LA RIFORMA DELL'ASSISTENZA... DELLA
CORTE COSTITUZIONALE
MASSIMO DOGLIOTTI (*)
1) Con una recente pronuncia, che è passata sotto
silenzio e che avrebbe invece meritato ben più ampia pubblicità, la Corte
Costituzionale ha in sostanza avviato... una sua personale riforma
dell'assistenza, in attesa di una legge-quadro, sempre di là da venire. Una «riforma»
che purtroppo non si può affatto condividere, all'insegna della più selvaggia
«privatizzazione», com'è di moda da un po' di tempo a questa parte, anche nella
materia assistenziale.
Su questi problemi la Corte ha sempre avuto un
atteggiamento ambivalente, per non dire contraddittorio. Afferma essa una
prima volta (esaminando il D.P.R. 15 gennaio 1972, n. 9: trasferimento di
alcune - limitatissime - funzioni assistenziali dalla Stato alla Regione)
nella pronuncia n. 139 del luglio 1972, che la dizione di «beneficenza
pubblica» di cui all'art. 117 Cost. richiama l'intitolazione originale della
legge n. 6972 del 1890, e deve comunque ritenersi equivalente a quella di
«beneficenza e assistenza pubblica», complesso di attività esplicate da organi
ed enti locali, che non vanno confuse con quelle svolte da organi ed istituti
predisposti ed integrati dallo Stato e che costituiscono la «assistenza
sociale». La prima sarebbe caratterizzata dalla discrezionalità delle
prestazioni in favore di soggetti bisognosi, la seconda sarebbe orientata ad
eliminare la discrezionalità degli organi ed enti erogatori così da rendere
concreto il diritto all'assistenza sociale indicato dall'art. 38, comma primo
della Costituzione.
Secondo la pronuncia n. 139, solo la prima delle due
forme di assistenza è di spettanza regionale; più specificamente, si precisa
che l'oggetto della delega è comunque circoscritto alle competenze degli
organi statali e che il legislatore delegato pertanto non può attuare il
riordinamento di enti nazionali e pluriregionali, a seguito del quale
potrebbero enuclearsi ulteriori settari attribuibili alle Regioni. Si
aggiunge, con valutazione in realtà squisitamente politica, che comunque si
determinerebbe una «inammissibile confusione» ove funzioni svolte unitariamente
da enti pubblici nazionali divenissero aggetto di distinte e diverse
legislazioni emanate da ogni singola Regione (1).
Un atteggiamento dunque di totale chiusura alle
aspirazioni delle Regioni e accettazione piena della logica del decreto n.
9/1972; una concezione assai ristretta di «beneficenza pubblica» (sino quasi
a... farla scomparire del tutto), una cervellotica distinzione tra assistenza
pubblica e assistenza sociale. Anche se la Corte lascia aperto uno spiraglio
precisando, come si è visto, che dal riordino degli enti pubblici nazionali
potrebbe derivare qualche nuova (ma pur sempre «ritagliata e marginale»)
competenza per le Regioni.
2) La Corte viene nuovamente chiamata a pronunciarsi
in materia, sulla costituzionalità del D.P.R. 616/1977, che trasferisce tutte
(o quasi) le competenze assistenziali dello Stato all'ente locale. Di fronte ai
sostenitori e detrattori, essa sembra scegliere una posizione «salomonica» intermedia.
Due sono le questioni sollevate: la legittimità del trasferimento delle
funzioni e strutture degli enti pubblici nazionali o interregionali operanti
in materia assistenziale, nonché delle funzioni, personali e beni delle IPAB
nell'ambito regionale ai Comuni.
Quanto alla prima questione, chi ritenesse che la
Corte potesse travolgere la ratio del decreto, rimane deluso. I giudici della
Consulta (pronuncia n. 173 del luglio 1981) accolgono la nozione assai ampia
di beneficenza, privilegiata dal D.P.R. 616/1977 (consapevolmente rinnegando il
proprio precedente del 1972) e dichiarandola pienamente conforme alla
Costituzione (2).
