Prospettive assistenziali, n. 84, ottobre-dicembre 1988

 

 

LA RIFORMA DELL'ASSISTENZA... DELLA CORTE COSTITUZIONALE

MASSIMO DOGLIOTTI (*)

 

 

1) Con una recente pronuncia, che è passata sotto silenzio e che avrebbe invece meritato ben più ampia pubblicità, la Corte Costituzionale ha in sostanza avviato... una sua personale riforma dell'assistenza, in attesa di una legge-quadro, sempre di là da venire. Una «riforma» che purtroppo non si può affatto condividere, all'insegna della più selvaggia «privatizzazione», com'è di moda da un po' di tempo a questa parte, anche nella materia assistenziale.

Su questi problemi la Corte ha sempre avuto un atteggiamento ambivalente, per non dire contraddittorio. Afferma essa una prima volta (esami­nando il D.P.R. 15 gennaio 1972, n. 9: trasferimen­to di alcune - limitatissime - funzioni assisten­ziali dalla Stato alla Regione) nella pronuncia n. 139 del luglio 1972, che la dizione di «beneficen­za pubblica» di cui all'art. 117 Cost. richiama l'inti­tolazione originale della legge n. 6972 del 1890, e deve comunque ritenersi equivalente a quella di «beneficenza e assistenza pubblica», complesso di attività esplicate da organi ed enti locali, che non vanno confuse con quelle svolte da organi ed istituti predisposti ed integrati dallo Stato e che costituiscono la «assistenza sociale». La prima sarebbe caratterizzata dalla discrezionalità delle prestazioni in favore di soggetti bisognosi, la se­conda sarebbe orientata ad eliminare la discre­zionalità degli organi ed enti erogatori così da rendere concreto il diritto all'assistenza sociale indicato dall'art. 38, comma primo della Costitu­zione.

Secondo la pronuncia n. 139, solo la prima del­le due forme di assistenza è di spettanza regio­nale; più specificamente, si precisa che l'ogget­to della delega è comunque circoscritto alle com­petenze degli organi statali e che il legislatore delegato pertanto non può attuare il riordinamen­to di enti nazionali e pluriregionali, a seguito del quale potrebbero enuclearsi ulteriori settari at­tribuibili alle Regioni. Si aggiunge, con valuta­zione in realtà squisitamente politica, che co­munque si determinerebbe una «inammissibile confusione» ove funzioni svolte unitariamente da enti pubblici nazionali divenissero aggetto di di­stinte e diverse legislazioni emanate da ogni sin­gola Regione (1).

Un atteggiamento dunque di totale chiusura al­le aspirazioni delle Regioni e accettazione piena della logica del decreto n. 9/1972; una concezione assai ristretta di «beneficenza pubblica» (sino quasi a... farla scomparire del tutto), una cer­vellotica distinzione tra assistenza pubblica e as­sistenza sociale. Anche se la Corte lascia aperto uno spiraglio precisando, come si è visto, che dal riordino degli enti pubblici nazionali potrebbe de­rivare qualche nuova (ma pur sempre «ritagliata e marginale») competenza per le Regioni.

 

2) La Corte viene nuovamente chiamata a pro­nunciarsi in materia, sulla costituzionalità del D.P.R. 616/1977, che trasferisce tutte (o quasi) le competenze assistenziali dello Stato all'ente locale. Di fronte ai sostenitori e detrattori, essa sembra scegliere una posizione «salomonica» in­termedia. Due sono le questioni sollevate: la le­gittimità del trasferimento delle funzioni e strut­ture degli enti pubblici nazionali o interregionali operanti in materia assistenziale, nonché delle funzioni, personali e beni delle IPAB nell'ambito regionale ai Comuni.

Quanto alla prima questione, chi ritenesse che la Corte potesse travolgere la ratio del decreto, rimane deluso. I giudici della Consulta (pronun­cia n. 173 del luglio 1981) accolgono la nozione assai ampia di beneficenza, privilegiata dal D.P.R. 616/1977 (consapevolmente rinnegando il proprio precedente del 1972) e dichiarandola pienamen­te conforme alla Costituzione (2).

