PROCESSO AI SERVIZI O PROCESSO ALLA
STAMPA?
MARIENA SCASSELLATI GALETTI (*)
La spinta per riflettere ulteriormente su questa
tavola rotonda me l'ha data un titolo della «Stampa» di Torino dello scorso
luglio «Si può morire di USL» (di USL
con una sola S - cioè solo sanitaria! infatti, l'assistenza e i servizi sociali
non si nominano mai, anche perché in poche Regioni le USSL hanno due S!) (2).
È stata una spinta forte che m'accompagna tuttora,
mentre sono qui a rappresentare da sola chi
opera mentre chi informa è qui
con più voci!
Certo, quella degli operatori è una grossa componente
e non va dimenticata pensando ai servizi ed alle risposte per la gente, per la
persona, per far cambiamento, per far star meglio chi sta peggio.
Perché certo - va subito detto - non tutti gli
operatori sono «nemici del popolo» come vengono spesso descritti, rispetto al
«volontariato» sempre buono e al «privato» sempre bello ed efficiente; infatti
molti operatori hanno dentro la «collera dei poveri», di chi non ha casa, né
reddito sufficiente, di chi è in difficoltà e - pertanto - non ha voce, di chi
è di fatto colpito dalle scelte della legge finanziaria annuale e non può protestare
perché non ha potere: è anziano non autosufficiente, è portatore di handicap,
è in situazione di disagio.
La riforma sanitaria, che in alcune Regioni è stata
seguita anche da una legge di riordino per i servizi socio-assistenziali (e in
tali Regioni allora non USL ma USSL), ha voluto promuovere un altro concetto
di salute; un concetto positivo, che non significa soltanto non essere malati
ma «star meglio possibile», avere «armonia di relazioni», avere una qualità di
vita migliore.
Peccato però! Alla riforma di fatto non sono state
date le gambe, non si sono dati gli strumenti reali, per far soprattutto
prevenzione, per incidere sulle cause, per far formazione al fine di avviare in
concreto un'altra metodologia di lavoro, che è lavoro in équipe tra diverse
professionalità, che è rete di risorse integrate ed articolate, che è
distretto di base, che è cambiamento affidato di fatto alla professionalità
degli operatori.
La riforma, che non si è voluta attuare, oggi la si
vuole già distruggere.
Certo si dovrebbe riformare la riforma, anche noi
operatori lo pensiamo, ma nel senso di evitare che l'ospedale ingoi tutte le
risposte perché le risorse servono anche sul territorio, per far prevenzione
sul territorio dove c'è anche l'ospedale ma non solo; non sono infatti né
l'ospedale né la farmacia la prima trincea per far salute, quella salute che ci
interessa.
Il territorio, dove si è voluto promuovere l'alternativa,
per chi ha voluto farlo, è di fatto venuto ad assumere la connotazione di territorio-laboratorio di ricerca e di
cultura sulla salute.
L'USSL, articolata in distretti di base, ha significato
attrezzare il territorio con una rete
integrata di risposte sanitarie e socio-assistenziali, e non solo con una
rete di opportunità, per tutti ma soprattutto per chi è più in difficoltà, con
l'obiettivo di promuovere la massima autonomia possibile mettendo al centro
dell'attenzione la persona con la sua unicità e complessità. mantenendola il
più possibile nel suo naturale ambiente.
E l'attenzione alla persona è entrata in noi ormai come operatori; è un concetto laico
che ci ha radicato dentro» il «territorio che è come un giardino, con allori e
cipressi»; e l'obiettivo è superare nell'intervento la dimensione individuale
verso la presa in carico da parte della comunità locale di chi ha problemi, di
chi non ha risorse personali, di chi, cioè, «non sta bene»; come per esempio
quel bambino che dice «sto bene se i miei non litigano».
E la ricerca nella quotidianità, vicino alla gente,
osservando e leggendo la realtà attraverso «i servizi, finestre sul mondo» dà a
chi opera la forza dell'utopia, per
fare quello che non è proibito e quindi è consentito, per perseguire quelle
finalità che il DPR 616 e la legge 833 avevano formalizzato ed oggi sembrano
rimaste illusione di pochi.
