Prospettive assistenziali, n. 83, luglio-settembre 1988

 

 

L'ADOTTATO NON HA IL DIRITTO DI OTTENERE DAL TRIBUNALE PER I MINORENNI INFORMAZIONI SULLA SUA FAMIGLIA DI ORIGINE

 

 

Pubblichiamo integralmente l'ottimo provvedimento assunto dal Tribunale per i minorenni di Torino in data 4 febbraio 1986.

 

Fatto e diritto. - 1. S.A.M. (figlia adottiva di S.S. e C.W. a seguito di adozione ordinaria 10 maggio 1967 Corte appello di Torino e conse­guente decreto di adozione speciale 28 maggio - 3 giugno 1968 Tribunale minorenni) ha richiesto al Tribunale «informazioni riguardo i miei veri genitori». Non essendo ipotizzabile l'effettuazio­ne di indagini dirette del Tribunale al riguardo, la richiesta va intesa come autorizzazione a pren­dere visione degli atti del procedimento di ado­zione (e, eventualmente, a trarne copia).

Occorre dir subito che all'oggettiva delicatezza della questione proposta, per l'intrecciarsi in essa di profili diversi in posizione di potenziale con­trasto (dall'interesse per l'adottato di avere, per lo stesso buon esito dell'adozione, uno status familiare stabile e definitivo al riparo anche da sue momentanee curiosità, all'opposta esigenza di consentirgli, ove richiesta per una completa accettazione della propria situazione, la cono­scenza delle sue «radici»; dalla tutela del ruolo genitoriale pieno degli adottanti, al rispetto di un «diritto all'oblio» o ad essere dimenticati dai genitori naturali), si accompagna un incompren­sibile silenzio della legge che - nonostante le segnalazioni al Parlamento degli operatori - non contiene disposizioni ad hoc né nella legge 5 giugno 1967 n. 431 (istitutiva dell'adozione spe­ciale, applicata nel caso di specie) né nella suc­cessiva legge 4 maggio 1983 n. 184 (contenente una più analitica disciplina della materia). Non per questo, peraltro, può ricorrersi a decisioni discrezionali caso per caso, in relazione alle ca­ratteristiche specifiche della situazione, posto che l'apparente lacuna deve essere colmata dall'interprete - in aderenza al principio di comple­tezza dell'ordinamento posto dall'art. 12, secon­do comma, preleggi - in sede interpretativa (estensiva o analogica o con ricorso ai principi generali).

2. Ciò posto, va detto che un'interpretazione sistematica dell'Istituto dell'adozione, come con­figurata dalle citate leggi 431/1967 e 184/1983, impone la reiezione dell'istanza della S.

Scelta fondamentale della legge 431/1967 fu; infatti, quella - esplicitata negli artt. 314/26 e 314/28 ma presente nell'intera normativa - di assicurare al figlio adottivo lo status di figlio legittimo, con «cessazione dei rapporti dell'adot­tato verso la famiglia d'origine» e ricostruzione del suo stato civile in conformità alla nuova con­dizione di figlio legittimo (con conseguente ri­gorosa esclusione da ogni certificazione del ri­ferimento sia ai genitori biologici, sia alla stessa intervenuta adozione). La scelta - profondamen­te innovativa rispetto all'istituto classico dell'a­dozione c.d. ordinaria - fu non già indolore (aspro e prolungato fu il dibattito parlamentare) ma univoca, come riconosciuto anche dagli av­versari, nel senso di sancire - come è stato detto - che l'adozione, «pur non cancellando il rapporto di sangue o il fatto storico della gene­razione, cancella ogni effetto giuridico ad essa conseguente». Altrettanto esplicito in questo senso è il tenore dell'art. 10 della Convenzione europea di Strasburgo del 24 aprile 1967 (ratifi­cata dall'Italia con legge 22 maggio 1974 n. 357), secondo cui l'adozione ha un duplice necessario effetto, costitutivo nei confronti della nuova fa­miglia ed estintivo nei confronti della famiglia d'origine. Orbene, se questo è l'effetto dell'ado­zione, ne consegue come corollario evidente la non concedibilità di autorizzazioni (come quella richiesta) che finirebbero per accordare a situa­zioni di mero fatto (come la generazione biolo­gica) una tutela contrastante con altra situazione non solo giuridicamente rilevante ma oggetto di specifica tutela (come lo status di figlio legit­timo).