Non si nasconde la Corte che il D.P.R. 616/1977 congiunge in una «entità unitaria» le attività che la sentenza del 1972 aveva dichiarato distin­te. Purtuttavia la ridefinizione, operata dal decre­ta, inquadrata in una prospettiva che ricompren­de appunto la beneficenza ed assistenza pubblica ex art. 117 e l'assistenza sociale ex art. 38 della Costituzione con un ampliamento dei destinatari, che prescinde talora dallo stato di bisogno, il su­peramento delle categorie di assistiti, l'estensio­ne della «doverosità» delle prestazioni, appare costituzionalmente legittima. E ciò perché - se­condo la sentenza - è discrezionale la scelta del legislatore nell'adottare un disegno organico di riforma dei servizi assistenziali ai sensi dell'art. 38, collegato peraltro alla possibilità di incidere comunque sull'attività delle Regioni, attraverso una legge-cornice sull'assistenza e manovrando le risorse finanziarie destinate agli enti locali. E in tal senso non contrasta con i principi costitu­zionali l'atteggiamento di sfavore verso gli enti nazionali di assistenza (non fondati sulla libera volontà associativa).

Al contrario la Corte (sentenza n. 174 del luglio 1981) dichiara l'illegittimità costituzionale dello art. 2, 5° comma, là dove si stabilisce che funzio­ni, personale e beni delle IPAB infraregionali sia­no trasferiti ai Comuni (3). Secondo le ordinanze di rimessione, tale norma sarebbe illegittima sot­to diversi profili. Eccesso di delega in quanto nel­la legge di delegazione (n. 382 del 1975) non vi sarebbe alcun riferimento al trasferimento delle IPAB, violazione degli articoli 117 e 118 della Costituzione che si riferiscono ad attività qualifi­cabili come funzioni amministrative esercitate dallo Stato o da enti strumentali, non da enti au­tonomi, pur dotati di personalità giuridica pubbli­ca, nonché dell'art. 38 della Costituzione, in quan­to il principio di libertà dell'assistenza privata esigerebbe che non venissero alterati i caratteri essenziali dell'ente, pur «pubblicizzato» quando sia sorto appunto dall'iniziativa privata o finan­ziato prevalentemente con denaro privato.

La Corte accusa il legislatore delegato di aver preso una «scorciatoia» con l'eliminazione gene­ralizzata delle IPAB, che «la disciplina costitu­zionale della delegazione legislativa rende del tutto impraticabile». In realtà è essa stessa a prendere una «scorciatoia», analizzando sotto l'aspetto formale (e discutibile) dell'eccesso di delega, senza affrontare le ben più rilevanti que­stioni di merito in relazione agli artt. 38, 117 e 118 della Costituzione. Viene così precisato che l'art. 1 della legge di delegazione fa riferimento espli­cito al trasferimento degli enti pubblici nazionali ed interregionali, ma non fa alcuna menzione del­le IPAB. È in sostanza solo questa l'argomentazio­ne a sostegno della dichiarazione di illegittimità (anche se si aggiunge che ulteriori sintomi di for­zatura potrebbero ravvisarsi nel considerare le funzioni di interesse esclusivamente locale - nel­la specie comunale - quelle svolte dalle IPAB, quando sovente la loro funzione è ultra-comunale).

La sentenza conclude nel senso che l'accogli­mento della prima censura di incostituzionalità rende superfluo l'esame delle altre, relative agli artt. 117, 118 e 38 della Costituzione.

È vero che, stando alle indicazioni della Corte (si tratta solo di eccesso di delega) il Parlamento sarebbe libero di legiferare, stabilendo un nuovo e generalizzato trasferimento delle IPAB agli enti locali. Ma quest'ultimo si guarda bene dal farlo: dopo le grandi speranze per una nuova assistenza suscitata nel D.P.R. 616/1977, il clima è mutato ed è ormai decisamente ostile a tale trasferimen­to. Si moltiplicano i segnali di un mutamento di rotta, mentre la legge quadro sull'assistenza si blocca tra le liti dei partiti.

Significativi, in questo progressivo allontana­mento dalle indicazioni del D.P.R. 616/1977, gli accordi dello Stato can la Tavola Valdese (4) e successivamente con la Chiesa cattolica (5), poi recepiti in legge: da un lato si prevede la possi­bilità di riconoscere la personalità giuridica di diritto privato degli enti ecclesiastici valdesi aventi congiuntamente fini di culto, istruzione e beneficenza, dall'altro si definiscono enti eccle­siastici cattolici solo quelli costituiti o approvati dall'autorità ecclesiastica che hanno fini di reli­gione e di culto, inquadrati nella costituzione ge­rarchica della Chiesa (nel rispetto della discipli­na concordataria del 1929), ma pure quelli che non abbiano personalità giuridica nell'ordinamen­to della Chiesa, ma esercitano comunque attività dirette all'esercizio del culto e alla cura d'anime, alla formazione del clero e all'educazione cri­stiana. Il fine di religione e culto va accertato vol­ta per volta, e può pure essere connesso - scelta quanto mai significativa - a finalità di carattere caritativo. Tali enti possono essere riconosciuti agli effetti civili come persone giuridiche (e il loro status viene sostanzialmente assimilato a quello delle persone giuridiche private discipli­nate dal Codice civile). Ovviamente numerose istituzioni, sia valdesi che cattoliche, sono IPAB: così dopo aver bloccato il processo di trasferi­mento di tali organismi agli enti locali, si spiana la via alla loro privatizzazione.