Di pochi o di tanti? Non so quale potrebbe essere la
via. La fattibilità è ormai dimostrata anche se si dispone di poche risorse,
certo bisogna volerlo; bisogna voler essere, sia a livello tecnico che politico,
dei «decisori consapevoli», titolari di un potere da gestire come servizio -
il potere per il potere non ci interessa - non serve: «fa morire di USL».
L'esperienza ce lo ha dimostrato:
la legge 184 sull'affidamento e l'adozione minorile,
le poche leggi regionali di riordino dell'area socio-assistenziale (poche e
precarie perché oggi le si sta distruggendo!), la riforma carceraria, la legge
180 hanno dato dignità a chi non era persona,
a chi era: «oggetto» di diritto, a chi aveva reale volontà di recupero.
Perché non se ne parla? Perché non si scrive vivere di USSL e quando dico USSL penso
al settore pubblico, alla parte di un tutto più vasto, dove una programmazione
corretta ed adeguata può - se c'è - far miracoli, risuscitare, far scoprire
delle persone, non dei numeri, non delle cose, delle persone con nome e
cognome.
Ed allora perché la stampa - con cui si vorrebbe «lavorare - con» per promuovere salute,
per far politica contro l'emarginazione, per cogliere tutte le opportunità - non
parla anche di ciò che va bene, di quanto si è realizzato dove si sono volute
attuare le riforme?
Perché parla del 3% che non è rientrato in carcere
con la sperimentazione delle nuove norme e non del 97% che ha rispettato
l'impegno?
Perché si schiera sempre dalla parte dei genitori,
mentre ciò che conta è «l'interesse prevalente» del minore per cui c'è infatti
un tribunale che è appunto «per» i minorenni e non «dei» minorenni? Perché
racconta sul giornale di chi è figlio quel minore procurando al bimbo adottato
un danno incalcolabile? Perché su un giornale per ragazzi racconta con nome e
cognome la storia vera di Giovannino?
Perché i giornali quest'estate scrivevano tanto e a
lungo degli anziani (dei nonni - anzi ) abbandonati d'estate in ospedale, nonni
«più pesanti» d'estate per chi li ha vicino, senza analizzare le cause, con
un'analisi politica (non partitica) senza promuovere una ricerca di alternative
che esistono, che sono reali certo - se le si vuole a livello politico?
Dove si voleva arrivare sul «problema nonni» con
giornali e TV? a «far adottare un nonno»? Perché non si informa sui perché e
per come? sul come e quanto mancano mezzi dove si lavora, e si vorrebbe
lavorare di più, verso la prevenzione del disagio, lavoro che fa individuare
strumenti ma chiede anche, certo, risposte concrete e risorse?
Perché la stampa non dice tutto, non spiega, non fa
cultura nuova sulla salute? Perché non va a fondo, non ricerca, si accontenta
di notizie spesso approssimative, prese per la strada, senza tener conto dei
contesto?
La persona
non esiste più, è già classificata colpevole in quanto è drogata; matta,
ladra...; i titoli sono questi: «sieropositivo, malato di mente, maniaco
sessuale». .
Ma la stampa: può lavorare con la gente; con gli
operatori motivati per «far più salute»? Può «produrre per vendere» facendo, ad
esempio, anche promozione dell'alternativa al ricovero senza più parlare di
ospizio, di brefotrofio (come fa ancora l'ISTAT), di istituto?
La stampa conosce l'assistenza domiciliare
socio-assistenziale e sanitaria integrata, l'affidamento familiare, il foyer invernale per gli anziani in
montagna, la rete integrata di risposte sul territorio che per gli anziani ad
esempio potrebbe voler dire, oltre al foyer
ed all'assistenza domiciliare socio-assistenziale e sanitaria integrata,
pilastro dell'alternativa, anche:
- assistenza economica;
- riabilitazione (anche domiciliare);
- abbattimento delle barriere architettoniche, casa
adeguata;
- mensa, lavanderia;
- attività motorie e soggiorni di vacanza «integrati»;
- tempo libero «non pieno di vuoto» per chi è in
situazione di isolamento;
- comunità terapeutica per gli utenti del servizio
di salute mentale;
- rete di trasporti.