Non si nasconde la Corte che il D.P.R. 616/1977
congiunge in una «entità unitaria» le attività che la sentenza del 1972 aveva
dichiarato distinte. Purtuttavia la ridefinizione, operata dal decreta,
inquadrata in una prospettiva che ricomprende appunto la beneficenza ed
assistenza pubblica ex art. 117 e l'assistenza sociale ex art. 38 della
Costituzione con un ampliamento dei destinatari, che prescinde talora dallo
stato di bisogno, il superamento delle categorie di assistiti, l'estensione
della «doverosità» delle prestazioni, appare costituzionalmente legittima. E
ciò perché - secondo la sentenza - è discrezionale la scelta del legislatore
nell'adottare un disegno organico di riforma dei servizi assistenziali ai sensi
dell'art. 38, collegato peraltro alla possibilità di incidere comunque
sull'attività delle Regioni, attraverso una legge-cornice sull'assistenza e
manovrando le risorse finanziarie destinate agli enti locali. E in tal senso
non contrasta con i principi costituzionali l'atteggiamento di sfavore verso
gli enti nazionali di assistenza (non fondati sulla libera volontà
associativa).
Al contrario la Corte (sentenza n. 174 del luglio
1981) dichiara l'illegittimità costituzionale dello art. 2, 5° comma, là dove
si stabilisce che funzioni, personale e beni delle IPAB infraregionali siano
trasferiti ai Comuni (3). Secondo le ordinanze di rimessione, tale norma
sarebbe illegittima sotto diversi profili. Eccesso di delega in quanto nella
legge di delegazione (n. 382 del 1975) non vi sarebbe alcun riferimento al
trasferimento delle IPAB, violazione degli articoli 117 e 118 della
Costituzione che si riferiscono ad attività qualificabili come funzioni
amministrative esercitate dallo Stato o da enti strumentali, non da enti autonomi,
pur dotati di personalità giuridica pubblica, nonché dell'art. 38 della
Costituzione, in quanto il principio di libertà dell'assistenza privata
esigerebbe che non venissero alterati i caratteri essenziali dell'ente, pur
«pubblicizzato» quando sia sorto appunto dall'iniziativa privata o finanziato
prevalentemente con denaro privato.
La Corte accusa il legislatore delegato di aver preso
una «scorciatoia» con l'eliminazione generalizzata delle IPAB, che «la
disciplina costituzionale della delegazione legislativa rende del tutto
impraticabile». In realtà è essa stessa a prendere una «scorciatoia»,
analizzando sotto l'aspetto formale (e discutibile) dell'eccesso di delega,
senza affrontare le ben più rilevanti questioni di merito in relazione agli
artt. 38, 117 e 118 della Costituzione. Viene così precisato che l'art. 1 della
legge di delegazione fa riferimento esplicito al trasferimento degli enti
pubblici nazionali ed interregionali, ma non fa alcuna menzione delle IPAB. È
in sostanza solo questa l'argomentazione a sostegno della dichiarazione di
illegittimità (anche se si aggiunge che ulteriori sintomi di forzatura
potrebbero ravvisarsi nel considerare le funzioni di interesse esclusivamente
locale - nella specie comunale - quelle svolte dalle IPAB, quando sovente la
loro funzione è ultra-comunale).
La sentenza conclude nel senso che l'accoglimento
della prima censura di incostituzionalità rende superfluo l'esame delle altre,
relative agli artt. 117, 118 e 38 della Costituzione.
È vero che, stando alle indicazioni della Corte (si
tratta solo di eccesso di delega) il Parlamento sarebbe libero di legiferare,
stabilendo un nuovo e generalizzato trasferimento delle IPAB agli enti locali.
Ma quest'ultimo si guarda bene dal farlo: dopo le grandi speranze per una nuova
assistenza suscitata nel D.P.R. 616/1977, il clima è mutato ed è ormai
decisamente ostile a tale trasferimento. Si moltiplicano i segnali di un
mutamento di rotta, mentre la legge quadro sull'assistenza si blocca tra le
liti dei partiti.
Significativi, in questo progressivo allontanamento
dalle indicazioni del D.P.R. 616/1977, gli accordi dello Stato can la Tavola
Valdese (4) e successivamente con la Chiesa cattolica (5), poi recepiti in
legge: da un lato si prevede la possibilità di riconoscere la personalità
giuridica di diritto privato degli enti ecclesiastici valdesi aventi congiuntamente
fini di culto, istruzione e beneficenza, dall'altro si definiscono enti ecclesiastici
cattolici solo quelli costituiti o approvati dall'autorità ecclesiastica che
hanno fini di religione e di culto, inquadrati nella costituzione gerarchica
della Chiesa (nel rispetto della disciplina concordataria del 1929), ma pure
quelli che non abbiano personalità giuridica nell'ordinamento della Chiesa, ma
esercitano comunque attività dirette all'esercizio del culto e alla cura
d'anime, alla formazione del clero e all'educazione cristiana. Il fine di
religione e culto va accertato volta per volta, e può pure essere connesso -
scelta quanto mai significativa - a finalità di carattere caritativo. Tali enti
possono essere riconosciuti agli effetti civili come persone giuridiche (e il
loro status viene sostanzialmente assimilato a quello delle persone giuridiche
private disciplinate dal Codice civile). Ovviamente numerose istituzioni, sia
valdesi che cattoliche, sono IPAB: così dopo aver bloccato il processo di
trasferimento di tali organismi agli enti locali, si spiana la via alla loro
privatizzazione.