 

3) In questo contesto si colloca la sentenza n. 396 dello scorso aprile (6): la Corte dichiara la illegittimità costituzionale dell'art. 1 della legge n. 6972 del 1890 là dove esso non prevede che le IPAB regionali e infraregionali possano continua­re a sussistere assumendo la personalità giuridi­ca di diritto privato, qualora abbiano i requisiti di un'istituzione privata. Quante volte si è parlato dell'arretratezza, dell'inadeguatezza di questa leg­ge, ed è proprio un'ironia della sorte che oggi quasi ci si debba impegnare a difendere le sue scelte soprattutto quella di controllo (del resto esercitato in pratica sempre in modo assai blan­do) sull'assistenza contro il grave intervento del­la Corte costituzionale.

Va subito osservato che la pronuncia incorre in qualche inesattezza storica. Essa afferma che il «monopolio» pubblico sull'assistenza (ma, co­me si vedrà, è quantomeno opinabile parlare di monopolio vero e proprio) è stato introdotto dal­(a legge Crispi del 1890. AI contrario una scelta analoga era alla base delle prima legge assisten­ziale dell'Italia unita, la legge 3 agosto 1862, n. 753, la quale, a sua volta, recepiva la normativa del regno di Sardegna (legge 20 novembre 1859) e degli altri stati italiani. Nella legge del 1862 si definiscono «Opere pie» - come tali soggette ad un incisivo controllo pubblico, anche se meno pe­netrante di quello delineato dal legislatore del 1890 - gli «istituti di carità e beneficenza e qual­siasi ente morale avente in tutto o in parte per fine di soccorrere le c.'assi meno agiate, tanto in istato di sanità che di malattia, di prestare loro assisten­za, educarle, istruirle a qualche professione, arte o mestiere». Come si vede, una nozione indubbia­mente ampia e in tutto assimilabile a quella della legge del 1890.

Dunque il controllo pubblico sull'assistenza non è espressione dell'autoritarismo, dell'anticlerica­lismo e magari della malvagità di Francesco Cri­spi. È un'esigenza nata assai prima, in sostanza con la nascita dello Stato contemporaneo, e pro­prio nel periodo dei liberalismo più assoluto e della più sfrenata iniziativa privata.

Ma torniamo alla sentenza della Corte. L'argo­mentazione giuridica è in sostanza inesistente, la scelta è squisitamente politica. Si afferma dunque che i fini delle IPAB «non sono per loro natura esclusivi delle istituzioni pubbliche» e so­prattutto che lo Stato e gli enti pubblici, ove ri­tengono di dover realizzare i fini di assistenza e beneficenza, possano farlo attraverso le proprie strutture. Sarebbero quindi venuti meno i presup­posti che avevano presieduto al generalizzato re­gime di pubblicizzazione voluto dalla legge Crispi «oggi non più aderente alla mutata situazione dei tempi» (sic!) con l'assunzione diretta da parte degli enti pubblici delle funzioni assistenziali (che era stata assicurata nel sistema della legge del 1890 dalla iniziativa dei privati, assoggettata al controllo pubblico, per costituire un sistema di «beneficenza legale» altrimenti del tutto inesi­stente).

È pericoloso per qualsiasi giudice (e massima­mente per il giudice costituzionale) lasciarsi an­dare ad osservazioni storico-politiche (di politica assistenziale) o addirittura sociologiche che pro­prio in quanto provenienti da un tecnico del dirit­to che ragiona fuori dal settore di sua compe­tenza, acquistano un sapore vagamente dilettan­tistico.

L'unico riferimento di natura giuridica (ed ap­pena accennato senza alcun sviluppo) è che l'ur­genza di «privatizzazione» sarebbe imposta dal principio pluralistico, cui si ispira la Costituzione, e specificamente dall'art. 28 della Costituzione per cui «l'assistenza privata è libera». In realtà non si può dire che il sistema della legge Crispi (e della legge del 1862 e degli Stati preunitari) realizzi un completo monopolio pubblico sull'as­sistenza.