La stampa può fornire una informazione chiara e
accessibile? Può parlare delle cose che funzionano e sono efficaci per
promuovere migliori condizioni di mantenimento del naturale habitat? Ma «il
padrone» del giornale è d'accordo? Come incide la sua scelta politica sulle
linee della «sua» stampa? Come può la professionalità del giornalista non
essere condizionata dalle scelte della testata? Può voler promuovere la lotta
al disagio se ostano indirizzi di restaurazione? Perché scrive «gli assistiti costretti
a cambiare il medico», «i mutuati perderanno il medico», o «i nuovi orfani
della sanità» quando è chiaro che la riduzione del massimale mira ad aumentare
la qualità del servizio?
Perché la stampa non si muove insieme agli operatori
affinché:
- non ci siano più sindaci che chiedono: «gli
handicappati sono contagiosi?»;
- non ci siano più presidi che dicono: «i figli degli
operai debbono fare gli operai», oppure «visto che non ci sono i professori
che ci siano almeno le tapparelle!»;
- ministri di culto che affermano ai contadini
desiderosi di pioggia: «non piove perché siete cattivi».
Allora chi compra il giornale che garanzie ha di
corretta informazione, come può conoscere le cose?
Le informazioni sui servizi di base, quelli di tutti
i giorni chi le dà? Chi le dà, conosce anche «il contorno», i condizionamenti,
le carenze di strumenti che caratterizzano l'operatività di chi vorrebbe far
star meglio chi sta peggio?
Ma allora - sbagliano i giornalisti o i ministri? Che
«padrone» vuole i managers per la «cara» sanità?
Certo sono brutte le notizie che vengono da Roma
perché sono fatti concreti che si traducono «in altra pioggia sul bagnato!».
E gli operatori spesso sono demotivati: come
garantire infatti risposte corrette, efficaci, efficienti, accessibili?
Peccato perdere delle opportunità!
E i giornalisti penso ne avrebbero molte, partendo
anche dalla cronaca per «far notizia» ma anche analisi, riforma, ponendosi
dalla parte dei più deboli - ma i giornalisti possono farlo?
La lottizzazione della carta stampata, le leggi del
mercato, lo consentono? Ai cittadini si dà, facendola anche pagare, quale
verità? Ma la stampa può parlare veramente di chi ha più bisogno e non ha voce
né altri mezzi per tutelare i propri interessi vitali?
La stampa è veramente libera, quando i suoi organi
sono sempre più concentrati nelle mani di pochi e quei pochi sono ricchi e
potenti? La stampa e gli altri mezzi di informazione tuteleranno sempre più
gli interessi di coloro per i quali lo sviluppo e il progresso consistono nel
produrre e nel vendere e nell'aumentare i profitti e produrre di più, in un
processo infernale, che dimentica l'uomo
come «persona» e tiene conto solo dell'uomo che è in grado, da un lato, di produrre
e, d'altro lato, di consumare. Ed allora, in questo processo non ci sono
risorse per i servizi In favore della persona,
quindi i servizi sono «cattivi», inefficienti e bisogna comprimere nello stesso
tempo, ridurli, privarli ancora di risorse, privarli delle riforme che non si
volevano e che non si è voluto fossero veramente attuate. Ed allora i servizi
bisogna privatizzarli, perché funzionino meglio, in favore di chi può pagarli
ed arricchendo di più chi, in quanto è «furbo», è già ricco. Ed ancora,
mancando i servizi e i relativi operatori, non ci saranno neppure più le
fastidiose voci in favore dei senza voce e dei senza potere e cioè di coloro
che elettoralmente ed economicamente non servono a nessuno: tacciano, dunque,
e se si ribellano in qualche caso con la violenza o se comunque disturbano la
quiete dei più, ci sono le carceri, i manicomi, gli ospizi, i brefotrofi ecc.;
e se non ci sono più o non sono abbastanza, se ne creano altri, perché quelli
erano servizi efficienti, «nei bei tempi andati», quando «si stava peggio, ma
si stava meglio»; ma «chi» stava meglio? La legge è uguale per tutti? Si dà ad
ognuno il suo o a tutti lo stesso?
