persone che devono essere assistite.
Certo è che il ruolo svolto dai movimenti di base
(volontariato promozionale, appunto) nella lotta contro le istituzioni di
ricovero e per la creazione di servizi alternativi non è ben vista, proprio
perché con la sua azione mina alla radice il sistema assistenziale e la sua
rete di clientela oltre che di mantenimento dello status quo. Ma può un
progetto essere valido se non comprende anche iniziative contro le cause che
hanno provocato emarginazione e disadattamento? Si può fare volontariato e non
politica?
Concludo con un'affermazione che mi ha fatto molto
pensare, perché giunge da Mons. Nervo (ex vice-presidente della Caritas Italia)
al convegno nazionale sul volontariato tenutosi a Lucca il 9-10-11 Maggio
1986: «Anche la scelta di lasciare le cose come sono, di non impegnarsi a cambiarle
è una scelta politica».
(1) Le «Comunità cristiane di base»
sono nate all'incirca nel 1970, sullo spirito del Concilio ecumenico Vaticano
II, che aveva affermato che la Chiesa non è una società, una organizzazione
diretta dall'alto (papa, vescovi, preti), ma una fraternità, una comunità di
fede che insieme cerca, prega, legge la Parola di Dio per compiere la sua
volontà.
Da qui una parte di cristiani si
organizzò in piccole comunità, sparse in quasi tutta l'Italia, e capì che era
tempo di farsi avanti per assumersi nuove responsabilità, non solo nella
Chiesa, ma anche nella storia e quindi nella società: non più deleghe, ma
impegno in prima persona per un mondo più giusto, in mezzo agli altri e con
gli altri.
Oggi le Comunità cristiane di base
continuano la loro ricerca di fede, al di là dei dogmi e degli schemi imposti
dalla Chiesa ufficiale, in dialogo o in conflitto con essa. Cercano inoltre di
battersi (nei movimenti, nei sindacati, nei partiti, ...) per coloro che nella
società sono emarginati od esclusi, proprio perché credono che la fede non può
essere vissuta pienamente se non ci si impegna concretamente per lottare
contro le ingiustizie.
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