Intanto, come la stessa Corte non può fare a meno di ammettere, è pacifico che dopo l'avven­to della Costituzione gli enti di nuova istituzione, aventi finalità di assistenza e beneficenza, posso­no essere riconosciuti come persone giuridiche private. Ancora: l'art. 2 della legge n. 6972/1890 escludeva dalla disciplina generale, oltre ai Co­mitati di soccorso e alle fondazioni private desti­nate a una o più famiglie determinate (ipotesi che indubbiamente incidevano scarsamente sul pano­rama generale dell'assistenza) pure «società ed associazioni regolate dal Codice civile e dal Co­dice di commercio» (oggi tutto Codice civile). Tali organismi dunque non divenivano IPAB. E si è mantenuta estranea alle previsioni della legge Crispi pure l'attività assistenziale svolta in for­ma individuale o da enti di fatto (ad esempio le associazioni non riconosciute che hanno acqui­stato un'importanza fondamentale nella società contemporanea).

Chiunque si occupi di assistenza, incontra fre­quentemente enti od istituzioni private che non hanno la forma di IPAB, ma la Corte... sembra ignorare tutto ciò.

Del resto - e questa pare l'argomentazione più decisiva - non può invocare la «pubblicizzazione» delle Opere pie, quale violazione del principio costituzionale di libertà dell'assistenza.

È vero che le IPAB sono fondamentalmente en­ti pubblici, ma soltanto in quanto sottoposti fin dal 1862 e ancor prima (allora si chiamavano Ope­re pie) al controllo del potere pubblico, ma que­st'ultimo non intacca minimamente il carattere privatistico dell'ente (là dove esso era presente): forma dell'istituzione, finalità, configurazione e struttura degli organi interni, designazione dei componenti, rimangono salda espressione della autonomia privata. Ma allora dire - come fa la Corte - che il «monopolio pubblico» è contrario alla libertà dell'assistenza significa soltanto dire che è il controllo pubblico (neppure del resta to­tale, come si è visto, esercitato storicamente in modo assai - anzi fin troppo - blando) contrario alla libertà dell'assistenza.

Curiosamente la Consulta richiama (per con­solidare il suo assunto), una legge regionale sici­liana, la n. 22 del 1986 (ma non si tratta di un capovolgimento della gerarchia delle fonti?), ove si precisa che le IPAB che «per prevalenza di ele­menti essenziali» sono classificabili come enti privati, sono incluse dal Presidente della Regio­ne in apposito elenco ai fini del riconoscimento ai sensi dell'art. 12 del Codice civile (7).

Tale legge non stabilisce alcun criterio di indi­viduazione per gli enti da «privatizzare» e attri­buisce la più ampia discrezionalità al Presidente della Regione. Com'è noto i privati, futuri titolari degli imponenti patrimoni delle IPAB, saranno te­nuti soltanto al rispetto delle tavole di fondazio­ne (la volontà del soggetto che ha costituito il patrimonio). Ove esse manchino (ad esempio se l'IPAB abbia la forma dell'associazione), non vi sarebbe neppure questo tenue vincolo: si esclu­derebbe perfino l'obbligo di conservare la destina­zione del patrimonio a fini assistenziali. Dunque, semmai, è questa legge che dovrebbe suscitare dubbi di costituzionalità.

 

4) Ma la Corte, come si è detto, non si preoc­cupa molto del dato giuridico e preferisce espri­mere tutto il suo sdegno, tutta la sua indignazio­ne per il (presunto) monopolio statale sull'assi­stenza. Dunque pubblico è male, e ogni salvezza (anche in campo assistenziale) si può ravvisare solo nel privato e magari nell'immenso patrimo­nio immobiliare e nelle operazioni finanziarie (che nulla hanno evidentemente a che vedere con l'assistenza) effettuate da alcune IPAB. E in tal senso il loro scioglimento e il passaggio del pa­trimonio agli enti locali, previsto dal D.P.R. 616/1977 è - secondo la Corte - una scelta oscuran­tista in contrasto con l'evoluzione dei tempi, una soluzione «crispina» aberrante e da rifiutare.

Così, alla fine, il cerchio si chiude: dopo il bloc­co dello scioglimento con la sentenza del 1981, un'ulteriore scappatoia: la possibilità delle IPAB di assumere la personalità giuridica privata.