3) In questo contesto si colloca la sentenza n. 396
dello scorso aprile (6): la Corte dichiara la illegittimità costituzionale
dell'art. 1 della legge n. 6972 del 1890 là dove esso non prevede che le IPAB
regionali e infraregionali possano continuare a sussistere assumendo la
personalità giuridica di diritto privato, qualora abbiano i requisiti di
un'istituzione privata. Quante volte si è parlato dell'arretratezza,
dell'inadeguatezza di questa legge, ed è proprio un'ironia della sorte che
oggi quasi ci si debba impegnare a difendere le sue scelte soprattutto quella
di controllo (del resto esercitato in pratica sempre in modo assai blando)
sull'assistenza contro il grave intervento della Corte costituzionale.
Va subito osservato che la pronuncia incorre in
qualche inesattezza storica. Essa afferma che il «monopolio» pubblico
sull'assistenza (ma, come si vedrà, è quantomeno opinabile parlare di
monopolio vero e proprio) è stato introdotto dal(a legge Crispi del 1890. AI
contrario una scelta analoga era alla base delle prima legge assistenziale
dell'Italia unita, la legge 3 agosto 1862, n. 753, la quale, a sua volta,
recepiva la normativa del regno di Sardegna (legge 20 novembre 1859) e degli
altri stati italiani. Nella legge del 1862 si definiscono «Opere pie» - come
tali soggette ad un incisivo controllo pubblico, anche se meno penetrante di
quello delineato dal legislatore del 1890 - gli «istituti di carità e beneficenza e qualsiasi ente morale avente in
tutto o in parte per fine di soccorrere le c.'assi meno agiate, tanto in istato
di sanità che di malattia, di prestare loro assistenza, educarle, istruirle a
qualche professione, arte o mestiere». Come si vede, una nozione indubbiamente
ampia e in tutto assimilabile a quella della legge del 1890.
Dunque il controllo pubblico sull'assistenza non è
espressione dell'autoritarismo, dell'anticlericalismo e magari della malvagità
di Francesco Crispi. È un'esigenza nata assai prima, in sostanza con la
nascita dello Stato contemporaneo, e proprio nel periodo dei liberalismo più
assoluto e della più sfrenata iniziativa privata.
Ma torniamo alla sentenza della Corte. L'argomentazione
giuridica è in sostanza inesistente, la scelta è squisitamente politica. Si
afferma dunque che i fini delle IPAB «non
sono per loro natura esclusivi delle istituzioni pubbliche» e soprattutto
che lo Stato e gli enti pubblici, ove ritengono di dover realizzare i fini di
assistenza e beneficenza, possano farlo attraverso le proprie strutture.
Sarebbero quindi venuti meno i presupposti che avevano presieduto al
generalizzato regime di pubblicizzazione voluto dalla legge Crispi «oggi non più aderente alla mutata
situazione dei tempi» (sic!) con l'assunzione diretta da parte degli enti
pubblici delle funzioni assistenziali (che era stata assicurata nel sistema
della legge del 1890 dalla iniziativa dei privati, assoggettata al controllo
pubblico, per costituire un sistema di «beneficenza legale» altrimenti del
tutto inesistente).
È pericoloso per qualsiasi giudice (e massimamente
per il giudice costituzionale) lasciarsi andare ad osservazioni
storico-politiche (di politica assistenziale) o addirittura sociologiche che
proprio in quanto provenienti da un tecnico del diritto che ragiona fuori dal
settore di sua competenza, acquistano un sapore vagamente dilettantistico.
L'unico riferimento di natura giuridica (ed appena
accennato senza alcun sviluppo) è che l'urgenza di «privatizzazione» sarebbe
imposta dal principio pluralistico, cui si ispira la Costituzione, e
specificamente dall'art. 28 della Costituzione per cui «l'assistenza privata è
libera». In realtà non si può dire che il sistema della legge Crispi (e della
legge del 1862 e degli Stati preunitari) realizzi un completo monopolio
pubblico sull'assistenza.