E le istituzioni informano? Che informazioni passano?
Quelle reali o quelle mediate da partiti, correnti, gruppi? E l'operatore può
farlo? Può informare senza violare i segreti d'ufficio? Senza ledere i diritti
del tossicodipendente che vorrebbe inserire nella comunità locale? Perché la
stampa nel parlare dei morti per droga, non tratta anche dell'inesistenza dei
fondi per progettare ed attuare il progetto giovani sul territorio? Perché non
parla dei «perché» che stanno a monte? Della nuova metodologia di lavoro che
qualifica l'intervento sul territorio spesso ormai programmato, attuato, verificato
e valutato per obiettivi, con un progetto ad
hoc, ed un piano di lavoro spesso pluridisciplinare che ricerca anche gli
indicatori con un intervento non più per compiti e/o per prestazioni ma appunto
per obiettivi nell'ambito di più vaste finalità?
I servizi sono in difficoltà certo; ma lo si sa che
il campanilismo, il clientelismo, le risposte con il ni, il non lasciar
«lavorare» gli operatori. spesso oggi il CO.RE.CO., non fanno bene all'associazione
dei Comuni, alla risposta ai bisogni reali delle persone?
Certo, credo, si debba dire senza paura, gli
obiettivi sono cambiati, il potere serve per il servizio o per qualcos'altro? E
se i «decisori» non danno strumenti e risposte, come possono gli operatori
operare con scienza e coscienza, con la massima attenzione alla persona per promuoverla, per farla
uscire dal circuito assistenziale, per darle dignità? Può la carta stampata dire
anche dei successi della ricerca di risposte alternative, divenendo così, con
il recupero dell'esperienza concreta, strumento di promozione e di sostegno,
anziché di rallentamento, può essere strumento di speranza di futuro per chi
«è uscito» sul territorio per operare «ripartendo dagli ultimi»?
Ma non essere scandalistici fa vendere? Scandalo o
cultura? Crisi o sviluppo?
Come si può perseguire/raggiungere l'equilibrio tra
mercato e informazione corretta, con il massimo rispetto dell'onor del vero?
Riforma sempre uguale a caos? Riforma sempre uguale a ospedale? Ospedale sempre
uguale a ospedale di Roma, cioè a caos?
Ed allora, concludendo, la mia utopia vorrebbe che la
stampa, assieme ad operatori ed amministratori pubblici, facessero una
campagna massiccia su una domanda - che pongo a nome degli operatori motivati
al cambiamento, pensando soprattutto alle risorse per intervenire sul tema del
disagio giovanile - : «quanto costerà poi
(domani o dopo domani) non aver fatto oggi?».
È una domanda seria che da Aosta potrebbe andare a
Roma dove dovrebbero ricordare che la riforma non è da riformare, è da avviare.
Infatti colpa dei giornalisti o dei ministri?
Una risposta, una politica diversa ci servirebbe
magari ad esempio anche per gli anziani, per «farli morire da vivi», per farli
vivere di USSL.
Infatti oggi, volendolo, applicando le leggi che già
ci sono - si può non far più morire
di manicomio, di ospizio, di brefotrofio, di mutua, si può far vivere di USSL.
Come operatori di territorio vorremmo avere risposta
alle domande poste per meglio capire,
in questa sosta di riflessione che è stasera in questo confronto dove dobbiamo
arricchirci individualmente con le nostre esperienze, per non perdere
un'opportunità di integrazione di risorse, di lavoro in comune per la lotta
alla nuova povertà, per i servizi sociali per tutti e migliori. Partiamo dalle opportunità, non dalle difficoltà.
(1) Coordinatore dei servizi
socio-assistenziali della USSL 43 - Comunità montana Val Pellice, Torino.
Relazione tenuta alla Tavola rotonda «Processo ai servizi o processo alla
stampa?» svoltasi ad Aosta l'8 ottobre 1987 nell'ambito del convegno «Politiche
e interventi sul territorio: esperienze a confronto».
(2) USSL - Unità socio-sanitaria
locale per l'esercizio integrato delle funzioni sanitarie e socio-assistenziali
(n.d.r.).
www.fondazionepromozionesociale.it