Si tratta in realtà di un'ulteriore ipocrisia: la stessa recente pronuncia riconosce che gran par­te di tali enti erano organizzazioni espressive dell'autonomia dei privati, che tali caratteri hanno conservato anche dopo la loro formale pubbliciz­zazione. La natura pubblica non derivava dunque tanto dalla loro struttura, ma dai fini che esse si proponevano e dall'esigenza di un più penetrante controllo statale. Pertanto la maggior parte delle IPAB avrebbero i requisiti di un'istituzione priva­ta. E allora è facile pronosticare la corsa alla pri­vatizzazione, e «nelle competenti sedi giudiziarie o amministrative» - come dice la Corte - non si potrà che prendere atto del fatto compiuto: una totale sottrazione al controllo del potere pubbli­co. È possibile correre ai ripari? Si ha l'impres­sione che ancora una volta le forze politiche, qua­le più quale meno, abbiano tirato un sospiro di sollievo di fronte all'intervento della Corte costi­tuzionale: un comodo alibi per superare il nodo che ha bloccato finora la riforma dell'assistenza. Chissà che adesso una legge-quadro non arrivi tempestivamente!

Certo un Parlamento veramente interessato ed impegnato nel settore, pur dando atto della pro­nuncia n. 396, potrebbe in qualche modo limitar­ne gli effetti ampiamente negativi: nulla vieta che anche le persone giuridiche private (come saranno tutte le IPAB) se svolgono la loro attività in determinati settori, passano essere soggette (si pensi per esempio alle società assicurative) al controllo pubblico più penetrante, e alla possi­bilità di trasformazione, fusione, ecc. già previste dalla legge Crispi (ma certo sarà difficile poter parlare ancora di scioglimento generalizzato). Non dimentichiamo che, se l'assistenza privata è libera (art. 38), l'iniziativa privata non può svol­gersi in contrasto con l'utilità sociale, o in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla di­gnità umana (art. 41 della Costituzione)... soprat­tutto quella degli assistiti (8).

 

 

 

 

(*) Giudice del Tribunale dl Genova e Docente all'Università della Calabria.

(1) Cfr. «Istituzioni civili e religiose contro una nuova assistenza» in Prospettive assistenziali, n. 19, luglio-set­tembre 1972.

(2) Cfr. «Marce Indietro» e «Sentenza della Corte costituzionale sulle IPAB» in Prospettive assistenziali, n. 55, luglio-settembre 1981 e G. BATTISTACCI, Rilievi sulla sentenza della Corte costituzionale relativa alle IPAB, Ibidem, n. 57, gennaio-marzo 1982.

(3) Cfr. G.U. RESCIGNO, Lo stato giuridico delle IPAB dopo le sentenze della Corte costituzionale, F. SANTA­NERA, Valorizzazione delle IPAB ed emarginazione degli anziani non autosufficienti in Emilia Romagna, Ibidem, «Va­lorizzazione delle IPAB e delle case protette - L'intervento del Comune di Modena e la replica della redazione», Ibidem, n. 68, ottobre-dicembre 1984.

(4) Cfr. «I valdesi tirano la volata delle IPAB per i cat­tolici» in Prospettive assistenziali, n. 57, gennaio-marzo 1982 e «Lettera del Pastore Taccia», Ibidem, n. 58, aprile­-giugno 1982.

(5) Cfr. M. DOGLIOTTI, Il pericolo degli enti ecclesia­stici e il destino delle IPAB», in Prospettive assistenziali, n. 70, aprile-maggio 1985.

(6) La sentenza è riportata integralmente in questo numero.

(7) Cfr. «Una illecita sottrazione al poveri dl beni pub­blici: l'aberrante legge della Regione Sicilia sulle IPAB», in Prospettive assistenziali, n. 76, ottobre-dicembre 1986.

(8) In merito ai patrimoni delle IPAB si veda su Pro­spettive assistenziali: «Il potere della beneficenza», n. 69, gennaio-marzo 1985; «Perché diciamo no alla privatizzazio­ne delle IPAB», n. 70, aprile-giugno 1985; «Circolare della Regione Piemonte sulle IPAB», n. 75, luglio-settembre 1986; «Evitare che la legge di riforma dell'assistenza sot­tragga i patrimoni ai poveri», n. 80, ottobre-dicembre 1987; «Beni e redditi di ex IPAB e altri enti disciolti non devono essere sottratti al settore assistenziale», n. 81, gennaio-­marzo 1988.

Si veda altresì il documento «Osservazioni e proposte per la riforma dell'assistenza» elaborato nel seminario or­ganizzato dalla Fondazione Zancan e svolto a Malosco (Trento) dal 26 al 30 settembre 1988, pubblicato in questo numero.

 

 

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