Intanto, come la stessa Corte non può fare a meno di
ammettere, è pacifico che dopo l'avvento della Costituzione gli enti di nuova
istituzione, aventi finalità di assistenza e beneficenza, possono essere
riconosciuti come persone giuridiche private. Ancora: l'art. 2 della legge n.
6972/1890 escludeva dalla disciplina generale, oltre ai Comitati di soccorso e
alle fondazioni private destinate a una o più famiglie determinate (ipotesi
che indubbiamente incidevano scarsamente sul panorama generale
dell'assistenza) pure «società ed
associazioni regolate dal Codice civile e dal Codice di commercio» (oggi
tutto Codice civile). Tali organismi dunque non divenivano IPAB. E si è mantenuta
estranea alle previsioni della legge Crispi pure l'attività assistenziale
svolta in forma individuale o da enti di fatto (ad esempio le associazioni non
riconosciute che hanno acquistato un'importanza fondamentale nella società
contemporanea).
Chiunque si occupi di assistenza, incontra frequentemente
enti od istituzioni private che non hanno la forma di IPAB, ma la Corte...
sembra ignorare tutto ciò.
Del resto - e questa pare l'argomentazione più
decisiva - non può invocare la «pubblicizzazione» delle Opere pie, quale
violazione del principio costituzionale di libertà dell'assistenza.
È vero che le IPAB sono fondamentalmente enti
pubblici, ma soltanto in quanto sottoposti fin dal 1862 e ancor prima (allora
si chiamavano Opere pie) al controllo del potere pubblico, ma quest'ultimo
non intacca minimamente il carattere privatistico dell'ente (là dove esso era
presente): forma dell'istituzione, finalità, configurazione e struttura degli
organi interni, designazione dei componenti, rimangono salda espressione della
autonomia privata. Ma allora dire - come fa la Corte - che il «monopolio
pubblico» è contrario alla libertà dell'assistenza significa soltanto dire che
è il controllo pubblico (neppure del resta totale, come si è visto, esercitato
storicamente in modo assai - anzi fin troppo - blando) contrario alla libertà
dell'assistenza.
Curiosamente la Consulta richiama (per consolidare
il suo assunto), una legge regionale siciliana, la n. 22 del 1986 (ma non si
tratta di un capovolgimento della gerarchia delle fonti?), ove si precisa che
le IPAB che «per prevalenza di elementi
essenziali» sono classificabili come enti privati, sono incluse dal
Presidente della Regione in apposito elenco ai fini del riconoscimento ai
sensi dell'art. 12 del Codice civile (7).
Tale legge non stabilisce alcun criterio di individuazione
per gli enti da «privatizzare» e attribuisce la più ampia discrezionalità al
Presidente della Regione. Com'è noto i privati, futuri titolari degli imponenti
patrimoni delle IPAB, saranno tenuti soltanto al rispetto delle tavole di
fondazione (la volontà del soggetto che ha costituito il patrimonio). Ove esse
manchino (ad esempio se l'IPAB abbia la forma dell'associazione), non vi
sarebbe neppure questo tenue vincolo: si escluderebbe perfino l'obbligo di
conservare la destinazione del patrimonio a fini assistenziali. Dunque,
semmai, è questa legge che dovrebbe suscitare dubbi di costituzionalità.
4) Ma la Corte, come si è detto, non si preoccupa
molto del dato giuridico e preferisce esprimere tutto il suo sdegno, tutta la
sua indignazione per il (presunto) monopolio statale sull'assistenza. Dunque
pubblico è male, e ogni salvezza (anche in campo assistenziale) si può
ravvisare solo nel privato e magari nell'immenso patrimonio immobiliare e
nelle operazioni finanziarie (che nulla hanno evidentemente a che vedere con
l'assistenza) effettuate da alcune IPAB. E in tal senso il loro scioglimento e
il passaggio del patrimonio agli enti locali, previsto dal D.P.R. 616/1977 è -
secondo la Corte - una scelta oscurantista in contrasto con l'evoluzione dei
tempi, una soluzione «crispina» aberrante e da rifiutare.
Così, alla fine, il cerchio si chiude: dopo il blocco
dello scioglimento con la sentenza del 1981, un'ulteriore scappatoia: la possibilità
delle IPAB di assumere la personalità giuridica privata.