3. Questo orientamento della legge 431/1967 trova decisivi elementi di conferma sia nella già citata convenzione di Strasburgo 24 aprile 1967, sia in numerose disposizioni della legge 184/83 che, com'è noto, si pone nei confronti dell'ado­zione speciale in posizione di perfezionamento e completamento, offrendo, con la sua più artico­lata disciplina, una chiave interpretativa, che non è improprio definire autentica, di molte questio­ni non assoggettate in precedenza a specifica disciplina.

L'art. 20 n. 3 della Convenzione di Strasburgo in particolare recita: «L'adottante e l'adottato potranno ottenere documenti estratti dai pubblici registri attestanti il fatto, la data ed il luogo di nascita dell'adottato, ma che non rivelino espli­citamente né l'adozione avvenuta, né l'identità dei genitori naturali». Orbene, pur in presenza di una formulazione della norma non priva di am­biguità (riferibile in particolare alle diverse possibili interpretazioni del termine «potranno»), la tassatività della disposizione e l'assimilazione dell'adottato agli adottanti (e quindi dei diritti del primo a quelli dei secondi), non sembra la­sciar dubbi in ordine al divieto anche per l'adotta­to di aver accesso ad informazioni circa i suoi genitori naturali.

Analoga conclusione impone l'analisi della legge 184/1983. Essa, infatti, non solo ribadisce l'acquisizione, a seguito di adozione, dello status di figlio legittimo con le relative conseguenze (artt. 27 e 28), ma contiene altresì specifiche disposizioni inerenti al segreto in ordine alla procedura di adozione, rivolte sia agli ufficiali dello stato civile (art. 28, secondo comma) sia in generale, a chiunque abbia conoscenza per ragioni di ufficio o servizio di procedure di ado­zione (art. 73). Se la disposizione dell'art. 28, secondo comma (divieto agli ufficiali dello stato civile e dell'anagrafe di fornire, senza autoriz­zazione espressa dell'autorità giudiziaria, R noti­zie, informazioni, certificazioni, estratti o copie dai quali possa risultare il rapporto di adozione») non offre un contributo decisivo ai fini della so­luzione della questione in esame (costituendo in realtà esplicitazione di un dovere già risultan­te dal primo comma dello stesso art. e, in prece­denza, dall'art. 314/28 correlato con l'art. 13, se­condo comma, legge stato civile), fondamentale importanza riveste invece la disposizione del­l'art. 73. Tale norma, infatti, nel dettare sanzioni penali specifiche (in sostituzione di quella gene­rale di cui all'art. 326 cod. pen.) per la rivelazione di segreti di ufficio concernenti la materia dell'a­dozione, precisa che oggetto del segreto sono non soltanto «le notizie atte a rintracciare un minore nei cui confronti sia stata pronunciata adozione» (che, formalisticamente, sono cosa diversa dalle notizie fornite all'adottato per rin­tracciare i genitori naturali), ma anche, generica­mente, «le notizie circa lo stato di figlio legitti­mo per adozione». Orbene, il riferimento non al solo status ma altresì alle notizie che lo conno­tano, ha l'evidente effetto di estendere il divieto di cui all'art. 73 ad ogni informazione circa la fa­se precedente l'adozione (e, dunque anche circa l'identità dei genitori naturali). E, d'altra parte l'assenza di specifiche indicazioni in ordine ai destinatari del divieto fa sì che esso operi nei confronti di chiunque (adottato compreso). L'im­possibilità di escludere quest'ultimo dai destina­tari del divieto consegue, inoltre, dall'assenza nella previsione sanzionaria specifica dell'art. 73 di una possibile «giusta causa di rivelazione» (esistente invece nella corrispondente norma generale dell'art. 326 cod. pen.). La non deroga­bilità del divieto assoluto a fornire notizie in or­dine ad un'adozione (almeno con riferimento a ipotesi non disciplinate da diverse specifiche norme) si evince inoltre in materia univoca dall'ultimo comma dell'articolo in esame che, nel prevedere l'applicabilità delle disposizioni dei commi precedenti anche al caso dell'affidamen­to preadottivo, subordina la punibilità alla man­canza di autorizzazione del Tribunale per i mino­renni. L'assenza di una previsione siffatta per l'ipotesi di adozione non può, nell'ambito dello stesso contesto normativo, significare altro che l'inderogabilità assoluta (e dunque rispetto a chiunque) del divieto di cui si è detto.

4. La conclusione cui si è testé pervenuti non può essere intaccata dalla considerazione, tutta processuale, della disponibilità per le parti degli atti del procedimento ex art. 76 disp. att. cod. proc. civ. Il richiamo di tale norma con riferimen­to alla questione qui esaminata è, infatti, incon­ferente, sia per la sua natura specificatamente processuale connessa con evidenti ragioni di pie­nezza di contraddittorio ma estranea alle vicen­de sostanziali successive alla definizione del pro­cedimento, sia per il carattere di parte del tutto atipica assunto dall'adottato nel procedimento relativo alla sua adozione, sia - soprattutto - per l'effetto derogatorio della norma posteriore specifica (divieto di fornire notizie sulla procedu­ra di adozione definita ex leggi 431/1967 e 184/ 1983) rispetto alla disciplina generale (ex art. 76 cit.).

5. A sostegno della possibilità per l'adottato - almeno dopo il raggiungimento della maggio­re età - di «conoscere le sue origini» (ritenuta peraltro, soccombente sotto il profilo psicologi­co - almeno secondo l'orientamento più diffu­so tra gli operatori - rispetto all'esigenza di assicurare «stabilità» alla condizione adottiva) si é fatto da taluno diretto richiamo all'art. 30 ultimo comma Cost., contenente la previsione espressa di una «ricerca della paternità». Una attenta lettura del citato art. 30 smentisce pe­raltro, in radice, l'esattezza del richiamo. Non solo, infatti, lo stesso ultimo comma prevede - che la ricerca della paternità avvenga con «i li­miti» previsti dalla legge, ma il precedente se­condo comma prevede la sostituzione (ovvia­mente realizzata in via temporanea o definitiva) dei genitori incapaci, sì da rendere costituzional­mente corretta - secondo il ripetuto insegna­mento della Corte costituzionale - la struttura dell'adozione ex leggi 431/1967 e 184/1983 come fonte di «filiazione legittima», escludente in via definitiva ogni rapporto con i genitori biologici.

Ma vi è di più. Sotto il profilo dell'esigenza di «conoscere le proprie origini», la condizione di figlio adottivo non differisce da quella dei figli c.d. «illegittimi» o non riconosciuti dai genitori. Orbene, con riferimento a questi ultimi l'art. 9 R.D.L. 8 maggio 1927 n. 798 (relativo all'«ordi­namento del servizio di assistenza dei fanciulli illegittimi abbandonati o esposti all'abbandono»), dopo aver previsto che l'istituto di pubblica assi­stenza richiesto del ricovero di un illegittimo doveva «compiere riservate indagini per accer­tarne la madre», a fini sanitari, con obbligo per ostetrica e medico intervenuti di fornire le noti­zie richieste, disponeva «rigoroso divieto - con previsione in caso di violazione di sanzioni pe­nali - di rivelare l'esito delle indagini compiu­te per accertare la maternità degli illegittimi». ­E la Corte costituzionale, con sentenza n. 207 del luglio 1975, ha respinto un'eccezione di illegitti­mità costituzionale della norma per contrasto con l'art. 30 ultimo comma Cost., espressamente ­osservando che l'accertamento della paternità/maternità può soccombere rispetto ad altri beni pure costituzionalmente tutelati (nella specie, una più adeguata tutela sotto il profilo assisten­ziale e sanitario dell'infante, esperibile coinvol­gendo la madre non intenzionata a riconoscere solo con garanzia dell'anonimato anche a distan­za di tempo e nei confronti di chiunque, compre­so il figlio che promuova giudizio per dichiara­zione di maternità naturale). Del tutto evidente è la trasferibilità dell'argomentazione alla fatti­specie dell'adozione, dove la soccombenza del­l'accertamento della paternità/maternità natura­le rispetto ad un progetto affettivo-educativo che dia al minore abbandonato status di figlio legitti­mo anche giuridicamente tutelato, è ancora più eclatante e dove - come è stato acutamente os­servato - «la cancellazione degli effetti giuridi­ci della generazione biologica è tanto più accet­tabile e giustificata (provenendo da disposizione di legge che si presenta come rimedio ed aiuto per i figli minori abbandonati) di quanto non lo sia se è conseguente a mancato riconoscimento da parte dei procreatori».

6. Sotto tutti i profili considerati, come si è visto, l'obbligo del segreto in merito alle vicende dell'adozione ed ai suoi presupposti risulta in­derogabile anche nei confronti dell'adottato. Ne consegue la reiezione dell'istanza di S.A.

 

 

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