Si tratta in realtà di un'ulteriore ipocrisia: la
stessa recente pronuncia riconosce che gran parte di tali enti erano
organizzazioni espressive dell'autonomia dei privati, che tali caratteri hanno
conservato anche dopo la loro formale pubblicizzazione. La natura pubblica non
derivava dunque tanto dalla loro struttura, ma dai fini che esse si proponevano
e dall'esigenza di un più penetrante controllo statale. Pertanto la maggior
parte delle IPAB avrebbero i requisiti di un'istituzione privata. E allora è
facile pronosticare la corsa alla privatizzazione, e «nelle competenti sedi giudiziarie o amministrative» - come dice la
Corte - non si potrà che prendere atto del fatto compiuto: una totale
sottrazione al controllo del potere pubblico. È possibile correre ai ripari?
Si ha l'impressione che ancora una volta le forze politiche, quale più quale
meno, abbiano tirato un sospiro di sollievo di fronte all'intervento della
Corte costituzionale: un comodo alibi per superare il nodo che ha bloccato
finora la riforma dell'assistenza. Chissà che adesso una legge-quadro non
arrivi tempestivamente!
Certo un Parlamento veramente interessato ed
impegnato nel settore, pur dando atto della pronuncia n. 396, potrebbe in
qualche modo limitarne gli effetti ampiamente negativi: nulla vieta che anche
le persone giuridiche private (come saranno tutte le IPAB) se svolgono la loro
attività in determinati settori, passano essere soggette (si pensi per esempio alle
società assicurative) al controllo pubblico più penetrante, e alla possibilità
di trasformazione, fusione, ecc. già previste dalla legge Crispi (ma certo sarà
difficile poter parlare ancora di scioglimento generalizzato). Non
dimentichiamo che, se l'assistenza privata è libera (art. 38), l'iniziativa
privata non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale, o in modo da
recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana (art. 41 della
Costituzione)... soprattutto quella degli assistiti (8).
(*) Giudice del Tribunale dl Genova e Docente all'Università della Calabria.
(1) Cfr. «Istituzioni civili e
religiose contro una nuova assistenza» in Prospettive
assistenziali, n. 19, luglio-settembre 1972.
(2) Cfr. «Marce Indietro» e «Sentenza
della Corte costituzionale sulle IPAB» in Prospettive
assistenziali, n. 55, luglio-settembre 1981 e G. BATTISTACCI, Rilievi sulla
sentenza della Corte costituzionale relativa alle IPAB, Ibidem, n. 57, gennaio-marzo 1982.
(3) Cfr. G.U.
RESCIGNO, Lo stato giuridico delle IPAB dopo le sentenze della Corte
costituzionale, F. SANTANERA, Valorizzazione delle IPAB ed emarginazione degli
anziani non autosufficienti in Emilia Romagna, Ibidem, «Valorizzazione
delle IPAB e delle case protette - L'intervento del Comune di Modena e la
replica della redazione», Ibidem, n.
68, ottobre-dicembre 1984.
(4) Cfr. «I
valdesi tirano la volata delle IPAB per i cattolici» in Prospettive assistenziali, n. 57, gennaio-marzo 1982 e «Lettera del
Pastore Taccia», Ibidem, n. 58, aprile-giugno
1982.
(5) Cfr. M.
DOGLIOTTI, Il pericolo degli enti ecclesiastici e il destino delle IPAB», in Prospettive assistenziali, n. 70,
aprile-maggio 1985.
(6) La sentenza
è riportata integralmente in questo numero.
(7) Cfr. «Una illecita sottrazione al
poveri dl beni pubblici: l'aberrante legge della Regione Sicilia sulle IPAB»,
in Prospettive assistenziali, n. 76,
ottobre-dicembre 1986.
(8) In merito ai patrimoni delle IPAB
si veda su Prospettive assistenziali:
«Il potere della beneficenza», n. 69, gennaio-marzo 1985; «Perché diciamo no
alla privatizzazione delle IPAB», n. 70, aprile-giugno 1985; «Circolare della
Regione Piemonte sulle IPAB», n. 75, luglio-settembre 1986; «Evitare che la
legge di riforma dell'assistenza sottragga i patrimoni ai poveri», n. 80,
ottobre-dicembre 1987; «Beni e redditi di ex IPAB e altri enti disciolti non
devono essere sottratti al settore assistenziale», n. 81, gennaio-marzo 1988.
Si veda altresì il documento «Osservazioni
e proposte per la riforma dell'assistenza» elaborato nel seminario organizzato
dalla Fondazione Zancan e svolto a Malosco (Trento) dal 26 al 30 settembre
1988, pubblicato in questo numero.
www.fondazionepromozionesociale.it